Alessandro Vaccarelli

Alle origini della pedagogia dell’emergenza: Maria Montessori e l’educazione nei contesti di catastrofe1

Professore Associato Pedagogia Generale e Interculturale e
Presidente Corso di Laurea in Scienze della Formazione e del Servizio sociale Università dell’Aquila

L’educazione e le catastrofi

La “catastrofe”, per coloro i quali, come molti di noi, sono cresciuti
nel mito della fine della storia2, sembra non appartenerci. Essa è alterasi svolge sempre in un altrove, o in un altro tempo storico, o, ancora, accade sempre ai danni di qualcun altro.

La percezione che la “scena” della vita sociale non possa essere turbata da eventi imprevisti e improvvisi si scontra però con un mondo della natura che continua a mostrare la sua forza prorompente, che reagisce all’intervento umano, ma anche con lo svolgersi, comunque, della Storia. L’incertezza sul futuro torna ad imporsi anche su quest’ultimo fronte: la storia non è finita come annunciava Fukuyama all’indomani della fine della Guerra Fredda, e la crisi delle concezioni unilineari dello sviluppo e del progresso viene a produrre un disorientamento dell’uomo contemporaneo all’interno del suo mondo. Un terremoto, come una guerra, un incidente nucleare, come un attentato terroristico di massa o una carestia, sono eventi che non avvertono nessuno e che, comunque, anche nel mondo occidentale, avvengono. La parola “catastrofe” indica qualcosa di sottile. Non si limita infatti a significare soltanto il danno/i danni subiti, né semplicemente l’evento o il suo impatto su un sistema, nell’immediatezza del suo verificarsi. La cultura antica e la cultura medievale non possedevano un concetto generale astratto per quei fenomeni che oggi rientrano nella categoria di catastrofe3, pur avendo essa una derivazione etimologia dalla lingua greca: il verbo strépho, che ha tra i suoi diversi significati, quelli di: «‘girare’ nel senso di ‘girare la barra del timone’, mutando rotta, oppure ‘volgere lo sguardo’, ‘ruotare le pupille’, cambiando panorama’»4. Nel medioevo il termine sopravvive soltanto all’interno di ambiti lessicali di carattere specialistico, ad esempio di tipo medico, ad indicare l’alterazione e la patologia dei processi digestivi5. È in piena modernità, con il terremoto di Lisbona del 1755, che “catastrofe” inizia ad essere introdotto anche nell’ambito semantico che noi oggi conosciamo, dunque a significare annientamento, consumazione dello stato delle cose, ma anche trasformazione, salto da un ordine ad un altro, immediato cambio di direzione, sconvolgimento radicale e irreversibile. In questa direzione «la catastrofe non è solo una figura tradizionale della distruzione e dell’annientamento, ma un simbolo poderoso della trasformazione»6. Se nel medioevo il disastro (da dis-astrum, astri avversi) annuncia la collera divina, ora la catastrofe può annunciare l’idea del cambiamento, in linea con un altro significato di questa parola utilizzato in ambito drammaturgico: nella voce Catastrophe dell’Enciclopédie il termine viene ricondotto al cambiamento o alla trasformazione che giunge alla fine dell’azione d’un poema drammatico, e che la porta a compimento7.

La pedagogia, nel suo sviluppo storico, non sembra aver avuto forte interesse per le catastrofi in senso stretto intese, salvo il lavoro di grandi figure di pedagogisti ed educatori sui quali, tuttavia, ancora è assente, o quasi, una riflessione sul rapporto tra le loro teorie e il loro operato da un lato, e le situazioni catastrofiche dall’altro. Rimandando ad altre letture per le questioni filosofiche, ma in senso lato anche pedagogiche, aperte da Rousseau, Voltaire e Kant8 in merito al terremoto di Lisbona - che finalmente aprono la via dell’emancipazione della cultura europea da un orientamento ‘superstizioso’ e fatalista, e al aprono il terreno al pensiero razionale e scientifico -, ci limitiamo qui ad elencare alcuni tra i più significativi esempi: Maria Montessori, il terremoto di Reggio Calabria e Messina9 e quello di Avezzano10; sempre Maria Montessori, i profughi di guerra e l’idea di istituzione di una Croce Bianca rivolta ai bambini11; Janus Korczack, il suo lavoro con gli orfani del Ghetto di Varsavia e la Shoah (letteralmente “catastrofe”)12; Reuven Feuerstein, il cui metodo trae origine dall’esperienza con soggetti sopravvissuti ai lager nazisti13; Danilo Dolci e il lavoro nel post-terremoto del Belice. 

