Con questa introduzione possiamo capire meglio come le scuole siano state parte attiva nella risposta ai conflitti, nonostante ciò non sia stato sempre segnato da passi avanti.
Come anticipato, voglio esaminare il potenziale di trasformazione delle scuole, come possano funzionare da catalizzatore nella prevenzione di sanguinosi conflitti e come riescano a diventare zone di pace, stabilità e di riforme istituzionali nonostante le intricate e persistenti guerre.
Per fare ciò, vi illustrerò la ricerca che ho condotto in tre contesti molto diversi l’uno dall’altro: Kenya, Nepal e Sudan del Sud. Pensare di utilizzare le nostre capacità in zone di pace e stabilità in zone così instabili, dà adito a numerosi rischi reali per studenti, alunni e genitori. Dobbiamo ricordarci che questo comporta dilemmi per Agenzie e donatori internazionali. Quando parliamo di Educazione e Costruzione della pace, ci sono molte definizioni. Vorrei proporre la seguente, che si concentra sull’intero sistema dell’istruzione, quindi ci fa pensare alla qualità dell’insegnamento, alla formazione degli insegnanti, al programma scolastico, all’amministrazione (cruciale nel sistema dell’istruzione), alle riforme politiche, allo sviluppo istituzionale e alla cooperazione. Ovviamente, poi, il contesto che urge la costruzione di pace è un contesto povero. Qui possiamo trovare la necessità d’inclusione sociale, di scuole a misura di bambino e di legittimazione. Questi sono soltanto alcune delle componenti fondamentali.
Pongo nuovamente la domanda che ha fatto anche Lynn Lawrence: cosa intendiamo per Pace? Un termine tecnico è quello di Pace positiva: uno dei concetti più antichi di Pace. Venne creato negli anni Sessanta da Galtung, uno dei padri del concetto. Pace positiva significa che la società è riuscita a trasformare ed andare oltre le cause di conflitti violenti. La trasformazione è il punto chiave. Questo è l’ideale, ma in molti dei Paesi sopra menzionati si cerca d’istituire la stabilità, una sorta di normalità per bambini, insegnanti e genitori. È proprio in questo punto che l’istruzione può assumere un ruolo determinante: la scuola è - in ogni società - un’istituzione unica, così come l’istruzione, che è l’unica forma di sviluppo mobile, che si sposta con noi. Quando pensiamo alla stabilità, una volta raggiunta questa normalità, possiamo allora pensare alla costruzione della pace. Molti di questi Paesi cui faccio riferimento sono affetti in maniera grave da guerre, ma (come nel caso del Nepal) sono anche soggetti a enormi shock quali alluvioni, siccità, disastri naturali e causati dall’uomo. Perciò, dobbiamo anche pensare alla preparazione e risposta a disastri. Dobbiamo pensare, inoltre, al contesto in cui quel Paese si trova, all’importanza dello sviluppo sociale, politico ed economico e alla creazione dello Stato.
Cosa significano Educazione e Costruzione della Pace per Agenzie quali l’UNICEF, l’UNESCO e altre ONLUS?
Significa che l’educazione di base può essere un mezzo di stabilità e di riforma.
Un altro principio molto importante è quello dell’intervento tempestivo. Sfortunatamente, è impossibile intervenire sulla scuola a conflitto risolto e terminato: bisogna iniziare il lavoro con gli insegnanti, i principali della scuola, le associazioni dei genitori e le altre istituzioni per portare stabilità. È molto importante, e tornerò più volte su questo punto, avere un approccio olistico. Questo significa cercare di capire la collocazione della scuola stessa all’interno dell’intero sistema educativo e quella della comunità rispetto allo Stato cui appartiene. È molto importante lavorare attraverso lo Stato, che può presentare molti dilemmi diversi, ma è uno dei princìpi chiave di questo schema.
Infine, è la fragilità dello Stato. Come anticipato, molti Stati sono fragili di per sé, non soltanto per via dei conflitti, dei disastri naturali, dell’instabilità politica, degli Stati vicini, quindi dobbiamo tenerlo presente.
Quindi la domanda è: “Fino a che punto può la scuola trasformare i sanguinosi conflitti? Può aiutare a costruire una Pace duratura?”.
Oggi faccio riferimento allo studio molto importante condotto dall’UNICEF, durato un anno e terminato nel 2010, facente parte dei programmi globali dell’UNICEF e chiamato Education in Emergencies and Post-Conflict Transitions Program (EEPCT), che è stato applicato a 25-30 Paesi affetti da crisi.
Il programma includeva vari punti adattati ai Paesi in questione, ma le componenti comuni includevano:
- scuole a misura di bambino,
- programma di Pace,
- costruire le capacità di sviluppo del Paese,
- costruire le capacità amministrative delle istituzioni della comunità.
Farò riferimento, a Nepal, Kenya e Sudan del Sud.
Inoltre, teniamo a mente l’importanza della conoscenza verificabile, quindi abbiamo testato il programma andando nelle scuole che non rientravano in questo e abbiamo posto loro le stesse domande, per avere un termine di confronto.
Il programma EEPCT si poneva quattro obiettivi: migliorare la qualità di risposta all’istruzione; migliorare la resilienza nel settore dell’istruzione; rafforzare la previsione, prevenzione e preparazione; migliorare la evidence-base, in modo tale da poter redigere le future politiche sulla base di numerose prove reali.
I tre stati sopra menzionati sono molto differenti tra loro, ma tutti affetti da sanguinosi conflitti e guerre. Ho potuto constatarlo in prima persona quando sono andato a parlare con persone provenienti da questi Paesi o che lavorano in questi Paesi.
Alcuni parlano di emergenze complesse, il che significa emergenze che accadono in maniera simultanea. Queste fanno riferimento alla lunga storia di vecchi conflitti e disastri naturali e vengono anche chiamate crisi croniche o soccorso prolungato. Questo è il caso di Paesi che non riescono a trovare alcuna stabilità a lungo termine.
Stati falliti o fragili sono termini che usiamo; alcuni utilizzano l’espressione ripresa postbellica, alcuni parlano anche di ripresa rapida. Un’espressione relativamente nuova per me è quella di Umanitario Più, che significa che questi Paesi hanno bisogni umanitari insieme a complesse necessità politiche e di sviluppo. L’ultimo termine è quello di transizione post-crisi.
Ho parlato di questi termini e queste espressioni per tenere a mente che quando discuto Nepal, Kenya e Sudan del Sud è per esplorare analogie e differenze, nonostante siano estremamente differenti tra loro. Questo ci pone la seguente sfida: “È possibile trarre un insegnamento riguardo l’istruzione e la costruzione della pace guardando questi diversi Paesi?”