CAPITOLO 6

Apprendimento, dati e informazioni

Che cosa vuol dire apprendere? Vuol dire fare qualcosa che modifichi le connessioni tra i neuroni in modo che una certa nozione o una certa azione divengano parte del nostro patrimonio. L’apprendimento non solo rende possibile recuperare informazioni dalla memoria quando necessario, ma aumenta la nostra capacità di reagire in modi validi in risposta agli stimoli determinati dall’esperienza. Apprendere è quindi una capacità fondamentale per la sopravvivenza di ogni essere vivente e ancor più lo è per noi, che viviamo in un ambiente che abbiamo reso sempre più complesso. Imparare in ogni momento è quindi la condizione usuale per tutti gli esseri umani: bambini, ragazzi e adulti. Attenzione, però! Stiamo parlando di apprendimento come mattone fondamentale della crescita fisica e psichica dei nostri ragazzi in questo mondo tecnologico, non stiamo parlando del loro addestramento all’uso di una qualche tecnologia. È una distinzione importante perché spesso la scuola e di riflesso noi genitori, finiamo per ridurre l’educazione a una mera acquisizione di nozioni operative che riteniamo utili per il loro futuro.


I genitori si preoccupano spesso di come e di cosa i loro figli imparino a scuola e soprattutto se imparano qualcosa. Le preoccupazioni sono maggiori nelle scuole non tradizionali, perché spesso non sono compresi appieno i meccanismi che fanno funzionare l’educazione impartita. Io stesso ho visto alla scuola Montessori di mio figlio genitori in ansia perché a loro sembrava che i figli lì passassero il tempo solo a giocare. A parte l’equazione apprendimento uguale ore sui banchi, anche questi genitori apprensivi trascurano però tutto quello che i figli imparano fuori dalle mura scolastiche. Per noi adulti apprendere è inestricabilmente associato a lunghe ore chini sui libri e di conseguenza, se non vediamo i nostri figli fare lo stesso, pensiamo non imparino nulla. Anche in questo, mi duole dirlo, noi adulti non perdiamo il vizio di porre noi stessi come centro e riferimento dell’universo intero a discapito dei nostri figli.


Cominciamo col convincerci che nel nostro mondo tecnologico i giovani apprendono e vedono la realtà in maniera differente, non solo a scuola. Captano i segnali multimediali che li circondano. Usano la tecnologia per apprendere, magari non quello che è previsto nel programma scolastico. Si emancipano dalle strutture rigide del pensiero lineare che noi adulti tanto amiamo. Pensano attraverso il fare. Non apprendono per assorbimento, ma per tentativi ed errori e per esperienza diretta. Amano produrre e amano lavorare assieme ai loro coetanei. Analizzeremo tutto questo in dettaglio nel corso del capitolo iniziando a considerare, o magari a riconsiderare, come apprendiamo e soprattutto come apprendono i nostri figli in questa era tecnologica.


Il primo aspetto, di validità universale ma spesso dimenticato, è che l’apprendimento viene da dentro, non è qualcosa che può essere calato dall’alto. Maria Montessori considera questa caratteristica come la più critica per l’apprendimento e la crescita: “…e per di più abbiamo imparato da lui alcuni principi fondamentali di psicologia. Uno di essi è che il bambino deve imparare grazie alla sua attività individuale, dev’essere lasciato intellettualmente libero di scegliere quello di cui ha bisogno, senza che la sua scelta venga discussa. Il nostro insegnamento deve solo rispondere ai bisogni intellettuali del bambino, non deve mai imporli. Proprio come un bambino piccolo non può stare fermo perché ha bisogno di coordinare i suoi movimenti, così il bambino più grande, che sembra turbolento per la sua curiosità di sapere il che cosa, il perché e il come di tutto quello che vede, con la sua attività mentale sta organizzando la propria intelligenza e gli deve essere offerto un campo vasto di cultura in cui nutrirsi”1 . Ecco un primo suggerimento per noi genitori: offriamo loro, anche con l’aiuto della tecnologia digitale, “un campo vasto di cultura in cui nutrirsi”.


