David Connolly

Responsabile del Programma di Prevenzione dei Conflitti
presso The Hague Institute for Global Justice - Olanda

Scuola oltre la Guerra: dagli spazi sicuri alle zone di pace e lo sviluppo istituzionale

Buongiorno a tutti, 
è un grande onore essere qui, grazie a Rosa Giudetti, presidente, e al suo team, Carolina Montessori e altri illustri ospiti, grazie per avermi invitato a partecipare. Vorrei parlare del ruolo della scuola come istituzione in sanguinosi conflitti e guerre. Rama Reddy oggi ci ha posto una bellissima domanda: come definiamo l’apprendimento. Per me significa essere esposti a nuove idee e nuove pratiche. Queste, dal mio punto di vista di ex-accademico, riguardano la ‘conoscenza verificabile’, cioè conoscenza che possa essere ‘verificata’ con prove. Questo è ciò che vorrei presentare oggi. Tenendo a mente il credo montessoriano, vorrei dare un taglio internazionale e concentrare l’attenzione su molte situazioni di nazioni affette da violenti conflitti e guerre. Vorrei cercare una risposta alla domanda: “Cosa possiamo aspettarci dalle scuole in contesti di guerra? E cosa possiamo aspettarci da noi, come estranei a questi contesti?”. 

Brevemente, vengo da The Hague Institute for Global Justice, un think and do tank19. Questo significa che non conduciamo soltanto numerosi analisi e report per la definizione di politiche, ma lavoriamo anche direttamente sul campo, nelle scuole - in particolare - e in un range molto vario di contesti nazionali. Tre sono i nostri compiti principali:
  • ricerca, come già accennato,
  • facilitazione di dialogo ad alto livello dentro e fuori L’Aia,
  • programmi di formazione.

Siamo indipendenti, apartitici e lavoriamo in diverse regioni del mondo. Devo ammettere che siamo abbastanza giovani, abbiamo iniziato nel 2011 e io ho lavorato presso l’istituzione per due anni. 

Abbiamo sentito tante citazioni eccellenti della dottoressa Maria Montessori. Vorrei concentrarmi su una frase del 1949, pronunciata da Montessori: “Stabilire una pace duratura è un compito dell’istruzione; tutto quello che i politici possono fare è tenerci fuori dalla guerra.” È un pensiero molto profondo su cui vorrei focalizzare l’attenzione, e ritornerò su questo punto nelle mie conclusioni. Venne pronunciata nel 1949, mentre il mondo si riprendeva da una delle guerre più drammatiche di sempre, che aveva avuto un fortissimo impatto sui civili. Oggi abbiamo problemi simili, forse ancora più difficili, da affrontare. 

Possiamo nominare oggi il recentissimo bombardamento all’ospedale afgano MSN di Kunduz. Purtroppo, siamo quasi abituati a vedere e sentire queste terribili notizie. 

In termini di istruzione, sappiamo che più di un miliardo di bambini vivono in Paesi devastati da sanguinosi conflitti. E, peggio ancora, dal 2009, abbiamo assistito a un modello molto preoccupante con più di 30 Stati che hanno sofferto attacchi mirati a scuole, insegnanti e studenti e visto l’uso di scuole da parte di forze armate. Più in generale, sappiamo che alcune guerre continuano senza prospettive di soluzioni durevoli e, per certi versi, stanno diventando più mortali per molti civili. 

Siria, Ucraina, Sudan, Somalia sono soltanto alcuni esempi. 

Allo stesso tempo, sappiamo che l’istruzione può causare conflitti: istruzione segregata, dove l’educazione può diventare la causa strutturale di un conflitto. Sappiamo anche, purtroppo, che persone molto ben educate e appartenenti alla nostra società, possono ancora oggi andare sul fronte di guerra. 

Dunque, oggi voglio iniziare a pensare al bisogno di consenso nel ruolo trasformativo che la scuola può avere durante le guerre e mi baserò su esempi di sane pratiche. 