Come definire una pedagogia che si occupi di catastrofi, rischio, e quindi di prevenzione, gestione dei traumi individuali e collettivi, ricostruzione sociale, resilienza14, resistenza15?

È forse necessario oggi riflettere, in Italia, sull’opportunità di introdurre nello scenario delle pedagogie specialistiche anche la pedagogia dell’emergenza, quale proposta, teorica e operativa - ancora largamente da sviluppare - da porre nel crocevia tra riflessione pedagogica, ricerca e intervento educativo e didattico, per risolvere i problemi complessi che le emergenze, appunto, aprono in campo pedagogico. In essa si intende il concetto di emergenza nel suo significato più fortesul quale già altre scienze attigue ormai consolidate, come la psicologia dell’emergenza o la sociologia dell’emergenza, lavorano ormai in modo fattivo. Essa si propone dunque come disciplina16: riflessivanel sondare o approfondire categorie quali quelle di rischio, incertezza, senso di precarietà dell’esistenza, trauma, resilienza e resistenza, ecc.; esplorativa, poiché affronta, anche attraverso la ricerca sul campo, i fenomeni emergenziali nelle loro implicazioni su individui e comunità da un lato e nelle loro implicazioni in campo educativo dall’altro; critica e trasformativa, operando per consapevolizzare e coinvolgere gli attori sociali nella gestione (democratica, dal basso) della ricerca delle soluzioni che riguardano la ri-progettazione dei territori e dei tessuti sociali; operativa e metodologica, poiché studia e applica modelli utili alla prevenzione primaria e secondaria, definisce le azioni e le migliori pratiche educative; orientata all’apertura disciplinare, poiché intrattiene rapporti interdisciplinari (in primis con la psicologia dell’emergenza e con le scienze sociali) ed intradisciplinari (pedagogia sociale, pedagogia interculturale, educazione degli adulti, ecc.) per poter definire meglio, in chiave pedagogica, concetti, metodi e strumenti di ricerca e di intervento.

È ormai assodato che Maria Montessori rappresenti, per chi si è occupato di emergenze dei nostri giorni, soprattutto nei luoghi terremotati del Lazio e dell’Abruzzo, e per studiosi raffinati del pensiero e dell’opera montessoriana, come Tiziana Pironi17, l’anticipatrice più sensibile e forse più “completa” della pedagogia dell’emergenza. Come vedremo, il discorso può estendersi anche al tema della resilienza, un termine, questo, non ancora in uso negli anni in cui la grande pedagogista opera, ma che risuona in tutte le sue riflessioni.

Il terremoto di Messina e il metodo Montessori

«Per l’asilo di Melicuccà tutto è pronto: è già arrivato il materiale Montessori: saranno a breve a posto tavoli e seggiolini e quel che più importa si sono trovate le maestre: una è un po’ giovane: diciassette anni»18.

A parlare è U. Zanotti-Bianco, uomo politico e di cultura fortemente dedito alla causa meridionale (1889-1963), che con soddisfazione, e senza nascondere qualche criticità, annuncia l’apertura di un asilo montessoriano in un paese calabrese colpito dal devastante terremoto di Messina e di Reggio Calabria nel 1908.

Ci troviamo in un momento storico e sociale di per sé piuttosto problematico: l’Italia liberale dei primi anni del ’900, e soprattutto il suo meridione, la cui ‘questione’ tra povertà e analfabetismo, è ancora lontana dall’essere risolta; tuttavia il terremoto si consuma nel contesto di uno stato-nazione, con i suoi apparati burocratici e istituzionali, e con un sistema di istruzione che, pure, e nonostante le note criticità, è obbligatoria. Non dimentichiamo che il Novecento è il secolo dell’infanzia, il secolo in cui - tra luci e ombre - le grandi questioni riguardanti i bambini e le bambine (analfabetismo, lavoro minorile, povertà e mortalità infantile) cercano di essere affrontate attraverso una nuova cultura dei diritti e attraverso l’impegno educativo. Che figure quali Gaetano Salvemini, Giuseppe Lombardo Radice, Maria Montessori, lo stesso Zanotti-Bianco, si siano interessate del terremoto di Messina e Reggio non deve stupire, e non deve stupire sia perché si entra nel merito di questioni legate ad una sensibilità rinnovata della pedagogia di fronte a bambini in carne ed ossa, sia perché il contesto più generale rafforza l’idea dell’istruzione e dell’assistenza dell’infanzia più marginale. 

