Dario Arkel

Professore di Pedagogia Sociale Università di Genova
Giornalista, Scrittore

Janusz Korczak. Il rispetto del bambino per un’etica dell’apprendimento

Ci sono dei momenti in cui, più che venire a parlare, si viene ad ascoltare. E per me questa mattina è uno di questi momenti. Chi mi ha preceduto ha saputo cesellare non tanto una figura e un’epoca che non si vive più, ma una personalità universale, quella del dottor Korczak, immersa in un presente-futuro che sa galleggiare su una realtà storica instabile, la quale, attraverso queste parole, assume un significato ed un valore salvifico. Le parole che ho ascoltato tendono a salvarci. Esse esprimono una atemporalità che va oltre la concretezza, toccando la spiritualità di ciascuno di noi, nel segno dell’idea fondamentale di Janusz Korczak: il coraggio di parlare di AMORE. 

Lui non scrive come conoscere o educare un bambino, lui scrive come amare un bambino. Il resto è tutto un ricamo, un primo passo che non è questa essenza totalizzante che si chiama AMORE. 

Che cosa significa amare un bambino? Significa conoscerlo, rispettarlo. Korczak lo annuncia con la consapevolezza che per amare è necessario capire che nel bambino si può trovare un uomo nuovo. Non si potrà trovare, lo si può trovare già adesso, basta che l’adulto non sia disattento nella sua osservazione. 

Il dottor Volta ci ha parlato di un Korczak medico-veggente, portatore di un concetto totale della salute del bambino che sembra partire dall’intuizione e si consolida con l’arte medica. Per Korczak ha valore sapere chi è il bambino nel grembo materno e chi è nel mentre sta nascendo e quando è neonato. Rivede la scena come in un film e parla alla madre del bambino. A lei rivolge la sua attenzione perché comprenda da subito chi è il neonato e si spinge oltre… chi sarà il tuo bambino? Korczak chiede rispetto per questo piccolo e l’attenzione a tutto quanto lo sfiora o lo tocca. 

Il bambino vive esclusivamente il proprio tempo presente, contrariamente all’adulto che si muove meccanicamente attraverso gli orologi e la fretta. L’adulto non ha mai tempo, ne è schiavo, mentre il bambino rende schiavo il tempo. Il bambino si impossessa del tempo, così inesorabile per gli adulti, e lo trasforma in un’opportunità straordinaria: questo suo tempo è estensibile, può allungarlo o restringerlo a piacimento, fino anche a renderlo infinitesimale o… infinito presente

La verità su questo atteggiamento, sia sul tempo sia sullo spazio del bambino, è l’idea di una scienza, ed anche di una pedagogia, diversa, che si rinnova attraverso la trasformazione del bambino. 

Anni fa ho scritto di una figura che ho chiamato “Homo planetarius”, un uomo dinamico, un vagabondo. Πλανάω (“planao”), in greco, significa “Io vagabondo”. Riprendevo l’orbitare perfetto dei pianeti e lo trasferivo all’essere umano che orbita intorno ai propri valori ruotando su sé stesso, effettuando le rivoluzioni necessarie al cambiamento, alla trasformazione, in una parola alla CRESCITA. Se sostituiamo l’uomo con il bambino, comprendiamo che questa crescita è creativa: il bambino infatti fa due tipi di rivoluzione e la più importante è quella che fa su se stesso, imparando senza alcun pregiudizio né preclusione. 

Il bambino apprende come vagabondare creativamente e torna a terra con la propria dimensione fisica, osserva le sue mani e i suoi piedi, misura la sua lunghezza, identifica i suoi colori, e fa di sé uno schizzo astratto. Si vede, ma più che altro si immagina, ricreandosi da sé. Si compara agli altri vicini a lui, genitori e amichetti, e si domanda se lui è davvero lui, e se lo domanda anche per coloro che lo circondano. Non sa nulla e la sua ignoranza è per Korczak un diritto sacrosanto. Il pianeta-bambino è l’idea di una trasformazione. 

