capitolo 1

Tutto scorre e si trasforma

Nessun uomo entra mai due volte nello stesso fiume, perché il fiume non è mai lo stesso, ed egli non è lo stesso uomo. 


Eraclito

Qualsiasi cosa stia succedendo in questo preciso momento, chiunque voi siate proprio ora, tra cinque righe non sarà più così. Non è una di quelle promesse da prestigiatori, è proprio la realtà dei fatti. Tutto cambia, ogni istante. Lo scrittore e psicoterapeuta Wayne W. Dyer scriveva:

Tutto si trasforma. Il cambiamento fa parte del processo vitale, come l’alternarsi del giorno e della notte. Tutto è destinato a cambiare, è una previsione che posso fare con assoluta certezza. Come esseri umani siamo costantemente in evoluzione. I nostri corpi si trasformano, giorno dopo giorno; i nostri atteggiamenti sono in costante evoluzione. […] Le incrollabili certezze di ieri, oggi non sono più tali. I massi di granito, col tempo, si trasformano in sabbia. Le onde erodono e sagomano nuovi profili alle coste. I palazzi diventano ruderi e sono sostituiti da costruzioni moderne, che, a loro volta, saranno demolite. […] Capire questa elementare verità è importante per essere persone senza barriere, desiderose di educare figli senza barriere.2

Ancora prima di lui, 2500 anni fa, il filosofo greco Eraclito ragionava intorno al fatto che «Nulla è durevole quanto il cambiamento. Non c’è nulla di immutabile, tranne l’esigenza di cambiare. Tutto fluisce, nulla resta immutato». 


Il disguido è che a noi umani questa idea non piace proprio per niente. Il termine “cambiamento” viene percepito dal cervello come un allarme rosso che fa correre ai ripari. Perché? Perché tra i bisogni più radicati della nostra specie c’è indubbiamente quello di sicurezza. Curiosa dinamica questa, visto quanto la nostra realtà abbia come unica certezza, l’incertezza


Il cambiamento, anche quando è previsto, come nel caso del processo di crescita e invecchiamento, viene comunque percepito come qualcosa di inatteso, che lascia in qualche modo spiazzati. È così che al primo capello bianco, alla prima ruga, o alla prima volta in cui i nostri figli ci chiedono le chiavi di casa, se una parte di noi sapeva che sarebbe successo, l’altra parte si oppone e si lamenta: “Non me lo aspettavo, non adesso, non così”. Peggio ancora quando il cambiamento è davvero imprevedibile, repentino, inaspettato, come nel caso di un lutto improvviso, una catastrofe naturale o – facciamo finta –, una pandemia. Sono situazioni in cui siamo obbligati a rivedere di punto in bianco gran parte delle certezze cui eravamo abituati, a ridisegnare la nostra mappa di mondo. La citazione di Dyer continua così:

La domanda importante che dobbiamo rivolgerci non è se ci piacciono i cambiamenti. Che ci piacciano o no, non ha importanza; i cambiamenti hanno luogo indipendentemente dall’opinione che abbiamo di essi. La questione importante è: come insegnare ai figli ad affrontare quel fenomeno detto cambiamento, come comportarsi, a tale riguardo, nella vita di tutti i giorni?3

Abbiamo a questo punto almeno due possibilità di scelta: la prima è dire “no” a tutto questo, ovvero cercare di mantenere il più possibile il controllo sulla realtà, opponendoci al cambiamento, cercando di costruirci attorno delle ancore di sicurezza alle quali restare aggrappati con tutte le forze. In questo caso i tentativi di far stare tutto insieme si rivolgeranno all’esterno, si cercherà di fermare il mondo, di aggiustare il futuro, o nel migliore dei casi di far buon viso a cattivo gioco rispetto alle rabbie e alle paure che facilmente ci si troverà ad affrontare. La seconda opzione è dire “sì” a ciò che è, accogliere il cambiamento e adattarci ad esso. L’attenzione sarà pertanto rivolta verso l’interno, per esercitare il nostro vero potenziale di cambiamento nell’unica direzione efficace: noi stessi. 


