capitolo 2

L’albo illustrato: un mediatore perfetto

Molto è stato detto e scritto a proposito degli albi illustrati, o picturebook, e tale attenzione è indicativa delle opportunità che sono racchiuse in questa categoria di libro, per i bambini, per gli adulti, per la relazione tra gli uni e gli altri, e con se stessi.11 La ricercatrice Marcella Terrusi, in Albi illustrati. Leggere, guardare, nominare il mondo nei libri per l’infanzia, offre questa puntuale definizione: 


L’albo illustrato è un dispositivo dotato di sue specifiche caratteristiche morfologiche e funzionali, dove confluiscono i linguaggi della scrittura e dell’illustrazione, competenze progettuali, metafore e visioni del mondo, energie che insieme concorrono alla produzione di un oggetto fisico. Il racconto si sviluppa negli albi principalmente grazie al rapporto dialettico tra parole e immagini […]12

Ciò rende facilmente intuibile quanto il picturebook sia una realtà complessa, con sue peculiarità che lo rendono un’esperienza a sé rispetto a qualsiasi altra formula editoriale. Sono libri in cui parole e immagini dialogano tra loro in modi inscindibili, creando via via effetti diversi a seconda che le une accompagnino, completino, arricchiscano o sovvertano le altre. Giulia Franchi, fondatrice dell’associazione SCOSSE, in Leggere senza stereotipi riassume così alcune delle caratteristiche e risorse proprie degli albi illustrati: 


Non più un’immagine relegata a un ruolo di secondo piano che illustri fedelmente i passaggi chiave del testo o che faccia da semplice decorazione, ma un racconto a due voci, entrambe indispensabili, che si arricchiscono, completano, rincorrono. [...] La forza dell’albo però non si limita al nuovo rapporto tra testo e illustrazione. La copertina, i risguardi, il frontespizio, non sono, come accade per i romanzi o i più tradizionali libri illustrati, una scelta arbitraria della casa editrice, ma parte integrante dell’albo, luoghi in cui si consuma il gioco tra autore e lettore. E anche la scelta del formato, della rilegatura e della carta assume un peso rilevante [...] Il picture book è concepito quindi come un oggetto a tutto tondo, un libro-oggetto, o meglio un libro-progetto, che ha bisogno della presenza di (giovani o meno giovani) lettori e lettrici pronti a vivere l’esperienza emozionante di voltare pagina.13

Proprio in virtù delle sue caratteristiche peculiari, l’albo illustrato è un oggetto 


allo stesso tempo familiare e rassicurante, accessibile e immediato per bambini e bambine anche piccolissimi, ma anche sorprendente, misterioso, in grado di suscitare curiosità e stupore pagina dopo pagina grazie ai meccanismi narrativi, agli espedienti grafici, alla potenza delle immagini.14 


Queste e altre caratteristiche fanno dei picturebook il mediatore perfetto per coinvolgere adulti e bambini i quali, catalizzati nel qui e ora da un oggetto capace di comunicare contemporaneamente con entrambi, hanno l’opportunità di stabilire un effettivo contatto, un contesto ideale di mutua lettura: l’adulto traduce a voce alta le parole scritte, aprendo alle orecchie varchi di idee, emozioni ed esperienze che il bambino, al contempo, potrà seguire con gli occhi leggendo le figure sulla pagina. Non più una relazione di egemonia del “grande” che legge a un “piccolo” tenuto meramente ad ascoltare, ma un territorio equo di autentica condivisione, apertura, divertimento e incanto. 


È sempre più diffusa la consapevolezza di quanto leggere insieme ai bambini fin in età precoce sia una scelta tra le più vantaggiose, per innumerevoli motivi che in questa sede non andremo ad approfondire. Ma la consapevolezza che “leggere fa bene” è davvero sufficiente per crescere figli capaci di stare al mondo e apprezzare la vita? Basta seguire le indicazioni, recarsi in biblioteca o in libreria, e scegliere dei libri da leggere insieme? Ebbene, la credenza da cui questo libro prende avvio è che leggere insieme ai bambini sia molto, ma non tutto. Prioritaria rispetto alla scelta di crescere i figli nel mondo dei libri, e alla relativa selezione di titoli da condividere con loro, è l’impostazione mentale a monte, ovvero il perché e il come si approccia la comunicazione con i bambini, con o senza un libro in mano. Fondamentale e urgente è la consapevolezza rispetto alle proprie credenze, valori, parole e atteggiamenti, che sussistono ben prima e indipendentemente da se e cosa si scelga di leggere insieme ai bambini. 