Il terremoto, seguito da un maremoto di vaste proporzioni, distrugge due città, Messina e Reggio Calabria, miete decine di migliaia di vittime, genera moltissimi orfani, apre una voragine nella già drammatica condizione sociale dell’infanzia meridionale, si colloca come ulteriore fattore critico in una delle zone economicamente più deboli del giovane stato italiano19

In questo contesto, nel 1910, viene fondata l’ANIMI (Associazione Nazionale per gli Interessi del Mezzogiorno d’Italia, ancora oggi attiva), con lo scopo di supportare le popolazioni colpite dal sisma e di rilanciare l’idea dello sviluppo del meridione. Ricostruzione, ripresa economica, emigrazione, analfabetismo, condizioni igieniche: questi i tanti problemi da affrontare, che le sole forze dell’Animi non avrebbero potuto reggere. La scelta dell’associazione fu così di tipo strategico: intervenire su un ambito limitato, la scuola, considerata come uno dei principali volani per lo sviluppo dell’intero meridione. In questa lungimirante impresa, che vede la politica educativa e scolastica come il perno per pensare ad una ricostruzione di tipo sociale quale premessa fondamentale per lo sviluppo economico, parteciparono - tra le altre - personalità quali Gaetano Salvemini, il pedagogista catanese Giuseppe Lombardo Radice, lo storico Pasquale Villari, ministro della Pubblica Istruzione dal 1891 al 1892. L’apertura, fortemente sostenuta da G. Lombardo Radice, con i finanziamenti di specifici Comitati di Soccorso, di 3 asili a indirizzo montessoriano20 si inscrivono nel programma dell’ANIMI per il rilancio delle zone colpite dal terremoto, rivolgendo il metodo ai bisogni specifici della situazione post-sisma e animandolo del più generale spirito meridionalista21.

L’istituzione delle Case dei Bambini - non certamente esente da problemi organizzativi anche legati al reclutamento delle maestre, rispetto al quale la stessa Montessori manifestò espressioni di contrarietà - si pone un compito di pedagogia sociale: educare i piccoli, negli anni della formazione della personalità, al senso della responsabilità individuale e all’assunzione del senso di eticità. 

Soffermiamoci sulle posizioni della Montessori su quel mondo infantile che la pedagogista guarda con gli occhi della scienza, ma anche con quella profondità etica e sociale che ha fortemente caratterizzato il suo pensiero e il suo Metodo. È noto come l’opera montessoriana nasca a sostegno dell’infanzia più marginale, partendo dai bambini deficienti, passando per quelli che sono segnati dalle condizioni sociali più difficili, orientandosi, infine, verso una più generale cultura dell’infanzia. Non stupisce dunque il suo interesse per i bambini terremotati e la sua attenzione pedagogica nell’offrire loro il suo stesso Metodo. Una delle prime Case dei Bambini fondate a Roma accoglieva alcuni bambini sopravvissuti al sisma che aveva colpito Calabria e Sicilia. 

Così scrive ne Il segreto dell’infanzia
«(…) qui si trattava di bambini orfani sopravvissuti a uno dei più grandi cataclismi: il terremoto di Messina: una sessantina di piccoli raccolti soli sotto le macerie. Non si conoscevano né i loro nomi né la loro condizione sociale. Uno choc tremendo li aveva resi pressoché tutti uniformi: abbattuti, muti, assenti; era difficile nutrirli e farli dormire. Nella notte si sentivano grida e pianti. Fu creato per loro un ambiente delizioso e la Regina d’Italia si occupò di loro generosamente. Vennero costruiti mobili piccoli e chiari, lucenti, con piccole credenzine con sportelli, e con tendine colorate, tavoli circolari estremamente bassi e di colore vivace, tra altri tavoli rettangolari più alti e chiari, sedie e poltroncine. E soprattutto si diedero ai bambini attraenti stoviglie, piccoli piatti e posate piccoline, tovagliette minuscole e persino saponi e asciugamani adatte a mani di piccini. 

