capitolo iii

Un ambiente da bambino

I fatti di cronaca sono la punta dell’iceberg?

A partire dal 2012 iniziano ad affacciarsi alle cronache i primi casi definiti di cyberbullismo e connotati da un finale drammatico, di conseguenza i riflettori di tutto il mondo si accendono su una sfaccettatura dell’universo adolescenziale 2.0 di cui ancora non si è valutata la complessità e la portata.


Amanda è una ragazza canadese di quindici anni, connessa come molti suoi coetanei e alla ricerca della sua identità anche tramite i social. Su Facebook incontra un “amico”; i due chattano con prime frasi magari innocue, che si spingono però in fretta sempre più in là, oltre il senso del pudore e della timidezza che un’adolescente proverebbe trovandosi a tu per tu con un uomo che conosce da poco. Ma il web accorcia le distanze, annulla i freni inibitori, online si pensa di vivere in un’altra dimensione, sganciata dalla realtà che forse è percepita come insoddisfacente. Durante una webcam chat lui le chiede di mostrare il seno, lei accetta con la superficialità e l’ingenuità che spesso connotano le giovani desiderose solo di piacere, di essere accettate e considerate da qualcuno. E non importa se quel qualcuno sia uno sconosciuto al quale non apriresti mai la porta di casa, ma al quale decidi di aprire la finestra della webcam permettendogli, con una disarmante noncuranza, di entrare nella tua cameretta e nella tua intimità per farne scempio. Le foto di Amanda a seno nudo iniziano a girare nel web, nonostante lei avesse acconsentito a “dare spettacolo” per scongiurare quella minaccia, e inizia il suo calvario mediatico. A scuola la prendono in giro, molte compagne la isolano: lo stigma della vittima la rende sempre più vittima nel mondo reale e in quello digitale. Riesce a intravvedere uno spiraglio nelle attenzioni di un altro uomo al quale cede, ma lui è già impegnato, sicché la sua fidanzata aspetta Amanda all’uscita di scuola e la picchia, sotto gli occhi dei compagni che, anziché difenderla, incitano alla violenza. Amanda rientra a casa e decide di porre fine alla sua disperazione bevendo candeggina ma una lavanda gastrica la salva riconsegnandola a un mondo, reale e virtuale, che la umilia e la emargina. Non fa a tempo a tornare a casa dall’ospedale che quel lui anonimo posta su Facebook la foto di un detersivo linkandola e la gogna mediatica riprende con frasi feroci del tipo:

“Doveva usare un detersivo differente”
“Spero che la prossima volta muoia davvero e non sia così stupida”

E Amanda la volta successiva non fallisce, prima però affida a Youtube il suo video testamento, scritto con il pennarello su fogliettini di carta che lei fa scorrere tenendoli fra le mani. Sulle braccia si scorgono dei tagli, quelli che molte ragazze si autoinfliggono per non sentire il dolore che le pervade dentro e per rendere visibile a tutti il loro disagio, nella speranza che chi si accorge della loro sofferenza tenda una mano e non la usi per ferire fisicamente o psicologicamente.

“Piangevo ogni notte, ho perso ogni amico e ogni tipo di rispetto”
“Non ho nessuno. Ho bisogno di qualcuno”
“Ogni giorno penso: perché sono ancora qua?”

Amanda Michelle Todd, Port Coquitlam (Vancouver), 26 novembre 1996 – 10 ottobre 2012.


Dal Canada all’Italia, da Port Coquitlam a Novara, dal 10 ottobre 2012 al 5 gennaio 2013, da Amanda a Carolina: due adolescenti accomunate dalla difficoltà di crescere e di resistere alla violenza dei loro aguzzini incontrati nel mondo reale e in quello virtuale.


Carolina è a una festa, forse beve un po’ troppo, si sente male e va in bagno, la seguono alcuni ragazzi, lei perde conoscenza e inconsapevolmente diviene protagonista di un video a sfondo sessuale subito diffuso su Facebook. Anche su Twitter si scatena immediatamente la gogna mediatica ai danni di Carolina con 2.600 messaggi in 24 ore che la perseguitano fino a spingerla a gettarsi dal balcone nel vuoto, quel vuoto creato dalla società – con la complicità delle istituzioni scuola e famiglia – che sempre più annaspano nel testimoniare valori ai quali attenersi quando si vive offline e, parimenti, online.


Carolina, come Amanda, si è congedata dal mondo affidando i suoi pensieri a quel mondo virtuale nel quale cercava, come la maggior parte dei suoi coetanei, la propria identità.