La stessa trasformazione che noi compiamo attraversando eventi che ci portano sofferenza, come diceva il professor Vaccarelli. Domandiamoci un attimo da dove venga questo elemento di disagio o di sofferenza, e perché, soprattutto, è così importante. La sofferenza è la condizione umana che spinge l’uomo alla reazione verso l’equilibrio del suo superamento. 

Il dolore (sofferenza) nasce quando il bambino esce dal ventre materno. Prima, le sensazioni all’interno del ventre materno così serico e liquido, dove il feto può fare le capriole ed essere “libero”, in un ambiente chiuso, asettico e protetto. Ovviamente non ha nessuna di queste percezioni, che noi supponiamo. Il problema è al di là del confine… 

Qual è la prima cosa che fa un bambino appena nato? È respirare. Quello che deve fare è cercare l’ossigeno. In una pubblicazione che uscirà tra poco, Korczak dice: “Il dolore della madre [è riscontrabile] ma che cosa prova il bambino? Quando il cranio si richiude, quando sente una forza estranea che lo tira fuori dal grembo? Quando emette il primo gemito. L’aria che entra come un pugnale nella gola”. Ecco, qui c’è una delle spiegazioni: il dolore, la sofferenza atroce, il pugnale nella gola. I polmoni sono atrofizzati. Quello che prova il bambino, per prima cosa, dovendo respirare, è questo dolore. 

Il dolore è dunque l’elemento primigenio, il primo gesto, ed è colmo di dolore, talmente doloroso che lui deve piangere. E perché piange? Perché così tutti gli altri sanno che c’è e che si prova dolore, sì, lo dice a se stesso e a tutti gli altri che gli stanno intorno, soprattutto alla mamma (anche se non sa ancora che sia la mamma). Lo dice a quella remota entità sconosciuta, che era il suo guscio prima, che era il ventre materno. Il dolore lo porta a crescere e lo porta praticamente fuori dall’essere muto, lo trasferisce dentro il mondo della comunicazione. Superare questa sofferenza diventa l’emblema della trasformazione, oltre la resilienza, dove si resiste e si sopporta. Per questo Cyrulnik è diventato quello che è, perché si è trasformato, attraverso il dolore, passandole oltre. Il superamento del disagio e della difficoltà significa essere chiari con sé stessi. Significa battersi, in qualche modo. 

La conoscenza rappresenta la risorsa principale per superare lo stato sofferente. Il tratto più importante è il cammino della conoscenza, l’azzardo del conoscere; perché il conoscere è la prima forma che si dà ad un risultato ottenuto attraverso l’apprendimento. Ma pure la conoscenza è incompiuta se essa non viene ribadita dalla prova o dalla scelta, se, cioè, la conoscenza - il sapere - non viene riconosciuta. In realtà, la forma compiuta; non è la conoscenza ma la ri-conoscenza. Cioè ottenere da questo apprendere la risposta (conferma) degli Altri. Non esiste una conoscenza dell’uomo di per sé, sia esso individuo (quindi in solitudine) o sia esso persona (quindi con gli altri). La vera conoscenza diviene riconoscenza quando è resa dialogo, quando comporta una comunicazione, un collegamento con l’Altro. Il valore è dunque lo scambio fecondo dell’interlocuzione con l’Altro, per una crescita condivisa. Senza lo scambio non si può riconoscere nessuno, non si può coesistere, collaborare, e neppure amare e costruire. 

Socrate, sicuramente arrivato prima di Cristo, diceva: “tėchne maieutikès “, lui diceva che poteva far venire fuori il discorso dal suo interlocutore attraverso il dialogo. Cosa voleva dire questo interlocutore: “Vi ammazzo tutti?” E perché lo dici, fallo. Così io penso avrebbe risposto Socrate. 