Quest’anno l’ONU compie 70 anni e tra tre anni festeggeremo la Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo, redatta nel 1948, che riconosce il diritto di ogni bambino all’educazione primaria - punto cruciale della mia discussione di oggi. È successo molto nei decenni a seguire, ma vorrei fare un salto al 1990, altro momento fondamentale, in cui la campagna per l’Educazione per Tutti venne portata avanti da diverse Agenzie ONU e dalla Banca Mondiale. La campagna fissava 6 obiettivi da portare a termine entro il 2015, che avrebbero portato all’accesso all’istruzione e colmato i bisogni di apprendimento. Nel 2000 la Comunità Internazionale adottò gli Obiettivi di Sviluppo del Millennio (MDG) e il MDG 2 si concentrava sull’iscrizione e accesso universale all’educazione primaria riaffermando ciò che era già stato sancito nella Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo. 

Facendo un altro salto temporale, negli anni Novanta ci furono altre guerre, molto complicate, in ex-Iugoslavia e in molte zone dell’Africa. È proprio qui che costatammo una necessità ancor più impellente d’istruzione, che giocava un ruolo ancor più importante nella risposta ai conflitti. In particolare, aveva un grande ruolo nel tentativo di far uscire gli Stati dalla guerra, chiamato, ‘ripresa post-conflitto e ricostruzione postbellica’. Il principio era che l’istruzione sarebbe stata in grado di creare una cultura più profonda di Pace e rispetto reciproco. 

Ritengo che questo sia l’approccio tradizionale all’istruzione e alla costruzione della Pace. Avrei voluto parlare di Evoluzione dell’educazione e della Costruzione della Pace, ma sarebbe stato inesatto; quindi ho preferito il termine Fluttuazioni

Questo perché nel 2012 - nonostante tutti gli importanti passi avanti, le leggi e il consenso internazionali- abbiamo dovuto fare un passo indietro. Siamo tornati indietro e abbiamo compreso la necessità del consenso per la protezione di scuole, insegnanti e studenti da ogni attacco. Per un certo verso siamo, perciò, tornati indietro rispetto ai passi avanti che avevamo fatto, ma da quel momento abbiamo registrato un rinnovato consenso internazionale e accordi sulla forte necessità di eliminare la violenza dalle scuole. Più recentemente, nell’ultimo weekend di settembre del 2015, abbiamo aggiornato i MDG e abbiamo adottato gli Obiettivi di Sviluppo Sostenibile (SDG). In particolare, il SDG 4 è andato oltre l’iscrizione e l’accesso alla scuola: aggiunge l’inclusione e la giustizia.

Con questa introduzione possiamo capire meglio come le scuole siano state parte attiva nella risposta ai conflitti, nonostante ciò non sia stato sempre segnato da passi avanti. 

Come anticipato, voglio esaminare il potenziale di trasformazione delle scuole, come possano funzionare da catalizzatore nella prevenzione di sanguinosi conflitti e come riescano a diventare zone di pace, stabilità e di riforme istituzionali nonostante le intricate e persistenti guerre. 

Per fare ciò, vi illustrerò la ricerca che ho condotto in tre contesti molto diversi l’uno dall’altro: Kenya, Nepal e Sudan del Sud. Pensare di utilizzare le nostre capacità in zone di pace e stabilità in zone così instabili, dà adito a numerosi rischi reali per studenti, alunni e genitori. Dobbiamo ricordarci che questo comporta dilemmi per Agenzie e donatori internazionali. Quando parliamo di Educazione e Costruzione della pace, ci sono molte definizioni. Vorrei proporre la seguente, che si concentra sull’intero sistema dell’istruzione, quindi ci fa pensare alla qualità dell’insegnamento, alla formazione degli insegnanti, al programma scolastico, all’amministrazione (cruciale nel sistema dell’istruzione), alle riforme politiche, allo sviluppo istituzionale e alla cooperazione. Ovviamente, poi, il contesto che urge la costruzione di pace è un contesto povero. Qui possiamo trovare la necessità d’inclusione sociale, di scuole a misura di bambino e di legittimazione. Questi sono soltanto alcune delle componenti fondamentali. 

