capitolo vii

Il sonno dei bambini piccoli

Tra le più frequenti cause di consultazione del pediatra, da parte dei genitori di neonati e lattanti, vi sono i problemi del sonno.

Parlo di bambini piccoli, di un’età compresa tra 0 e 3 anni.

Dopo quell’età alcuni disturbi, come le insonnie, le ipersonnie e le dissonnie, possono, in alcuni rari casi, necessitare anche di interventi farmacologici e della consulenza di uno specialista.


Purtroppo quei disturbi, o meglio disagi come le difficoltà di addormentamento e i risvegli frequenti, prima dei tre anni vengono spesso trattati con farmaci inappropriati o, peggio ancora, con metodi pseudoscientifici, risultati scarsi o nulli nel modificare le abitudini del sonno di questi bambini e sicuramente dannosi per la costruzione della loro personalità futura e della fiducia in se stessi.


Il sonno dei piccoli è diverso da quello degli adulti e anche da quello dei bambini più grandi.

Quando dormiamo attraversiamo diverse fasi: le due più importanti sono il sonno REM (rapidi movimenti oculari) e quello non REM.


Il sonno REM è un sonno attivo: in esso aumenta l’attività metabolica e la sintesi dell’RNA, è la fase dei sogni e quella in cui fissiamo nel cervello le esperienze e le informazioni acquisite nella fase di veglia.

Il REM è preponderante nei bambini piccoli e tende a diminuire progressivamente nelle età successive.


Durante il sonno non REM si verifica invece un rallentamento del metabolismo e il suo fine è quello di garantire il recupero fisico.

Il sonno è caratterizzato dal ripetersi di più cicli, in ognuno dei quali si alternano le due fasi REM e non REM.

Più i bambini sono piccoli e maggiore è il numero dei cicli di sonno: 7-8-9 nei piccolissimi, 3-4 negli adulti a notte.


Alla fine di ogni ciclo di solito ci svegliamo: è il momento in cui i sogni sono ancora quasi reali e in genere ci riagganciamo subito al ciclo successivo e ci riaddormentiamo. Nei bambini piccoli questi intervalli tra un ciclo e l’altro sono più frequenti, e quindi anche i risvegli.


La paura del e nel buio è quella provata dai nostri antenati quando, di notte, erano preda dei carnivori cacciatori notturni, con scarsi mezzi (vista e udito) per percepire il loro approssimarsi nelle tenebre. La vista dell’uomo è infatti meno acuta di quella di molti animali, per esempio del cane e del gatto; le tenebre lo lasciano perciò più indifeso di molti altri mammiferi.


Li immagino, bambini e adulti stretti, vicini ai fuochi, alcuni addormentati e altri svegli, di guardia con i sensi in allarme, nel silenzio della notte. Tali paure, che si riproponevano ogni sera, sono entrate nel codice genetico della nostra specie.


La paura nel buio è anche quella del piccolo bambino che si è addormentato, ma che poi si sveglia una o più volte, bisognoso di essere rassicurato.

Alessandra Bortolotti, psicologa perinatale e autrice di due preziosi libri, E se poi prende il vizio e I cuccioli non dormono da soli, mi raccontava che un giorno, parlando con dei suoi colleghi asiatici, questi le chiedevano come mai in Occidente fossero così frequenti i disturbi del sonno nei bambini piccoli. La risposta era semplice: nei Paesi occidentali abbiamo allontanato i piccoli dal contatto fisico con noi e ci hanno convinto (falso mito dell’autonomia a tutti i costi e subito) che sin dai primi giorni dobbiamo addestrare i bambini a dormire di un sonno profondo e ininterrotto; in gran parte del mondo, viceversa, i bambini dormono vicino ai genitori per lungo tempo e si distaccano spontaneamente quando hanno raggiunto sufficiente sicurezza per stare da soli.


Nei bambini piccoli i desideri e i bisogni coincidono: non rispondere ai loro bisogni provoca una potente frustrazione di quel senso di “onnipotenza magica” giusta e adeguata per quell’età, e minaccia la fiducia in se stessi nella vita futura.


Risale alle ricerche di John Bowlby, psicologo e psicoanalista britannico, l’elaborazione della “Teoria dell’Attaccamento.

Per Bowlby, che iniziò i suoi studi per conto della Organizzazione Mondiale della Sanità nei primi anni ’50 e poi proseguì in autonomia, è molto importante che il legame di attaccamento si sviluppi in maniera adeguata, poiché da esso dipende un buon sviluppo della persona; stati di angoscia e depressione, che possiamo ritrovare nell’età adulta, possono essere ricondotti a periodi, nei primi mesi e anni di vita, in cui si è fatta esperienza di disperazione, angoscia e distacco.