Bisogna, pertanto, arrivare a introdurre il concetto di comunità. Occorre che la pedagogia dell’individuo e della persona venga trasferita su un piano con caratteristiche più ampie, una pedagogia sociale, una pedagogia che associ le persone in quello che è un combattimento contro la sofferenza, perché, come abbiamo visto, a questa siamo avvezzi. Una pedagogia che offra un apprendimento etico e virtuoso. 

Non è piacevole osservare la montata di odio nel mondo che ferisce l’idea di un’umanità umana. Se l’odio imperversa non è pensabile poter avanzare per il ben-essere. Siamo resi insicuri da stati di fatto che privilegiano l’avere all’essere, in balia dell’Homo rapax di cui parlava Janusz Korczak. Di fronte all’intolleranza e all’imposizione ci sentiamo impotenti e insoddisfatti, vorremmo dire “non in mio nome” e arrivare a stabilire “non sto con chi può fare tutto quello che vuole”, ma restiamo immobili, con le mani in mano. Ci stiamo assuefacendo alla morte, alle uccisioni. Ormai ovunque: si uccide solo perché si può farlo. Al giorno d’oggi, se qualcuno uccide la persona “giusta”, lo applaudono. E qual è la persona “giusta”? Un diverso. Un povero, un questuante, un essere che prima non c’era che è arrivato per caso lì, che ti guarda magari disperato. Ma lo può fare. Rido, sparo, me ne vado, mi prendono, mi danno due anni di carcere. Quando arrivo in questura, mi portano al penitenziario, mi applaudono. C’è la televisione ed io posso dire perché l’ho fatto. Convinto che per averlo fatto, un gesto del genere “lui può farlo, il male”. Non sono questi gli esempi etici, i codici positivi dell’apprendimento. Ma l’esatto opposto. 

E allora vedete che, contrariamente a quelle che sono rappresentate nelle tavole mosaiche, le indicazioni virtuose dell’uomo per l’uomo, dell’uomo costruttore di saperi e di conoscenze, il premio, adesso, è dato al male. E quando dico adesso, non dico al giorno d’oggi, dico all’epoca di Korczak. Perché dall’epoca di Korczak, abbiamo fatto pochi passi avanti. Anzi, siamo in un momento in cui mettiamo in discussione se abbiamo fatto qualche passo avanti. Certo, non c’è più il Ghetto, non abbiamo più determinate caratteristiche di ordine razziale così evidenti, e abbiamo, forse, un minimo di tolleranza, ma non abbiamo quella condizione di libertà nella responsabilità della convivenza che, invece, nelle Scritture, nelle Leggi, noi ritroviamo. E ritroviamo che in tutte le ideologie, perché le ideologie possono essere confutate e quindi non ammettono, per definizione, la dittatura. 

Le ideologie possono essere una salvezza, perché possiedono un livello dialettico che non possiamo abbandonare. L’apprendimento è un itinerario virtuoso, che deve distinguere i valori etici della convivenza e della condivisione da quelli dell’egoismo, dell’indifferenza, della superficialità. 

Noi dobbiamo riuscire a ritrovare lo spirito delle parole di Korczak nel giugno del 1942, quando, alla domanda circa il suo futuro a guerra finita, rispose: “Mi occuperò degli orfani tedeschi”. Dovremmo trovare, insomma, quel modo di stare tra di noi, che anche se non perdona, trova la parola giusta, trova il livello giusto di interiezione con l’altro. Esiste l’interlocuzione. Esiste il dialogo. 

Da quando nasce questa parola? Intorno al 1500 a.C., Mosè è andato sul monte Sinai. Ci sono, quindi, dei dialoghi che non si possono fare. La tolleranza, con gli intolleranti, è un argomento impensabile e non plausibile. Non possiamo tollerare l’intollerante. Perché non possiamo avere un dialogo, se lui non ci tollera e, quindi, lo rifiutiamo. 