Le scelte nel contesto specifico dei libri rivolti all’infanzia rivelano molto non solo delle nostre idee a proposito di libri e lettura, ma più in grande delle nostre credenze e valori rispetto l’infanzia stessa: cosa pensiamo sia giusto i bambini sappiano, dicano, facciano, siano? Di cosa hanno davvero bisogno? Hanno bisogno di essere protetti dalle emozioni perturbanti delle storie e della vita? Di essere lasciati all’oscuro da temi come il cambiamento, l’incertezza, la morte, il dolore, la paura? E se si ritiene abbiano diritto di essere coinvolti nelle dinamiche della vita, in che modi e tempi è opportuno farlo? E chi dovrebbe rispondere alle loro domande, i libri o noi adulti? Chi ha la responsabilità di educarli? 


Cercheremo ora di indagare intorno a questi quesiti, non già per esaurire tutto quanto si possa dire al riguardo, ma per favorire uno spazio mentale nel quale ognuno di noi si dia il tempo per riconoscere con onestà la propria posizione al riguardo, in relazione ai propri valori.

Ragionando intorno ai libri per bambini 


Il ruolo di genitori, insegnanti, educatori che scelgono di accompagnare i bambini verso la padronanza di sé nel mondo richiede costante dedizione, attenzione, cura. È la presa di responsabilità, il desiderio, il divertimento, la curiosità affascinata di leggere se stessi e leggere chi abbiamo davanti per imparare a conoscersi reciprocamente e stare bene insieme. Questa è la posizione privilegiata dalla quale scegliere consapevolmente se e come accompagnare la relazione anche con lo straordinario valore aggiunto della lettura condivisa. 


Il nostro obiettivo in questo contesto è sviluppare riflessioni utili a guidare verso la costruzione di una comunicazione più onesta e libera con se stessi e con i bambini, in modo consapevole e adeguato, partendo da alcune considerazioni che possono rivelarsi utili in questo cammino, per potersi sentire sempre più a proprio agio nel mondo, fuori e dentro le pagine dei libri.

La paura delle emozioni 


La nostra specie ha bisogno delle storie, al punto da non poterne prescindere. Si può addirittura asserire che le narrazioni siano droga per il cervello. Perché? La formatrice esperta in illustrazione e letteratura per l’infanzia Angela Dal Gobbo, nel libro Quando i grandi leggono ai bambini, spiega: 


Da quando si ha memoria, l’uomo ha raccontato storie; narrare è un bisogno insopprimibile e antichissimo. Molte delle narrazioni più antiche sono nate per dire l’esperienza dell’essere umano, la vita, il mondo, il cosmo. […] A cosa servono [le storie]? A raccontare la realtà, a spiegare i sogni, a dire chi siamo. È esattamente da qui che inizia il bambino quando racconta: da sé stesso. Intorno ai tre anni produce narrazioni autobiografiche. È una tappa obbligata per ogni bambino, e in realtà non fa che ricalcare l’attitudine al narrare presente da sempre nell’uomo, un’esigenza tanto forte e profonda da farci supporre che raccontare storie sia una predisposizione innata e che addirittura preceda l’insorgere del linguaggio, ne sia cioè il motore, la causa.15

Ma c’è una specifica da fare. Nel meraviglioso libro L’istinto di narrare: come le storie ci hanno reso umani16, l’accademico statunitense Jonathan Gottschall pone l’attenzione sul fatto che non tutte le storie risultano attraenti per l’uomo, bensì solo quelle con una struttura incentrata sul problema. È facile trovare conferma a questo paradigma se si ragiona su quale sia il denominatore comune a tutte le narrazioni che da sempre coinvolgono gli esseri umani, di qualsiasi epoca e cultura. Cosa cerca la mente umana nelle storie? La risposta è tanto scontata quanto sorprendente: una quantità sterminata di conflitti, crisi, drammi, fatiche, guai, problemi da risolvere. Quanto più sfidanti si rivelano le loro avventure, tanto più accattivanti risultano le loro storie per chi le riceve. Perché? Gottschall propone e riassume una teoria quantomeno convincente sulle ragioni biologiche per cui siamo così attratti dalle storie con una struttura incentrata sul problema, ovvero il fatto che il cervello umano, immedesimandosi nelle esperienze vissute dai protagonisti delle storie, vive indirettamente le loro esperienze ed emozioni, facendone tesoro per se stesso. Questa prospettiva trova sempre più conferme negli studi di neuropsicologia, i quali dimostrano che i nostri neuroni non sanno distinguere un’esperienza realmente vissuta da una vividamente immaginata, dunque tutto ciò che accade al protagonista di una storia è come se accadesse davvero, fisicamente, anche in chi la sta ricevendo comodamente e al sicuro, accoccolato sulla poltrona di casa propria. 


