capitolo ii

Dal bullismo al
Cyberbullismo

I bulli online e offline

Il bullismo è un fenomeno che esiste da sempre o, quanto meno, noi odierni genitori ne rammentiamo episodi che ci infastidivano – se ne eravamo spettatori più o meno recalcitranti – o ci ferivano con intensità variabile se ne eravamo vittime. Spesso non si distingueva il limite che separava il dispetto saltuario e reciproco dalla vessazione fisica o verbale protratta nel tempo. Sovente si giungeva a redimere il bullo dopo averlo messo in “quarantena”, esiliandolo dal gruppo per un po’ di tempo, o si interveniva in aiuto dell’amico, oggetto dell’angheria, con uno sguardo sdegnato di rimprovero o con le mani serrate pronte a colpire.


Tanti anni fa non si parlava di bullismo, come non si parlava di deficit di attenzione o di disturbi del comportamento alimentare, per citarne solo alcuni; si viveva l’esperienza quotidiana fra un’aula scolastica, un campetto di calcio, una piazza di quartiere, un cortile di oratorio e, talvolta, si inciampava in questi ostacoli, disseminati lungo il percorso, che assumevano le sembianze della ragazzina insolente e irrispettosa o del compagno manesco e prepotente.


Solo a partire dagli anni Settanta si iniziò a studiare il fenomeno, prima nei Paesi scandinavi e poi in quelli anglosassoni, sulla scia di un fatto di cronaca che sconvolse l’opinione pubblica: il suicidio in Norvegia di due studenti che non riuscivano più a sostenere il peso della persecuzione da parte dei compagni.


Da quel momento l’attenzione sul bullismo è cresciuta, alimentandosi di luoghi comuni, semplificazioni, contrapposizioni: e così il bullo viene descritto come la vera vittima perché trascurato in famiglia, oppure come il giovane arrogante viziato dai genitori, e ancora gli episodi di bullismo sono tratteggiati come fenomeni passeggeri oppure come innocue ragazzate a cui non attribuire troppa importanza; per alcuni il bullismo affonda le sue radici nell’indigenza e nell’ignoranza mentre per altri si nutre di benessere e superficialità.


Fiumi di inchiostro sono stati impressi sulla carta nel tentativo di spiegare un fenomeno in grado di provocare, in un bambino o in un adolescente, un trauma che talvolta condiziona l’intera esistenza. Il primo a scriverne, proprio in seguito all’episodio sopra citato del duplice suicidio, è stato lo psicologo svedese Dan Olweus che, nel tentativo di caratterizzare il fenomeno del bullismo, a differenza degli episodi di aggressività giovanile, ha ravvisato in esso tre peculiarità sempre ricorrenti: la prima è l’aggressione, che può essere sociale, fisica o psicologica, la seconda è la ripetizione dell’azione e la terza consiste nello squilibrio di potere fisico o sociale fra vittima e carnefice.


Con questa prima definizione sono stati fissati dei paletti entro i quali racchiudere gli episodi di bullismo, per evitare di confonderli con atti di molestia e di conflitto isolati oppure con azioni reciproche.


I bulli odierni, però, pur muovendosi nell’ambito del recinto descritto da Olweus possono passare dalla tradizionale modalità offline e quella online, possono cioè trasformarsi da bulli in cyberbulli in quanto il fenomeno oggigiorno tende a dilatarsi occupando tutte le realtà sociali vissute dai giovani, comprese quelle virtuali.


In quest’ottica va letto il risultato di un sondaggio Ipsos, commissionato da Save The Children, dal quale risulta come quasi il 70% dei giovani tema non il cyberbullismo bensì il bullismo, di cui il primo non è che un particolare modo di esprimersi. Analizzando nel dettaglio tale documento si evince che il principale luogo di manifestazione risulta essere la scuola, per il 78%, seguìto dagli altri luoghi fisici di aggregazione. Il fenomeno, dopo che un ragazzo è stato preso di mira, può protrarsi ovunque, secondo per il 66% del campione intervistato, compresi internet e cellulari.


Il conflitto, che un giovane deve imparare a gestire, si presenta quasi sempre in un luogo fisico, sia esso la scuola, la palestra oppure un locale dove si svolge una festa; se non viene risolto in tale contesto può trasferirsi nel mondo virtuale dove, secondo DoSomething.org, l’81% dei ragazzi crede sia più facile farla franca, grazie all’anonimato e allo schermo che si frappone fra l’azione del carnefice e la reazione emotiva della vittima.