Rifiutiamo l’intolleranza e l’indifferenza (che è un altro degli elementi fondamentali dell’odio). Rifiutiamo tutto quello che comincia con questa negazione che è data da una lettera “I”, come l’imposizione e cerchiamo le lettere e le parole che hanno come suffisso “CON”: comprensione, conoscenza, condivisione, comparazione. 

Riflettiamo allora sulle ragioni del bambino korczakiano, che Korczak non chiama mai figlio. Lui dice alla mamma: “Anche se è dentro di te e vive di te, lui non è tuo. E quindi non è tuo figlio, anche se questo sangue si scambia e si miscela. 

Quello non è già da allora il tuo sangue, è il suo”. Quello che il bambino si prende, è la sua parte. Qui abbiamo chiaramente un valore da sottoporre a esame. Il valore del sangue. 

Che cos’è il sangue? 

Il sangue è un principio razzista. Il figlio è mio figlio perché l’ho assistito, educato ma soprattutto perché lo amo. È l’amore che fa tutto, altrimenti non si spiegherebbero i 200 bambini di Korczak, non figli biologici, ovviamente; né si spiegherebbe nessun bambino che ama il padre e la madre adottivi. 

Non si spiegherebbero nemmeno le trasfusioni di sangue. Il sangue blu, il sangue sigillo dei nobili; il sangue è un privilegio. Il sangue. E si arriva fino alla “pura razza” perché il sangue è un principio di razza. Razzista. Che si contrappone, nella sua povertà di spirito - perché il sangue in fondo è un liquido come un altro - ad un’idea molto più ampia e significativa, quella dell’amore, dell’affetto, del volere stare insieme. E questi due elementi si contrappongono sino alla fine; li troviamo ancora oggi, quando si dice “Io ho più di te” o quando si pensa “Io, marito, sono padrone di te”. O in altre versioni, tipo il genitore che vedendo la figlia che fa delle cose che non gli piacciono, la interroga, la punisce e arriva addirittura a perseguitarla; perché tutto appartiene al mondo della proprietà, ma ad una proprietà privata, e incosciente, sulla base del sangue, sulla base della razza, sulla base del commercio, dell’idea commerciale della proprietà. Gli uomini, tutti gli uomini, sono veramente liberi quando sono responsabili. Se la responsabilità di un uomo viene a mancare, la sua libertà travolge gli argini e chi è a lui prossimo ne subisce la tirannia, la dittatura. È solo la responsabilità che ci può dare la misura della libertà per amare e, quindi, per andare sempre oltre questi vincoli razziali e questi modi preconcetti di dire e di funzionare. 

La proprietà privata è una proprietà che priva gli altri di qualcosa. 

Il bambino non ha questa idea dello spazio nella proprietà. Korczak aveva raccolto tutti gli oggetti perduti dalle tasche dei bambini e poi li restituiva, se li richiedevano. Questi pezzi inutili, senza prezzo, possono ricordare una mamma che non c’è più, possono ricordare al bambino dei momenti fantastici, delle sublimazioni. Queste, che negli adulti portano alla malinconia, alla nostalgia, per il bambino sono invece delle ricariche. Per il bambino è una nuova vita ritornare in possesso di un oggetto, per gli altri senza valore, che ha perduto. Questi sono i valori dell’affetto, perché questo oggetto non va inteso come proprietà privata del bambino, è suo perché è una parte di sé. Ha messo dentro un pezzetto del suo cuore, e attraverso questo, spiegava Piaget, lo anima di vita propria. Lui lo muove, con la testa. Lui ci gioca e, da una ciabatta, ne fa un’astronave. L’idea della proprietà propria è quella affettiva. Non è quella commerciale. Ed è quella affettiva dalla quale derivano l’amore e l’amicizia, che non hanno prezzo perché sono oltre il prezzo. Ristabiliamo la catena dei valori, la classifica dei valori. La prima proprietà propria, sono IO. E il bambino lo sa, perché il bambino, come si diceva, giudica con il cuore e ragiona con il sentimento e non con l’intelletto. E l’altra cosa è il tempo. Il bambino rende schiavo il tempo. Si prende in tasca il suo tempo, esattamente come si prende in tasca la sua pallina abbandonata, la sua pietruzza. Riprendere in mano quella pietruzza significa portare a galla la memoria. Non tanto la simbolica memoria di chi non c’è più, ma nell’immediatezza del momento in cui c’era. Una sensazione bellissima. 