Mio figlio mi raccontava come sceglieva un lavoro dallo scaffale e continuava a lavorarci su divertendosi fino a quando il lavoro non era completo con la sicurezza di essere libero di osservare, sperimentare, verificare e tentare strade alternative e, a lavoro terminato, andare anche oltre. Un apprendimento che nasce dall’interno e sperimentato lungo tutto il percorso scolastico. “Scoprimmo così che l’educazione non è ciò che il maestro dà, ma è un processo naturale che si svolge spontaneamente nell’individuo umano; che essa non si acquisisce ascoltando delle parole, ma per virtù di esperienze effettuate nell’ambiente”2 . Alla luce di queste parole il motto “Aiutami a fare da solo” ha perfettamente senso. Un motto che è valido non solo per i primi anni di vita di un bambino, ma che è stato fatto proprio da famosi innovatori. Per esempio Amazon, racconta il suo fondatore Jeff Bezos, “è nata seguendo il metodo montessoriano della scoperta, vale a dire, non c’è una strada predefinita da seguire, ma molti sentieri da esplorare. Alcuni di questi porteranno a dei vicoli ciechi, ma prima o poi si troverà quello giusto”. Larry Page e Sergej Brin, i fondatori di Google, in un’intervista3 hanno dichiarato: “Credo che buona parte del merito del nostro successo sia dovuto all’educazione [Montessori] che abbiamo ricevuto. Il non dover forzatamente seguire delle regole o degli schemi, il poterci autogestire, il poter mettere in discussione cose che ci venivano date per assodate ci ha permesso di agire un po’ differentemente dagli altri e diventare quello che siamo”.


Infine, come non citare il pioniere dei videogiochi Will Wright: “Il metodo Montessori mi ha insegnato la gioia della scoperta. Anche teorie e concetti complicati come il Teorema di Pitagora potevano diventare interessanti e divertenti agli occhi dei bambini utilizzando semplicemente delle costruzioni e dei blocchi di legno. L’importante è che lo studente apprenda con i propri mezzi e i propri tempi, senza che l’insegnante lo «imbocchi» con risposte preconfezionate. SimCity nasce esattamente in questo modo”4 .


La seconda caratteristica dell’apprendimento è che non avviene nel vuoto, avviene sempre tra individui in carne e ossa all’interno di una comunità umana, prima rappresentata dalla famiglia e poi dalla scuola. Per il pedagogista John Dewey5 “la scuola è prima di tutto un’istituzione sociale. Essendo l’educazione un processo sociale la scuola è semplicemente quella forma di vita di comunità in cui sono concentrati tutti i mezzi che serviranno più efficacemente a rendere il fanciullo partecipe dei beni ereditati dalla specie e a far uso dei suoi poteri per finalità sociali; l’educazione è perciò un processo di vita e non una preparazione a un vivere futuro”. Che la scuola sia prima di tutto un’istituzione sociale ce lo dimostrano i problemi della didattica a distanza nei primi giorni della recente pandemia. Se anche a mio figlio adolescente la scuola e i compagni mancavano da matti, figuriamoci per i bambini piccoli! Parlare di scuola è certamente importante, ma ci distrae dall’obiettivo principale di questo libro: vedere in quali aspetti dell’apprendimento la tecnologia gioca un ruolo importante, in modo da capire in che cosa e come possiamo guidare i nostri figli. Delle parole di Dewey conserverei però un’idea: “L’educazione è perciò un processo di vita e non una preparazione a un vivere futuro”. A mio avviso, pagare assieme al proprio figlio la bolletta del gas, fargli usare assieme a noi l’e-banking per saldare una fattura o cercare assieme di muoversi con agilità nei risultati di un motore di ricerca sono educazione per il futuro, non il pretendere lezioni di coding perché “ti servirà per il lavoro”.


Per convincersi vieppiù dell’importanza dell’acquisizione di nuove conoscenze, infiliamoci nel mondo informatico più avanzato dove si parla di “apprendimento automatico”, “deep learning”, “intelligenza artificiale” e così via. Tutte queste architetture hanno alla base un paradigma di programmazione delle macchine in cui queste imparano che cosa debbono fare invece di avere le azioni da compiere pre-cablate dai programmatori. Già il pioniere Alan Turing6 proponeva: “Invece di provare a produrre un programma per simulare la mente dell’adulto, perché non provare piuttosto a produrne uno che simuli quella del bambino?”. Del resto il cervello di un neonato nasce con pochi schemi di comportamento innati, poi tutto ciò che gli serve deve essere appreso dall’ambiente attraverso l’esperienza.

