capitolo v

Disciplina Dolce

Genitorialità ad alto contatto e disciplina dolce1

Da bambina, quando tentavo di bere l’acqua da un bicchiere gigante che i grandi mi porgevano e un po’ di liquido si riversava sulla tovaglia pulita e profumata, ricevevo un bel rimprovero da parte dei miei genitori. Io ne ero felice, perché sapevo che lo facevano per il mio bene, poiché volevano “educarmi” e insegnarmi a usare bene gli oggetti. È vero che le mie mani erano piccine, ma che importa! L’essenziale era che mamma e papà o i nonni riuscissero a correggere i miei comportamenti sbagliati. E di sbagli ne facevo molti, come pretendere spesso di voler finire ciò che stavo guardando in Tv, senza che i grandi mi interrompessero per coinvolgermi in una delle loro attività, come andare a trovare qualche conoscente (a volte molto antipatico, a me) o a fare acquisti in grandi centri affollati e rumorosi, che mi creavano fastidio e disagio.

Sbagliavo quando non avevo sonno e chiedevo di andare a letto un po’ più tardi, quando chiedevo di rimanere in casa con la mamma piuttosto che andare all’asilo, quando volevo mangiare pane e olio al posto degli spaghetti con l’uovo cucinati dalla nonna, quando ero stanca e battevo i piedi a terra perché non avevo ancora capito come si fa a esprimere la stanchezza, la rabbia e la frustrazione, quando piangevo, anche senza alcun motivo apparente, quando avevo paura di cose che ai grandi apparivano piccole e a me gigantesche, quando non sapevo esprimere le mie emozioni e provavo a ripetere gesti visti fare ad altri, ma in contesti probabilmente sbagliati, come mi facevano capire a suon di urla.


I miei genitori mi rimproveravano, mi punivano se continuavo a sbagliare e a volte mi davano qualche sculacciata. Ed era giusto così. Io ne ero felice. Loro erano grandi e sapevano cosa fare per educarmi. Loro non sbagliavano mai. Se mia madre stava vedendo alla Tv una puntata della sua serie preferita e io la interrompevo per chiederle di portarmi al parco, nella migliore delle ipotesi nemmeno mi ascoltava, il resto delle volte mi lanciava delle occhiate che frenavano ogni mio tentativo di insistenza. Vabbè, ma la sua era una serie Tv importante, mica i miei cartoni animati!


Mamma e papà non amavano lo stesso cibo. Spesso litigavano perché la mamma cucinava alcune pietanze non gradite a papà, che lui metteva puntualmente da parte. Solo che tra di loro non si dicevano: “Mangia tutto o vai in camera tua e ti ci chiudi dentro fin quando non te lo dico io!” oppure: “Ci sono uomini che muoiono di fame e farebbero di tutto per mangiare al posto tuo!”.


Vabbè, ma loro sono i grandi e hanno gusti e preferenze alimentari. Noi siamo piccoli e dobbiamo seguirli, per la nostra dieta alimentare: saremo vegani, vegetariani, onnivori… in base alla famiglia in cui nasceremo. Se gli amichetti mangiano pane e prosciutto vicino a un bimbo vegano e questo volesse provare l’estasi del maiale, sperimenterebbe la sensazione di Eva nell’addentare il frutto proibito e, probabilmente, non se ne libererebbe più.

Io davo il mio cibo al cane, di nascosto. E oggi ho un rapporto conflittuale con esso. Con il cibo, non con il cane.


I miei genitori urlavano spesso, ma se tentavo di fermarli, come facevano loro con me, mi dicevano di fare silenzio perché i piccoli non dovevano intromettersi nelle loro faccende.


Se mamma provava un cappotto e non le piaceva, lo riposava al suo posto e ne metteva un altro. Io dovevo indossare per forza un giubbino color topo comprato con i saldi primaverili nei grandi magazzini della città. Ma non importava se mi sentivo impacciata e orribile. Mamma sapeva cosa fosse meglio per me.


Il problema è che, pur sapendo che i miei genitori decidevano sempre cosa fosse migliore per me, io mi sentivo frustrata. Mi sentivo non compresa, limitata, castrata. E tutto ciò mi portava a battere maggiormente i piedi a terra, a piangere senza alcuna apparente ragione, a tentare di ribellarmi alle loro imposizioni, essendo per questo considerata una bambina ribelle e capricciosa.


E ogni giorno era una lotta che pareva vincessero sempre loro, ma che alla fine perdevamo tutti. Perché tutto ciò non ha fatto che rendere la mia infanzia problematica per me e per loro. Mi ha lasciato dentro mille limiti e ha formato tutte le mie attuali paure, frustrazioni e mancanze. Mi ha lasciato l’ansia, il timore continuo di non essere sempre accettata per quella che sono o, peggio ancora, di non meritare di esserlo.


Oggi mi chiedo cosa sarei, se fossi stata compresa un po’, da bambina. Se i miei bisogni, le mie paure, le mie richieste non fossero stati etichettati tutti con la stessa parola: capriccio.

Ho creduto di essere felice, perché mi hanno imposto di fare anche questo: crederci.”


La storia “tipo” che ho raccontato è un po’ quella di tutti gli adulti di oggi che hanno vissuto la propria infanzia nella certezza che ci fosse bisogno di pugno fermo e disciplina dura per educare i bambini. E questo prevedeva ricatti e punizioni, anche corporali, affinché ci comportassimo secondo i desideri di mamma e papà. Venivamo del resto lodati quando riuscivamo a seguire i loro comandi, e si insinuava in noi la convinzione che, per essere amati, dovevamo obbedire a degli ordini, rinunciando ai nostri bisogni.


Pochi di noi sono stati esenti da una bella sculacciata correttiva o da un ricatto a fin di bene: “O finisci di mangiare oppure faccio venire l’uomo nero che ti prende e ti porta via!”. Da film dell’orrore.


Eppure, questo tipo di educazione era generalmente accettata e messa in pratica, incoraggiata e permessa anche agli insegnanti e alle figure importanti che gravitavano attorno ai bambini, come nonni e parenti più stretti.

Era così tanto comune e radicata che spesso si elogiano la sculacciata e lo schiaffo correttivi quali metodi utilizzati e in disuso (ma non troppo!), ma che permettevano una immediata correzione educativa, rendendoci gli adulti responsabili, corretti e sereni che oggi siamo.


A parte che in giro non vedo tutta questa responsabilità e correttezza, ogni volta che sento frasi del genere mi chiedo se chi sta parlando è il bambino che riceveva sculacciate, schiaffi, ricatti e punizioni, o l’adulto che, per giustificare i genitori e dimenticare la sua rabbia e la sua frustrazione, ha accettato il metodo, considerandolo una palese dimostrazione d’amore.

Diversi studi2 hanno evidenziato che quelle punizioni, che per noi in fondo erano normali, ci inducevano a ubbidire non tanto per convinzione, non per la consapevolezza che la richiesta del genitore fosse cosa buona e giusta, quanto semplicemente per paura. La paura di una sberla, la paura di essere rimproverati, la paura delle “conseguenze” ovvero di non poter fare/ avere qualcosa che ci interessava. Insomma, le punizioni non aiutano le persone a crescere e a diventare migliori. Tra l’altro, le punizioni, corporali e non, spesso si accompagnano a un clima teso, intessuto di collera, rammarico, fastidio da parte di tutti: gli adulti “costretti” a punire e i bambini obbligati a subire.