Ora, c’è una tendenza piuttosto diffusa a evitare ai bambini qualsiasi forma di esperienza potenzialmente perturbante, nell’intento di proteggerli da quelle emozioni che, appunto, vengono concepite come “negative”. O forse, più ancora, nel tentativo di proteggere noi stessi da una situazione che non sapremmo come gestire.

LA COSCIENZA DELLE EMOZIONI

Diciamolo subito: non esistono emozioni negative

Che ci piacciano o meno, le emozioni sono tutte essenziali alla vita. Esse ci informano sulla relazione che intercorre, qui e ora, tra noi e il mondo esterno; sulla nostra personale interpretazione della realtà; ci indicano la direzione dell’azione, ci forniscono il cocktail ormonale necessario a predisporre il nostro organismo all’azione congruente, liberano l’energia necessaria a questa azione. Ogni nostra scelta è determinata dal nostro sistema emozionale (anche se poi usiamo l’intelletto per giustificare nel modo più plausibile le nostre scelte). 


Ignorare, reprimere, mettere in dubbio, falsificare le nostre emozioni al fine di confermare i nostri (o altrui) desideri o le nostre (o altrui) aspettative sulla realtà (ciò che ci piacerebbe fosse, ciò che riterremmo giusto, opportuno o conveniente fosse, ciò che dovrebbe essere) provoca un disallineamento tra i nostri sistemi di elaborazione dell’informazione creando un labirinto entro il quale perdiamo noi stessi; impedisce la coscientizzazione delle emozioni creando i presupposti di reazioni disfunzionali. 


Eppure quante volte ascoltiamo o pronunciamo frasi quali: non essere triste! Non arrabbiarti! Non devi avere paura! Devi voler bene alla tua sorellina! Non può non piacerti! Dài, sorridi! Quante volte cerchiamo di modificare le risposte emotive nostre o degli altri perché non riusciamo ad accoglierle, a contenerle, o a trovare ad esse la buona risposta


Le emozioni ci dicono che c’è qualcosa da fare (o da non fare), che la relazione tra noi e il mondo esterno richiede il nostro coinvolgimento attivo, che la vita ci tocca e dobbiamo rispondere, che dobbiamo prendere una posizione, scegliere una direzione, o, magari, semplicemente, lasciar andare. Che fare dunque con le emozioni? Soprattutto che fare con le emozioni disturbanti, quelle che ci scuotono, ci spaventano, ci paralizzano, ci invitano a mettere in discussione le nostre interpretazioni, le nostre scelte, le nostre direzioni o le nostre costruzioni? La risposta è: coscientizziamole


Coscientizzare le emozioni significa: 


  • riconoscerle: sto provando un’emozione e ciò significa che questa realtà mi tocca e richiede da me una risposta; 
  • nominarle: quale specifica emozione sto provando? 
  • essere consapevoli del loro messaggio intrinseco e della lettura inconscia della realtà che esse rivelano: il fatto che io stia provando questa specifica emozione significa che sta succedendo questo e/o che io sto interpretando i fatti in questo modo; 
  • divenire consapevoli delle ragioni per cui una certa realtà provoca in noi questa specifica risposta emozionale: di fronte a questi fatti provo questa emozione per queste ragioni; 
  • valutare l’attualità di tali ragioni in rapporto ai dati di realtà: derivano dal mio passato o sono attuali? Sono congruenti con i fatti o derivano da una errata/immatura/condizionata lettura dei fatti? 
  • considerare le possibili risposte comportamentali che le emozioni mi suggeriscono, la congruenza di tali risposte con i dati di realtà e le conseguenze di tali risposte; 
  • scegliere e agire la risposta.

Tutto questo passa anche per le parole che scegliamo di pronunciare, dentro e fuori la nostra testa. Passa per come le mettiamo insieme in frasi di senso compiuto, ovvero per come andiamo a costruire le storie che (ci) raccontiamo. A questo servono le storie (quelle che ascoltiamo, che leggiamo, che vediamo, che riceviamo comunicando con altri esseri umani): a porre le basi per la coscientizzazione delle emozioni e in questo modo a costruire la possibilità di divenire responsabili dei propri comportamenti. 


Quando si sceglie di accogliere le domande dei bambini, presupposto indispensabile per entrare in relazione con loro nel modo più pulito possibile è prendere coscienza delle proprie risposte emotive, usandole come fonte di informazione su se stessi, e non come modello di riferimento per valutare l’opportunità delle loro domande o delle loro reazioni, né tantomeno come allarmi che innescano strategie di controllo. È utile chiedersi: 


  • ci sono emozioni che considero “negative”? Come reagisco quando sono io a viverle, o quando le esprimono i miei bambini? 
  • come mi sento quando in un libro, in un film o nella vita di tutti i giorni ho a che fare con temi che coinvolgono la paura, l’angoscia, l’ansia, la rabbia, la tristezza? Che reazione ho quando nelle storie incontro, ad esempio, la morte e il lutto? Sono disponibile ad accogliere eventuali domande e a contenere le possibili reazioni emotive mie e dei bambini che ho accanto? 
  • qual è il mio atteggiamento di fronte a storie nelle quali non ci sono soluzioni disposte in bell’ordine, e restano invece aperti canali d’incertezza, lungo i quali permangono dubbi, domande senza risposte predefinite? Cosa provo quando risposte certe non ce ne sono affatto?