Pongo nuovamente la domanda che ha fatto anche Lynn Lawrence: cosa intendiamo per Pace? Un termine tecnico è quello di Pace positiva: uno dei concetti più antichi di Pace. Venne creato negli anni Sessanta da Galtung, uno dei padri del concetto. Pace positiva significa che la società è riuscita a trasformare ed andare oltre le cause di conflitti violenti. La trasformazione è il punto chiave. Questo è l’ideale, ma in molti dei Paesi sopra menzionati si cerca d’istituire la stabilità, una sorta di normalità per bambini, insegnanti e genitori. È proprio in questo punto che l’istruzione può assumere un ruolo determinante: la scuola è - in ogni società - un’istituzione unica, così come l’istruzione, che è l’unica forma di sviluppo mobile, che si sposta con noi. Quando pensiamo alla stabilità, una volta raggiunta questa normalità, possiamo allora pensare alla costruzione della pace. Molti di questi Paesi cui faccio riferimento sono affetti in maniera grave da guerre, ma (come nel caso del Nepal) sono anche soggetti a enormi shock quali alluvioni, siccità, disastri naturali e causati dall’uomo. Perciò, dobbiamo anche pensare alla preparazione e risposta a disastri. Dobbiamo pensare, inoltre, al contesto in cui quel Paese si trova, all’importanza dello sviluppo sociale, politico ed economico e alla creazione dello Stato. 

Cosa significano Educazione e Costruzione della Pace per Agenzie quali l’UNICEF, l’UNESCO e altre ONLUS? 

Significa che l’educazione di base può essere un mezzo di stabilità e di riforma. 

Un altro principio molto importante è quello dell’intervento tempestivo. Sfortunatamente, è impossibile intervenire sulla scuola a conflitto risolto e terminato: bisogna iniziare il lavoro con gli insegnanti, i principali della scuola, le associazioni dei genitori e le altre istituzioni per portare stabilità. È molto importante, e tornerò più volte su questo punto, avere un approccio olistico. Questo significa cercare di capire la collocazione della scuola stessa all’interno dell’intero sistema educativo e quella della comunità rispetto allo Stato cui appartiene. È molto importante lavorare attraverso lo Stato, che può presentare molti dilemmi diversi, ma è uno dei princìpi chiave di questo schema. 

Infine, è la fragilità dello Stato. Come anticipato, molti Stati sono fragili di per sé, non soltanto per via dei conflitti, dei disastri naturali, dell’instabilità politica, degli Stati vicini, quindi dobbiamo tenerlo presente. 

Quindi la domanda è: “Fino a che punto può la scuola trasformare i sanguinosi conflitti? Può aiutare a costruire una Pace duratura?”. 

Oggi faccio riferimento allo studio molto importante condotto dall’UNICEF, durato un anno e terminato nel 2010, facente parte dei programmi globali dell’UNICEF e chiamato Education in Emergencies and Post-Conflict Transitions Program (EEPCT), che è stato applicato a 25-30 Paesi affetti da crisi. 

Il programma includeva vari punti adattati ai Paesi in questione, ma le componenti comuni includevano: 
  • scuole a misura di bambino, 
  • programma di Pace, 
  • costruire le capacità di sviluppo del Paese, 
  • costruire le capacità amministrative delle istituzioni della comunità. 
Farò riferimento, a Nepal, Kenya e Sudan del Sud. 

Inoltre, teniamo a mente l’importanza della conoscenza verificabile, quindi abbiamo testato il programma andando nelle scuole che non rientravano in questo e abbiamo posto loro le stesse domande, per avere un termine di confronto. 

Il programma EEPCT si poneva quattro obiettivi: migliorare la qualità di risposta all’istruzione; migliorare la resilienza nel settore dell’istruzione; rafforzare la previsione, prevenzione e preparazione; migliorare la evidence-base, in modo tale da poter redigere le future politiche sulla base di numerose prove reali. 