Nessuno mette in dubbio che i nostri genitori ci amassero, ovviamente. Essi stessi avevano imparato dai loro, che si educava così. Tuttavia, oggi abbiamo più strumenti di informazione per comprendere i danni provocati da un’educazione rigida e violenta, perpetrata soprattutto nei primi anni della nostra vita3. Ancora oggi, la violenza fisica e verbale, la prevaricazione da parte dei genitori, l’indifferenza ai tempi e alle idee dei bambini in quanto “solo bambini”, prevale un po’ ovunque, proprio perché si tende a ripetere meccanicamente ciò che abbiamo visto fare su di noi4. L’unica differenza tra oggi e ieri è che, in genere, si tende a farlo più privatamente e si è tolto il diritto (per fortuna!) ad altre figure, specialmente agli insegnanti.

Eppure, è sempre più diffuso un tipo di educazione che mette in primo piano i bisogni dei bambini e ne rispetta tempi, emozioni, sentimenti e pensieri. Si tratta della “disciplina dolce o positiva”, una scelta educativa genitoriale che non utilizza (o almeno cerca di non farlo) alcun tipo di violenza nei confronti del bambino, ma si pone in posizione di ascolto verso di lui per comprenderne i bisogni e rispondere ad essi in maniera rispettosa.


Chi pratica la disciplina dolce (e molti genitori ad alto contatto lo fanno) considera i piccoli non “solo dei bambini”, ma bambini che hanno diritto, come e forse più degli adulti, a esprimere i loro bisogni e a essere accolti tutte le volte che ve ne sia richiesta da parte loro. Applicare la disciplina dolce non significa essere permissivi e lasciare fare, come molti credono. Significa, invece, intervenire con fermezza quando ce n’è bisogno, ma in maniera dolce. Significa verbalizzare il più possibile, concedere alternative piuttosto che imporre la propria autorità genitoriale, dare modo al piccolo di poter esprimersi e di poter scegliere.


È, insomma, una modalità che si basa sull’ascolto e sull’accoglienza dei bisogni del bambino.

Si è visto che quando i bisogni dei bambini molto piccoli vengono accolti, questi stessi bisogni – di contatto, vicinanza, rassicurazione – si esauriscono, e loro crescono più sicuri di sé e più fiduciosi verso gli altri.

Quando un bambino piange e il genitore risponde dolcemente, quando è confortato e aiutato a stare meglio, il bambino si scopre competente, capace di chiamare a sé il genitore. Nel caso contrario il bambino si sente insicuro e i genitori tendono a usare discipline meno dolci, con ripercussioni sulla serenità mentale dei propri figli5.


La disciplina dolce getta le basi per una sicurezza affettiva futura, perché rende forte la sensazione che, quando si avrà bisogno nella vita, ci sarà qualcuno ad aiutarci. E noi saremo capaci di chiedere e far arrivare quell’aiuto.

Con queste premesse diventa più facile affrontare anche le difficoltà. Un bambino che riceve frequenti conferme dell’amore dei genitori, che sa di essere apprezzato da loro per come è, che non si identifica con gli errori e i pasticci che è normale combinare nell’infanzia, ha più probabilità di crescere sicuro. La consapevolezza di essere amati è un’arma potente, per molti di noi è la chiave della felicità.


Ma non è tutto. Negli anni della crescita, un bambino che viene ascoltato dai genitori, che vede accolte le sue emozioni, che viene trattato con rispetto, non solo è un bambino felice (è bello essere trattati così, a qualunque età!), ma interiorizza questi comportamenti e pian piano li fa propri. Un bambino cresciuto nella gentilezza e nel rispetto è destinato a diventare un adulto che sa offrire gentilezza e rispetto. I suoi genitori glielo hanno insegnato non con le punizioni, non intervenendo duramente in caso di errore, ma dandogli l’esempio. Perché è prima di tutto così che noi insegniamo la vita ai nostri figli. Semplicemente vivendo. Sono i nostri valori, le nostre azioni, le nostre parole, il primo grande esempio che ricevono negli anni cruciali per la formazione della personalità.


E questo, in un certo senso, rende tutto più facile. Non c’è bisogno di chissà quali teorie e metodi pedagogici per insegnare a un figlio come comportarsi. Basta comportarsi nel modo che vorremmo fosse il suo. È semplice sì, ma è anche una responsabilità enorme. Perché i nostri figli ci guardano. E guardando noi, imparano a vivere. Se li trattiamo con amore, con empatia, con rispetto, questa sarà la loro eredità. Il nostro dono per loro. E il nostro dono anche per il mondo, che diventerà un posto migliore quando sarà popolato da tanti adulti attenti ai bisogni dell’altro, capaci di gentilezza e di rispetto.



Ti faccio male per il tuo bene: le conseguenze delle punizioni corporali sul bambino (che diventerà adulto)

Una ricerca condotta da Save the Children6, realizzata da Ipsos7, afferma che un italiano su quattro utilizza le punizioni corporali quali schiaffi e sculacciate come metodo educativo, soprattutto tra i 3 e i 5 anni. Non solo: la maggior parte di essi si considerano meno severi dei loro stessi genitori in quanto ai metodi educativi utilizzati si contesta soprattutto la carenza di dialogo, più che il gesto violento.


Molti dei genitori che oggi fanno ricorso a schiaffi e sculacciate per “correggere” i loro figli, avranno di certo subìto questo tipo di metodo educativo in quanto molto usato in passato, soprattutto agli inizi del 1900 e non solo, dai genitori ma anche dagli educatori e dai maestri, i quali erano letteralmente legittimati a picchiare i bambini con il fine di educarli.

In tanti si interrogano sul “valore” di questi metodi. Non ho trovato studi a favore ma solamente contro8. Ne cito uno a titolo di esempio, condotto dalla University of New Hampshire9, il quale ha dimostrato che chi è stato vittima di violenze corporali è più soggetto a dipendenze (alcolismo, sostanze stupefacenti) ma anche a turbe mentali e disagi psicologici che spesso sfociano in atti violenti verso il prossimo e in stati d’ansia.


Altre ricerche, hanno confermato le percentuali e la veridicità dei dati, proponendo di aprire un dibattito sulle nuove frontiere dell’educazione dei figli10.


Io non sono una psichiatra infantile e non ho alcun altro titolo professionale per potere “dimostrare” il mio pensiero grazie a ricerche condotte personalmente. Sono semplicemente una mamma che per natura è contro ogni forma di violenza fisica e verbale, soprattutto verso bambini, anziani e qualsiasi altra persona che non può difendersi.


Immaginate lui. Lui ha solo 3 anni e la sua voce è il canto degli angeli. Lui vede il mondo come qualcosa che non riesce ancora a capire e vuole essere semplicemente aiutato in questa che è una vera e propria impresa. Lui, che non sa cosa siano le emozioni ma è “costretto” a sperimentarle.