Il problema del bullismo digitale nasce lontano, o meglio nasce fuori dalla rete, e si radica nella complessità dei rapporti che viene affrontata sovente con superficialità e noncuranza. Per questa ragione diventa più facile addossare la colpa alla tecnologia piuttosto che assumersi la responsabilità genitoriale. Rappresenta un’esigenza improcrastinabile domandarsi se esista davvero quest’emergenza oppure se l’idea che i social incrementino il fenomeno sia solo un preconcetto largamente diffuso fra gli adulti. Adulti che forse qualche lacuna nell’essere genitori, tradizionali o 2.0, dovrebbero colmarla per poter mettere in campo le strategie necessarie per arginare gli spiacevoli effetti di questa deriva mediatica che, come si analizzerà, colpisce trasversalmente tutti.


Di certo esiste un’emergenza bullismo dall’esame anche dei dati, forniti da Telefono Azzurro, che denunciano nel 2016 una segnalazione al giorno alla linea gratuita in funzione 24 ore su 24; inoltre, sempre secondo questa fonte, l’età delle vittime si sta abbassando al di sotto della fascia preadolescenziale.

Il cyberbullismo spaventa davvero i giovani?

Come abbiamo già visto, si parla di bullismo fin dagli anni Settanta, con episodi violenti forieri talvolta di conseguenze tragiche. Episodi che tuttavia avevano un preciso limite spazio-temporale, attraversato il quale un giovane era al sicuro, protetto dalle mure domestiche e dall’abbraccio di una famiglia accudente, benché fermamente arroccata su valori ritenuti imprescindibili per crescere bene un figlio.


Con l’avvento del web la persecuzione ha potuto dilagare abbattendo ogni confine: ora segue la vittima ovunque essa sia e in qualsiasi momento della giornata, amplificando a dismisura i suoi effetti. Si tratta della cosiddetta “gogna mediatica”, che rende il cyberbullismo ben più insidioso rispetto al bullismo di cui è figlio: qualsiasi violenza fisica e psicologica, come vedremo, viene ingigantita da una rete capace di moltiplicare gli spettatori che assistono al momento in cui la dignità di un essere umano viene calpestata da un suo simile.


Il bullismo digitale si nutre anche dell’anonimato che Internet talvolta sembrerebbe garantire, si pensi ad esempio al social network “Ask.fm”, letteralmente “chiedi per me” – nato in Lettonia nel 2010 – e basato su domande e risposte, che è subito dilagato nel mondo diventando l’oscuro regno dei cyberbulli sotto i diciott’anni.


Ma l’anonimato della rete scatena l’arroganza e l’aggressività anche degli adulti che online si lasciano andare all’incitamento all’odio, globalmente definito hate speech, in grado di trasformare le parole in armi micidiali di intolleranza verso una persona o un gruppo per motivazioni razziali, religiose, etniche, o ideologiche di vario tipo. Basta scorrere le pagine di Facebook per rendersi conto di quanto sia frequente il ricorso alla trivialità e all’insulto per argomentare le proprie tesi, con buona pace della netiquette, termine che unisce il vocabolo inglese network (rete) e quello francese étiquette (buona educazione) e che raccoglie un insieme di regole volte a disciplinare le relazioni fra gli utenti di Internet.


Sdoganato anche dal mondo adulto, quello al quale le nuove generazioni dovrebbero guadare come modello a cui ispirarsi, l’odio scorre sul web e spaventa i giovani che sovente sono vittime e carnefici di questo incremento di aggressioni verbali che prende di mira soprattutto coloro che sono percepiti diversi dal gruppo, vuoi per l’aspetto fisico, le idee personali, la nazionalità o per qualsiasi altro motivo. Si tratta di odio che scaturisce dalla superficialità e dalla velocità con cui si intrecciano relazioni virtuali, ma anche da una sorta di analfabetismo emotivo che il web agevola favorendo contatti fra persone che non si conoscono, non si riconoscono e per questo si detestano, prescindendo da qualsiasi sforzo dialettico volto ad avvicinarsi, comprendersi, arricchirsi attraverso l’altrui pensiero.


Come spesso accade approcciandosi a un fenomeno che spaventa si cerca di definirlo, circoscriverlo in categorie, se possibile sanzionarlo senza andare a ricercare i motivi per i quali è scaturito e così proliferano le liste di esempi di cyberbullismo come questa che si riporta, tratta dal sito del National Crime Prevention Council:

  • Inviare a qualcuno e-mail, messaggi istantanei o messaggi di testo minatori.

  • Escludere qualcuno dalla lista di amici di un sistema di messaggistica istantanea o bloccare la sua mail senza motivo.