I tre stati sopra menzionati sono molto differenti tra loro, ma tutti affetti da sanguinosi conflitti e guerre. Ho potuto constatarlo in prima persona quando sono andato a parlare con persone provenienti da questi Paesi o che lavorano in questi Paesi. 

Alcuni parlano di emergenze complesse, il che significa emergenze che accadono in maniera simultanea. Queste fanno riferimento alla lunga storia di vecchi conflitti e disastri naturali e vengono anche chiamate crisi croniche o soccorso prolungato. Questo è il caso di Paesi che non riescono a trovare alcuna stabilità a lungo termine. 

Stati falliti o fragili sono termini che usiamo; alcuni utilizzano l’espressione ripresa postbellica, alcuni parlano anche di ripresa rapida. Un’espressione relativamente nuova per me è quella di Umanitario Più, che significa che questi Paesi hanno bisogni umanitari insieme a complesse necessità politiche e di sviluppo. L’ultimo termine è quello di transizione post-crisi

Ho parlato di questi termini e queste espressioni per tenere a mente che quando discuto Nepal, Kenya e Sudan del Sud è per esplorare analogie e differenze, nonostante siano estremamente differenti tra loro. Questo ci pone la seguente sfida: “È possibile trarre un insegnamento riguardo l’istruzione e la costruzione della pace guardando questi diversi Paesi?”

Nepal
Il Nepal ha una lunga storia in termini di transizione e democratizzazione: nel 1951 e 1991 i tentativi di introdurre la democrazia fallirono. Tra il 1996 e il 2006 vi fu l’insurrezione maoista, la guerra civile, in cui persero la vita 13.000 persone e ne sparirono ancor di più. Nel 2006 il mondo venne colto da sorpresa quando il partito politico di Mao, il Governo Popolare, divenne il partito leader e con l’assistenza dell’ONU portò riforme, tra cui una nuova costituzione, processi di disarmo, la mobilitazione dei team e la rintegrazione. Nel 2009 il primo ministro diede le dimissioni, soprattutto dopo la richiesta di integrazione dei ribelli maoisti nelle forze armate. Per molti anni il Nepal soffrì anche l’impasse politica, la costituzione non poteva fare passi avanti. Recentemente, dopo il tragico evento del terremoto, venne firmata una nuova costituzione insieme all’adozione di uno Stato Federale, ma non senza numerosi eventi di violenza in tutto il Paese. 

Lo studio che ho condotto sul Nepal si è concentrato sulla regione del Terai, nel Sud e al confine con l’India, in cui ci sono state recenti violenze. In questa zona vi era un conflitto tra diverse comunità; coinvolgeva più di 30 diversi gruppi armati; si registravano torti non soltanto tra la popolazione Medeshi del Terai e lo Stato di Katmandu, ma anche di classi, di caste e di genere. Dobbiamo anche tenere presente che il 31% della popolazione di questa regione viveva in povertà. Il conflitto si basava su intimidazioni, paura di estorsioni, violenza sociale e violenza di genere (probabilmente una delle violenze più difficili da osservare). Ovviamente tutto ciò aveva un enorme impatto sulla scuola. In breve, spesso le scuole non potevano aprire per colpa dell’instabile situazione. Le scuole venivano anche usate dai gruppi armati stessi come parte del conflitto. Nel 2009 un alto rappresentante dell’ONU affermò: “Non siamo ancora in una situazione postbellica, siamo ancora in guerra”. Questo era tre o quattro anni dopo l’ufficializzazione della fine della guerra civile. Ci mostra il livello di instabilità che affliggeva ancora parte del Nepal. 