Korczak è stato il principe dei diritti del bambino e tuttora lo è. Nel 1924 la Società delle Nazioni, allora appena nata, utilizzò i testi di Korczak proprio per creare la prima carta dei diritti del bambino. Adesso abbiamo una carta molto più completa di 54 articoli. Nel 1989, il 20 novembre, sarà il 30° anniversario della Carta de diritti del bambino, la Carta di New York. Quando parliamo di diritti del bambino, non parliamo di figli, ma di una generazione autonoma, che vive il proprio presente, con la sua attività di proprietà propria. La proprietà propria consiste nella sua proprietà. Poi che cosa è successo? L’abbiamo già detto e penso sia arrivato il momento di arrivare a narrare che cosa è successo nel Ghetto. 

La Casa degli Orfani di Korczak con i suoi 200 bambini, venne trasferita d’autorità dal centro di Varsavia al Ghetto. 

Qui i piccoli ospiti e gli assistenti sono riusciti a ridarsi quel metodo educativo e quel lavoro costante e continuo, come nell’edificio precedente. 

C’era un tribunale, oltre alle leggi fondamentali della Torah, vi erano leggi che potremmo definire leggi mobili, variabili, fatte dal bambino. 

C’era l’idea che il bambino potesse proporre nuove leggi o articoli di esse, appuntandoli davanti alla sala dove si svolgevano i processi. 

I ragazzi fungevano da giudici, da avvocati, difensori o pubblico ministero, ed in uno di questi frangenti è stato condannato anche Korczak. 

Belfer, ultimo superstite tra i bambini del Dom Sierot, è ora un pittore e scultore israeliano, nato nel 1923. Nel suo libro: “Il mio maestro Janusz Korczak”, riporta un ricordo legato alla condanna del dottor Korczak, il quale fu accusato per non aver rispettato l’art. 100 che dice: “Quello che hai fatto è sbagliato, il tribunale ti ordina di non farlo mai più”. Per le settimane successive i bambini si divertirono a chiamare il dottore, scherzosamente: “Cento”. 

Questo era l’ambiente della casa dell’orfano. 

Ma che cosa stava succedendo nel ghetto? 

Emanuel Ringelblum ci dà della morte dei bambini nel ghetto delle immagini veramente tragiche. 

“Sepolti a Varsavia” è un libro che tutti dovrebbero leggere, solo per capire che cos’erano le grida di questi bambini, la notte, abbandonati da tutti, senza aver mangiato, nelle gelide notti di Varsavia. 

Qualche volta dalla parte “ariana” si levava qualche ufficiale delle SS, andava da loro e li ammazzava, perché non li lasciavano dormire. 

Korczak prepara i bambini a questo ultimo esodo. Lugubre, ma anche luminosissimo. 

Allora, sapendo che si avvicinava sicura la morte, Korczak, senza farlo sentire ai bambini in maniera diretta, riesce a compiere il più grande capolavoro umano e pedagogico di apprendimento che si sia mai visto. Comincia ad istruirli su quello che può avvenire, senza mai dir loro che si può morire, perché questi bambini già lo sanno. Korczak ha sempre considerato la possibilità di morte dei bambini, nell’elenco dei suoi diritti il più celebre e importante è il diritto del bambino alla morte (lo aveva descritto nel 1914 e poi ripreso nel 1929). 

Questo diritto significa avere del bambino un’idea olistica, ma anche vedere quello che non si vede, cioè l’anima, la volontà. 