Dati, informazioni e conoscenza non sono sinonimi

Quando parliamo di informazioni spesso trattiamo dati, informazioni e conoscenza come termini sinonimi, ma non è così. I Data Scientist che si occupano di gestione della conoscenza parlano di dati (Data) come di fatti nudi e crudi che diventano informazioni (Information) quando sono organizzati e presentati in modi diversi e viene loro aggiunto un contesto, un significato e uno scopo che permette di capire qualcosa riguardo ai dati stessi. Le informazioni divengono poi conoscenza (Knowledge) quando sono applicate e utilizzate. Infine la conoscenza diviene saggezza (Wisdom) che ci guida a prendere le giuste decisioni in futuro. Da un altro punto di vista possiamo dire che dati e informazioni riguardano il passato: si basano sulla raccolta di fatti. La conoscenza si occupa del presente, diventa parte di noi e ci consente di agire. Quando alla fine del ciclo conquistiamo la saggezza, iniziamo a occuparci del futuro, poiché ora siamo in grado di immaginare e progettare ciò che sarà, piuttosto che ciò che è o era. Un esempio ci viene dai dati di Borsa che con le loro tabelle riempiono svariate pagine dei quotidiani. I valori delle azioni sono semplici fatti (dati), rappresentati in grafici con l’aggiunta degli avvenimenti politici in corso divengono informazioni, qualcosa che mi guida come investitore attivo (conoscenza) e mi insegna come comportarmi in situazioni simili (saggezza). Un altro esempio che ci fa capire la differenza tra dati e informazioni ce lo danno gli health-monitor e gli activity tracker. Questi gadget da polso ci forniscono moltissimi dati sulla nostra salute e sull’andamento dell’attività sportiva che ci vede impegnati, ma da lì a creare conoscenza e darci la saggezza per progettare il nostro futuro ce ne vuole. Giusto per curiosità si dice che questa classificazione prenda spunto non dalla tecnologia, ma dal lavoro Choruses from The Rock di T. S. Eliot scritto nel 1934:

Dov’è la Vita che abbiamo perduto vivendo?

Dov’è la saggezza che abbiamo perduto sapendo?

Dov’è la sapienza che abbiamo perduto nell’informazione?

Nonostante la distanza temporale, l’ultimo verso di Eliot: “Dov’è la sapienza che abbiamo perduto nell’informazione?” dipinge precisamente quello che accade oggi. Siamo immersi nelle informazioni, o meglio nei dati, ma la tecnologia che abbiamo tra le mani non aumenta la nostra capacità di agire e vivere meglio in futuro. Posso conoscere tutto sulle biciclette, aver visto centinaia di tutorial su YouTube, ma finché non ci provo, finché non applico queste conoscenze teoriche al mondo reale, non significano nulla e cadrò rovinosamente dalla bici. Citando Confucio: “Puoi imparare la conoscenza dagli altri, ma non puoi imparare la saggezza. Saggezza che impari dall’esperienza”. In questo abbiamo ampie possibilità di scoperta da vivere assieme ai nostri giovani.

La lettura

I libri organizzano e sistematizzano fatti e dati in un certo ambito affinché noi possiamo trasformarli in conoscenza e, magari, in saggezza. I libri sono più profondamente capaci di plasmare il pensiero rispetto alle conferenze o agli articoli di giornale perché sono forse l’unico genere in grado di articolare e difendere grandi argomenti. Proprio per questo l’allergia ai libri che spesso manifestano i nostri figli è l’aspetto che più di altri preoccupa noi genitori. Per gli adulti studiare è legato inestricabilmente ai libri e hanno l’impressione che i giovani li abbiano completamente abbandonati. Invece, strano ma vero, i ragazzi leggono, solo in modo un po’ diverso da quello delle generazioni precedenti. Una ricerca del Pew Research Center7 ha trovato che negli USA quasi l’80% dei giovani adulti (18-29 anni) ha letto almeno un libro negli ultimi dodici mesi fino ad arrivare a una media di cinque libri all’anno. Anche se la lettura di e-book principalmente su smartphone è in crescita, sembra che i Millennials continuino a preferire i libri stampati.