Cosa ci faceva l’UNICEF in quel posto a quel tempo? Avevano adottato una strategia educativa olistica che prevedeva diversi interventi e includono i seguenti punti chiave: 
  • scuole come zone di pace, 
  • scuole a misura di bambino, 
  • sviluppo dei programmi scolastici nazionali, 
  • riduzione del rischio di catastrofi. 
La prima iniziativa (scuole come zone di pace) era un progetto abbastanza piccolo: vennero stanziati ‘solo’ 1,7 milioni di dollari americani per alcuni anni di lavoro. Era un progetto interessante perché coinvolgeva ONG locali, governi distrettuali e l’UNICEF. Si concentrava sulla protezione del diritto all’istruzione dei bambini, idea principe del progetto stesso. Inoltre, mirava ad eliminare la causa del conflitto di allora, che nasceva dall’esclusione di gruppi e enfatizzava l’inclusione senza discriminazione. 

Lavorando a livello scolastico, il progetto invitava le scuole in cui si contavano numerosi episodi di violenza, gli stakeholders e i gruppi armati ad avere un dialogo vis-à-vis per cercare di trovare dei punti d’incontro. Si constatò che persino i gruppi che erano in lotta costante convenivano sulla necessità di eliminare la violenza dalle scuole (abolendo la recluta di bambini-soldato e l’uso delle scuole come terreno di battaglia). Sostenevano che fosse necessario anche sradicare l’instabilità ed evitare di chiudere la scuola durante l’anno per via di eventi che coinvolgessero l’uso della violenza. Dopo che la prima scuola sottoscrisse un Codice di Condotta, ricevettero diversi fondi per migliorare le strutture scolastiche, la formazione degli insegnanti, la struttura gestionale che includeva associazioni di insegnanti e genitori, il comitato per la buona gestione della scuola. I fondi erano destinati anche a rendere queste istituzioni elette, affidabili e trasparenti. 

Quale fu il risultato? In primo luogo, in una piccola - ma significativa - parte del Nepal, dove vi era una tangibile minaccia all’instabilità nazionale, le scuole come zone di pace che avevano firmato il Codice di Condotta registrarono una diminuzione della violenza. Le prove erano lampanti e i risultati furono abbastanza rapidi. 

In secondo luogo, siamo andati ad intervistare genitori, insegnanti e le comunità circostanti la scuola. Il parere che abbiamo raccolto è che le scuole sembravano essere più attive e più solidali, più valide e affidabili, in particolare per quanto riguarda l’utilizzo del budget scolastico. Inoltre, sembravano più impegnate nella gestione della scuola in accordo con le regole governative, nonostante molte scuole (o le comunità di appartenenza) non supportavano la posizione del governo in carica. Si registrò, dunque, un consistente cambiamento di percezione e comportamento delle persone coinvolte. Come anticipato prima, siamo andati anche nelle scuole che non facevano parte del programma e il contrasto era molto evidente: le scuole che non erano state coinvolte nel progetto scuole come zone di pace contavano maggiori disagi, il livello di violenza non era diminuito e le scuole erano molto più vulnerabili all’interferenza politica.

Sudan del Sud
Il Sudan del Sud stava attraversando guerre e conflitti molto differenti da quelli del Nepal e molto più lunghi: 22 anni di guerra civile, più di 2 milioni di rifugiati e di persone dislocate internamente che rientrarono tra il 2006 e il 2011. Si soffrivano epidemie, insufficienza di cibo, allagamenti, conflitti localizzati e le minacce da parte dell’Esercito di Resistenza del Signore (LRA), che si stava spostando dal confine con l’Uganda verso il Sudan del Sud causando grande terrore. Nel 2009 erano circa 2.500 le vittime. Come risultato, il Sudan del Sud si posizionò 150esimo su 177 Paesi nell’Indicatore di Sviluppo Umano (HDI) dello stesso anno. L’incidenza di povertà era al 90% e si spendeva soltanto il 2% del Prodotto Interno Lordo (PIL) per l’istruzione. 

Facendo un breve paragone, nello stesso periodo l’Afghanistan spendeva il 3,8% del suo PIL. Volgendo lo sguardo al rapporto d’iscrizione a scuola, il 53,7% era iscritto alla scuola primaria nel Sudan del Sud, e il 54% in Afghanistan. Ci trovavamo di fronte ad una grandissima sfida. 