  • Indurre con l’inganno qualcuno a rivelare informazioni personali o imbarazzanti e inviarle ad altri.

  • Violare una casella di posta elettronica o un account di messaggistica istantanea per inviare messaggi crudeli o falsi, spacciandosi per il titolare.

  • Creare siti web per prendere in giro un’altra persona, ad esempio un compagno di classe o un insegnante.

  • Usare siti web per fare classifiche delle ragazze più carine, dei ragazzi più brutti etc.

Alcuni di questi esempi potrebbero forse apparire innocui ma è necessario considerare il contesto nel quale agiscono e soprattutto l’età dei soggetti che vengono coinvolti in simili azioni. Una bambina di dieci anni che viene esclusa da un gruppo WhatsApp soffrirà al pari di un ragazzino di quindici dileggiato sulle pagine di Facebook: a ogni età si può far esperienza del senso di rabbia, impotenza, angoscia generato da uno strumento ritenuto amico e indispensabile per vivere la socialità.


Da simili episodi talvolta se ne esce rafforzati, talvolta annientati: se la bambina esclusa da una chat si confida con un adulto che la sostiene e la consiglia, pur senza minimizzare il suo dramma, può diventare più sensibile verso la compagna che a sua volta sarà vittima della medesima esclusione; al contrario, il ragazzino che vive la quotidiana gogna sul social network in solitudine e senza manifestare il proprio disagio al genitore o all’insegnante, può diventare scontroso, insofferente con gli altri, distratto a scuola.


Situazioni analoghe, che ormai coinvolgono la maggioranza dei nativi digitali, possono indurre un giovane a percorrere strade differenti a seconda che, nel suo cammino di crescita, sia accompagnato da adulti attenti o da adulti distratti.


L’elemento costante rimane l’incapacità dei ragazzi odierni di vivere a prescindere dal social network e dalla chat del gruppo, diventati parte integrante della loro vita e attraverso i quali esprimono la propria personalità e vivono la prima socialità.


Un cambiamento tecnologico epocale che ha coinvolto anche il mondo degli adulti, i quali pur non riuscendo più a vivere senza cellulare, computer e tablet non comprendono, o forse non si sforzano di comprendere, il motivo per cui l’adolescente che vive accanto a loro stia perennemente con la testa china sullo schermo luminoso.


“Il cellulare è la mia vita”, “Su Instagram esprimo me stessa”, “Non verrò mai in vacanza in un posto senza connessione”, “Non posso cancellarmi da Ask anche se mi prendono in giro” sono solo alcune delle frasi con cui i ragazzi raccontano il loro nuovo modo di essere alla luce della rivoluzione tecnologica.


Non è corretto parlare di dualismo per descrivere il tempo trascorso online e quello offline in quanto, per un giovane, non vi è differenza fra l’interagire con i coetanei in modo reale o virtuale.


Da canto suo Danah Boyd, insegnante di Media e Comunicazione presso la New York University, sostiene la tesi secondo cui trascorrere molto tempo sullo smartphone, anche quando si è in un luogo pubblico fra amici, non configura alcuna patologia in quanto “i ragazzi non sono dipendenti dai social media: sono dipendenti l’uno dall’altro” e quelle che vengono percepite dagli adulti come fughe dalla realtà, per rifugiarsi nel mondo virtuale, per la docente sono vere e proprie immersioni nella loro realtà sociale e affettiva.


Il problema, come già evidenziato nel precedente capitolo, risiede nella difficoltà dei ragazzi a utilizzare in maniera corretta il web, nell’idea preconcetta – ma sbagliata – che essendo nati nell’era digitale siano in grado di governare gli strumenti tecnologici: un adolescente fatica ad accettare e a gestire il conflitto, l’aspetto della vita che permette di esprimere un’esigenza o di trovare una soluzione a un problema, sia quando si presenta online sia quando lo incontra offline.

Il drama. L’autobullismo e la più cattiva

Sovente i giovani, per gestire i conflitti interpersonali, mettono in atto online una sorta di rappresentazione degli stessi: Danah Boyd la definisce con il vocabolo drama che indica un “conflitto performativo e interpersonale che ha luogo di fronte a un pubblico coinvolto e attivo spesso sui social media (…) e permette agli adolescenti di distanziarsi dai costi emotivi associati agli eventi”, siano essi di lieve entità come un innocuo scherzo o gravi come un’aggressione fisica1.