Facile? Con ogni probabilità, no. Ma nessuno ha mai detto che debba esserlo. La vera domanda che dobbiamo porci non è se sia facile, ma se ne valga la pena. Imparare a gestire il conflitto percepito tra le nostre necessità psicologiche e la realtà sembra essere l’unica possibilità che abbiamo di vivere una vita felice. Ne vale la pena? Per tentare una risposta riporto nuovamente l’ultima frase della citazione di Dyer: «Capire questa elementare verità è importante per essere persone senza barriere, desiderose di educare figli senza barriere».

Crescere individui senza barriere non significa lasciarli allo sbaraglio, senza limiti e senza regole. Al contrario, vuol dire prendersi la responsabilità di coltivare nei figli l’attitudine ad apprezzare la vita senza inibizioni, guidandoli ad avere un atteggiamento positivo verso se stessi e verso gli altri. Significa ancora metterli nella condizione di saper affrontare le difficoltà che inevitabilmente incontreranno, con coraggio e fiducia; abituarli a rifiutare pregiudizi e omologazioni del pensiero, favorendo la costruzione di un’identità libera e creativa; sviluppare in loro la consapevolezza e il senso di responsabilità rispetto ai loro pensieri e comportamenti; coinvolgerli affinché sviluppino un atteggiamento sensibile e rispettoso verso sé, gli altri e il pianeta. In poche parole, significa adoperarsi perché i figli si sentano amati e siano capaci di amare. 


Il libro che ora avete tra le mani parla esattamente di questo: dell’opportunità che noi adulti abbiamo di costruire nuove consapevolezze capaci di liberarci e liberare; parla della nostra responsabilità a proposito di questo nei confronti dei bambini. Non solo dei figli nostri, ma di quelli di tutti, dei bambini in generale, del futuro del mondo. 


Questi ultimi due anni delle nostre vite ce l’hanno indubbiamente dimostrato4: la vita è cambiamento, e molti elementi di questo processo sono fuori dal nostro diretto controllo e possono scuotere le fondamenta delle più radicate certezze. Che potere abbiamo? Quali scelte? Certo la rabbia, la tristezza, l’angoscia, la paura. Ma anche la consapevolezza, l’accettazione, la gioia di vivere nonostante tutto. Guardando negli occhi i nostri figli, sono certa che loro vorrebbero leggerci dentro la seconda opzione.

Questo libro parla, in ultima analisi, di felicità. Ma come?, si chiederà, vengono affrontati temi quali l’incertezza, la paura, il cambiamento, persino la morte e il lutto. Come chiamarla felicità? Ma la felicità di cui qui andremo a parlare non è quella illusoria ed effimera delle formule “Se solo…” o “Solo quando…”, bensì quella consapevole e salda del “Nonostante tutto”. 


Una delle ragioni per cui la realtà ci risulta così faticosa da accogliere così com’è deriva dal modo in cui la definiamo a parole e dal modo in cui definiamo noi stessi. Noi siamo le parole che pensiamo e pronunciamo, e reagiamo alle situazioni per come le definiamo. Siamo noi i più efficaci narratori della storia del (nostro) mondo. Di quello stesso mondo dentro al quale generiamo altre vite: vale la pena essere consapevoli di cosa (ci) stiamo raccontando.

Crisi e cambiamento 


Non esistono problemi,
solo situazioni. 