Ovunque ornamenti e segni di accuratezza. Quadri alle pareti e vasi di fiori dappertutto»22.

Prendiamo in esame, nel testo, alcune parole che creano un fortissimo contrasto, quasi una tinta in bianco e nero; abbattuti, muti, assenti, cataclisma, grida, pianti/delizioso, attraenti, ornamenti, lucenti, accuratezza, colorate. A fronte di condizioni di dolore psicologico espresse dal primo gruppo di termini, troviamo, nel secondo gruppo, la risposta pedagogica che, con la mediazione dell’ambiente, viene messa in atto. Si tratta infatti di aggettivi e sostantivi che richiamano le idee della Montessori circa la bellezza e l’ordine come bisogno del bambino e che rappresentano una forma di cura non solo educativa ma anche psicologica, nel contesto di una situazione di trauma non ancora elaborato. 

In aggiunta alla componente estetica e al dimensionamento a misura di bambino, Maria Montessori evidenzia anche il ruolo delle suore del convento francescano che si trova ad ospitare i bambini, e con esso l’importanza dell’ordine e delle buone maniere: 

«Esse insegnavano ai bambini le buone maniere con un’accuratezza che si andò perfezionando di giorno in giorno (…). Sembrava che i bambini fossero insaziabili di tali raffinatezze. Essi avevano imparato a tenersi a tavola come principi e anche avevano imparato a servire a tavola come camerieri di alto rango. Il pranzo che non attraeva più per l’Alimento, attrasse per lo spirito di esattezza, per l’esercizio dei movimenti controllati, per le conoscenze che elevano: e a poco a poco anche il buon appetito infantile risorse insieme ai sonni tranquilli. (…) Fu qui che uscì fuori per la prima volta il termine di conversione: “Questi bambini mi fanno l’impressione di convertiti” disse una delle più distinte scrittrici italiane del tempo. Non c’è conversione più miracolosa di quella che fa superare la melanconia e l’oppressione, e trasporta in un piano di vita più alto»23.

Il contesto - l’ambiente, diremmo, per utilizzare la terminologia montessoriana - organizzato, esteticamente curato, rassicurante, tranquillo, scandito da buone maniere intese come una risposta pedagogica non tanto alle convenzioni sociali quanto piuttosto a quel bisogno psicologico di ordine che la pedagogista considera una delle caratteristiche principali dell’infanzia, si configura quindi come lo sfondo - educativo, pedagogico, dunque intenzionalmente predisposto - per il recupero delle energie creative che consentono al soggetto di uscire dalla condizione di trauma: ciò che oggi intendiamo per resilienza. 

Nel 1915, mentre l’Italia entrava in guerra, un altro grande terremoto sconvolge le regioni del centro-sud, radendo al suolo la città di Avezzano, il suo circondario, seminando distruzione e decine di migliaia di vittime. Ancora una volta, l’emergenza infanzia significa bambini morti, feriti, rimasti orfani e senza tutela. In entrambi gli eventi la protezione e presa in carico dei minori orfani o abbandonati furono affidate all’Opera Nazionale di Patronato “Regina Elena” - presieduta dalla contessa Gabriella Spalletti Rasponi - che fu istituita proprio in occasione del terremoto calabro-siculo del 28 dicembre 1908. Anche nel caso del terremoto di Avezzano il metodo Montessori viene assunto, con intenzioni lungimiranti, come “misura” (oggi diremmo di sviluppo) volta a garantire una ripresa della vita dell’infanzia attraverso un’educazione di alta qualità. 

Il “Patronato per gli asili nelle terre danneggiate dal terremoto del 1915”, sotto la spinta di illustri personaggi del tempo come Giovanni Cena, Leopoldo Franchetti e Camillo Corradini, che ne fu anche Presidente, si impegnò alla costruzione di sette Asili d’infanzia nei comuni danneggiati dal terremoto. Il Patronato fu attento ai diversi aspetti relativi all’istituzione degli asili, a partire dalla costruzione o acquisizione di fabbricati, fino al metodo educativo da inserirvi. Si decise così di inserire negli asili il metodo Montessori grazie al quale fu possibile creare dei servizi potenzialmente di qualità24, per supportare non solo l’infanzia terremotata ma l’intero territorio stesso coinvolto nella catastrofe.