“Scusatemi, non ce la faccio più a sopportare”
“Le parole fanno più male delle botte”

Dopo la sua morte si è aperto in Italia il primo processo di cyberbullismo con capi d’imputazione pesanti come macigni: violenza sessuale di gruppo per cinque dei ragazzi coinvolti, diffusione di materiale pedopornografico per uno di loro e morte come conseguenza di altro reato per due. Anche Facebook è finito sul banco degli imputati per non aver effettuato controlli in merito alla diffusione del video postato e condiviso da molti.


Hannah ha quattordici anni, vive nel Regno Unito e anche su Ask.fm, dove una valanga di insulti l’ha travolta senza un apparente motivo. Si era iscritta a quel social come milioni di altri suoi coetanei in tutto il mondo. Si formulano domande e si aspettano risposte ma, spesso, vengono postati insulti in forma anonima che scatenano la ferocia del branco internettiano. Hannah è stata presa di mira per il suo peso, come molte altre adolescenti che non incarnano l’odierno mito, la thininspiration, della bellezza intesa come magrezza: “Mucca, se muori nessuno se ne accorgerà” è stato uno fra i tanti, troppi insulti che è stata costretta a leggere e che l’hanno sopraffatta. Il giorno prima di impiccarsi nella sua cameretta questa ragazzina inglese ha pubblicato su Facebook una disperata richiesta di aiuto che, purtroppo, non è stata raccolta: “Pensi di voler morire ma in realtà vuoi solo essere salvata”, è l’agosto del 2013.


Nadia ha quattordici anni e vive a Padova, probabilmente è alla prese con un’adolescenza che la tormenta e alla quale reagisce ferendosi nel corpo e mostrando quelle cicatrici agli utenti di un mondo virtuale che rende distratti e talvolta feroci, come quei ragazzini che alle foto pubblicate da Nadia rispondono con crudeltà.

“Fai schifo come persona”, “Con cosa è meglio tagliarsi? Non è meglio usare la lametta?”, “Spero che uno di questi giorni taglierai la vena importantissima che è sul braccio e morirai!”.

Amnesia, il nome con cui Nadia si è registrata sul social Ask.fm e su cui ha scritto un post di commiato, “Basta stupido mondo”, si è tolta la vita nel febbraio del 2014 gettandosi dal terrazzo di un ex albergo disabitato.


Andrea è un ragazzo poco più che ventenne e trascorre la sua vita in un piccolo paesino nella campagna del Vercellese, Borgo D’Ale, fra il lavoro in un’officina e gli amici che a poco a poco si trasformano nel suo peggiore incubo. Andrea diventa vittima di scherzi sempre più pesanti: lo gettano nei cassonetti dell’immondizia, gli infilano sacchetti di plastica in testa, un’escalation di vessazioni: scherzi innocui per loro, quotidiane iniezioni di veleno per lui. Finché questi episodi di bullismo vengono documentati con scatti fotografici e postati su una pagina Facebook aperta apposta per lui, per metterlo alla berlina: il fiume impetuoso alimentato dai bulli, come accade sempre più spesso nell’epoca dei social, sfocia nel mare magnum del web e nel cyberbullismo che amplifica a dismisura le umiliazioni inflittegli. Lui reagisce, denuncia l’accaduto alla Polizia Postale che, al termine delle indagini, dispone la chiusura della pagina: gli atti finiscono sul tavolo della Procura e una persona viene indagata. Ma intanto il tarlo della depressione ha iniziato a scavare nell’animo di Andrea, tormentando le sue giornate per oltre un anno fino a quando, a settembre del 2015, decide di togliersi la vita impiccandosi nella casa dove viveva con i genitori. In un secondo momento, come accade spesso dopo simili tragedie, si cerca di definire come siano andati in realtà i fatti, si tenta di ricomporre la verità talvolta stravolta dalle cronache dei quotidiani o dal tam-tam che corre sui social. Forse Andrea era un ragazzo fragile, forse viveva un’esistenza già tormentata e forse, anziché trovare sul suo cammino amici che gli tendessero la mano, ha incontrato persone che con superficialità e noncuranza lo hanno trattato come uno di loro, senza porsi il problema di come e se quegli scherzi potessero essere sopportati da lui: episodi scaturiti da una disarmante irresponsabilità, ancora più difficile da accettare in quanto i protagonisti non erano più dei ragazzini.