Le ritrosie, le paure, i tabù, le censure e i limiti che mettiamo in campo quando scegliamo un libro da condividere con i bambini sono le stesse che applichiamo a tutto il resto della vita, al punto da poter asserire che chi teme le emozioni delle storie ha paura della vita stessa. 

Quanto appena accennato rispetto a ciò che il cervello umano cerca nelle narrazioni può portarci a un nuovo atteggiamento verso i temi perturbanti narrati nelle storie: evitarli non significa fare un favore ai bambini, anzi. Confrontarsi con le capacità dei personaggi letterari di far fronte alle avversità della vita risulta essere una strategia evolutiva per apprendere/accumulare in modo virtuale effettive competenze utili a gestire la vita reale. Ecco perché avere paura delle emozioni delle storie e costruire tabù intorno ai temi più complessi della vita è un’impostazione certamente comprensibile, ma totalmente inefficace e controproducente, se si desidera crescere figli senza barriere. Premesso ciò vale la pena chiedersi: ai bambini si può dire sempre, indistintamente, davvero tutto?

Quand’è il momento giusto? 


Essere onesti con i bambini sulle dinamiche della vita non è l’atto incosciente e sadico di chi vuole creare disincanto o farli crescere anzitempo, bensì la piena responsabilità di chi desidera supportare lo sviluppo della loro consapevolezza e capacità di risposta. Si tratta di un gesto gentile, l’atto alleato con un vero bisogno: quello di non essere presi in contropiede dalla vita. Con i bambini, nei tempi e modi opportuni, si può dunque parlare di tutto. Ma, appunto, nei tempi e modi opportuni. Quali sono? Prima di entrare nel merito della questione, è importante riconoscere una certezza che può fare da luce guida rispetto a ciò che invece non è necessario far conoscere all’infanzia, espressa lucidamente dalle parole dello scrittore David Almond: 


[…] ai bambini si può dire tutto, tranne la disperazione. Dire ai bambini che la vita non è buona, che se va male non c’è speranza di raddrizzarla, oltre che criminale è molto stupido, da adulti molto confusi. Se metti al mondo un bambino, e sei convinto che il mondo sia male, perché ce l’hai messo?17

Che nella realtà variegata del mondo esista tutto e il suo contrario, quindi come la speranza anche la disperazione, è una consapevolezza che si ha tutto il tempo di raggiungere crescendo, ma non è ciò che ha bisogno di sapere un bambino piccolo. Compatibilmente con l’età e altri aspetti che vale la pena indagare, non è tanto importante quanto perturbante possa essere una storia, ma il fatto che si concluda in modo positivo e costruttivo per chi la riceve. Un passaggio che pertanto non può e non deve mancare in una narrazione dedicata a bambini e ragazzi è il famoso “lieto fine”, ovvero la luce che indichi una direzione verso cui guardare, capace di riattivare sempre una visione positiva della vita. Tenuta salda questa direzione nelle proprie scelte, non resta che prendere posizione sui modi e i tempi più opportuni per poter parlare insieme ai bambini di tutto quello che a loro non solo si può, ma si deve dire. 


Quand’è il momento più opportuno? Certo, fa un’enorme differenza se il bambino con il quale ci stiamo confrontando ha 2, 5, oppure 11 anni, ma la questione legata ai tempi e modi adeguati per parlare insieme ai bambini degli argomenti più complessi della realtà non riguarda solo l’età anagrafica o psicologica di riferimento. Significa anche e soprattutto ragionare sul tempismo con cui le esperienze delle storie entrano in contatto con le vicissitudini della vita reale: il momento opportuno per aprire una riflessione rispetto a un certo campo di esperienza è pertanto quando il bambino ha interesse nel farlo. È la vita stessa che, con le sue dinamiche, fornisce il materiale da cui il bambino attinge per volerne sapere di più, assecondando la propria inclinazione naturale alla curiosità. Sta all’adulto saper cogliere l’attimo, assecondare i momenti in cui le esperienze del mondo catturano l’attenzione del bambino, aprendo un varco verso quel dato tema. Occorre avere orecchie e cuore ben aperti per intuire la buona occasione e il momento propizio. 