Intorno alle principali catastrofi naturali dell’Italia liberale possiamo iniziare a profilare quelle istanze che, prendendo forma attraverso il ruolo dell’ANIMI e di pedagogisti come ad esempio Maria Montessori, ci consentono di delineare alcuni primi tratti dell’intervento educativo in emergenza, tratti che poi troveranno corpo e spazio nelle più recenti acquisizioni scientifiche e nelle più recenti iniziative di intervento in contesti di catastrofe: 
  • l’esigenza di una sistematizzazione degli interventi; essa va intesa sia come organizzazione sistematica (dunque capillare, pianificata sul territorio, strategica) sia come insieme di interventi attenti e orientati all’intero sistema, dunque proiettati ad uno sviluppo umano e sociale disposto sui tempi lunghi di un processo di ricostruzione che, si può evincere, riguarda anche gli aspetti sociali, economici, culturali delle comunità colpite: il ruolo dell’ANIMI (organizzato per Comitati, attento alle realtà locali, orientato alle esigenze di più generale sviluppo), nell’insistere nei territori terremotati sui problemi educativi, scolastici, di alfabetizzazione richiama alla mente quello svolto oggi da agenzie e organizzazioni governative e non governative che implementano, in contesti emergenziali di diverso tipo (calamità, guerre, conflitti etnici, povertà…), una progettualità tesa a risollevare le sorti di comunità e popolazioni considerando l’istruzione come principale investimento per lo sviluppo umano e sociale; 
  • la centralità della cura educativa - espressa sotto la forma di attenzione verso i soggetti - nella restituzione a singoli e comunità della dignità sottratta dalle situazioni emergenziali e post-emergenziali, e volta al superamento del trauma, al ripristino delle energie individuali (la conversione, come la definisce M. Montessori), al ricollocamento in una condizione di vita che rilanci il senso della progettualità futura, volta, infine, come diremmo noi oggi, a stimolare il comportamento resiliente
  • la predisposizione di servizi che, seppure essenziali, siano di alta qualità, in grado di funzionare anche in situazioni precarie (ad esempio la scuola in una tendopoli) facendo leva sull’idea di cura dell’ambiente, delle relazioni educative, della dimensione didattica.

La guerra come catastrofe: la “Croce bianca dei bambini”

È difficile, forse, tracciare in modo lineare un rapporto tra guerra ed educazione quando, soprattutto con il Novecento, assistiamo ad uno dei più drammatici momenti della storia, in cui la guerra, tra mito e disastro, si traduce negli immaginari (la guerra “igiene del mondo”, l’eroismo e l’amor di patria) e nella realtà (morte, distruzione, povertà) in modi sostanzialmente divergenti. Nella sua teoria del secolo breve, Hobsbawm non a caso considera la prima fase del Novecento, quella che parte dal 1914 e arriva al secondo dopoguerra, come “età della catastrofe”, caratterizzata dalle enormi tragedie dei due conflitti mondiali, dalla crisi del liberismo e del mercato mondiale, dall’affermarsi di sistemi politico-ideologici di tipo totalitario25. Le guerre del Novecento assumono caratteri straordinariamente nuovi rispetto a quelle del passato: non solo diventano di larghissima portata (mondiali, appunto), ma coinvolgono in maniera assolutamente prorompente le popolazioni civili, e con esse i bambini. Ma c’è di più. Le guerre non solo toccano le infanzie minando la vita o le condizioni di vita, ma entrano, soprattutto con i totalitarismi e i loro apparati ideologico-educativi, a far parte del ‘mondo dei valori’ promosso dalla scuola e dalle istituzioni educative extrascolastiche. 