Quali erano le opportunità? Nel 2005 vi fu un Accordo di Pace Globale (CPA) con l’appoggio internazionale; vi furono le elezioni amministrative nel 2010 e un referendum sull’autodeterminazione e sull’indipendenza nel 2011. 

Vi era anche l’appoggio di 22 mila Forze di Pace, militari con sede nel sud. Vi furono anche due importanti Accordi di Pace e Iniziative di Pace nella regione del Darfur, che imprimevano un nuovo slancio e mostravano la volontà e l’impegno politici per la costruzione della pace. 

Il Sudan del Sud è incredibilmente ricco in termini di risorse naturali, come petrolio, oro, cotone e terre coltivabili. 

Quale fu l’impatto di decenni di guerre sul sistema dell’istruzione? 

Così come per il Nepal, abbiamo parlato con i rappresentati ONU per il Sudan del Sud e la situazione era molto diversa. La frase più comune: “Stiamo costruendo il sistema scolastico da zero.” Questa frase vi dà una chiara idea della percezione del sistema dell’istruzione, cioè che fosse stato completamente distrutto dalla guerra. Soltanto il 18% delle attività dedicate all’apprendimento venivano condotte in strutture permanenti, quindi le lezioni si svolgevano all’aperto, tant’è che si parla di open-air schools (scuole all’aperto). In tante strutture mancavano l’acqua, le strutture igieniche e la corrente elettrica. 

Gli stessi programmi UNICEF del Nepal vennero applicati anche nel Sudan del Sud, ma quale fu la risposta in questo territorio? 

Nel Sudan del Sud si adottò l’Iniziativa Vai a Scuola (Go to School Initiative). Considerato l’enorme impatto della guerra, ci si concentrava con attenzione sull’iscrizione a scuola. Si parlava di: 
  • ‘porte aperte’, quindi consentire l’accesso all’istruzione; 
  • ‘far funzionare la scuola’, di qualità dell’istruzione; 
  • ‘far funzionare il sistema’, poiché vi era bisogno di trattare le scuole non come istituzioni isolate, ma come parte di un sistema; 
  • di ‘responsabilità’, di avere un sistema scolastico sostenibile ed affidabile. 
Quale furono, dunque, i risultati dei diversi programmi? 

Innanzitutto, per il programma porte aperte, si registrò un numero d’iscrizioni più che raddoppiato: 780.000 iscritti nel 2007, dopo appena uno o due anni dall’inizio del programma. Gli iscritti erano 1.300.000 nel 2008 e 1.500.000 nel 2009. 

Per il programma far funzionare la scuola, vi sono prove del grande sviluppo organizzativo nell’ambito del ministero dell’educazione, della gestione e direzione del sistema scolastico; di un miglioramento nella formazione degli insegnanti e - fondamentale - del monitoraggio dei risultati dell’apprendimento. Grazie al programma si registrò anche un’omogeneizzazione del programma scolastico e dei libri per le classi dal primo all’ottavo anno della scuola primaria. Anche il programma scolastico per la scuola secondaria venne rivisto, sviluppato e si presero provvedimenti per la formazione di insegnanti per l’attuazione di programmi scolastici in inglese a partire dal 2008. 

Il programma aggiunse l’acquisizione di strategie e abilità di vita: prevenzione all’HIV, Educazione alla Pace a partire dal 2009. 

Infine, dal 2010 si aggiunse la verifica dell’acquisizione della matematica, delle ‘strategie e abilità di vita’ e del livello di alfabetizzazione dalle classi quarte in su. 

Per poter far funzionare il sistema, vennero introdotti un sistema per garantire qualità e ispezioni regolari; gli insegnanti divennero certificati, accreditati e registrati; venne inserito il programma EMIS Education Management Information System, che mirava a migliorare la programmazione e a riconnettere gli stakeholders; infine venne creato un nuovo istituto per la formazione degli insegnanti. 