Osho

Consideriamo quali sono gli accadimenti della nostra vita che chiamiamo “problemi” e ci renderemo facilmente conto che si tratterà di qualsiasi evento o condizione che si distacchi dalle cose come le vorremmo. Maggiore è il divario tra l’aspettativa e la realtà, tanto più pesante sarà il fardello del “problema” che sentiremo gravare sulla schiena. Il primo passo da fare è quello di riconoscere che non esistono problemi, ma solo situazioni. Non è un problema che l’azienda nella quale lavoriamo fallisca e chiuda, che arrivi una pandemia a rivoltare le carte, che subito dopo si finisca sull’orlo di una crisi internazionale. È semplicemente ciò che è. L’inghippo dunque non è tanto quello di desiderare come le cose dovrebbero andare, ma affezionarsi a quel desiderio, aggrapparcisi ostinatamente, e iniziare a credere che la vita, le cose, le persone, noi stessi, vadano bene solo se corrispondono alla nostra idea di ciò che è da considerarsi giusto, buono o bello. Ma le situazioni non sono mai sbagliate, brutte o ingiuste in sé, lo diventano solo se confrontate con l’immagine che abbiamo di esse. Le situazioni non hanno il potere di rendere infelici. Possono essere dolorose, ma non rendere infelici. Sono i significati che diamo loro, ovvero le interpretazioni e le storie che ci costruiamo intorno, a renderci infelici. Il problema nasce dal rifiuto, dall’incaponirsi a voler cambiare ciò su cui non abbiamo alcun potere diretto, anziché prenderne atto e considerare quali siano le reali scelte a nostra disposizione. 


Perdite, separazioni, cambiamenti non sono problemi; lo diventano solo in virtù della nostra opposizione al loro accadere. Sono eventi che rompono le nostre illusioni di stabilità, aprendo quelle che chiameremo le crisi della vita. Di fronte alle crisi la scelta più utile che abbiamo è accoglierle e intravedere in esse più che un mostro da rifuggire una risorsa per la nostra crescita ed evoluzione. Le crisi ci invitano a cambiare, a trovare un equilibrio dinamico anziché statico, a ridefinire e ridefinirci. In poche parole, a cambiare la narrazione. 


Osserviamo cosa significhi nei fatti “cambiare”. Si tratta certamente di una dinamica nella quale sono racchiusi contemporaneamente e necessariamente almeno due movimenti: un “lasciare andare” qualcosa, e un “andare verso” qualcos’altro. La maggior parte delle fatiche emotive e psicologiche derivanti dal rifiuto verso il cambiamento è che il nostro cervello tende a vedere solo il versante del lasciar andare, concentrandosi e soppesando quasi esclusivamente tutto ciò che in quel contesto si andrà a perdere. E perdere è un concetto che piace a pochi. Pertanto, se cambiare risulta percettivamente un rinunciare a qualcosa, ecco l’immediata attivazione del nostro allarme rosso: paura, rifiuto, fuga.

E se invece provassimo a ri-definire il cambiamento in termini di ri-composizione? Come recita il postulato fondamentale di Antoine-Laurent de Lavoisier: «Nulla si crea, nulla si distrugge, tutto si trasforma», noi compresi. La sola prospettiva della perdita non considera l’altro versante necessariamente coinvolto nel processo di cambiamento, ovvero l’andare verso: ogni cosa che lasciamo andare ci consente di aprirci a nuove opportunità, nuove esperienze e acquisizioni, nuove consapevolezze. La complessità delle situazioni, il cambiamento, l’incertezza non sono problemi, ma situazioni dalle quali trarre opportunità di espansione della nostra intelligenza, creatività e capacità di risposta. Accogliere il cambiamento ci espande. Scrive la psicologa e psicoterapeuta Alba Marcoli nel suo libro Passaggi di vita: le crisi che ci spingono a crescere:

[...] una delle altre caratteristiche della crisi, una volta esaurito il suo decorso naturale, è proprio quella di arricchire le nostre risorse e il bagaglio di vita che ci accompagna. [...] Una volta che qualcosa è stato acquisito è un patrimonio che accompagna e resta nel tempo, oltre a rappresentare la testimonianza di una piccola o grande crisi superata. [...] Non c’è come l’aver attraversato e superato le difficoltà di una crisi che ci permetta di fidarci di noi stessi e delle nostre risorse. [...] È questa, paradossalmente, l’esperienza di cui viene privato il bambino al quale gli adulti cerchino sempre di spianare la strada.5