Il carattere antinomico del Novecento, e con esso il carattere antinomico della pedagogia (Cambi, 2005), avanza tra luci e ombre anche rispetto al tema della guerra, che mentre vede la complicità tra ideologie e sistemi educativi, diventa uno dei campi di intervento e di riflessione di Maria Montessori, che rappresenta anche una delle principali figure - se non la principale - impegnate a livello mondiale sui temi della pedagogia della pace26

Se profondo fu il coinvolgimento di Maria Montessori nelle opere di assistenza a favore dei bambini rimasti orfani nel terremoto del 1908, non meno e forse ancora più sentito fu il suo impegno rispetto alle condizioni dei bambini che avevano riportato traumi con la Grande Guerra. Se all’origine dei cataclismi non vi è una responsabilità umana, la guerra, “malattia morale” dell’uomo, sembra generare nella pedagogista un maggiore impegno civile e pedagogico. 

L’attenzione della Montessori sulle “ferite” di guerra nel mondo infantile rimanda soprattutto alla componente psicologica. Torna utile in questo senso la precedente esperienza dei terremoti per spiegare meglio questo concetto: 

«L’idea di considerare il fanciullo come un “ferito” è stata presa forse un po’ troppo letteralmente; si è organizzata un’opera di assistenza, ma di assistenza quasi esclusivamente fisica; mentre l’idea che io voglio difendere, e che è basata su esperienze avutesi così in Francia che in Italia, dove tanto grande è stato il numero delle persone che hanno sofferto in conseguenza dei grandi terremoti, è che il fanciullo ‘rifugiato’, per quanto indubbiamente colpito, lo è in modo diverso da chi è colpito fisicamente»27

I ragazzi profughi (in particolare la Montessori si riferisce, come vedremo a breve, soprattutto a bambini belgi e francesi ospitati in una scuola parigina) vengono descritti come tremanti e paurosi, incapaci di comprendere, stupefatti28. Le ferite mentali di cui ella parla non soltanto generano preoccupazioni riferite ai singoli individui, ma costituiscono un rischio per l’intera ‘razza’, noi oggi diremmo per l’intera popolazione e per l’intera società, e quindi ancora di più urgenti da affrontare: 

«in questa guerra consuntiva di popoli i bambini sono vittime specialmente degne di richiamare una sollecita cura. (…) Gli shocks psichici nei bambini rappresentano vere e proprie ferite nella razza minacciata da degenerazione del sistema nervoso. (…) Sono i bambini di oggi quelle ‘forze di ricostruzione’ sulle quali speriamo nel dopo guerra, e occorre allontanare da esse le terribili conseguenze della degenerazione»29

Ancora una volta il suo Metodo viene messo in campo in situazione di emergenza. In un viaggio a Parigi - siamo negli anni della Prima Guerra Mondiale - Maria Montessori osservò che le diverse scuole aderenti al metodo erano state chiuse e che i loro insegnanti stavano dedicandosi al lavoro della Croce Rossa. Tutte, tranne quelle gestite dalla newyorkese Mary R. Cromwell, accesa sostenitrice del metodo Montessori. Anzi, esse aprono i battenti proprio in occasione dei primi effetti della guerra sui bambini. È significativa la presenza di maestre reclutate tra i profughi o le vedove di guerra, come è significativa l’apertura di un Atelier de fabrication du Materièl Montessori in cui vengono reclutati al lavoro invalidi e mutilati di guerra. La Montessori rimase impressionata non solo dal tipo di impegno civile, ma anche nel vedere come il suo metodo contribuisse a ripristinare condizioni di vita normali in minori profondamente turbati dall’esperienza bellica.

La stessa Cromwell così descrive le condizioni dei piccoli profughi francesi e belgi a poche settimane dall’inizio della guerra: 

«(…) molti bambini francesi e belgi (gli uni venuti dalla30 Fronte a piedi, gli altri trasportati su carri pesanti, trabalzati senza tregua e talvolta ribaltati) portavano ancora le tracce profonde delle sofferenze subite durante quell’esodo spaventevole»31

Di forte rilievo pedagogico, le segnalazioni di Maria Montessori sul ruolo dell’ambiente che accoglie i bambini, ma anche sul ruolo del gioco e delle attività spontanee quali forme rilevatrici delle condizioni infantili: 

«Lo stato psichico dei piccoli profughi differiva (…) secondo l’ambiente. 
A Fontenay, raccolti insieme in grandi dormitori, ove niuna cosa ricordava le loro case, una specie di stupore li pervadeva, rendendoli incapaci, per molto tempo, di manifestare alcun interesse. 
A S. Sulpice, invece, ove ogni famiglia ha una stanza separata nell’antico Seminario, si venne man mano ridestando nella loro mente la visione di un nuovo nido e, nella Casa Montessori da me fondata in quel ricovero (…) i fanciulli vivevano in una continua attività. I loro giuochi erano sempre questi: mettere uno sull’altro degli oggetti, anche e più pesanti, ed accatastarli, come se quei bambini fossero assaliti dal desiderio di ricostruire… Nei loro atti si riflettevano le scene vissute nei villaggi invasi!»32.