Ci basterebbe capire che così come siamo felici di accoglierlo e seguirlo nelle emozioni positive quali la gioia e l’entusiasmo, dovremmo fare altrettanto per la rabbia e la tristezza. Anzi, maggiormente per queste poiché la gioia e l’entusiasmo portano benessere e le si vive, semplicemente, lasciandosi andare. La rabbia e la tristezza, al contrario, sono sentimenti frustranti che noi genitori abbiamo il dovere di fare “riconoscere” al bambino in quanto esistono ed esisteranno: c’è poco da fare. Abbiamo anche il dovere di accoglierli al pari della gioia e di mostrare al bambino il modo per superarli. Come? A ogni genitore il suo, purché sia di aiuto al piccolo.


Del resto, quando noi siamo arrabbiati, i nostri compagni o le persone che amiamo non ci danno un ceffone o una sculacciata, o almeno non dovrebbe essere così. Quando io sono arrabbiata con una persona, ad esempio, mi aspetto un dialogo chiarificatore. Se poi lo sono davvero tanto, da chi mi ama mi aspetto un abbraccio tranquillizzante. E se non arriva, sto ancora peggio.

Perché non dovrebbe essere così per un bambino? mi chiedo. Perché se un uomo dà uno schiaffo a una donna (o viceversa, anche se è meno frequente) è violenza e quindi denunciabile, e se lo si fa con un bambino è un “metodo educativo”?


Perché il bambino non si può difendere. Perché un bambino non chiederà mai aiuto per incolpare coloro che ama e di cui ha bisogno. Uno schiaffo è una violazione del corpo, un’offesa alla dignità. Un bambino lo vede come “normale” reazione a un suo comportamento sbagliato, fino a quando non si confronterà con il mondo attorno a lui per scoprire che non tutti i genitori usano gli stessi “metodi educativi” nei confronti dei loro figli. È a questo punto che tutto crolla. Crolla la stima in se stesso, la percezione del valore del dialogo, della comprensione, del rispetto verso il proprio corpo e verso il corpo altrui. Chi ha ricevuto molti schiaffi da bambino, soprattutto da persone che ama, ha recepito il messaggio che si può amare usando violenza verso gli altri ma anche verso se stessi. Vivere amori “malati” e sbagliati, farsi del male, ricadere in situazioni che fanno solamente soffrire può essere il risultato di queste violenze, come dimostrano alcuni studi.


E allora, nel momento in cui scegliamo di schiaffeggiare o sculacciare i nostri figli, assumiamoci la responsabilità del ceffone che, probabilmente, lui conserverà per la sua donna e per il suo bambino. Assumiamoci la responsabilità di crescere dei potenziali uomini violenti e insicuri, delle probabili donne con stati ansiosi e crisi di nervi.


Ho letto di tutto sul web, su vari forum, rispetto a questo argomento. Addirittura, c’è chi sostiene che se molti ragazzi di oggi sono distratti, con pochi valori e, soprattutto, violenti, è perché i loro genitori li picchiano poco e li “proteggono” troppo. A chi la pensa allo stesso modo, consiglio di rileggere i dati delle ricerche sopra citate ma anche di altre che ho riportato in nota.

Mi dispiace, ma su questo argomento non me la sento di dire: “ognuno faccia come vuole e scelga il suo metodo educativo”. Non conosco la storia personale di chi mi sta leggendo. Qualunque sia, non la giudico e la comprendo. Ma che siate stati o meno vittime di violenze corporali, e che le abbiate giustificate o meno, vi invito a riflettere su due aspetti:

  1. La maggior parte delle persone che sono state vittime di violenze corporali, da bambini, considerano l’atto in sé educativo e necessario, senza peraltro riconoscere conseguenze su se stessi.
  2. Il fatto che non si riconoscano conseguenze su se stessi, non autorizza a picchiare i propri figli, anche perché questi, in futuro, potranno maturare una forte consapevolezza di tutto ciò.


Sono vicina ai genitori, e soprattutto alle madri (poiché sono coloro che, generalmente, si prendono maggiormente cura dei figli) che sono spinte alla violenza da stanchezza estrema e solitudine. Posso solo immaginare il senso di colpa con cui hanno a che fare. Il senso di colpa di chi agisce in un momento di estrema disperazione senza che il proprio cervello, in quel momento, abbia cognizione delle conseguenze del gesto. Non giustifico, ma comprendo.


A chi, invece, ha scelto consapevolmente schiaffi, sculacciate, ricatti, punizioni e violenze verbali come metodo educativo, consiglio di iniziare a picchiare e farsi picchiare da qualcuno, nei momenti di rabbia o di capriccio. E sì, perché io credo che siamo noi adulti a essere capricciosi. I bambini hanno bisogni. Desideri. E un mondo sconosciuto da comprendere, nel quale si trovano spesso spaesati e nel quale vogliono essere condotti, aiutati dalle persone che più li amano e che, soprattutto, loro amano incondizionatamente.

Alice Miller e la difesa dei bambini abusati

Sul tema degli abusi psicofisici sui minori e delle relative ripercussioni in età adulta, è molto interessante conoscere gli studi di Alice Miller, una psicologa polacca che ha vissuto per prima violenze psicologiche durante la sua infanzia, riuscendo a riconoscerle e ammetterle in età adulta, dedicando poi la sua vita alla scrittura di libri per la divulgazione delle sue teorie.


Alice Miller (nata Alicija Englard) nacque a Piotrków Trybunalski nel 1923, in Polonia, in una famiglia ebrea. Fu la figlia maggiore di Gutta e Meylech Englard ed ebbe una sorella, Irena, cinque anni più giovane di lei.

Dal 1931 al 1933 la famiglia visse a Berlino, e già a nove anni Alicija imparò la lingua tedesca. A causa della presa del potere dei nazionalsocialisti in Germania, nel 1933 la famiglia tornò a vivere a Piotrków Trybunalski. Qui, Alice Miller riuscì a sfuggire al ghetto, dove tutti gli abitanti ebrei furono internati dall’ottobre del 1939, sopravvivendo alla seconda guerra mondiale a Varsavia sotto il nome di Alicja Rostowska.


Alice riuscì a salvare dal ghetto la madre e la sorella ma non suo padre, che vi morì nel 1941.

Nel 1946, vinse una borsa di studio all’Università di Basilea e si trasferì in Svizzera, dove mantenne il nome Alice Rostovska. Miller è il cognome acquisito dal matrimonio, nel 1949, con il sociologo svizzero Andreas Miller, figlio di un cattolico polacco, con cui si era trasferita dalla Polonia alla Svizzera, per motivi di studio. I due divorziarono nel 1973. Ebbero due figli: Martin (nato nel 1950) e Julika (nata nel 1956).


Poco dopo la morte della madre, Martin dichiarò, nel corso di una intervista al “Der spiegel” che, durante la sua infanzia, era stato picchiato dal padre autoritario. Solo una volta la madre, Alice Miller, intervenne, lasciando che in altri momenti si consumasse la violenza.