Con la tecnologia attuale il portarsi dietro una piccola biblioteca nello smartphone è estremamente comodo, ma leggere libri che non siano romanzi o racconti su questo supporto ostacola la comprensione perché gli attuali limiti tecnologici obbligano ad affrontare il testo in maniera spesso lineare e con una molto limitata visione del contesto attorno a quello che stiamo leggendo. In più, chi legge così perde tutto quanto può offrirgli un libro cartaceo: la fisicità, il poter scorrere velocemente le pagine, il vedere a occhio dove si è arrivati nella lettura e così via. Insomma, velocità e praticità non si sposano bene con comprensione e apprendimento.


Non sono solo queste le differenze. Proviamo a confrontare un libro con un social. Il contenuto del primo è lineare (dalla prima pagina all’ultima) e gerarchico (parti, capitoli, sezioni, paragrafi), quasi sempre c’è un solo autore e la lettura troppo spesso è imposta da altri, la scuola per prima. In una rete sociale il sapere è invece a rete, con diversi percorsi possibili di fruizione scelti dall’utente e non imposti. I contenuti, poi, sono spesso confezionati a blocchi che si possono consumare in maniera indipendente.


Allora che cosa c’è di preoccupante in questa maniera di acquisire informazioni? Che cosa i nostri giovani rischiano di perdere passando a queste differenti modalità di lettura? La perdita più preoccupante è la difficoltà a trovare la tranquillità necessaria per affrontare letture lunghe e lente, capaci di trasformarsi in riflessione e conoscenza. Nella vita quotidiana i lettori sono sovrastati dalla massa di informazioni che trovano in rete e distratti da mille stimoli digitali che li spingono a saltabeccare da un dispositivo all’altro, da una pagina web all’altra, da un social all’altro.


La prima conseguenza di questa lettura più superficiale è che i nostri futuri adulti non riescono più a riconoscere la bellezza del linguaggio degli scrittori difficili e ad apprezzarne i pensieri complessi. Pensiero e parola vanno strettamente uniti, per cui un impoverimento del linguaggio porterà inevitabilmente a un impoverimento del pensiero.


La seconda conseguenza è decisamente preoccupante. Una lettura superficiale o inesistente porta i nostri figli e, peggio, noi stessi, a non avere più il tempo per riflettere sul valore di verità di quello che leggiamo e di conseguenza diamo retta a chi dice ciò che vogliamo sentire. Invece si ha apprendimento quando ci scontriamo con qualcosa che non conosciamo o con qualcosa differente da ciò che già sappiamo. Dopo la prima reazione di difesa, tramite la riflessione e l’elaborazione, trasformiamo queste differenze in nuove conoscenze. Se invece incontriamo solo informazioni che si conformano a quello che già pensiamo, che rinforzano, invece di sfidare, le nostre prospettive non avviene nessun apprendimento.


La soluzione non è certo imporre la lettura. È prendere atto dell’importanza dei nuovi media e adattare a essi i contenuti. E poi noi della “vecchia scuola” possiamo ingegnarci a integrare nel dialogo con i nostri giovani i contenuti. Com’è possibile che mio figlio, che sicuramente apprezza più un filmato su YouTube che un libro stampato, si sia messo a leggere Italo Svevo? In questo caso è stato tutto merito dell’insegnante del liceo che è riuscita a parlare dell’uomo e non solo dell’autore, a incuriosire raccontando delle difficoltà che questi ha avuto a pubblicare i suoi romanzi. Perché non possiamo fare qualcosa del genere anche noi in famiglia?


“È proprio il fatto che la lettura di libri ‘sottostimola i sensi’ a renderla così intellettualmente gratificante. Consentendoci di filtrare le distrazioni e di mettere a riposo le funzioni di risoluzione dei problemi dei lobi frontali, la lettura approfondita diventa una forma di pensiero approfondito. La mente del lettore esperto di libri è una mente pacata, non esagitata. Quando parliamo di attivazione dei neuroni è un errore presumere che di più equivalga a meglio”8 . La lettura è un’acquisizione straordinaria ma molto recente nella storia dell’umanità e, dato che il nostro cervello non ha un circuito geneticamente programmato per questa attività ma lo forgia in base a quanto, a come e a che cosa leggiamo, vale la pena essere creativi per mantenerla viva nei nostri figli.