Fa anche differenza se il momento in cui l’attivazione dell’interesse per una certa tematica, come può essere ad esempio quella della morte, rientra a un livello di intensità emozionale contenibile e contenuto: diverso è parlare di morte davanti a una pianta che avvizzisce, oppure mentre il bambino sta effettivamente affrontando un lutto per lui significativo. Quello che spesso accade, invece, è che gli adulti si apprestino a rispondere alle domande dei bambini solo in emergenza, ovvero qualora insorga l’urgenza di affrontare un evento incombente. È qui che, non sapendo come spiegare le cose, si cerca appoggio nelle parole dei libri. Tale dinamica non è in sé sbagliata, ma riduttiva. Sono i libri gli strumenti giusti da sfruttare per trovare le risposte da dare ai bambini? Anche qui è interessante spendere qualche parola in più.

Quali libri scegliere? 


Cosa sono i libri? Sono certo oggetti che parlano, condividono contenuti, emozioni ed esperienze, ognuno nel proprio linguaggio. Qual è il linguaggio della saggistica, ad esempio, e a cosa serve? Qual è quello della letteratura, e perché parla così? Cosa sono i libri a tema, e perché spopolano sugli scaffali delle librerie? Se il nostro desiderio è quello di crescere i bambini nel mondo dei libri, forse vale la pena capire cosa stiamo cercando, dove e perché. Scrive la sociologa Rosa Tiziana Bruno nel suo libro Educare al pensiero ecologico


Secondo un’idea piuttosto diffusa di letteratura per ragazzi, a ogni problema può essere associata una storia a tema che funzioni come una sorta di farmaco o ‘pronto soccorso’. Non c’è nulla di più fuorviante di questo modo di concepire i libri per ragazzi. Le storie e la letteratura non danno risposte, ma pongono domande. Sono le domande e il potere dell’immaginazione che, a loro volta, fanno nascere risposte in chi legge o ascolta quelle storie. Persino quando si tratta di argomenti difficili, estremamente coinvolgenti dal punto di vista emotivo, ogni problema è affrontato in modo metaforico, allontanando così qualsiasi letteralità.18

Di fatto, non è in sé sbagliato cercare risposte nei libri e nelle storie: la letteratura offre modelli di comportamento, suggerimenti sulle possibili risposte alle situazioni e alle dinamiche della vita, che il lettore sceglierà per sé se accogliere, ignorare o rifiutare. Il modo scorretto di considerare la letteratura (in realtà le parole in generale) ha luogo quando l’adulto vuole farne un uso manipolativo, per cercare di imporre all’infanzia le proprie risposte “giuste”. È qui che perdiamo di vista ciò di cui i bambini hanno davvero bisogno. Le parole di Nicoletta Gramantieri, responsabile della Biblioteca Salaborsa ragazzi di Bologna, delineano lucidamente la questione: 


[...] il rapporto tra bambini, libri e adulti non è così semplice. È successo che gli adulti abbiano iniziato a pensare non che i bambini, come tutti gli umani, abbiano bisogno di narrazioni, di storie, ma che abbiano bisogno di storie per affrontare i compiti di sviluppo. Anche questo è vero, molti sono i racconti di lettori attorno all’aiuto ricevuto dai libri in momenti impegnativi della vita. Questa esigenza però viene spesso banalizzata nel tentativo di creare una esatta corrispondenza fra compito di sviluppo e storia narrata. Da questo fraintendimento nascono richieste relative a libri per lasciare il pannolino, per mangiare più verdura, che raccontino l’ospedalizzazione, che narrino la gelosia, la possessività, la rabbia, la timidezza, l’abbandono, la paura dell’abbandono. L’editoria negli ultimi anni si è attrezzata per rispondere a simili bisogni, producendo libri, e spesso collane di libri, costruiti appositamente attorno a un tema ben preciso.[...] È legittimo, per genitori e insegnanti, cercare libri che trattino un tema preciso. Quello che suggerisco agli adulti è di cercare i temi partendo dai libri, non cercare i libri partendo dai temi.19

È qui, fra le pieghe di queste riflessioni, che possiamo intravedere un nuovo e più consapevole modo di approcciare i libri per bambini, andando a riconoscere cosa, in quel marasma di proposte, possiamo davvero chiamare letteratura per l’infanzia, e in che modo possa rappresentare un valore aggiunto nella vita di ogni lettore. 