Tutto ciò avvenne prima che la Miller prendesse consapevolezza dei pericoli di tali metodi di educazione abitualmente perpetrati durante l’infanzia. Martin nella stessa intervista raccontò che, nonostante parlassero molto, sua madre non era mai riuscita a dire alcunché sul suo vissuto durante la guerra, poiché ne era stata molto segnata.


Nel 1953, Alice Miller conseguì il dottorato in filosofia, psicologia e sociologia. Tra il 1953 e il 1960, studiò la psicoanalisi e la praticò tra il 1960 e il 1980, a Zurigo.


Nel 1980, dopo avere lavorato come psicoanalista e analista per 20 anni, smise di praticare e insegnare la psicoanalisi per esplorare sistematicamente l’infanzia, divenendo critica nei confronti delle teorie di Sigmund Freud e di Carl Jung.

Nel 1985, la Miller scrisse in merito alla sua esperienza da psicoanalista:

Per vent’anni ho osservato la gente che nega i traumi della sua infanzia, idealizzando i genitori e resistendo alla verità sulla loro infanzia con qualsiasi mezzo.

Nello stesso anno lasciò la Svizzera e si trasferì a Saint-Rémy-de-Provence, nella Francia meridionale.

Nel 1986, ottenne il Premio Letterario Janusz Korczak dalla Lega americana contro la diffamazione degli ebrei.


Nell’aprile 1987 annunciò in un’intervista da parte della rivista tedesca Psychologie Heute, il suo rifiuto della psicoanalisi. L’anno successivo, annullò le sue iscrizioni all’Associazione Psicoanalitica Svizzera e all’Associazione Internazionale Psicoanalitica, perché riteneva che la teoria e la pratica psicoanalitica rendessero impossibile, alle ex vittime di abuso minorile, il riconoscimento delle violazioni inflitte, impedendo loro di risolvere le conseguenze di quegli abusi.


Le violenze psicofisiche, secondo la Miller, vengono sempre vissute come colpa personale, e quest’ultima è un’arma di difesa e protezione dei propri genitori.

Uno degli ultimi suoi libri, Bilder meines Lebens (Immagini della mia vita), è stato pubblicato nel 2006. È un’autobiografia informale in cui la scrittrice esplora il suo processo emozionale dalla dolorosa infanzia, attraverso lo sviluppo delle sue teorie e delle sue intuizioni, raccontato mediante l’esposizione e la discussione di 66 suoi dipinti, realizzati negli anni 1973-2005.

Tra il 2005 e il 2010, anno della sua morte, ha risposto a centinaia di lettere di lettori sul suo sito web11, dove sono anche pubblicati articoli e interviste, in diverse lingue. Qualche giorno prima della sua morte, scrisse:

Queste lettere rimarranno un testimone importante anche dopo la mia morte.

Alice Miller è morta suicida il 14 aprile 2010, all’età di 87 anni, a casa sua a Saint-Rémy-de-Provence, dopo gravi malattie e una diagnosi di stadio avanzato di cancro al pancreas.


La Miller ha esteso un modello per includere tutte le forme di trauma e abuso sui minori, compresi quelli che sono comunemente accettati (come la sculacciata), chiamando questo modello “Pedagogia nera”.


Attraverso l’opera della psicostoria12, ha analizzato gli scrittori Virginia Woolf, Franz Kafka e altri, per trovare i legami tra i traumi infantili e il corso e l’esito della loro vita.


L’introduzione del suo primo libro, Il dramma del bambino dotato e la ricerca del vero sé, pubblicato per la prima volta nel 1979, contiene una linea che riassume le sue visioni di base:

L’esperienza ci ha insegnato che abbiamo solo un’arma duratura nella nostra lotta contro la malattia mentale: la scoperta e l’accettazione emotive della verità nella storia individuale e unica della nostra infanzia.

Negli anni Novanta, la Miller ha sostenuto fortemente un nuovo metodo sviluppato da Konrad Stettbacher, che in seguito è stato accusato di violenze sessuali. Aveva avuto modo di conoscere Stettbacher e il suo metodo grazie a un libro di Mariella Mehr intitolato Steinzeit (L’età della pietra). Il testo le suscitò una forte impressione, tanto che decise di parlare con Mariella Mehr per ottenere il contatto del terapeuta. Stettbacher l’aiutò a prendere consapevolezza dei maltrattamenti subiti, a riconquistare i propri bisogni autentici e a vivere un senso di giusta ribellione per il trattamento ricevuto nella prima infanzia. Soltanto per questa via è possibile riprendere contatto con la propria infanzia. La violenza subita è il rimosso per eccellenza, ciò che è al fondo del malessere di molti e della ferocia di alcuni.

Nei suoi scritti, Alice Miller è sempre attenta a chiarire che per “abuso” non intende solo la violenza fisica o l’abuso sessuale, ma si riferisce anche a una forma più insidiosa, ovvero l’abuso psicologico perpetrato da uno o entrambi i genitori sul loro bambino. L’insidia di tale abuso sta nella difficoltà di identificarlo e di affrontarlo, con il rischio che la persona abusata possa nasconderlo a sé e non ne potrà mai essere a conoscenza fino a quando qualche evento drammatico o l’inizio di uno stato depressivo non ne richieda un approfondimento. La Miller ha riscontrato che, alla base di molte nevrosi e psicosi dei suoi numerosi pazienti, c’erano genitori psicologicamente abusivi.


Ha sostenuto che tutti i casi studiati di malattia mentale, dipendenza, crimine e razzismo erano stati causati dalla rabbia e dal dolore soppressi come risultato di un trauma infantile subcosciente che non era stato risolto emozionalmente e che aveva bisogno di un aiuto per essere messo in luce.

In tutte le culture risparmiare i genitori è una legge suprema. Anche gli psichiatri, gli psicoanalisti e gli psicologi clinici hanno paura inconsciamente di incolpare i genitori per i disturbi mentali dei loro pazienti.

Alice Miller

Secondo la Miller, anche i professionisti della salute mentale erano creature della pedagogia nera, interiorizzata nella loro infanzia. Questo spiega perché il comandamento “Onora il padre e la madre” è stato una delle principali linee-guida della scuola di psicologia.

Miller chiamò la terapia elettroconvulsiva13 “una campagna contro l’atto di ricordare”. Nel suo libro Abbruch der Schweigemauer (Abbattere il muro del silenzio) ha anche criticato il consiglio dato dagli psicoterapisti ai loro pazienti, ovvero di perdonare i genitori abusivi, sostenendo che ciò potrebbe solo ostacolare il recupero a causa del ricordo e della riappropriazione di quel dolore infantile. Sosteneva che la maggioranza dei terapeuti teme questa verità, e che essi lavorino sotto l’influenza di interpretazioni avvalorate sia dalle religioni occidentali sia da quelle orientali, che predicano il perdono da parte del bambino colpevole. Credeva che l’assoluzione dei genitori non risolvesse l’odio, ma che lo coprisse in modo pericoloso nel bambino divenuto adulto, come ha ampiamente dimostrato nelle sue psicobiografie di Adolf Hitler e Jürgen Bartsch, in cui ha descritto le conseguenze di gravi abusi da parte dei genitori, avvenuti nelle loro infanzie.
Un comune denominatore, negli scritti della Miller, è la sua spiegazione del perché gli esseri umani preferiscano non sapere della propria vittimizzazione durante l’infanzia, ovvero per evitare un dolore insopportabile. Credeva che la rimozione della consapevolezza sul reale trattamento subìto durante l’infanzia, portasse a diverse conseguenze, come la ripetizione degli abusi subiti sui propri figli o la direzione inconsapevole del trauma subito verso altri (guerra, terrorismo, delinquenza) o verso se stessi (disturbi alimentari, tossicodipendenza, depressione).
  • Le radici della violenza

Secondo Alice Miller, la violenza mondiale ha le sue radici nel fatto che i bambini vengono picchiati in tutto il mondo, soprattutto durante i loro primi anni di vita, quando i loro cervelli si stanno strutturando. I danni causati da questa pratica sarebbero devastanti, ma purtroppo difficilmente notati dalla società.