Uno degli ultimi episodi, in ordine di tempo, è accaduto a Napoli dove un ragazzino di tredici anni è stato aggredito per strada da tre coetanei; si è trattato di un caso di bullismo che intreccia un’altra grave emergenza, quella della baby gang che insultano e picchiano loro coetanei senza alcuna ragione. In questo caso, però, le immagini della vittima non sono state diffuse sui social dai suoi carnefici bensì dal padre che, postando il volto tumefatto del figlio, si è interrogato sul senso di tale violenza auspicandosi che quanto accaduto al piccolo Fabio non si verifichi più. Purtroppo però dal sud al nord Italia gli episodi si stanno moltiplicando, come è accaduto a Vigevano dove alcuni quindicenni hanno picchiato e violentato un coetaneo, colpevole solo di essere più introverso e fragile rispetto a quei giovani di cui ambiva essere amico e che invece si sono trasformati nei suoi aguzzini.

Secondo una ricerca effettuata da Skuola.net e AdoleScienza.it su un campione di 7.000 studenti delle scuole superiori risulta come il 20% dei ragazzi sia stato vittima di bullismo e il 6,5% di cyberbullismo, ma che le vittime dei cyberbulli ne abbiano risentito in misura maggiore tentando il suicidio nell’11% dei casi e dichiarandosi tristi e depresse nel 77% dei casi, rispetto a un 7% e 65% per le vittime dei bulli. Inoltre quello digitale colpirebbe in misura maggiore le ragazze, 62% contro il 53%1.

Come si è visto, risulta tuttavia arduo scindere il fenomeno del bullismo dalla sua deriva sul web, in quanto spesso sono intimamente connessi. Un episodio di bullismo può essere enfatizzato dal web accrescendo la sofferenza nella vittima anche se, al contempo, potrebbe far emergere situazioni che altrimenti resterebbero nell’ombra. Da recenti dati dell’ISTAT, infatti, si evince come le vittime di bullismo e cyberbullismo di età compresa fra gli 11 e i 17 anni non si rivolgerebbero mai ai genitori nel 35% dei casi, alla scuola o agli amici nel 60% dei casi. Inoltre il 29% dei ragazzi è convinto sia meglio far finta di niente e un quinto di essere in grado di uscire da solo dalla situazione.


Questi sono dati allarmanti che denotano come i fatti di cronaca rappresentino solo la punta di un mondo sommerso, caratterizzato da comportamenti aggressivi e irrispettosi sovente sottovalutati dagli stessi adulti.


Davanti a episodi di bullismo online e offline, l’81% dei presidi delle scuole che hanno aderito alla ricerca promossa dal Censis e dalla Polizia Postale dichiarano che i genitori tendono a minimizzare il problema e a non seguire i corsi di sensibilizzazione e prevenzione organizzati dai medesimi istituti.


Gli episodi riportati dalle cronache, in cui parecchi genitori si schierano a favore dei presunti bulli definendo i fatti come ragazzate, sono molti; uno per tutti il caso di qualche anno fa che aveva coinvolto gli studenti di una scuola piemontese in gita scolastica. I ragazzi, di quindici e sedici anni, avevano denudato e deriso un loro coetaneo filmando la scena. La reazione dell’istituto non si era fatta attendere: sospensione per i 14 bulli a cui erano seguite le proteste dei genitori che avevano parlato di uno scherzo, pesante ma pur sempre uno scherzo, a fronte del quale una punizione così severa rappresentava, a parer loro, l’unica cosa sbagliata.

Dal selfie al sexting alla sextortion

Sempre più spesso si rinuncia a vivere i momenti, come gustarsi un succulento manicaretto o un panorama mozzafiato, in quanto si è intenti a immortalarli. Si consumano esperienze al fine di documentarle, catturandole col cellulare per poi diffonderle in rete, come se l’esperienza intima o condivisa con pochi non avesse più alcun valore e significato.


Ma la smania di attestare ogni istante innalza un muro invisibile fra noi e la realtà.


I nostri figli vivono attraverso l’obiettivo puntato sul mondo e su se stessi: attraverso le foto e i selfie resi pubblici testimoniano la loro quotidianità, che assume valore in quanto condivisa con gli amici ai quali offrono il piccolo sé che vorrebbero li rappresentasse e che vorrebbero fosse apprezzato dal gruppo.


La rete è responsabile dell’aumento dell’ansia, caratteristica degli adolescenti, di essere esclusi dal gruppo: questa paura di perdersi qualcosa è stata ribattezzata Fomo, dall’acronimo Fear of missing out cioè la paura di essere tagliati fuori dai flussi di comunicazione.