Secondo Bowlby il modello di attaccamento, sviluppatosi durante i primi anni di vita, è qualcosa che va a caratterizzare la relazione con la figura di riferimento durante l’infanzia e diviene successivamente un aspetto della personalità e un modello di relazione nei rapporti futuri con se stessi e con gli altri.


Le teorie di Bowlby dovrebbero essere parte fondamentale nella preparazione accademica dei pediatri, eppure spesso sento riferire dai genitori frasi pronunciate da pediatri come: “lo faccia piangere un po’ cosi diventa più autonomo” oppure “per un po’ piangerà ma poi accetterà la situazione e smetterà di farlo!…”


Nel 1977 svolsi il mio primo tirocinio abilitante presso la divisione di Pediatria di un grande ospedale romano. Ero un giovane medico con scarsissime conoscenze di psicologia, tuttavia rimasi sconcertato dal fatto che i bambini ricoverati ricevevano le visite dei loro genitori due volte al giorno per un tempo limitato, esattamente come succedeva agli adulti ricoverati negli altri reparti. Un’infermiera anziana mi spiegò che era meglio così “sennò i genitori avrebbero intralciato il lavoro dei sanitari e i bambini non avrebbero fatto altro che piangere tutto il giorno”. “Separandoli dai genitori” proseguì “dopo due o tre giorni i bambini sarebbero diventati mansueti e avrebbero smesso di piangere”.


L’anno successivo entrai nella scuola di specializzazione presso il Policlinico Umberto I di Roma e proprio quell’anno, grazie all’impegno della Professoressa Renata Gaddini de Benedetti che dirigeva l’Unità di Igiene Mentale, finalmente ai genitori dei bambini ricoverati fu consentito di accudirli ventiquattro ore al giorno.

Circa vent’anni fa un pediatra spagnolo di nome Eduard Estivill pubblicò Fate la nanna!, un libro con tre milioni di copie vendute, in cui teorizzava l’opportunità di far piangere i bambini che si svegliano durante la notte grazie il metodo dell’estinzione progressiva. Conviene sottolineare che quest’autore non ha mai fornito dati sull’efficacia del metodo.


Il suo libro è stato certamente un grande successo editoriale ma non ha affatto aiutato i genitori e i bambini perché, come affermano le pediatre Annamaria Moschetti e Maria Luisa Tortorella dell’Associazione Culturale Pediatri nel libro “Facciamo la nanna” di Grazia Honegger Fresco: 

…il fatto che i bambini dopo un po’ di tempo si “abituano” e cioè smettono di chiamare non è un indicatore di un buon adattamento e dell’instaurarsi di un’efficace autoregolazione ma il segno che il bambino si è rassegnato. Ma questa rassegnazione è intrisa di sofferenza e costituisce una deviazione dal percorso normalmente stabilito dalla natura…1

I risvegli più frequenti, il sincronizzarsi del sonno della madre e del bambino, la minore profondità del sonno infantile sono fattori di protezione perché il lattante è capace di sentire e rispondere a eventi avversi e la mamma è in grado di reagire più prontamente.


È per tale ragione che dopo anni di studi sugli eventi che avevano accompagnato migliaia di casi di SIDS (sindrome della morte in culla) l’American Accademy of Paediatrics raccomanda, per ridurre al minimo il rischio di tale evento, di far dormire il bambino supino, nella stanza dei genitori fino almeno al 6° mese di vita (oltre a varie altre raccomandazioni come ad esempio informare le donne in gravidanza, allattare al seno, non fumare durante la gravidanza e l’allattamento). A proposito del “bed sharing” (condivisione dello stesso letto) l’Unicef (Comitato UK per la Baby Friendly Hospital Initiative per la promozione dell’allattamento al seno) insieme alla Fondazione per lo Studio delle Morti Infantili (FSIDUK), ha revisionato in questo senso le proprie raccomandazioni, con uno “statement” che rimane pertanto il punto di riferimento più aggiornato (21 maggio 2013):

  • alla luce delle più recenti e accreditate raccomandazioni, rappresentano fattori di rischio per il bed sharing il consumo di tabacco, di alcol o di farmaci da parte dei genitori, oltre a condizioni di particolare stanchezza;

  • il letto non va mai condiviso quando il lattante è nato pretermine o piccolo per l’età gestazionale, se la mamma non allatta al seno (la qualità del sonno è diversa per effetto degli ormoni dell’allattamento);

  • il lattante non deve condividere il letto con un altro bambino. Il bambino più grande nel sonno si muove e potrebbe accidentalmente schiacciare il piccolo;

  • rimane particolarmente pericoloso condividere il sonno con il lattante su divani e poltrone, sia per il rischio di intrappolamento del lattante tra le sponde o tra i cuscini, sia perché questo tipo di bed sharing, per lo più involontario, riflette una condizione di particolare stanchezza, associata all’addormentamento involontario e non controllato da parte dell’adulto.