Poiché i bambini non riescono o è loro impedito di difendersi dalla violenza inflitta, devono sopprimere reazioni naturali come la rabbia e la paura, e queste forti emozioni esploderanno in seguito, da adulti, contro i propri figli o interi popoli:

Gli abusi contro i figli, come lo sculacciare o schiaffeggiare, e le umiliazioni, non solo producono nei bambini infelicità e confusione, ma fanno crescere adolescenti distruttivi che, per la maggioranza dei casi, saranno genitori abusivi anch’essi, contribuendo, a causa di questo circolo vizioso, alla costruzione di una società confusa e irrazionale.

Alice Miller sostiene che solo attraverso la conoscenza di questa dinamica possiamo rompere la catena della violenza.

Di seguito, è riportato un breve riassunto dei suoi libri.

  • Il dramma del bambino dotato e la ricerca del vero sé. Riscrittura e continuazione (1979)

Nel suo primo libro (pubblicato anche sotto i titoli: Prigionieri dell’infanzia e Il dramma di essere un figlio), la Miller ha riconosciuto ed elaborato le personalità che si manifestano a seguito di un trauma infantile. Ha identificato le principali reazioni alla perdita dell’amore nell’infanzia nella depressione e nella mania di grandezza, spesso associata al disprezzo. Miller scrive:

Molto spesso ho analizzato pazienti che erano lodati e ammirati per il loro talento e per i loro successi. Normalmente, queste persone avrebbero dovuto avere un forte senso di autoconsapevolezza, ma in loro avveniva esattamente l’opposto. Lavorando con queste persone, ho scoperto che tutti avevano una storia d’infanzia significativa.

E ne riporta un esempio:

Per un genitore emotivamente insicuro, spesso il suo equilibrio narcisistico dipende da come agisce e si comporta il proprio bambino. Questo genitore è solitamente in grado di nascondere la sua insicurezza al figlio e a tutti gli altri dietro una facciata dura, autoritaria e addirittura totalitaria.

Il bambino, di contro, ha un’incredibile capacità di percepire e rispondere in modo intuitivo, cioè inconsapevolmente, a questa necessità di uno o di entrambi i genitori, assumendo il ruolo che gli è stato inconsciamente assegnato. Lo sfruttamento da parte dei genitori è la percezione che ha il bambino del loro amore, e la sua accettazione gli garantisce una misura di sicurezza esistenziale che soddisfa il suo bisogno di essere accettato e amato.

Questa abilità viene poi estesa e perfezionata. Più tardi, questo figlio non solo diventa genitore (confidente, consigliere, sostenitore) dei loro genitori, ma si assume spesso anche la responsabilità dei fratelli, sviluppando alla fine una particolare sensibilità alle esigenze degli altri.

  • Per il tuo bene (1980)

In questo testo la Miller propone la tesi secondo la quale l’infanzia traumatica tedesca sia stata alla base della tossicodipendenza di Christiane F., del serial killer dei bambini Jürgen Bartsch e del dittatore Adolf Hitler.


Secondo Alice Miller i bambini imparano ad accettare il comportamento abusivo dei loro genitori, considerandolo un modo di agire “a fin di bene”.


Nel caso di Hitler, ha portato al disprezzo verso gli ebrei e altri gruppi minoritari. Per la Miller, il tradizionale processo pedagogico è stato manipolativo e ha contribuito alla formazione di adulti che si sono poi sottomessi eccessivamente alle autorità, anche a leader o dittatori tirannici, come Hitler.


La Miller proponeva di abbandonare il termine “pedagogia” a favore della parola “sostegno”, termine usato anche dagli psicologi per definire la modalità di assistenza genitoriale. Nel capitolo dedicato alla pedagogia nera, la Miller esegue un’indagine approfondita sulla letteratura relativa all’educazione infantile del diciannovesimo secolo, citando testi che raccomandavano pratiche come quella di esporre ai bambini dei cadaveri per insegnare loro l’anatomia umana e le funzioni sessuali, resistendo alla tentazione di confortarli se urlavano, e picchiandoli qualora avessero continuato a piangere. Il fine era quello di fare comprendere che la loro natura era malvagia e doveva essere addomesticata con la violenza.


Lo studio della Miller è qui destinato alla comprensione del perché la nazione tedesca (i “tedeschi buoni”), avesse assecondato il regime abusivo di Hitler, concludendo che la risposta fosse il risultato diretto di come la società in generale tratta i propri figli. Ha sollevato questioni fondamentali sulle pratiche di accudimento dei bambini in tutto il mondo, sostenendo che la violenza non fa altro che generare violenza e che il futuro delle nostre società dipende dal modo in cui trattiamo i bambini.

  • Non devi essere consapevole (1981)

A differenza degli altri libri della Miller, questo è scritto in uno stile semiaccademico. In esso si trova la sua prima critica alla psicoanalisi, accusata di essere simile alla pedagogia nera, che lei descrisse in Per il tuo bene.


Alice Miller è critica sia nei confronti di Freud che in quelli di Carl Jung ed esamina la vita di Franz Kafka, abusato dal padre ma capace di compiere una funzione politicamente corretta, rispecchiando gli abusi nei suoi romanzi metaforici, invece di confessarli apertamente.


  • La chiave incontaminata (1988)

Questo libro è in parte una psicobiografia di Nietzsche, Picasso, Kollwitz e Buster Keaton14.

Secondo la Miller, Nietzsche non ha sperimentato una famiglia amorevole e la sua produzione filosofica è stata una metafora inconscia contro la tradizione teologica oppressiva dei genitori. Credeva che il sistema filosofico fosse difettoso perché non poteva entrare emotivamente in contatto con il figlio abusato dentro di lui. Anche se Nietzsche fu punito gravemente da un padre che aveva perso la ragione quando lui era un ragazzino, Miller non accettò la teoria genetica della follia. Interpretò la sua psicosi come risultato dei modi prussiani di educazione dei bambini.

  • La conoscenza bandita (1988)

In questo libro, la Miller ha confessato che lei stessa è stata vittima di abusi, da bambina. Ha anche introdotto il concetto fondamentale di “testimone consapevole”: una persona disposta a sostenere e aiutare un individuo danneggiato dall’abuso, entrando in empatia con lui e aiutandolo a comprendere il proprio passato.