Sugli scaffali delle librerie, tra le proposte dedicate ai bambini, è sempre più frequente incontrare una grande quantità di libri cosiddetti tematici. Sono quelle produzioni editoriali nelle quali è più facile risalire all’argomento centrale attorno al quale si svolge la narrazione. A propria volta, all’interno di questa dimensione, potremo riscontrare le più svariate formule comunicative, prospettive ideologiche, caratteristiche qualitative, espressioni artistiche e letterarie, che condurranno il lettore a diverse esperienze di interazione. Troveremo pertanto prodotti di scarsa qualità, progettati a tavolino e con limitate opportunità di crescita per il lettore, fino a composizioni intrise di profondità e meraviglia, capaci di coinvolgere la mente a più livelli di lettura e interpretazione. Come riconoscere la differenza? 


A fare da spartiacque fra le diverse opportunità che offrono i libri e le storie, e a delineare gli aspetti qualitativi della buona letteratura (tematica e non), vi è con ogni probabilità la presenza o meno di metafore. La metafora è una figura retorica nella quale un termine viene sostituito con una frase figurata legata a quel termine da un rapporto di somiglianza (per esempio “la vita è un viaggio”, “sentirsi un leone”). È una forma di linguaggio simbolico capace di comunicare qualcosa in modo indiretto, eppure paradossalmente più significativo. L’etimologia del termine metafora rimanda alla sua capacità di “portare oltre”, che comporta il saper condurre sia al di là del significato della parola, sia oltre ciò che il lettore sa di aver compreso: le metafore presentano alla mente cosciente una storia o una sequenza di qualche tipo, il cui nocciolo è afferrato soltanto a livello inconscio. Se da una parte la mente conscia è occupata a tradurre gli aspetti letterali del contenuto, dall’altra le suggestioni veicolate alla mente inconscia attivano la generazione di nuove risposte e nuovi significati. 


[...] è l’ascolto delle storie, la loro lettura e soprattutto la forza dell’immaginazione a distoglierci dai nostri disagi per proiettarci verso l’esterno, per farci entrare nella ricchezza e nella bellezza armonica del mondo, permettendoci così di trasformarci. È per questo che ogni storia fa crescere, ogni volta un pochino di più, chi l’ascolta e chi la racconta. È nella lettura che bambini e adulti si incontrano, riuscendo a comprendersi attraverso il linguaggio delle buone storie che è rigorosamente metaforico.20

Spesso gli adulti scelgono libri tematici diretti ed espliciti per praticità, o perché considerano le storie più metaforiche inadatte ai bambini in quanto troppo difficili da capire. Ma le metafore non vanno capite, vanno “sentite”. Un atteggiamento che liquidi la questione in questo modo è indice di una scarsa fiducia nei confronti dei bambini e di una generalizzata riluttanza a entrare in confidenza con le dinamiche dell’inconscio. Oltre a questo, i libri espliciti tolgono d’impaccio rispetto al non capire tutto e subito. Esiste il diritto di saper stare con l’incertezza, l’ambiguità, l’indeterminatezza? Scrive Leo Lionni a proposito di questo: 


Nei libri per bambini ci deve essere una metafora decifrabile ma anche qualcosa di indecifrabile … Penso che le cose che un bambino non capisce subito agitino la sua immaginazione e accendano la curiosità.21 


Scrive ancora Giorgia Grilli, docente presso l’Università di Bologna, che le condizioni per cui la letteratura per l’infanzia si dia sono 


da un lato il tentare di confrontarsi davvero con la «dimensione infanzia» soffermandosi su quelli che sono i vissuti appassionati, complessi, troppo spesso insondati di quell’età e dando ad essi priorità, dall’altro di farlo in modo indiretto, non esplicito, non esplicativo, non didascalico, bensì simbolico e immaginifico [...] Occorrono metafore, per dire l’infanzia senza rigidamente inquadrarla, per illuminarla e insieme proteggerla e rispettarla.22 


Scegliere cosa leggere insieme ai bambini dovrebbe partire principalmente dalla consapevolezza che le storie sono esperienze virtuali nelle quali il lettore va a intersecare la propria esperienza di vita reale, creando un dialogo aperto tra il mondo là fuori e la finzione narrativa, integrando competenze, trovando risposte personali, ma soprattutto fomentando grandi e nuove domande, costruendo e arricchendo la propria identità.

La letteratura contiene forme di realtà che il bambino dovrebbe poter incontrare anche prima della realtà stessa, per farsene quantomeno un’idea e non sentirsi preso alla sprovvista. Leggere in prevenzione, significa, in buona sostanza, creare le condizioni ideali per rendere atteso l’inatteso. Perché dunque non favorire l’accesso a questa straordinaria forma di comunicazione umana qual è la letteratura, non già per l’urgenza di risolvere problemi, ma per il semplice fatto che noi umani abbiamo bisogno di storie? E perché non scegliere libri da leggere insieme ai bambini non per il solo bisogno di trovare risposte, ma per assecondare il semplice fatto che noi umani abbiamo bisogno di porci domande?