È questo pertanto il presupposto dal quale partire quando si immagina di consegnare ai propri figli le chiavi per vivere una vita felice: la vita è un processo fatto di continui cambiamenti e relative crisi, più o meno perturbanti, che possono diventare “trampolini di lancio” verso un indispensabile adattamento alla realtà, ovvero verso la propria evoluzione. Ogni crisi evolutiva ha una sua intrinseca vitalità, ovvero è:

la cerniera che permette di aprire nel tempo le porte successive alla vita, [...] un «guado difficile» che una volta attraversato arricchisce il nostro bagaglio di vita e ci permette non solo di arrivare a un’altra tappa, ma anche di arrivarci più attrezzati di prima.6

Certamente, come c’è un tempo nella vita per ogni cosa, alla stessa stregua ogni cosa ha i suoi tempi:

Di solito ci vogliono nove mesi perché nasca un cucciolo dell’uomo, ma ogni altra specie ha una «propria» attesa di preparazione alla vita. Ogni seme ha un suo periodo per stare sotto terra e poi, a poco a poco, per germogliare e crescere. Anche le nostre azioni abituali e quotidiane hanno i loro tempi: quello dell’alzarsi, del lavarsi, del vestirsi, del fare colazione, del prepararsi per le attività della giornata, e così via… E non sono gli stessi neanche per la medesima persona, quando si hanno sessant’anni e più. [...] Anche per le banali attività del vivere ci vuole un tempo. Persino le ricette di cucina indicano sempre quanto ci si mette per preparare quel particolare piatto. [...]. Per non parlare poi della vita sulla terra, dei cicli lunari, solari, di quelli delle stagioni, dei cicli ormonali, e così via. La vita stessa sembra ruotare intorno al tempo necessario a ogni evento del vivere, cambiamenti compresi.7

Il punto a cui l’autrice vuole condurci è che: «Anche una crisi ha i suoi tempi, come ogni altra cosa». Ogni crisi ha un suo tempo di adattamento, che non dipende esclusivamente dall’entità dell’evento che l’ha scatenata, ma soprattutto da come viene affrontata dall’individuo che la vive: «non è il tempo che aiuta a superare le crisi, è il nostro io che lavora nel tempo»8


Le crisi sono dunque condizioni in cui ci vediamo costretti a mettere in discussione la definizione statica di noi stessi, a ri-definirci. Tutto gira intorno a una domanda centrale, che ci accompagna per tutta la vita e sulla quale costruiamo la stessa realtà che si pone la domanda: chi sono io?

IO: CHI?
conosci te stesso
La mancanza di definizione è ciò che sei.


Pierre Leré Guillemet

Io chi sono?
Domanda che fa tremare i polsi a ogni uomo di ogni tempo. Come definirsi senza ridursi? Come definirsi senza separarsi? Come definirsi senza sentirsi via via più soli? Come definirsi senza perdersi? 


Eppure definirsi è un bisogno così profondo per l’essere umano che, da sempre, ci rivolgiamo non solo al nostro interno ma a qualsiasi fonte esterna che reputiamo accreditata (maestri, maghi, astrologi, filosofi, psicologi...) alla ricerca di una risposta che soddisfi almeno temporaneamente questo bisogno. Esiste una risposta definitiva e soddisfacente a questa domanda? Lo senti quel moto di ribellione che sorge dal profondo di te stesso ogni qualvolta qualcuno cerca di intrappolare il tuo Essere all’interno di una definizione? 


Come armonizzare il bisogno di definirsi con quello di sfuggire alla prigione costituita da qualsiasi definizione?
Tentiamo qui una descrizione della struttura di ciò che chiamiamo IO che forse può aiutarci a comprendere e conciliare queste due istanze. Immaginiamo l’Io come un insieme di strati successivi concentrici e sempre più dettagliati nelle definizioni.