Il drama non può essere inteso come un sinonimo del bullismo in quanto non prevede, come abbiamo già visto, una vittima e un carnefice; tuttavia gli adulti spesso cadono in questo malinteso in considerazione del fatto che talvolta esso crea sofferenza in uno dei soggetti. Inoltre quando un genitore intercetta queste sfide in rete, dove i giovani rappresentano se stessi al cospetto dell’intero gruppo di amici, fatica a decontestualizzare la rappresentazione del figlio e mal interpreta dichiarazioni e atteggiamenti.


Nel gruppo adolescenziale spesso le azioni crudeli vengono accettate, in quanto la dimostrazione di insensibilità di fronte agli attacchi costituisce per il giovane una medaglia da appuntarsi al petto che attesta la sua forza. Lasciare trapelare un momento di cedimento, in certi ping-pong di messaggi crudeli, sarebbe come sventolare bandiera bianca dichiarando in pubblico la propria debolezza.


Alle volte, invece, in questa lotta per l’affermazione della propria idea di sé si assiste a veri e propri episodi di autolesionismo digitale.


Il 9% dei giovani, secondo la psicologa Elizabeth Englander2, dichiara di aver utilizzato il web per agire come bullo contro se stesso allo scopo di attirare l’attenzione oppure ottenere supporto e conferme.


Adolescenti, quindi, capaci di manipolare i social network per dimostrare a un mondo distratto che esistono anche se, come si è già discusso, non hanno quelle capacità che gli attribuiscono gli adulti e, soprattutto, faticano a gestire le conseguenze delle loro frasi lanciate come sassi nello stagno del web.


Quando si parla di bullismo, e quindi anche della sua deriva digitale, il fenomeno tende a essere declinato al maschile poiché si pensa erroneamente che le dinamiche violente, fisiche o psicologiche, non possano appartenere all’universo femminile. Se solo un bullo su sei risulta essere femmina, pure negli ultimi tempi la percentuale sembra in aumento, infrangendo anche l’ultimo tabù e mettendo in luce tutta la ferocia che una giovane può contenere, pronta a esplodere come è accaduto, ad esempio, a Varallo Sesia e a Sestri Ponente.


Nell’istituto alberghiero del paese in provincia di Vercelli una ragazza disabile è stata presa a calci e a pugni da due compagne, mentre una terza riprendeva l’episodio con il cellulare per poi mettere il filmato in rete. Una crudeltà resa ancora più odiosa in quanto la vittima era, fra le coetanee, quella più indifesa.

Nella violenza coniugata al femminile in genere la bulla non agisce in prima persona, bensì manda allo scoperto le gregarie che obbediscono ai suoi ordini e la riconoscono come il capo.


Si tratta di una violenza silenziosa e cruenta, caratterizzata da umiliazioni e percosse, come quelle durate otto interminabili minuti e fissate indelebilmente, anche questa volta, in un video diffuso poi dalla stessa autrice.


Anche nel parco di un Comune vicino a Genova è andato in scena l’ennesimo episodio di bullismo al femminile, con la vittima dodicenne colpevole di aver insultato una sedicenne. Anche in questo caso si è ripetuto lo schema della leader che ha assoldato una “soldatessa” di diciassette anni per porre rimedio allo sfregio perpetrato contro l’ordine gerarchico.


Secondo la Polizia Postale anche nel web un cyberbullo su tre è femmina3 e spesso odia i gay, come è accaduto a Genova dove il feroce pestaggio notturno ai danni di un uomo, colpevole solo di presunta omosessualità, è stato capeggiato da una ragazza.


Giovani violente che aspirano alla leadership del gruppo e che, talvolta, sono spiazzate dall’avere un rivale gay nelle questioni amorose: e così alla gelosia si unisce l’intolleranza, tipica di una cultura ormai orfana di qualsiasi forma di rispetto e mediazione che abbraccia indistintamente generi e generazioni.

Quando il professore è un bullo

Gli episodi di bullismo amplificati dal web e scaturiti dall’intolleranza verso la diversità sessuale, reale o presunta, annoverano fra i carnefici i giovani e le giovani che scoprono di avere come compagno di banco un coetaneo omosessuale.


Il coming out ai giorni nostri è sempre più anticipato: negli ultimi quarant’anni si è passati dai 37 ai 16 anni, con il rischio che questa confessione, all’interno di un’aula scolastica, aggravi ulteriormente la stigmatizzazione dell’adolescente alle prese con il travagliato percorso di attaccamento al gruppo. Anche in questo caso, come accade di norma per ogni giovane, assume un ruolo basilare la capacità dei genitori di consolidare l’autostima del figlio attraverso una solida educazione emotiva che favorisca l’adolescente nel difficile percorso di ricerca della propria identità, di crescita e maturazione equilibrate.