Ma cosa accade quando si resta nel flusso della comunicazione, ma non come si vorrebbe? Quando il piccolo sé che si mostra viene pubblicamente schernito? Quando si vorrebbero vedere tanti like e cuoricini e invece si leggono solo insulti? Quando la propria immagine più intima è offerta in pasto a tutti?


Il sexting è più diffuso di quanto si creda poiché si concretizza attraverso molte sfumature: fa sexting, un neologismo nato dalla fusione delle parole sex e texting, la ragazzina in lingerie e posa ammiccante, quella nuda ed esplicitamente allusiva, quella che diffonde immagini di parti del proprio corpo.


In Italia un adolescente su quattro è coinvolto e il 47% ha meno di quattordici anni. In genere la “prova d’amore”, il selfie proibito e più intimo, viene inviato dalle ragazze ed è uno squilibrio di genere che le rende più vulnerabili e vittime predestinate del cyberbullismo attraverso l’odiosa pratica del porn revenge che si configura quando un giovane, per vendetta, diffonde online le foto osé ricevute dall’ex fidanzatina.


Ma esiste anche l’altra faccia della medaglia, vale a dire i ricatti sessuali ai danni di ragazzini adescati online da coetanee che, dopo averli indotti a mostrarsi in atteggiamenti intimi, li riprendono per poi ricattarli: si tratta della sextortion, della quale sono vittime anche gli adulti i quali, tuttavia, si vergognano a sporgere denuncia e pagano affinché immagini e video compromettenti non siano diffusi nel web.


Una nuova moda arrivata dal Giappone, la One finger selfie, suggerisce di immortalarsi nudi con le parti intime nascoste da un dito, grazie a un gioco di prospettive, per poi postare lo scatto sul web per la competizione: sfide come queste si rincorrono a centinaia sui social e vengono raccolte dai ragazzi che temono di restare esclusi dal gruppo.


Qualche anno fa aveva destato scalpore l’episodio di una sedicenne filmata dagli amici, nei bagni di una discoteca torinese, mentre faceva sesso con un ragazzo maggiorenne: il video era stato diffuso su WhatsApp e Facebook e quattro giovani, fra i 20 e i 22 anni, erano stati iscritti nel registro degli indagati per divulgazione di materiale pedopornografico. Anche in questo frangente la reazione dei genitori degli aguzzini non si era fatta attendere: li avevano difesi a spada tratta abdicando, ancora una volta, al ruolo genitoriale che suggerirebbe di educare i propri figli attraverso l’applicazione di castighi severi, commisurati alla gravità di quanto commesso. L’obbiettivo dovrebbe per l’appunto essere il recupero di quei limiti che, anche con la complicità della rete, sembrano essere evaporati.


Alla base di queste condotte sconsiderate vi è la totale incoscienza per le conseguenze delle proprie azioni, l’ingenuità nel confidare nella discrezione di colui che riceve lo scatto o il video ma anche il differente concetto di riservatezza che serpeggia fra gli adolescenti, attenti a difenderla con fantasiose strategie solo dalle incursioni sui social dei genitori ficcanaso.


Il cellulare è così divenuto per i ragazzi lo strumento attraverso il quale esprimere un linguaggio alternativo a quello degli adulti. Ma, sovente, è difficile per un adulto accettare che il desiderio di riservatezza dei giovani scaturisca proprio dalla necessità di sfuggire alle persone che esercitano su di loro un qualche potere di controllo. La voglia di mostrarsi ai coetanei e di celarsi agli adulti, l’esibizionismo e la riservatezza potrebbero apparire in contraddizione ma non è così: per gli adolescenti la privacy rappresenta il diritto di essere lasciati in pace dai genitori, il diritto di scegliere in quale momento e con quali modalità offrire informazioni su di sé, diffondere immagini e anche formulare richieste di aiuto più o meno esplicite. Si tratta di immagini e di video attraverso i quali i giovani si esprimono con disinvoltura mentre per un adulto travalicano i limiti del proibito e del pudore: dall’assenza di vergogna al rischio della gogna mediatica il passo è breve e dovrebbe essere questo il punto da cui partire per interrogarsi e ricominciare a comunicare con i propri figli, a ragionare con loro di intimità e affetti ma anche di consapevolezza e senso di responsabilità per le proprie azioni, rammentando che ogni qual volta un genitore sorvola su un comportamento sbagliato del figlio, questi viene indebolito.