Connessioni

Parlando di come apprendono i nativi digitali, mostravo come preferiscano il sapere a rete che non è organizzato da qualcuno nella rigida forma gerarchica di un libro, ma che si dipana attraverso collegamenti e ponti fra aree diverse della conoscenza. Questo è quello che troviamo in rete dove i miliardi di pagine web esistenti sono un esempio lampante dell’intreccio tra le conoscenze. Non troviamo solo pagine legate da link, troviamo un’immensa rete di conoscenze collegate e intrecciate. Sono un’interminabile serie di ponti tra argomenti e discipline diverse, dove sta a noi essere attenti a cogliere legami e correlazioni. Se ci pensate, questa immensa rete di conoscenze permette un’esplorazione attiva, non lineare e ramificata, in cui ognuno costruisce il suo proprio sapere senza l’intervento di alcuna autorità e dove l’errore non è considerato un fatto negativo, ma parte di un processo di scoperta in cui si procede spesso per prove ed errori.


È vero che la conoscenza di per sé è sempre stata interconnessa come nel Web, ma i cambiamenti di un mondo che non è più fondato su una stabile gerarchia di potere, rende finalmente visibile questa struttura e i giovani per primi lo avvertono. Per questo non credo che abbiano smesso di leggere solo perché altre proposte attirano maggiormente, forse rifiutano il libro non in quanto libro, ma per quello che rappresenta: una struttura che non si sovrappone più a questa visione del sapere.


La stessa contrapposizione la troviamo in un campo molto più congeniale ai nostri adolescenti: quello dei videogiochi. Una storia ha una struttura predeterminata, mentre un videogioco ha una trama che si sviluppa a rete e non linearmente, in cui le scelte del giocatore danno l’avvio a percorsi differenti e conclusioni differenti del tema del gioco.

Nel mio lavoro professionale, nei miei rapporti con gli scienziati con cui collaboro, mi sono reso conto che le varie branche della scienza non sono come degli alberi isolati, sono al contrario una fitta foresta attraversata da sentieri inaspettati. Dalla mia esperienza posso dire che le scoperte più entusiasmanti avvengono spesso sul confine fra discipline differenti e l’ho sperimentato in prima persona. Qualche anno fa, assieme a chimici teorici, cristallografi computazionali e scienziati sperimentali esperti delle altissime pressioni, cinesi, russi e tedeschi, abbiamo scoperto e verificato sperimentalmente un comportamento assolutamente inaspettato del sodio. Uno studio che si è guadagnato un posto sulla prestigiosa rivista Nature9. Pensate, il mio contributo prendeva le mosse nientemeno che da un metodo utilizzato nelle biblioteche, nulla a che vedere con la cristallografia o la chimica.


Per muoverci in questa foresta una robusta serie di suggerimenti ci arriva da un libro intitolato The Art of Doing Science and Engineering: Learning to Learn (L’arte di fare scienza e ingegneria: imparare a imparare) scritto da Richard Hamming10, un matematico americano il cui lavoro ha avuto molte implicazioni per l’ingegneria informatica e le telecomunicazioni. Il sottotitolo di questo libro è il primo suggerimento: “Imparare a imparare”. Invece, chi insegna oggi come si apprende? La scuola non lo fa e lo cantava già nel 1977 Eugenio Finardi in Scuola11. Il secondo suggerimento lo troviamo nel libro di Hamming al capitolo “Tu e la tua ricerca”. Lì l’autore racconta come ha imparato a esplorare nuove aree della scienza già solo sedendosi a pranzo con persone di altri gruppi di ricerca e facendo loro domande piuttosto impegnative.


Sembrerebbe che nella nostra era dell’informazione sia estremamente facile fare scoperte incrociando l’abbondanza di dati e notizie che la rete ci mette a disposizione. Da un lato, però, avere accesso a tanti fatti slegati non è conoscere, è accumulare. Per Montessori “insegnare i dettagli significa portare confusione. Stabilire i rapporti tra le cose significa dare conoscenza”12 . Giacomo Leopardi si spingeva ancora più in là: “Apprendere non è acquisire cose nuove, è scoprire relazioni nuove fra cose già conosciute”. Un bel suggerimento, direi. Prima però di tutto questo c’è il problema della curiosità, anzi, della sua mancanza, perché anche avendo accesso a ricchi depositi di informazioni, se non c’è la curiosità per esplorarli e per scoprire collegamenti, non servono a molto.


Nel 1914 Alexander Graham Bell, parlando ai neolaureati della “Friends’ School” a Washington D.C., li esortava a “non rimanete per sempre sulla strada pubblica. Lasciate occasionalmente la pista battuta e immergetevi nei boschi. Troverete di certo qualcosa che non avete mai visto prima e qualcosa a cui vale la pena pensare per tenere occupata la mente. Tutte le scoperte davvero grandi sono il risultato del pensiero”. Cosa possiamo fare per invogliare i nostri nativi digitali a mettere in pratica questo suggerimento?