La conoscenza bandita è autobiografica anche in un altro senso. Questo libro è un indicatore della crisi profonda di Alice Miller nei confronti della psicoanalisi e della propria professione. Credeva che la società stesse accettando le teorie di Freud per non conoscere la verità sulla nostra infanzia, una verità che le culture hanno costantemente “bandito”. La sua conclusione è che i sentimenti di colpa infondati nella nostra mente fin dalla nostra infanzia, rafforzano la repressione anche nella professione psicoanalitica.


  • Abbattere il muro del silenzio (1990)

Scritto in seguito alla caduta del Muro di Berlino, la Miller ha qui fatto un assunto dell’intera cultura umana. Quello che chiama “il muro del silenzio” è la parete metaforica dietro la quale la società – accademia, psichiatri, clero, politici e personale della comunicazione – ha cercato di proteggere se stessa: negare gli effetti distruttivi dell’abuso dei minori. Ha inoltre proseguito la confessione autobiografica avviata nel Das verbannte Wissen [La conoscenza bandita], in merito alla sua madre abusiva. In Bilder Einer Kindhet: 66 acquarelle und ein essay [Immagini di un’infanzia: sessantacinque acquerelli e un saggio], la Miller ha scritto che la pittura l’ha aiutata a riflettere profondamente sui suoi ricordi. In alcuni dei suoi dipinti, ha raffigurato la bambina Alice in fasce, abbracciata da una madre malvagia.

Ho tradito quella bambina […]. Solo negli ultimi anni, con l’aiuto della terapia, che mi ha permesso di sollevare il velo su questa repressione, ho potuto permettermi di sperimentare il dolore e la disperazione, l’impotenza e la rabbia di quella bambina abusata. Solo allora le dimensioni di questo crimine contro la bambina che sono stata, sono diventate chiare per me.


Conclusioni

Ho voluto dedicare largo spazio alle teorie di Alice Miller perché ritengo le sue ricerche interessanti ai fini della comprensione delle ripercussioni che hanno le violenze perpetrate ai danni dei minori.

Là dove non arriva il buon senso, può essere di aiuto la conoscenza. Dove non arrivano entrambe, purtroppo, regna l’ignoranza.


L’importanza del gioco nel rapporto genitore-figlio

Il gioco è l’attività più importante, per un bambino15. Condiviso con i genitori o con gli adulti di riferimento, è di vitale importanza per il suo sviluppo e per il rafforzamento del legame attraverso il contatto e la condivisione. Ecco perché ritengo essenziale dedicare un capitolo al gioco.


Mio figlio, fino a 3 anni, è stato un bambino ad altissimo bisogno di contatto. Chiedeva continuamente la mia presenza, non perché non fosse capace di giocare da solo, ma perché aveva necessità di sentirmi accanto a lui. Ammetto che questo, a un certo punto, ha iniziato a preoccuparmi. Mi chiedevo se assecondare questo suo bisogno estremo di contatto, anche durante il gioco, gli avrebbe fatto bene; se la mia continua presenza non lo avrebbe reso sempre dipendente da me e incapace di essere autonomo. Ho anche tentato di lasciarlo da solo, mentre giocava, ma, avvertendo il suo disagio e la sua frustrazione, sono tornata a fidarmi di me e di lui, pur con qualche momento di inevitabile sconforto.

Oggi che mio figlio ha cinque anni, posso dire di avere fatto bene a fidarmi. Lui ha raggiunto la sua indipendenza in molte cose, soprattutto nel gioco. Ama ancora giocare con me, ma non richiede la mia presenza costante, anzi, a volte mi dice chiaramente che è un gioco che deve fare da solo. È ovvio che ci sarebbe arrivato lo stesso, a questo traguardo, ma se io non avessi rispettato il suo bisogno, avrebbe sperimentato sensazioni di rifiuto, piuttosto che di accoglienza, con tutte le relative conseguenze.


Durante i primi anni, moltissimi bambini hanno bisogno di avere accanto i genitori o le proprie figure di riferimento (nonni, zie, babysitter ecc.) anche mentre giocano. Noi adulti, presi da mille pensieri e incombenze, spesso non ci rendiamo conto che il gioco è il mezzo grazie al quale un bambino fa la sua conoscenza del mondo. E il mondo può essere a volte un luogo invitante e altre volte un posto enigmatico e pauroso. Ricordo che mio figlio, a un certo punto, cominciò ad avere paura di alcuni suoi giocattoli, gli stessi con cui giocava tranquillamente qualche giorno prima: erano giochi con meccanismi musicali. Iniziò a chiedersi, nel suo piccolo cervello di due anni di vita, perché alcuni suoi giocattoli cantassero o si muovessero, e altri no. Cosa li rendesse così “vivi”. E se “vivevano”, potevano fargli del male? Il mio bambino stava sperimentando la paura dell’ignoto mediante la conoscenza dei suoi giocattoli.


Inizialmente lo sgomento fu così forte che, dopo avere tentato di superarlo insieme a lui, decidemmo di mettere da parte, per un po’, quelli che gli stavano creando un vero e proprio terrore. Spingerlo a fare qualcosa contro la sua volontà avrebbe potuto rafforzare questo disagio, lasciando dei segni, a mio parere.


Dopo qualche mese, ci trovammo a parlare di tutto questo, e quando gli chiesi se aveva voglia di rivedere i suoi amici giocattoli, mi rispose in maniera affermativa. Il risultato fu il pieno superamento della paura e l’entusiasmo di rivederli in piena serenità, con un conseguente senso di soddisfazione per la risoluzione dell’emozione negativa.


Certo, la fede nella disciplina dolce ha avuto i suoi effetti positivi. Probabilmente avrebbero funzionato anche metodi diversi, come la sottovalutazione della paura del bambino, l’obbligo a tenere i giochi sotto i suoi occhi e la mortificazione di farlo sentire uno sciocco. Ma forse mio figlio avrebbe finto di non avere paura solo per accontentarci, e magari covare questo sentimento negativo per tutta la vita.


Lasciare giocare da soli i figli anche quando richiedono la nostra presenza, perché siamo stanchi, ci annoia, non ci sentiamo capaci o perché riteniamo che debbano imparare a giocare in autonomia, va a minare la soddisfazione di un bisogno primario.

Ovviamente non per tutti i bambini è così. E, regola che vale per qualsiasi cosa, non esiste nel mondo infantile uno standard universale. Ogni bambino ha i suoi tempi e il suo carattere. Il compito di noi genitori è quello di stare loro vicino e accompagnarli nella loro crescita.


Tutti i bambini chiederanno, prima o poi, di giocare e di sperimentare in autonomia. Anche quella, è una loro richiesta, accolta con maggiore entusiasmo da gran parte dei genitori in quanto comporta uno sgravio di responsabilità, un tempo maggiore da dedicare a se stessi e un comportamento da mettere in luce e da sottolineare, rispetto alla più o meno velata “vergogna” di avere un figlio che richiede continuamente presenza e attenzioni.


Perché ci sarà sempre qualcuno che darà una definizione diversa all’alto contatto, chiamandolo “morbosità, insicurezza, inesperienza, follia…”

Io, lo chiamo semplicemente “ascolto”.