Per quanto riguarda, invece, le responsabilità, vennero migliorate le capacità su tutti i livelli del sistema, migliorando la programmazione, la logistica anche grazie a numerose iniziative che preparavo e formavano insegnati, dirigenti, manager e tutti coloro che erano coinvolti nel progetto. 

Dopo aver visto gli straordinari cambiamenti nel numero di iscritti, vi erano ancora alcune sfide da affrontare. Infatti, il numero di ragazze costituiva soltanto un terzo degli studenti. Inoltre, il numero di studenti che abbandonavano la scuola tra il primo e il sesto anno di scuola erano ben il 19% delle femmine e il 15% dei maschi. I ripetenti erano per il 14% femmine e l’11% maschi. Addirittura il 40% delle iscrizioni perveniva da studenti di età uguale o superiore a 13 anni. Infine, il numero di studenti che avevano completato il ciclo di 8 anni della scuola primaria - nell’anno scolastico 2009-2010 - soltanto il 2% delle femmine e il 5% dei maschi. Con questi dati, potete vedere che si registrò un successo nell’aprire le porte della scuola e aumentare il numero degli iscritti, ma raggiungere una stabilità nel numero di studenti fu sfida ben più ardua. 

Si verificarono consistenti miglioramenti nella qualità del sistema, ma non senza qualche mancanza: tanti insegnanti non avevano una formazione appropriata, a volte avevano partecipato effettivamente ai corsi che dovevano seguire, però questi non si erano rivelati efficienti. Più del 59% non aveva ricevuto alcuna formazione e soltanto il 14% degli insegnanti di ruolo era donne. Forse la sfida più dura in assoluto fu dettata dal fatto che il Ministero dell’Istruzione aveva un sistema di rotazione degli insegnanti molto rigido. Ciò significava che gli insegnanti venivano mandati molto frequentemente da una parte all’altra del Paese, senza poter scegliere dove andare e con poco preavviso. Il sistema implicava una mancanza di un programma unitario e il cambio della lingua d’insegnamento, dato che il Sudan del Sud aveva adottato l’inglese come lingua nazionale. Molte scuole che erano state ricostruite venivano, infine, saccheggiate e distrutte; si verificavano sequestri di bambini; le scuole venivano occupate dalle milizie armate.

Kenya
L’ultima parte della mia relazione riguarda il Kenya e può darsi che sia il Paese che conoscete meglio. Forse ricordate i violenti eventi che si susseguirono alle elezioni del 2008 tra i sostenitori di Kibaki e di Odinga. Qui la situazione fu molto diversa rispetto al Sudan del Sud e al Nepal: il cambio fu repentino. Vi fu un’improvvisa destabilizzazione, 1500 furono le vittime e 400.000 gli sfollati. 

La violenza era di tipo etnico, legata alle gang coinvolte e alle elezioni politiche. Nonostante il Kenya fosse relativamente più stabile rispetto a Sudan del Sud e Nepal, la sua posizione nella classifica degli Indicatori di Governance della Banca Mondiale - che fa riferimento alla stabilità politica - era molto bassa. Il livello di corruzione era molto alto e lo stato di diritto era pressoché inesistente. 

Quale fu l’impatto dei violenti scontri del periodo post-elettorale sulla scuola? 

Molte scuole vennero parzialmente o completamente distrutte. Alcune furono utilizzate come magazzini di stoccaggio per munizioni e molte chiuse in conseguenza a pericolose minacce. Altre infrastrutture vitali furono danneggiate, tra cui risorse idriche, igieniche oltre che scolastiche. Il risultato dell’alto numero di sfollati portò ad un aumento del 50% dei bambini accolti a scuola in alcune comunità ospitanti. Le scuole che erano in funzione e che ospitavano bambini kenioti sfollati, avevano quindi meno risorse. 