Alla domanda: Chi sono IO? potremmo rispondere: Io sono un E S S E R E • UMANO • MASCHIO/ FEMMINA • COGNOME • NOME • SOPRANNOME

Esploriamo uno a uno questi strati. 


ESSERE Io sono colui che è (Esodo 3,13 - 15)
Tutto ciò che è, È. Non c’è dualità a livello dell’Essere.
Il livello dell’Essere è il nucleo essenziale che ci connette con tutto l’esistente, con l’esistenza stessa. Quando la nostra consapevolezza è in contatto con questo livello facciamo l’esperienza di totale pace e appagamento che derivano dalla coscienza della non dualità, della non separazione. Nell’unità non c’è conflitto possibile. Il livello dell’Essere è quello in cui percepiamo il divino in noi e in ogni cosa.


UMANO Homo sum humani nihil a me alienum puto – Sono un uomo e nulla di ciò che è umano mi è estraneo (Publio Terenzio Afro) 

La definizione di umano segna il primo livello di separazione. Essere umani ci definisce in termini biologici attraverso limiti e potenzialità specie-specifiche. Ci mantiene uniti all’Umanità ma ci separa da tutto il resto dell’esistente. Ci dice cosa possiamo essere, ma anche cosa ci è negato di essere e ciò che ci è alieno in quanto non umano. Crea la prima contrapposizione e di conseguenza il primo campo di potenziale conflitto tra io e non io. 


MASCHIO/FEMMINA Senza entrare nella complessa problematica gender, già solo la differenza biologica o fisica tra maschile e femminile stabilisce un nuovo livello di definizione e quindi di separazione, un nuovo limite e una nuova contrapposizione. 


COGNOME Il cognome rappresenta in sintesi il sentiero specifico che la vita ha percorso per arrivare fino a noi; il nostro bagaglio genetico e genealogico, trasportato di generazione in generazione attraverso la catena di individui che ci hanno consegnato la vita e la responsabilità di proteggerla e perpetuarla. Rappresenta l’insieme delle caratteristiche genetiche che hanno superato il severo processo di selezione naturale connesso all’imperativo adattivo e l’insieme delle strategie messe a punto dai nostri avi per affrontare e superare specifiche sfide situazionali, che ha garantito la sopravvivenza in determinati contesti sociali, storici e geografici. Rappresenta il nostro sapere inconscio, la nostra eredità di risposte automatiche così come di conflittualità. Ci mantiene uniti al nostro sistema familiare ma ci separa da tutti gli altri esseri umani che sono giunti accanto a noi nella vita da sentieri diversi.

NOME Nomen omen – Un nome, un destino 

Il nome rappresenta il nostro progetto-senso. Ciò che siamo chiamati ad essere e che si incarna nel nostro manifestato fisico e nel daimon. Il nome parla della nostra individualità, del nostro essere unici e irripetibili attraverso i limiti, le potenzialità e le vocazioni. Il nome ci separa da tutti gli altri individui (compresi quelli appartenenti al nostro sistema familiare) attraverso un corpo e un destino che sono assolutamente personali. 


SOPRANNOME Il soprannome rappresenta il personaggio, la maschera. Esso è il risultato della nostra storia personale, dell’insieme degli adattamenti psico-fisici alle condizioni ambientali, storiche relazionali cui siamo stati sottoposti. Rappresenta l’insieme delle memorie personali, relative agli eventi a cui abbiamo dovuto far fronte, la mappa di mondo che abbiamo disegnato in conseguenza di tali eventi, l’insieme delle strategie di adattamento che abbiamo maturato. È ciò che crediamo di essere e l’immagine che vogliamo dare di noi al mondo. È il massimo grado di separazione perché ci separa anche da noi stessi in tutte quelle occasioni in cui l’immagine che vogliamo proiettare contrasta con i bisogni e le vocazioni della nostra individualità, in tutte quelle occasioni in cui neghiamo rifiutiamo e reprimiamo parti di noi. La maschera crea una contrapposizione e un potenziale terreno di conflitto tra ciò che siamo e ciò che vorremmo essere o riteniamo di dover essere.