Purtroppo la sessualizzazione della nostra società, la cosiddetta pornification, è inarrestabile e coinvolge anche i bambini, costretti a crescere sotto un incessante bombardamento di immagini e messaggi a sfondo sessuale che invadono le strade.

Decenni di inquinamento visivo da pubblicità aggressiva e offensiva nei riguardi della dignità delle donne, nelle vie delle città, accessibile a tutti, hanno condotto a un’accettazione rassegnata, a una sorta di addormentamento delle coscienze2.


L’assuefazione dell’opinione pubblica ha ridotto la percezione e diminuito la capacità di lettura di tali immagini; pertanto gli stereotipi, ancor più dilaganti nel mondo virtuale, non vengono più colti e riconosciuti. Sui muri delle città, sul web e tra le pareti domestiche: diffondere la cultura del rispetto è diventata un’esigenza improcrastinabile.

È sempre più difficile, infatti, distogliere lo sguardo dall’ennesimo corpo svestito che si incontra nei cartelloni tre metri per due che tappezzano le città e si è ormai diffusa nelle giovani la convinzione che, per essere accettate, sia obbligatorio aderire ai modelli veicolati dai media. Inoltre da questa continua esposizione a immagini di sessualità esplicita i maschi tendono a introiettare un’idea di donna da rendere oggetto di abusi e violenze. Il web non fa altro che rispecchiare, amplificandolo, il buono ma soprattutto il cattivo con cui i giovani entrano in contatto nella vita quotidiana. Rifugiandosi nel mondo virtuale gli adolescenti non riescono ad allontanarsi dai problemi vissuti o subiti offline, anzi, soggiogati da un tale fardello spesso fanno incontri difficili anche sul web dove cercano quell’attenzione e quella considerazione che magari a casa non trovano. Alcuni esprimono comportamenti a rischio mentre altri lanciano il proprio grido di dolore per situazioni che non riescono a gestire da soli nella vita reale: entrambi sono segnali di disagio, richieste di aiuto affidate al mare magnum del web da adolescenti in difficoltà.


La sfida è riuscire a intercettare e decodificare questi segnali di disagio e sofferenza che diventano visibili online: un giovane che si lascia andare a episodi di cyberbullismo, che usa le parole come armi per ferire un coetaneo spesso reagisce a un disagio che sta vivendo in famiglia e che non sa come affrontare. Attraverso la protezione della vittima e la colpevolizzazione del carnefice spesso gli adulti perdono di vista la complessità dei conflitti alla base del fenomeno.


Ancora una volta sarebbe necessario riuscire a camminare in equilibrio sul crinale del problema senza scivolare dalla parte della prospettiva punitiva né, tanto meno, da quella dell’assoluzione tout court.

Cellulari in classe e professori in trincea

Il divieto del cellulare in classe per i docenti risale al 1998 mentre una direttiva del Ministero dell’Istruzione del 2007 spiega come sia

del tutto evidente che il divieto dell’utilizzo del cellulare durante le ore di lezione risponda a una generale norma di correttezza” in quanto esso rappresenta un “elemento di distrazione sia per chi lo usa che per i compagni, oltre che una grave mancanza di rispetto per il docente.

Questo quanto previsto sulla carta; ma nella realtà cosa accade? I ragazzi riescono a staccarsi da quell’oggetto che viene ormai identificato come una protesi del loro corpo che li tiene connessi senza interruzione? E gli insegnanti danno loro un esempio autorevole di coerenza e rispetto delle regole?


A giudicare dalle cronache dei giornali, dai video presenti in rete e dai racconti di professori e studenti le cose non stanno proprio così.


In un istituto del torinese qualche tempo fa 22 studenti, di età compresa fra i 12 e i 13 anni, sono stati sospesi per essersi scattati selfie durante le ore scolastiche, per aver ripreso di nascosto gli insegnanti e diffuso le foto su WhatsApp e Instagram. Una punizione esemplare per aver infranto la regola che impone di tenere spenti i cellulari durante le lezioni e che, tuttavia, ha sollevato parecchie polemiche fra i genitori.


Su Youtube ci sono migliaia di video girati dai ragazzi di nascosto: uno immortala la rissa fra uno studente e il suo insegnante scatenata a causa di un pasticcino conteso, in un altro si assiste a un professore tormentato e poi picchiato in classe: bullizzato dagli allievi. E i professori iniziano a sentirsi in trincea, vittime di ricorsi intentati da genitori per le bocciature dei figli, di auto rigate mentre sono parcheggiate sotto la scuola, di intemperanze verbali e fisiche ai loro danni in aula durante le lezioni.