Guardando alle conseguenze a lungo termine, la violenza provocò profondi traumi, sfiducia, rabbia oltre al ritiro di bambini e insegnanti dalla scuola. Ovviamente questo causò serie conseguenze anche sui risultati scolastici. Al di fuori della scuola, giovani frustrati e impoveriti erano il target di numerose gang che portavano avanti atti di violenza. 

Anche nel caso del Kenya, l’UNICEF prese delle misure per migliorare il sistema dell’istruzione. La risposta a breve termine consistette nel fornire materiale d’emergenza per lo svolgimento delle lezioni. La risposta a lungo termine fu lo sviluppo di un Programma di Pace, portato avanti insieme al Ministro dell’Istruzione. 

L’UNICEF portò in Kenya il progetto Accademia dei Talenti, che era stato avviato in altre zone del mondo. Questo creava spazi alternativi di apprendimento per giovani svantaggiati. 

Quali erano le sfide che il programma UNICEF doveva superare in Kenya? 

Innanzitutto, vi era una negazione di qualunque tensione politica ed etnica duratura. Come risultato della violenza in atto, vi erano conflitti irrisolti e vi fu una sorta di ‘frammentazione’ delle parti della Rift Valley e delle baracche urbane. 

Ben il 61% delle persone che noi abbiamo sottoposto a sondaggio non si fidava di membri di altre comunità. Soltanto l’8% dei kenioti erano soddisfatti con gli sforzi che aveva fatto il governo per promuovere la Pace a la riconciliazione. Vi era una forte paura di violenze future e una mancanza di fiducia nel governo che avrebbe potuto garantire sicurezza.

Conclusioni
Per concludere, cerchiamo di rispondere alla domanda che ho posto all’inizio, cioè ‘Fino a che punto può la scuola aiutare alla costruzione della Pace?’. 

Per prima cosa possiamo fare riferimento alla tabella riportata di seguito.



Trasformazione
dei conflitti a
livello locale
Trasformazione
dei conflitti a
livello nazionale
nel 2010
Più
stabilità
dopo il
2010
Segni di
Pace
duratura
Global Peace
Index
Nepal
(per es. Scuole
come Zone di
Pace)
 
No
Sì e no 
Sì e no
2009 - 80° posto
2015 - 62° posto
Sudan del Sud
(per es. numero
iscrizioni,
formazione
insegnanti, ecc.)
No
No
No
2009 -147° posto
2015 -159° posto
Kenya
No


Sì e no
2009 -133° posto
2015 -133° posto

Gli esempi di questi tre Paesi ci mostrano che la guerra, purtroppo, può portare l’istruzione fuori delle scuole. 

Inoltre, possiamo comprendere che le scuole non riescono a tenere la politica fuori dall’istruzione. 

Non riescono a frenare la politica e, soprattutto, i politici dall’andare in guerra. 

Nonostante ciò, le scuole possono cominciare a togliere la guerra dall’istruzione. 

L’istruzione, con un po’ di tempo, può permetterci di sfidare e mettere a dura prova le logiche di guerra. 

Grazie.

Maria Montessori: educazione e pace
Maria Montessori: educazione e pace
AA.VV.
Raccolta degli Atti del Convegno del 3 ottobre 2015. I Convegni Internazionali si inseriscono in un circuito di eventi organizzati dall’Associazione Montessori Brescia per contribuire alla valorizzazione e alla diffusione del pensiero e del metodo pedagogico di Maria Montessori. Raccolta degli Atti con gli interventi di: Carolina Montessori, bisnipote di Maria Montessori e archivista presso AMI Association Montessori Internationale Rama Reddy, insegnante di scuola elementare e Trainer presso l’Istituto indiano di studi Montessori Lynn Lawrence, direttore esecutivo AMI Ela Eckert, membro del consiglio della German Montessori Society Paola Trabalzini, docente universitaria presso la LUMSA di Roma e formatrice dell’Opera Nazionale Montessori David Connolly, responsabile del Programma di Prevenzione dei Conflitti presso The Hague Institute for Global Justice Don Fabio Corazzina, parroco di Santa Maria in Silva di Brescia