Torniamo, quindi, alla nostra domanda: chi sono IO? La risposta dipende, di volta in volta, dal livello di definizione con il quale la nostra coscienza si identifica. In quale di questi livelli si nasconde la sofferenza? Dove nascono i problemi? Più andiamo nella direzione del personaggio più aumentano le probabilità di percepire le situazioni come problematiche, di definire un evento come problema, di sentirci in conflitto con… e di soffrire. Più andiamo nella direzione dell’Essere, più abbiamo accesso alla creatività per trovare le buone risposte alle situazioni che la vita ci pone di fronte, e più accediamo allo spazio in cui la conciliazione e la pace sono possibili. 


Più andiamo nella direzione del personaggio più il cambiamento viene percepito come una minaccia; più andiamo nella direzione dell’Essere, più siamo in grado di trasformarci e adattarci alla realtà. 


Il bisogno di definirsi è fondante per la costruzione della nostra individualità. Tuttavia la vera conoscenza di sé procede dal massimo livello di definizione (soprannome) al minimo (essere) e poiché, come ci insegna Albert Einstein, i problemi non possono essere risolti allo stesso livello di conoscenza che li ha creati, la risoluzione dei problemi si trova sempre al livello di definizione inferiore a quello in cui sono sorti. Un problema creato a livello del soprannome trova la sua soluzione al livello del nome e così via. Man mano che la coscienza risale dal personaggio all’essere, la consapevolezza di sé si espande.

Quando si percepisce una rottura nell’equilibrio precedente e nella nostra sensazione di continuità si iniziano a sperimentare più o meno intense emozioni di incertezza, paura, rabbia, legate alla sensazione di aver irrimediabilmente e irreversibilmente perso qualcosa. E in effetti, è così. Al contempo, però, in questo spazio di rottura si apre un varco verso qualcosa di nuovo che, proprio in quanto sconosciuto, all’inizio destabilizza. Scrive lo psichiatra e psicanalista francese Paul-Claude Racamier: «È un fatto comune, tutta la vita psichica è così, si sa quello che si perde prima di sapere quello che si trova».


Tutto ciò richiede necessariamente di rivedere il proprio giudizio rispetto alle emozioni che ogni crisi può scatenare nel soggetto di ogni età, nell’affrontare i vari e diversi passaggi di vita che l’esperienza di esistere implica. Se pensiamo ai nostri bambini vediamo immediatamente che in questo contesto non sono affatto escluse tutte le piccole-grandi tappe di crescita nelle quali sono coinvolti tanto i bambini quanto gli adulti: smettere di allattare, addormentarsi autonomamente, abbandonare il ciuccio, togliere il pannolino, staccarsi dalle figure di riferimento per andare al nido o alla scuola dell’infanzia, l’arrivo di un fratellino o una sorellina, un trasloco, una separazione coniugale, un lutto. L’elenco è lungo. Ora, tutte queste soluzioni di continuità e le piccole-grandi crisi conseguenti sono “problemi”? E le espressioni di paura, rabbia, angoscia, tristezza che possono conseguirne sono emozioni “negative”? Anche in questo caso, dipende da come usiamo le parole e come ci allineiamo a esse.

La flessibilità psicologica: rendere atteso l’inatteso 


La vita è un’avventura,
non un viaggio organizzato.
 

E. Tolle 


Immaginiamo di dover partire per un viaggio, senza sapere né la meta, né la durata. Non sapremo in anticipo se la destinazione sarà città, mare o montagna. Se farà freddo o caldo. Non possiamo sapere nulla. Abbiamo a disposizione solo un bagaglio a mano, dentro al quale mettere tutto ciò che potrebbe servirci per sopravvivere. Cosa portare? 