Ribadito che la posizione più sicura è in una culla vicino al letto (The safest place for your baby to sleep is in a cot by your bed), la scelta della condivisione del letto va poi lasciata ai genitori, a cui vanno ricordate le precauzioni e in quali casi questa pratica è del tutto sconsigliata, assumendo, sia in un caso che nell’altro, un atteggiamento di sostegno, teso alla consapevolezza e non prescrittivo2.


È quindi chiaro che il bambino piccolo deve essere comunque a portata “di pianto” e che il pianto è un segnale che va accolto per evitare uno stress insopportabile.


A confermare questa indicazione non c’è soltanto la teoria dell’attaccamento di Bowlby, ma oggi ce lo dicono anche l’epigenetica e le neuroscienze.


Alessandra Bortolotti3 sintetizza efficacemente quello che accade, alla luce delle più recenti ricerche, quando nei bambini viene prodotto l’ormone cortisolo in risposta a fattori stressanti: “L’eccesso di cortisolo nell’infanzia provoca un flusso eccessivo nell’ippocampo (area cerebrale che svolge un ruolo fondamentale nella memoria a lungo termine) di una sostanza chiamata glutammato, che causa perdita di neuroni e può ridurre il numero dei recettori di cortisone per tutta la vita. Ciò significa che nel corso della vita adulta ci saranno meno risorse fisiologiche disponibili per reagire allo stress…

In conclusione non esiste la ricetta magica per far dormire tutta la notte i bambini piccoli; sicuramente è importante seguire i ritmi del bambino, offrire routine rassicuranti e accettare il fatto che in questa età della vita i risvegli notturni e le difficoltà di addormentamento sono fisiologiche.


Cercate di recuperare il sonno quando dorme il bambino, entrate a far parte di una rete di pari (ad esempio altre mamme conosciute ai corsi di accompagnamento alla nascita o i gruppi d’incontro della Leche League) con cui scambiarsi confidenze, consigli e sostegno. Affidate ad altri, se e quando è possibile, le attività logistiche (cucinare, pulire).


Ricordo anni fa una mamma di due gemelle che seguivo al Consultorio familiare di Campagnano: per molto tempo quando una si addormentava l’altra si svegliava e la mamma, nonostante la presenza di un padre collaborativo, era stanca e affaticata.


La incontrai qualche anno dopo, quando ormai le bambine andavano a scuola. Dopo i primi convenevoli le chiesi se c’erano ancora problemi di sonno in casa e lei mi rispose con candore e sincerità: “Perché mi fa questa domanda?”.

Si era completamente scordata di quel periodo così faticoso.

Bambini e (troppe) medicine - Seconda edizione
Bambini e (troppe) medicine - Seconda edizione
Franco De Luca
Difendersi dall’eccessiva medicalizzazione dei nostri figli.Come evitare di somministrare troppe medicine ai bambini e migliorare il loro stato di salute con semplici rimedi naturali. Da diverso tempo l’OMS (Organizzazione Mondiale della Sanità) raccomanda, per ciò che concerne la gestione della salute in famiglia, di passare da un approccio prescrittivo a una scelta partecipata.Bambini e (troppe) medicine di Franco De Luca è un libro pensato per aiutare i genitori ad acquisire fiducia nelle proprie capacità di accudire il bambino e valutare il suo stato di salute, evitando di delegare al pediatra tutte le decisioni, anche le più semplici.Il testo è completato da semplici ricette di preparati casalinghi che possono evitare di fare ricorso, nelle piccole patologie dell’infanzia, a farmaci i cui effetti collaterali superano spesso quelli terapeutici. L’ebook di questo libro è certificato dalla Fondazione Libri Italiani Accessibili (LIA) come accessibili da parte di persone cieche e ipovedenti. Conosci l’autore Franco De Luca ha svolto l’attività di Pediatra di Comunità dal 1978 presso il consultorio familiare di Campagnano di Roma, dove, dal 2012 al 2016, è stato Direttore dell’Unità Operativa Complessa “Tutela Salute della Donna e Medicina Preventiva in età evolutiva”.Attualmente in pensione, affianca alla libera professione l’impegno nella promozione, protezione e sostegno dell’allattamento al seno, come formatore e tutor valutatore per l’UNICEF delle iniziative Comunità e ospedali Amici dei bambini. Dal 2003 è presidente del Centro Nascita Montessori.