Perché un uomo è veramente un uomo? Io, guardandovi in viso, vedo che dentro di voi c’è un “qualcosa”, la fatica del vivere e la determinazione a sopravvivere, ma spesso l’adulto non vede questo “qualcosa” nel bambino. Non ha idea che questa piccola anima sia caduca, che potrà non esserci più, perché vivrà oltre me. Una speranza, una chance, che il bambino resterà dopo di me e dopo tutti. Un esorcismo sulla pelle del bambino che non sa, e se non glielo spieghi non saprà mai che cos’è e cosa si prova di fronte all’estremo. 

Non rispettare il bambino significa anche privarlo della facoltà di morire. Non rispettarlo significa negargli la verità. Non rispettarlo significa negargli l’appartenenza al mondo del ciclo della natura che dà e prende. I bambini di Korczak sapevano senza conoscere, e volevano procedere nel viaggio verso il vuoto riempiendolo dei significati e della pregnanza che il dottore offriva loro. 

Korczak deve farli vivere, deve trovare le risorse necessarie. Va a fare la borsa nera, va a chiedere ai suoi vecchi ospiti dell’orfanotrofio, che ormai hanno una trentina d’anni, e che sono diventati dei grassissimi ebrei che attraverso la borsa nera con i tedeschi riescono a vivere alla grande. Questi uomini avevano tutto nel Ghetto di Varsavia. Korczak ne ha schifo, ma deve ottenere da loro dei soldi per un sacco di patate, per il carbone, per la legna, per i bambini. 

È così che il dottore incontra uno dei suoi vecchi ospiti che lo riempie di złoty e gli dice che lui dei soldi non sa più cosa farne perché è ricchissimo, ma i soldi non valgono più niente. 

Ed anche la vita non vale più niente, quella di nessuno, nemmeno del dottore. Ci uccideranno tutti, gli dice, ed aggiunge: “E sai perché? Per colpa tua. Ci hai insegnato il bene, ad essere buoni, che tutti sono amici e non ci hai insegnato a difenderci. Allora moriremo tutti.” 

È una domanda che ci poniamo anche noi oggi di fronte ad una nuova nascita: quale educazione dobbiamo dare a questa creatura? 

Ne vogliamo fare una persona buona e indifesa o un uomo che si fa rispettare? E qui rimaniamo a metà del guado, sospesi, non capiamo che, quello che c’è nel bambino, se noi non poniamo in essere degli atteggiamenti aggressivi e propri di quella proprietà di cui si parlava prima, riusciremo a fare di lui una persona diritta, una persona che saprà difendersi perché non gli dobbiamo, come diceva Korczak, nascondere nulla e, quindi, neanche i casi negativi. Quindi, questo bambino, potrebbe rinforzarsi da solo. 

Che cosa faceva Korczak nella casa dell’orfano? Ha istruito i suoi ragazzi affinché mettessero in scena un dramma L’Ufficio Postale di Rabindranāth Tagore, scrittore indiano, premio Nobel nel 1913. Il testo narra di un bambino orfano che viene affidato ad uno zio. Il bimbo sta male e lo zio chiama un medico che fa chiudere tutte le finestre della stanza di questo bambino, che si chiama Amal. 

Amal resta dietro la finestra chiusa e vede i bambini che passano e giocano. Un giorno decide di aprire la finestra e di buttare i suoi giochi affinché questi bambini giocassero lì. Così lui poteva vederli gioire e gioire lui stesso per gioia riflessa. 

Korczak fa mettere in scena questo dramma dove Amal muore, dopo aver visto i postini che arrivavano a cavallo all’ufficio postale davanti alla sua finestra. 

Muore desiderando correre sui prati sull’argine del fiume, e fare come questi postini del re che portano lettere d’amore, ricette di medici, le buone parole di un figlio che tornerà. 

