Janusz Korczak: modello ed exemplum per una pedagogia della resilienza e della resistenza
E torniamo a Korczak, non tanto per ritrarre un suo profilo25, quanto piuttosto per individuare alcuni aspetti importanti del suo lavoro e del suo impegno; e anche per dare risalto alla statura e alla postura del suo essere pedagogista ed educatore in condizioni estreme.
Quel Dio che muore nei campi di sterminio, quell’umanità di cui sembra si perdano le tracce dentro lo svilimento indotto da leggi perverse e a un tempo “razionalmente” concepite e applicate, le condizioni estreme di vita e l’annichilimento sono i tratti salienti che poco la parola riesce a descrivere, segnando quell’indicibilità che pure va detta e coltivata anche a costo, come dice Mantegazza, riprendendo Celan, di “balbettare” la Shoah26. Ma a fronte di tutto ciò, dentro la Shoah una parabola come quella di Korczak ancora oggi ci consente di dire che la condizione umana è fatta salva quando il gesto, la parola, l’intenzione dell’educare riconduce l’esperienza estrema, la più estrema di tutte, al senso dell’umano, non solo quando la singola esistenza trova salvezza, ma anche quando tutto è perduto: l’immagine di Korczak che accompagna i suoi bambini, che li prepara alla morte anche attraverso “L’ufficio postale”, la storia di Tagore che rappresentano teatralmente, costituiscono l’exemplum, la matrice etica da assumere come modello, lo specimen di fronte al quale l’educatore, qualsiasi educatore, dovrebbe sempre confrontarsi.
Quanto deboli, come educatori, siamo di fronte a quelle sollecitazioni che nel nostro piccolo mondo di pace inserito in un mondo di guerre ci fanno precipitare le energie, collassare la motivazione, spegnere l’intenzionalità? (mi riferisco evidentemente a quel che si definisce burn out). E quanto è formativo per un giovane o una giovane che si avventura nel mondo dell’educazione leggere, capire, sognare Korczak?
Quella scena ha da dirci molte cose, ancora oggi.
Ci racconta l’importanza di affrontare i traumi infantili, il rischio di morte o la prossimità alla morte che la Storia, ma non solo essa, produce. Pensiamo ai bambini di Chernobyl, pensiamo ai bambini soldato, ai bambini palestinesi a Gaza, ai piccoli profughi che arrivano dal mare. Pensiamo - anche quando le situazioni si fanno “private” -a quei bambini che, vivendo in condizione di malattia terminale, devono vedersi garantire fino alla fine una cura educativa, la più dolce possibile, anche sotto la forma di accompagnamento alla morte.
Dietro quella scena, ci sono i giorni raccontati nel Diario del ghetto (siamo nel 1942)
27, che sono il punto quasi apicale di un’attesa: un’educazione che va avanti nonostante tutto (funzionano le regole, il teatro, il tribunale…), con pochi mezzi, in un contesto di privazioni e di frustrazione dei bisogni primari (si ha fame e si ha freddo), a segnalare (e scusate la provocatorietà dell’affermazione) che il motore dell’educare non sono né le tecnologie né roboanti progetti che siamo soliti chiamare “didattici” (senza nulla togliere alla Didattica).