Questo gioco di immaginazione ci porta a una prima grande consapevolezza: di cosa vale veramente la pena preoccuparsi? Pre-occuparsi, significa gestire una situazione in maniera preventiva, abilità che richiede di saper scindere ciò su cui abbiamo controllo, e ciò su cui invece no. Nel caso di una possibile pioggia, non avrò il potere di modificare le intenzioni del cielo, ma potrò occuparmi anticipatamente di portare un ombrello. Non mi arrabbierò con il caldo o con il freddo imprevisti, ma mi accerterò di avere a disposizione qualcosa per gestire entrambe le condizioni. Cercherò per quanto possibile di rendere atteso l’inatteso e di adattarmi nel migliore dei modi a qualsiasi situazione.

IL GIOCO DEL CONTROLLO

Alcune esperienze sono sotto il nostro controllo, ma la maggior parte sono fuori dal nostro controllo diretto, non dipendono da noi. È molto importante saper distinguere tra le due categorie. Pensa alle cose che ti preoccupano e scrivi quelle che secondo te puoi controllare, e quelle che no. 


• Cose che posso controllare: le mie parole, le mie azioni, ............................................................ 

............................................................ 


• Cose che non posso controllare: il tempo, gli altri, gli eventi storici,............................................................ 

.................................................................... 


Chiediti: posso controllare le mie emozioni? Posso controllare i miei pensieri? Posso controllare le mie azioni? Posso controllare le parole, le azioni e i pensieri degli altri? Vorrei poterlo fare? Vorrei che gli altri potessero controllare me?

Torniamo alla nostra valigia, e disfiamola. Anzi, lasciamola direttamente a casa. Di tutto ciò che sceglieremo di portarci appresso, la sola e unica risorsa che dovremmo avere sempre con noi si chiama flessibilità psicologica. Si tratta di quella competenza che permette di accettare ciò che la vita propone e agire efficacemente di conseguenza – quasi un super-potere, diremo –. In quanto competenza, la flessibilità psicologica altro non è che una capacità da allenare con pazienza e dedizione. Il termine accettare, viene così definito dal medico e psicoterapeuta Russ Harris nel libro La trappola della felicità


Accettare non significa tollerare o rassegnarsi a qualsiasi cosa. Accettare vuol dire abbracciare la vita, non soltanto sopportarla. Accettare significa letteralmente “prendi ciò che viene offerto”. Non significa rinuncia o ammetti la sconfitta, né stringi i denti e subisci. Significa aprirti completamente alla tua realtà presente: riconosci com’è, esattamente qui e ora, e rinuncia a combatterla per com’è in questo momento.10 


L’accettazione non è l’obiettivo finale, bensì il punto di partenza ottimale per iniziare a migliorare la propria vita. Il passo successivo sarà l’azione, ovvero il fare qualcosa che ci porterà a realizzare un passo più in linea con la direzione verso cui vogliamo tendere. 

Questo libro parte dal presupposto che la direzione verso cui tutti noi desideriamo andare insieme ai nostri figli sia la felicità, intesa qui come la conseguenza della capacità di stare al mondo in modo sano ed equilibrato, e amare la vita nonostante tutto.


Possiamo immaginare di ottenere questo risultato passando per il rifiuto, il controllo, la paura, la censura, i tabù. Ma sarà estremamente difficile. Oppure possiamo scegliere la via dell’amore, sviluppando le risorse più utili per sviluppare una quanto più possibile consapevole padronanza di sé nel mondo. 

Messe in chiaro queste premesse, la domanda su cui verterà il nostro libro da ora in poi è: cosa accade se su questa via dell’amore, in un territorio condiviso di emozioni, idee ed esperienze espresse ed accolte con apertura e fiducia reciproche, incontriamo anche i libri e la letteratura?

Leggere l’inatteso
Leggere l’inatteso
Irene Greco
Cambiamento, distacco, morte e lutto narrati negli albi illustrati. Un’accurata selezione di albi illustrati per affrontare temi come il distacco, la morte e il lutto grazie al potere della finzione narrativa e dell’immaginazione. Con interventi di counseling per instaurare una comunicazione efficace e rassicurante.