Dal caos iniziale, da uno stato mentale reduce da esperienze di grande paura, che è lo specchio delle scene di distruzione e di rischio di morte, l’applicazione del Metodo porta risultati nel benessere psicologico dei bambini e nelle loro acquisizioni, tanto che anche la stessa Montessori ne riconosce una specifica funzione: 

«applicando il mio metodo Miss Cromwell ha trovato che esso costituiva una vera e propria cura di tutti quei mali. (…) La maggior parte di quei ragazzi cominciava a diventare tranquilla con l’esecuzione dei semplici esercizi contenuti nel mio metodo. Quei piccoli derelitti cominciavano a ritrovare la gioia della fanciullezza»33

Fu così che, sotto l’impulso delle esperienze vissute nel clima bellico, durante un soggiorno in California, nel 1917, Maria Montessori dà impulso ad una campagna per la creazione - di fatto mai avviata - della «Croce Bianca» dei bambini34: un’organizzazione che, per parallelismo con la «Croce Rossa» dedita ai soldati feriti in guerra, avrebbe dovuto occuparsi, attraverso la formazione degli insegnanti e dei volontari, dei bambini che hanno subito traumi fisici o psichici derivanti dalla guerra.: 

«Bisogna formare un personale che sappia e voglia non già andare negli ospedali normalmente organizzati, ma esplicare la propria opera in situazioni catastrofiche, sui luoghi dei disastri. (….)»35

Nell’idea della Montessori riguardante la Croce Bianca troviamo espressa l’esigenza di un intervento integrato, attraverso il lavoro di medici (col ruolo di studiare i fenomeni psichici e le malattie nervose che “si manifestano nei ragazzi profughi da regioni invase”), di operatori assistenziali, di insegnanti. 

«Io immagino il volontario della Croce Bianca come un una combinazione di maestro e d’infermiere che dovrebbe specializzarsi nel trattamento dei disturbi nervosi e delle malattie psichiche o mentali»36.

Come ricorda Carolina Montessori, «la Croce Bianca (il bianco rappresenta il sistema nervoso) dovrebbe collaborare con la Croce Rossa (il rosso significa sangue)»37.

Ancora una volta, le istanze anticipatrici di quelli che saranno anche modelli di gestione delle emergenze (tipici delle organizzazioni complesse che operano in situazioni di catastrofe e postcatastrofe, che prevedono l’integrazione dei saperi e delle figure professionali), la sensibilità umana e l’impegno scientifico e metodologico di fronte ai problemi che le stesse emergenze generano, fanno di Maria Montessori forse il principale pioniere e iniziatore di una pedagogia dell’emergenza in senso stretto intesa. Nella scheda che segue, vediamo come anche in tempi molto recenti il metodo Montessori e la sua vocazione di educazione alla pace, continuino ad operare in contesti di forte criticità e forte conflittualità sociopolitica38.

Contributi per una pedagogia della resilienza
Contributi per una pedagogia della resilienza
AA.VV.
Ripensare l’educazione per ricongiungere l’infanzia alla vita reale.Raccolta degli Atti del Convegno del 3 marzo 2018. I Convegni Internazionali si inseriscono in un circuito di eventi organizzati dall’Associazione Montessori Brescia per contribuire alla valorizzazione e alla diffusione del pensiero e del metodo pedagogico di Maria Montessori. Raccolta degli Atti con gli interventi di: Silvia Vegetti Finzi, psicologa e scrittrice Fulvio Scaparro, psicoterapeuta e scrittore Laura Pigozzi, psicoanalista e scrittrice Alessandro Vaccarelli, professore associato di Pedagogia Generale e Interculturale all’Università dell’Aquila Raffaele Mantegazza, professore associato di Pedagogia Generale e Interculturale all’Università di Milano Bicocca