Il diritto di fare domande e (non) avere risposte 


I bambini fanno tante, tantissime domande, a molte delle quali noi adulti non sappiamo né vogliamo rispondere. Dobbiamo davvero saper rispondere a tutte le domande dei bambini? Siamo tenuti a farlo sempre in modo puntuale, scientifico, razionale? 

La fame di sapere che gli esseri umani dimostrano di avere fin dalla nascita ha una ragione d’essere biologica ed evolutiva, legata alla necessità di riuscire a “tenere insieme la realtà”, averne coscienza e dunque capire come poterla in qualche modo fronteggiare. La natura, il cosmo, le diverse forme di vita, gli esseri umani, il funzionamento delle cose, la tecnologia: è meraviglioso sapere che per qualsiasi curiosità, con ogni probabilità esiste almeno un libro capace di soddisfarla. D’altra parte vi è anche una dimensione d’indagine per la quale non è così scontato trovare risposte capaci di esaurire con un punto la questione. Ogni cosa del mondo può essere l’occasione per il piccolo di volerne sapere di più, di togliersi veli dagli occhi per palesare i meccanismi del reale. E questo significa voler guardare anche oltre quei meccanismi, per carpirne e svelarne i misteri.

In questo contesto specifico si vuole porre l’attenzione sulle potenzialità offerte dagli albi illustrati nella relazione tra adulti e bambini – e nel dialogo interno tra adulti o bambini con se stessi –, a proposito dell’esplorazione di quelle sfere umane che a volte si tendono a ignorare, rifuggire o semplicemente liquidare come fossero secondarie rispetto alle cose “davvero importanti”. Spiritualità, fantasia, immaginazione, mistero, filosofia, incertezza, dubbio: sono davvero ambiti secondari nell’ottica di un completo sviluppo della personalità? È utile inibire nei bambini la loro naturale propensione a esplorare anche ciò che va oltre il certo e l’ovvio? 


Poniamo l’esempio di un bambino che chieda al genitore: “Dove si va quando si muore?”. L’adulto, per aiutare e aiutarsi, cercherà di fornire delle risposte, magari cercandole in un libro. Ma come si può rispondere a questa domanda? A meno di un testo divulgativo di biologia, che dia ragione di come smettano di funzionare i meccanismi vitali e di come i corpi siano destinati a decomporsi, quali altre risposte ci si aspetta di ottenere? Quello che i bambini desiderano comprendere quando (si) pongono queste domande sono davvero gli aspetti meramente biologici, o stanno sondando un altro terreno, una dimensione più profonda, misteriosa, nella quale, a meno di specifiche credenze religiose, di certezze non ve n’è alcuna? Scrive la psicologa e psicoterapeuta Paola Santagostino nel suo libro Guarire con una fiaba


Il bambino si affaccia al mondo, un mondo nuovo a lui totalmente sconosciuto, e cerca di ordinare gli stimoli che da esso gli provengono costruendosi una mappa dei significati stabili. Il bambino ha un bisogno vitale di queste “mappe”, che gli permettono di attribuire al dato sensoriale un significato.
La fase infantile dei “perché…?” è una delle tappe di questo percorso.
“Mamma, perché il fuoco brucia?”
Domanda difficile per un adulto, che anche conoscendo benissimo i fenomeni di combustione non utilizza più la modalità conoscitiva del “perché”.
Chiedere il perché non è chiedere il come.
L’adulto sa bene come avvenga il fenomeno, ma che cosa può dire del perché? Il perché implica una ricerca del significato e non delle modalità di realizzazione dell’evento. Il “perché” è una domanda che riguarda lo scopo, il fine, il senso generale del processo: è una domanda metafisica.23

Dunque le domande dei bambini non esplorano solo la sfera nozionistica del sapere, quella relativa alle informazioni e alle competenze che si possono accumulare e memorizzare. Tutt’altro. La curiosità e la fame di conoscenza degli umani, fin dall’arrivo su questo pianeta, ha una portata che non sa stare negli argini della sola concretezza, non vuole viaggiare esclusivamente sui binari di ciò che è tangibile, ma ha desiderio e bisogno di deragliare anche verso sfere più “alte”, come quella della spiritualità, qui intesa come la sensazione di far parte di qualcosa di più ampio, che va oltre il solo sé corporeo e la sola realtà visibile. In questo ambito faremo rientrare i movimenti religiosi, filosofici e metafisici, le sfere dei valori, l’esplorazione dell’anima e della coscienza, fondamentali per fare esperienza di una vita più completa e ricca di senso, per liberare tutte le sfere dell’identità e favorire la piena formazione della persona. 