Purtroppo, all’interno di un gruppo, chi palesa atteggiamenti dissonanti viene emarginato e dileggiato in quanto la diversità spaventa i ragazzi in cerca di certezze, e talvolta può accadere che questa diversità inneschi insofferenza anche negli adulti, come nel caso dell’insegnante di Perugia che, secondo le cronache, avrebbe insultato e percosso un suo allievo: un atto di grave intolleranza perpetrato da un docente ai danni di un suo studente.


Gli episodi di aggressività da parte di maestri e professori sembrerebbero essere in aumento nelle scuole di ogni ordine e grado, come in quella elementare di Treviso dove ai bambini di sei anni, al posto di insegnamenti e cura, venivano elargiti calci e schiaffi.


Davvero un ulteriore tabù è caduto e, dopo il bullismo femminile, si iniziano a registrarne episodi da parte di docenti che non sono in grado di gestire l’iperattività dei bambini o le relazioni conflittuali degli adolescenti, e nemmeno di affrontare le conseguenze che hanno sui giovani genitori distratti o che difendono sempre i figli, in aperto contrasto con gli insegnanti.


Da una parte troviamo quindi gli studenti, irrispettosi dell’autorità del ruolo istituzionale che il professore ricopre e dell’autorevolezza derivante dalla sua capacità professionale. Dall’altra ci sono gli insegnanti in trincea, esasperati da situazioni molto difficili da gestire.


Sempre più sovente accade che l’arroganza dei ragazzi, propria dell’adolescenza, venga sostenuta dai genitori, propensi a dar credito a qualsiasi giustificazione davanti a un brutto voto, dalle lezioni non spiegate alle ingiustizie nelle valutazioni.


Si tratta certo di scuse per non assumersi le proprie responsabilità, che però si tramutano contemporaneamente in accuse, capaci di danneggiare un docente già bersaglio della tecnologia che, talvolta, lo rende protagonista inconsapevole di filmati realizzati in aula e diffusi nella rete, come si esaminerà più avanti.


Bullismo e cyberbullismo sono dunque intimamente collegati e traggono alimento dall’humus della gestione della conflittualità orfana dei valori del rispetto e della responsabilità.

Cyberbullismo
Cyberbullismo
Ilaria Caprioglio
La complicata vita sociale dei nostri figli iperconnessi.Un’analisi del fenomeno del cyberbullismo, per aiutare i genitori a comprendere quali sono i rischi del web per il bambino e capire come affrontarli. Il fenomeno del cyberbullismo è in forte crescita nella complessa vita sociale dei giovani iperconnessi. A ciò contribuisce la complicità degli adulti che, illudendosi di avere figli perfettamente equipaggiati per affrontare il mondo del web senza rischi, non si preoccupano di fornire loro un’adeguata educazione ai media, capace di sviluppare il senso critico e la cultura del rispetto, indispensabili anche online. A partire dagli anni Settanta si iniziò a esaminare il fenomeno del bullismo (caratterizzato da un’aggressione fisica o psicologica che si ripete e da uno squilibrio di potere fisico e sociale tra vittima e carnefice), ma, ai nostri giorni, i bulli possono passare dalla tradizionale modalità offline a quella online, utilizzando canali digitali come social network e programmi di messaggistica.Il conflitto si manifesta in un luogo fisico, ma se non si risolve può trasferirsi nel mondo virtuale, che enfatizza la persecuzione, condita dall’anonimato. Il problema del bullismo digitale nasce quindi fuori dal web, si genera a causa della complessità dei rapporti che sempre più spesso vengono affrontati con superficialità e scarsa attenzione da parte del mondo adulto che non si assume la responsabilità di questo crescente analfabetismo emotivo. La sfida per noi genitori e educatori è provare a intercettare e decodificare quei segnali di disagio giovanile che online diventano visibili perché messi in scena attraverso il drama, una sorta di rappresentazione dei conflitti interpersonali che gli adolescenti faticano a gestire. Ilaria Caprioglio, nel suo libro Cyberbullismo, aiuta i genitori a comprendere quali siano i rischi del web per il bambino o per il ragazzo e suggerisce come affrontarli. Conosci l’autore Ilaria Caprioglio, avvocato e scrittrice, è sposata e madre di tre figli. Sostiene iniziative sociali rivolte ai giovani e promuove, nelle scuole italiane, progetti di sensibilizzazione sugli effetti della pressione mediatica e sulle insidie del web.È vice-presidente dell’associazione Mi nutro di vita e ideatrice della Giornata Nazionale del Fiocchetto Lilla contro i disturbi del comportamento alimentare.