Gli insegnanti, privati ormai di quell’autorevolezza che in passato possedevano per statuto, adesso se la devono guadagnare sul campo destando un interesse sempre più assopito fra gli studenti. Devono catturare l’attenzione con mille espedienti se desiderano ottenere la partecipazione e il rispetto della classe, in quanto non viene più riconosciuta loro alcuna superiorità culturale e il patto di corresponsabilità fra scuola e famiglia nell’educazione dei giovani è sfumato visto che, molte volte, queste due istituzioni sono in conflitto.

Nella rottura dell’alleanza scuola-famiglia i primi a pagarne le conseguenze sono com’è ovvio i ragazzi, che vengono privati di certezze, un po’come quando i due genitori non sono coesi nel percorso educativo: se le autorità educative litigano fra loro, scuola contro famiglia o madre contro padre, negli adolescenti – come nei bambini – si genera confusione, incertezza delle regole e talvolta una sorta di terra franca nella quale si può trasgredire senza subirne le conseguenze.


Alcuni professori italiani raccontano di aver avuto la vita rovinata dai bulli incontrati nelle aule scolastiche e di aver dovuto cambiare istituto se non addirittura cognome per sfuggire alle persecuzioni. Sono ormai parecchie le storie di insegnanti che non si sentono a loro agio all’interno delle aule a causa della tecnologia che gli studenti portano in cartella.


Ma anche i loro colleghi d’oltralpe non se la passano bene: in Francia quasi 500mila insegnanti hanno sottoscritto una polizza speciale per i mestieri dell’istruzione, che prende spunto da quelle di categorie a rischio, come gli allevatori di coccodrilli e i praticanti di sport estremi…


Insulti, violenze e minacce sono all’ordine del giorno e provengono sia dagli allievi sia dai loro genitori; il braccio di ferro fra insegnanti e genitori risulta essere quantomai dannoso per i giovani, ormai orfani di punti di riferimento capaci di dettare con autorevolezza le regole da rispettare.

Cyberbullismo
Cyberbullismo
Ilaria Caprioglio
La complicata vita sociale dei nostri figli iperconnessi.Un’analisi del fenomeno del cyberbullismo, per aiutare i genitori a comprendere quali sono i rischi del web per il bambino e capire come affrontarli. Il fenomeno del cyberbullismo è in forte crescita nella complessa vita sociale dei giovani iperconnessi. A ciò contribuisce la complicità degli adulti che, illudendosi di avere figli perfettamente equipaggiati per affrontare il mondo del web senza rischi, non si preoccupano di fornire loro un’adeguata educazione ai media, capace di sviluppare il senso critico e la cultura del rispetto, indispensabili anche online. A partire dagli anni Settanta si iniziò a esaminare il fenomeno del bullismo (caratterizzato da un’aggressione fisica o psicologica che si ripete e da uno squilibrio di potere fisico e sociale tra vittima e carnefice), ma, ai nostri giorni, i bulli possono passare dalla tradizionale modalità offline a quella online, utilizzando canali digitali come social network e programmi di messaggistica.Il conflitto si manifesta in un luogo fisico, ma se non si risolve può trasferirsi nel mondo virtuale, che enfatizza la persecuzione, condita dall’anonimato. Il problema del bullismo digitale nasce quindi fuori dal web, si genera a causa della complessità dei rapporti che sempre più spesso vengono affrontati con superficialità e scarsa attenzione da parte del mondo adulto che non si assume la responsabilità di questo crescente analfabetismo emotivo. La sfida per noi genitori e educatori è provare a intercettare e decodificare quei segnali di disagio giovanile che online diventano visibili perché messi in scena attraverso il drama, una sorta di rappresentazione dei conflitti interpersonali che gli adolescenti faticano a gestire. Ilaria Caprioglio, nel suo libro Cyberbullismo, aiuta i genitori a comprendere quali siano i rischi del web per il bambino o per il ragazzo e suggerisce come affrontarli. Conosci l’autore Ilaria Caprioglio, avvocato e scrittrice, è sposata e madre di tre figli. Sostiene iniziative sociali rivolte ai giovani e promuove, nelle scuole italiane, progetti di sensibilizzazione sugli effetti della pressione mediatica e sulle insidie del web.È vice-presidente dell’associazione Mi nutro di vita e ideatrice della Giornata Nazionale del Fiocchetto Lilla contro i disturbi del comportamento alimentare.