L’importanza della co-genitorialità per lo sviluppo del bambino e della coppia

Un aspetto molto importante, nella crescita di un bambino, riguarda la possibilità di avere entrambi i genitori orientati verso lo stesso stile genitoriale. Ovviamente, in linea con tutto il pensiero esposto in questo libro, l’ideale sarebbe riuscire ad indirizzarlo verso un tipo di disciplina positiva che, come dimostrato anche grazie alle numerose fonti scientifiche citate, concorre a gettare una base sicura per il futuro dei nostri figli. Molte ricerche e studi, infatti, sono concordi nel sostenere che stili genitoriali autoritari e punitivi, ma anche troppo permissivi, possono portare alla futura emersione di crisi depressive, disturbi della personalità e propensione all’utilizzo delle droghe.


Molti aspetti della vita di una persona possono influenzare il suo stile genitoriale. Innanzitutto quello dei suoi genitori, ovvero il modo in cui l’adulto è stato educato e cresciuto, ma anche le sue paure e le sue speranze possono condizionarlo nell’applicare un tipo di stile piuttosto che un altro. Oppure, ancora, i libri e i numerosi manuali (molti dei quali dannosi) che forniscono consigli pratici e dettagliati su come educare i bambini.


Importanti sono anche i fattori culturali, come i ruoli di genere, la comunità in cui vive la famiglia, le religioni, la politica, lo stato socioeconomico e le norme etniche.


Quando gli stili genitoriali si scontrano, i bambini ricevono messaggi incoerenti che creano confusione, impedendo loro di comprendere quale sia il modo giusto di agire o agendo in base alla risposta che si aspettano da uno o dall’altro genitore. Le differenze nello stile genitoriale spesso aumentano il conflitto in una relazione poiché se essere genitori è già un compito difficile, esserlo in disaccordo mette in moto meccanismi che spesso minano la serenità della coppia e quindi dell’intera famiglia.


Gestire stili genitoriali differenti non è però sempre impossibile; a volte si possono completare a vicenda e si può inviare un messaggio coerente anche ai propri figli. Stili genitoriali dissimili, infatti, non comportano necessariamente dei danni al bambino o alla coppia. In alcuni casi le divergenze possono aiutare il bambino a comprendere come le persone, seppure diverse, possono convivere nel rispetto reciproco delle idee. Fanno capire loro come le differenze possono essere complementari e non devono necessariamente provocare conflitti. Inoltre, i bambini non devono per forza avere una relazione identica con ogni genitore, ed è importante ricordare che “diverso” non deve significare migliore o peggiore. Per i genitori, diventa una possibilità di raggiungere un equilibrio attraverso la differenza. Siamo individui e abbiamo modi individuali di gestire le situazioni. Il segreto sta nel non svalutare il lavoro dell’altro. L’eventuale disappunto potrà essere manifestato, ma non davanti ai bambini.


La funzione più importante della co-genitorialità è quella di dimostrare ai figli che, anche se si hanno caratteri differenti, i genitori collaborano per il loro sano sviluppo e la loro serenità. Ovviamente, per riuscire a trovare un equilibrio, c’è bisogno di molto lavoro da parte di entrambi.


Raggiungere uno stile di genitorialità individuale consapevole e utile, poi, comporta uno sforzo continuo ancora maggiore: siamo ciò che siamo, ma possiamo e dovremmo anche migliorare. Essere noi genitori, a nostra volta, figli di genitori autoritari e punitivi i cui metodi “ci hanno cresciuti comunque e bene”, non ci deve portare necessariamente a credere che lo stesso stile sia adatto per i nostri figli e dovrebbe anzi condurci a una seria e profonda analisi di quanto, in realtà, quel tipo di disciplina ci ha lasciato in termini di serenità e fiducia in noi stessi.


La genitorialità richiede una valutazione e un aggiustamento costanti in base allo sviluppo e al temperamento del singolo bambino. Lo stesso vale per i genitori insieme, come unità. Il compromesso è necessario e l’interesse del minore dovrebbe sempre ricevere la massima attenzione.


Lo stile genitoriale ha due componenti principali. Uno è il grado di controllo che un genitore tenta di esercitare sul figlio. L’altro è la quantità di calore e affetto che dimostra.

I ricercatori spesso dividono lo stile genitoriale in quattro categorie. Queste categorie raggruppano le tipologie di genitori e indicano come questi rispondono generalmente alla gestione delle emozioni dei bambini (rabbia, frustrazione, tristezza ecc.). I quattro stili genitoriali sono:


  • Autoritario

Questi genitori sono severi ed esercitano alti livelli di controllo sui loro figli. Possono mostrare poco calore e rispondono a un “capriccio” con punizioni o urla. Generalmente non si chiedono il motivo che ha scatenato nel bambino una crisi di nervi o un atteggiamento di sfida, ma si concentrano esclusivamente sull’azione per intervenire in modo duro su di essa.


  • Autorevole

I genitori autorevoli sono relativamente severi e applicano le regole che adottano. Mostrano affetto e in genere rispondono alla collera stabilendo confini chiari su ciò che è accettabile e ciò che non lo è. Tentano quindi di comprendere il motivo che ha scatenato la crisi, aiutando il bambino stesso a riconoscerlo, intervenendo in maniera forte ma non punitiva. I genitori autorevoli, quindi, sono più propensi ad occuparsi delle emozioni dei bambini.


  • Permissivo

Questi genitori mostrano molto amore ma impongono pochi limiti. Un genitore permissivo potrebbe non rispondere affatto a un capriccio. In alternativa, potrebbe farlo promettendo o facendo un regalo, per placare la sua rabbia, senza comprenderne il motivo e senza lavorare affinché l’emozione che l’ha scatenata sia riconosciuta da entrambi per essere gestita diversamente in futuro.


  • Non coinvolto o trascurato

I genitori negligenti non applicano regole chiare. Possono mostrare poco o nessun interesse per il bambino. Un genitore non coinvolto potrebbe non notare un “capriccio” o fare finta che non esista, semplicemente ignorandolo.


La maggior parte della ricerca è concorde nel sostenere che la genitorialità autorevole è lo stile più efficace perché mostra rispetto per il bambino senza trascurare l’attenzione alle norme sociali.


Quella autoritaria, al contrario, forza i bambini ad essere “obbedienti” semplicemente per la paura di trasgredire a un genitore punitivo e per quella di poterlo deludere, inducendo il bambino a diventare un adulto con difficoltà a mostrare la sua vera natura e le sue vere necessità per timore di deludere le aspettative degli altri. Alcune ricerche collegano la genitorialità autoritaria con un aumentato rischio di comportamenti problematici, tra cui l’abuso di sostanze stupefacenti.


I genitori permissivi potrebbero anche sviluppare autostima nel bambino, ma la mancanza di confini può, anch’essa, aumentare il rischio di comportamenti problematici. I bambini altamente motivati, che non hanno modo di riconoscere e accettare i propri limiti e i punti deboli come caratteristiche naturali e presenti in ogni essere umano, potrebbero avere problemi nella vita scolastica e sociale; questo potrebbe altresì portarli ad assumere comportamenti scorretti.