Eppure, è davanti a tali quesiti che noi adulti spesso ci areniamo. È qui che inciampiamo. Scrive l’autrice e formatrice Silvia Vecchini nel bellissimo testo Una frescura al centro del petto, al quale con grande entusiasmo vi rimando: 


[...] pur desiderando che il bambino esplori la dimensione spirituale con naturalezza e curiosità, si teme la propria insufficienza attorno alle domande che possono emergere trattando temi come l’origine e il senso della vita, la morte, il sacro, la divinità. Si teme d’inciampare. [...] È proprio a partire da queste pietre d’inciampo, dall’impossibile da dire, dalla consapevolezza di non sapere tutto che si possono offrire occasioni di scoperta e conoscenza.24

Dunque non si tratta di avere tutte le risposte e distribuire certezze, ma di sentirsi a proprio agio nell’investigazione di questi ambiti, di camminarci dentro insieme ai bambini, i quali per loro natura di queste dimensioni sono esploratori audaci ed esperti. 


Se rispondere non è sempre necessario, è invece fondamentale mettere i bambini nella condizione di poter sempre domandare. Costruire tabù, dare la sensazione che non sia opportuno chiedere, creare zone cieche nelle quali si invita a non mettere piede, è una dinamica limitante tanto per i bambini, quanto per il benessere della relazione con loro. Si tratta di «aprire e non chiudere»25, di contribuire con gioia all’entusiasmo dei bambini, partecipando con senso di responsabilità anche alle paure o ai dolori che dagli interrogativi e dalle problematiche esistenziali possono emergere. Questo avviene se e quando la lettura condivisa diventa un luogo “di ospitalità del pensiero e delle domande”26, anche e soprattutto in quella sfera più incerta del pensiero che, “presentandosi con caratteristiche di fragilità, può rivelarsi invece una zona di reciproca conoscenza e d’incontro”. 27 


Le storie sono specchi di carta attraverso i quali sbirciare il noto e l’ignoto, fare esperienza del dubbio, affacciarsi senza paura dentro e oltre i confini della realtà e della finzione, giocare in piena sicurezza tra il certo e l’incerto. È qui che alcuni libri possono aprire domande, più che fornire risposte; possono fomentare indagini personali, più che applicare verità in modo indiscriminato. Le risposte, se ve ne sono, verranno suggerite dalla voce dell’inconscio nel dialogo tra le metafore, i simboli e le fantasie suggerite dalle storie. 


Ciò chiede a noi adulti di imparare a stare insieme ai bambini nell’incertezza e nell’ignoto, con la consapevolezza che questo è l’atteggiamento più sano, liberatorio e performante possibile da attuare verso i nostri figli: 


Se ti metti un attimo a pensare, capisci che chi teme l’ignoto impone a se stesso il limite più grande per apprezzare la vita. Se fai soltanto ciò che ti è familiare, più o meno dai per scontato che rimarrai allo stesso punto per il resto della tua vita. [...] fatti questa domanda: «Come riconosco se una cosa è viva?»; la risposta è: «Se cresce, allora è viva». Una pianta secca è biologicamente morta proprio perché ha smesso di crescere. Lo stesso vale per gli esseri umani. Se non crescono, inaridiscono fisicamente, emotivamente e spiritualmente. Se i bambini temono l’ignoto, non crescono, perché non si può crescere continuando a essere sempre gli stessi. Crescere vuol dire cambiare, cambiare implica sottoporsi a nuove prove, con una forte carica di entusiasmo, non di paura. Questo deve essere il nostro obiettivo per i figli: aiutarli a cambiare una mentalità timorosa dell’ignoto in una calorosamente pronta a esplorare – con assennata prudenza, ma con incontenibile entusiasmo – tutto ciò che accende in loro un genuino interesse.28 


Premesso questo, viaggiare con fiducia e consapevolezza nel mondo dei libri è un atteggiamento sano, che favorisce l’instaurarsi di un ambiente “aperto a tutto”. Leggere insieme ai bambini è un gioco di dedizione che l’adulto può scegliere di intraprendere sfogliando, consultando, informandosi, confrontando, creando dunque un ventaglio di scelte tra le quali allenare il gusto e i punti di vista. 


È partendo da queste posizioni che nei prossimi capitoli andremo a inserire alcune proposte di lettura anche molto diverse tra loro, da considerare non come esaustive e conclusive dell’argomento, ma come spunti di partenza per giocare il gioco di leggere e leggersi, nel piacere di fare la reciproca conoscenza di se stessi e del mondo.

Leggere l’inatteso
Leggere l’inatteso
Irene Greco
Cambiamento, distacco, morte e lutto narrati negli albi illustrati. Un’accurata selezione di albi illustrati per affrontare temi come il distacco, la morte e il lutto grazie al potere della finzione narrativa e dell’immaginazione. Con interventi di counseling per instaurare una comunicazione efficace e rassicurante.