Muore con l’idea di fare del bene attraversando la natura e questo potrebbe essere l’assioma totalizzante. 

Messo in scena L’Ufficio Postale, i componenti del Consiglio ebraico, con le lacrime agli occhi gli domandano perché abbia fatto mettere in scena un dramma così triste. 

Il dottore risponde: “Perché imparino a morire serenamente”. Questo ci rende la conferma storica che lui sapesse perfettamente che cosa stesse facendo e dove volesse arrivare. 

All’interno della Casa degli Orfani, mette al lavoro i bambini, i ragazzi e gli assistenti per risistemare la bandiera simbolo dell’orfanotrofio e, nella liuteria, fa riparare e accordare gli strumenti musicali, nell’atelier fa rammendare i vestiti più belli, rattoppare le bambole, rivedere gli snodi delle marionette di legno e infine fa stampare l’ultima cartolina. 

Quando sono arrivati i tedeschi, sono arrivati con i cani che abbaiavano ferocemente, Korczak è sceso ed ha chiesto loro di portare via i cani ed ha chiesto ai soldati: “Quando vedrete scendere i bambini, non toccateli, lasciateli per conto loro, usciranno e saranno perfetti” e così fu. I bambini agghindati nel loro miglior modo, con le tasche piene dei loro oggetti più cari si mettono in fila, con Korczak in testa che tiene il bimbo più piccolo in spalla. 

Escono e marciano cantando, i canti del socialismo, della fratellanza tra gli uomini. Insomma, procedono verso il binario che li porterà a Treblinka. Lì giunti, pare che Korczak sia stato riconosciuto da un ufficiale medico tedesco che aveva assistito alle sue lezioni a Berlino. Il medico cerca di convincere Korczak a non prendere quel treno, ma il dottore si rifiuta di lasciare soli i bambini. Si racconta che abbia detto: “Tu conosci una madre che lascerebbe i propri figli in mani estranee? Io di figli ne ho 200 e ne sono il padre e la madre”. 

Lui, che aveva insegnato loro ad ascoltare la luce quando qualche mezzo, qualche lume, illuminava le fessure della stanza della mensa, che li faceva riflettere sulla luce dell’oltrenero e ad impadronirsene, salì accompagnando il più piccolo dei suoi orfani sulla rampa del treno. Destinazione Treblinka. 

Che cosa ci rimane? 
Un anno dopo: la rivolta del ghetto di Varsavia. 
I bambini e Korczak erano là, con i ribelli
Il forno crematorio di Treblinka che viene fatto esplodere dai detenuti. 
La fuga da Sobibòr. 

Questo significa che si può anche insegnare a morire, e significa soprattutto imparare che si può morire, ma anche che si può sopravvivere alla propria morte, nel suo senso più laico, pragmatico, rientrando nella storia, con il tempo misurato dal bambino, nel tempo opportuno, quello della storia che insegna. 

Durante la rimozione delle macerie del ghetto di Varsavia, tra i calcinacci e le polveri delle ultime pietre nei dintorni dell’orfanotrofio, venne ritrovata testimonianza di quanto era stato, l’ultima cartolina illustrata prodotta. 

La fotografia di piccoli fiori, di un blu ormai pallido, e una didascalia: non ti scordar di me.

Janusz Korczak
Janusz Korczak
AA.VV.
Dalla parte dei bambini. Sempre.Raccolta degli Atti del Convegno del 16 marzo 2019. I Convegni Internazionali si inseriscono in un circuito di eventi organizzati dall’Associazione Montessori Brescia per contribuire alla valorizzazione e alla diffusione del pensiero e del metodo pedagogico di Maria Montessori. Raccolta degli Atti con gli interventi di: Luca Palmarini, Università Jagellonica Alessandro Volta, pediatra neonatologo Alessandro Vaccarelli, professore associato di Pedagogia Generale e Interculturale all’Università dell’Aquila Dario Arkel, professore di Pedagogia Sociale all’Università di Genova