La genitorialità negligente può essere altamente dannosa. I bambini con genitori disattenti hanno spesso una scarsa comprensione delle norme sociali, difficoltà di comportamento, di apprendimento e di interazione con gli altri.

Riconoscere a quale stile si appartiene può essere il primo passo per analizzare il proprio ruolo genitoriale e provare a cambiare, perché cambiare si può, per il bene del bambino, in primis, ma anche per il proprio.


Una volta compreso il nostro stile, dovremmo chiarire con il nostro partner quali sono i valori principali che vogliamo trasmettere ai nostri figli e in quale modo vogliamo agire e intervenire per gestire varie e diverse situazioni, ponendo dei limiti sugli atteggiamenti dell’altro che non condividiamo e che consideriamo altamente dannosi. L’ideale sarebbe non intervenire mai in fase di conflitto tra genitore e bambino (a meno che non si verifichino casi violenti) e rimandare i chiarimenti e le discussioni quando i figli non sono più presenti. In tal modo, si lavora ad un accordo che può impiegare molto tempo per delinearsi, ma che non mostra scene di alto conflitto genitoriale al bambino.


Qualsiasi differenza nello stile genitoriale può portare a conflitti. Anche due genitori che condividono uno stile simile possono discutere. Ad esempio, due genitori autorevoli possono concordare sull’importanza delle regole, ma non su come e quando applicarle. I castighi sono accettabili? Quando un bambino dovrebbe essere ripreso? Quali comportamenti sono vietati?

Differenze significative nello stile genitoriale possono portare a comportamenti problematici nei bambini.

Alcuni esempi comuni di scontri di stili sono:

  1. Autoritario contro autorevole. Questi genitori potrebbero dissentire su quanto affetto dimostrare. Possono discutere sulla necessità o meno di punire un bambino, su quando dovrebbe essere data la punizione e su quanto severa debba essere, sulle ricompense per un buon comportamento.

  2. Autorevole contro permissivo. I genitori permissivi e autorevoli possono concordare sulla necessità di dimostrare amore e affetto, ma possono avere forti divergenze su quali regole applicare e su come applicarle.

  3. Permissivo contro non coinvolto. I genitori permissivi vogliono dimostrare ai figli molto amore. I genitori non coinvolti possono mostrare loro poca o nessuna interazione. Ciò può far sentire il genitore permissivo sopraffatto dalla quantità di cure che deve fornire.

  4. Autoritario contro permissivo. I genitori autoritari e permissivi possono non essere d’accordo sulle punizioni dei bambini. Quelli permissivi potrebbero persino considerare gli autoritari come violenti. Allo stesso tempo, i genitori autoritari possono vedere i genitori permissivi come negligenti.

  5. Autorevole contro non coinvolto. La genitorialità autorevole è genitorialità ad alto impegno. Offre una guida significativa e molte dimostrazioni di affetto. I genitori non coinvolti possono preferire di rimanere in disparte. Questa coppia genitoriale potrebbe vivere numerosi e forti conflitti.


Tali differenze non sono certo gli unici motivi di conflitto all’interno di una coppia. I valori culturali, le convinzioni sulle norme sociali o le opinioni politiche possono portare a importanti disaccordi. Ad esempio, alcuni genitori vedono la sculacciata come una forma di abuso mentre altri la vedono come normale e necessaria modalità disciplinare.


  • Come provare ad andare d’accordo, quindi, quando gli stili genitoriali differiscono?

Essere genitori può risultare un lavoro estenuante ed emotivamente intenso. Alcune persone traggono gran parte dell’immagine che hanno di sé dal loro ruolo di genitore o dagli atteggiamenti del bambino. Se un bambino ha comportamenti problematici e difficili da gestire, il genitore spesso si sente frustrato, indebolito e messo in crisi dalla sua percepita inabilità nello svolgimento del suo ruolo. Il punto di partenza dovrebbe invece essere quello di capire il comportamento problematico del bambino per rivedere il proprio atteggiamento e il proprio modo di intervenire. Una volta compreso ciò, si può lavorare come coppia per assicurare una co-genitorialità coerente e pacifica, per quanto possibile.

Ecco l’iter suggerito dagli specialisti per tentare di ritrovare la strada della co-genitorialità:


- Cercate di scoprire se i diversi stili genitoriali possono completarsi a vicenda. Ad esempio, un genitore permissivo può aiutare un genitore autoritario ad essere più affettuoso. Nello stesso tempo, un genitore autoritario può sostenere uno permissivo nella definizione dei confini.


- Sviluppate una serie di regole familiari sulle quali tutti possono essere d’accordo. Queste includono regole per i bambini e regole su come disciplinarli. Due genitori potrebbero essere d’accordo sul fatto che la sculacciata non è mai accettabile. Possono quindi decidere che i bambini debbano perdere i privilegi o subire un’altra penalità se, ad esempio, colpiscono altri bambini.


- Non entrate in conflitto davanti ai bambini. I genitori devono presentare un fronte unito. A meno che un bambino non sia in pericolo, ad esempio a causa di un genitore che sta ferendolo, è meglio discutere i conflitti in seguito. Sostieni le decisioni genitoriali del tuo partner anche quando non sono quelle che avresti preso.


- Informatevi sull’argomento. Leggete libri sulla genitorialità e discuteteli, oppure unitevi a un gruppo di supporto ai genitori. Selezionate esperti genitoriali di cui entrambi vi fidate.


Quando altre strategie non funzionano, la consulenza familiare o la terapia di coppia possono aiutare, consentendo ai membri della famiglia di capirsi meglio e aiutando a comprendere quale sia l’approccio migliore per gestire le emozioni e i comportamenti dei bambini.


Il punto importante è non trascurare il problema perché sia la coppia genitoriale che i bambini ne pagheranno il prezzo. È nel migliore interesse di tutti risolvere i problemi dei genitori il più rapidamente possibile, in modo da poter godere dell’esperienza della genitorialità ma anche di dare ai propri figli il meglio che ogni genitore è in grado di dare.

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Romina Cardia
Genitorialità ad alto contatto e disciplina dolce.Che cosa significa maternità ad alto contatto? Allattamento, babywearing, cosleeping e disciplina dolce per una crescita serena. Che cosa significa maternità ad alto contatto e quali sono i suoi vantaggi?Partendo dalla sua esperienza personale e rifacendosi alle più recenti ricerche scientifiche, Romina Cardia tocca in Ascoltami tutti i temi fondamentali della vita con un bambino piccolo, mostrando come l’allattamento, il babywearing, il cosleeping (o bed-sharing) e la disciplina dolce siano pratiche a favore di una crescita serena e di una genitorialità soddisfacente. L’ebook di questo libro è certificato dalla Fondazione Libri Italiani Accessibili (LIA) come accessibili da parte di persone cieche e ipovedenti. Conosci l’autore Romina Cardia ha collaborato con diverse testate giornalistiche e cura il blog Amore di mamma, tesoro di donna in cui affronta il tema della maternità e genitorialità, analizzandolo nelle sue mille sfaccettature.