Sbagliavo quando non avevo sonno e chiedevo di andare a letto un po’ più tardi, quando chiedevo di rimanere in casa con la mamma piuttosto che andare all’asilo, quando volevo mangiare pane e olio al posto degli spaghetti con l’uovo cucinati dalla nonna, quando ero stanca e battevo i piedi a terra perché non avevo ancora capito come si fa a esprimere la stanchezza, la rabbia e la frustrazione, quando piangevo, anche senza alcun motivo apparente, quando avevo paura di cose che ai grandi apparivano piccole e a me gigantesche, quando non sapevo esprimere le mie emozioni e provavo a ripetere gesti visti fare ad altri, ma in contesti probabilmente sbagliati, come mi facevano capire a suon di urla.
I miei genitori mi rimproveravano, mi punivano se continuavo a sbagliare e a volte mi davano qualche sculacciata. Ed era giusto così. Io ne ero felice. Loro erano grandi e sapevano cosa fare per educarmi. Loro non sbagliavano mai. Se mia madre stava vedendo alla Tv una puntata della sua serie preferita e io la interrompevo per chiederle di portarmi al parco, nella migliore delle ipotesi nemmeno mi ascoltava, il resto delle volte mi lanciava delle occhiate che frenavano ogni mio tentativo di insistenza. Vabbè, ma la sua era una serie Tv importante, mica i miei cartoni animati!
Mamma e papà non amavano lo stesso cibo. Spesso litigavano perché la mamma cucinava alcune pietanze non gradite a papà, che lui metteva puntualmente da parte. Solo che tra di loro non si dicevano: “Mangia tutto o vai in camera tua e ti ci chiudi dentro fin quando non te lo dico io!” oppure: “Ci sono uomini che muoiono di fame e farebbero di tutto per mangiare al posto tuo!”.
Vabbè, ma loro sono i grandi e hanno gusti e preferenze alimentari. Noi siamo piccoli e dobbiamo seguirli, per la nostra dieta alimentare: saremo vegani, vegetariani, onnivori… in base alla famiglia in cui nasceremo. Se gli amichetti mangiano pane e prosciutto vicino a un bimbo vegano e questo volesse provare l’estasi del maiale, sperimenterebbe la sensazione di Eva nell’addentare il frutto proibito e, probabilmente, non se ne libererebbe più.
Io davo il mio cibo al cane, di nascosto. E oggi ho un rapporto conflittuale con esso. Con il cibo, non con il cane.
I miei genitori urlavano spesso, ma se tentavo di fermarli, come facevano loro con me, mi dicevano di fare silenzio perché i piccoli non dovevano intromettersi nelle loro faccende.
Se mamma provava un cappotto e non le piaceva, lo riposava al suo posto e ne metteva un altro. Io dovevo indossare per forza un giubbino color topo comprato con i saldi primaverili nei grandi magazzini della città. Ma non importava se mi sentivo impacciata e orribile. Mamma sapeva cosa fosse meglio per me.
Il problema è che, pur sapendo che i miei genitori decidevano sempre cosa fosse migliore per me, io mi sentivo frustrata. Mi sentivo non compresa, limitata, castrata. E tutto ciò mi portava a battere maggiormente i piedi a terra, a piangere senza alcuna apparente ragione, a tentare di ribellarmi alle loro imposizioni, essendo per questo considerata una bambina ribelle e capricciosa.
E ogni giorno era una lotta che pareva vincessero sempre loro, ma che alla fine perdevamo tutti. Perché tutto ciò non ha fatto che rendere la mia infanzia problematica per me e per loro. Mi ha lasciato dentro mille limiti e ha formato tutte le mie attuali paure, frustrazioni e mancanze. Mi ha lasciato l’ansia, il timore continuo di non essere sempre accettata per quella che sono o, peggio ancora, di non meritare di esserlo.
Oggi mi chiedo cosa sarei, se fossi stata compresa un po’, da bambina. Se i miei bisogni, le mie paure, le mie richieste non fossero stati etichettati tutti con la stessa parola: capriccio.
Ho creduto di essere felice, perché mi hanno imposto di fare anche questo: crederci.”
La storia “tipo” che ho raccontato è un po’ quella di tutti gli adulti di oggi che hanno vissuto la propria infanzia nella certezza che ci fosse bisogno di pugno fermo e disciplina dura per educare i bambini. E questo prevedeva ricatti e punizioni, anche corporali, affinché ci comportassimo secondo i desideri di mamma e papà. Venivamo del resto lodati quando riuscivamo a seguire i loro comandi, e si insinuava in noi la convinzione che, per essere amati, dovevamo obbedire a degli ordini, rinunciando ai nostri bisogni.
Pochi di noi sono stati esenti da una bella sculacciata correttiva o da un ricatto a fin di bene: “O finisci di mangiare oppure faccio venire l’uomo nero che ti prende e ti porta via!”. Da film dell’orrore.
Eppure, questo tipo di educazione era generalmente accettata e messa in pratica, incoraggiata e permessa anche agli insegnanti e alle figure importanti che gravitavano attorno ai bambini, come nonni e parenti più stretti.
Era così tanto comune e radicata che spesso si elogiano la sculacciata e lo schiaffo correttivi quali metodi utilizzati e in disuso (ma non troppo!), ma che permettevano una immediata correzione educativa, rendendoci gli adulti responsabili, corretti e sereni che oggi siamo.
A parte che in giro non vedo tutta questa responsabilità e correttezza, ogni volta che sento frasi del genere mi chiedo se chi sta parlando è il bambino che riceveva sculacciate, schiaffi, ricatti e punizioni, o l’adulto che, per giustificare i genitori e dimenticare la sua rabbia e la sua frustrazione, ha accettato il metodo, considerandolo una palese dimostrazione d’amore.