Quello che serve è educare a osservare, a porsi domande, a chiedersi: “Che cosa succederebbe se…”. Ecco un esempio. L’ingegnere svizzero George De Mestral dopo essere andato a caccia, era stufo di togliere i frutti uncinati della bardana dai suoi pantaloni. Tuttavia, non liquidò questo fatto come una mera seccatura, invece iniziò a osservarli con attenzione e curiosità e così nacque il Velcro. Questo atteggiamento non si impara sui libri, servono educatori che lo vivano e lo trasmettano fin dalla più tenera età del nostro futuro adulto. Educatori convinti che non sia una macchia rispondere: “Non lo so. Ma se vuoi cerchiamo di scoprirlo assieme”.


Invece troppo spesso che cosa succede? Si seguono con ostinazione percorsi ben conosciuti senza la minima deviazione o, peggio, come osservava Winston Churchill, “la maggior parte degli uomini inciampa su grandi scoperte. Ma molti di loro si rialzano e se ne vanno”. La maggior parte delle persone passa oltre questi collegamenti, non li vede, perché, magari, non ha mai avuto un papà, una mamma o un’insegnante che facesse comprendere con l’esperienza concreta l’importanza di trovare connessioni tra le idee, che allargasse i loro orizzonti.


Un’altra strategia è quella di vedere le nozioni nella loro prospettiva storica. Il biologo Ernst Mayr, considerato uno dei massimi studiosi dell’evoluzione animale, scriveva: “La maggior parte dei problemi scientifici sono molto più comprensibili se studiati nella loro storia piuttosto che nella loro logica”13 . Lo conferma Maria Montessori: “Una cosa ci ha dimostrato chiaramente la nostra esperienza, che cioè il bambino è meno interessato ai fatti che al modo in cui essi sono stati scoperti: risulta perciò facile indurlo a interessarsi alla storia delle conquiste dell’uomo, della quale vuole essere anch’egli partecipe”14 . Anche per la tecnologia vale lo stesso. Inserire la tecnologia in una prospettiva storica, proponendo il perché si è arrivati a un certo punto, aiuta a capirla. Abbiamo mai provato a far vedere ai nostri figli una qualche vecchia tecnologia, come un telefonino GSM, magari il mitico Nokia 3310 e confrontarla con i telefoni attuali? Per i più grandicelli una visita a un museo della tecnologia, come il Museo della Scienza e della Tecnica di Milano o il Deutsches Museum di Monaco di Baviera, oppure la lettura del libro “Gli innovatori. Storia di chi ha preceduto e accompagnato Steve Jobs nella rivoluzione digitale”15 possono essere occasioni per allargare le loro conoscenze tecnologiche lungo l’asse temporale. Addirittura in una scuola del Nord Europa ho visto utilizzare una linea del tempo, uno schema grafico che organizza i rapporti temporali fra degli eventi, dedicata alle tecnologie, quando sono sorte e fino a quando sono state utilizzate. Insomma, una maniera immediata per rendere concreta la proposta di Mayr.

Il dono della serendipità

Un sapere a rete come quello che troviamo sul Web, che è un immenso campo di informazioni interallacciate da esplorare, rende possibile la serendipità. Questo termine fu coniato in inglese (serendipity) da Horace Walpole nel XVIII secolo e significa la fortuna di fare felici scoperte per puro caso e anche il trovare una cosa non cercata e imprevista mentre se ne stava cercando un’altra16 . Tutti noi l’abbiamo sicuramente sperimentata perdendo tempo a sfogliare i libri di una libreria e trovando in maniera inaspettata proprio un testo che ci serviva, oppure riordinando vecchi appunti o visitando posti che non frequentiamo abitualmente.


A me capita spesso di essere aiutato dalla serendipità. Per esempio, quando cerco un’immagine per una mia presentazione, nello sterminato elenco di risultati di Google Image Search mi imbatto in qualcosa che mi conduce alla scoperta inaspettata di un sito web che non conoscevo. Insomma, questa è una maniera in cui la tecnologia può aiutare a incrementare le nostre conoscenze. Invece che cosa succede? Si fa già abbastanza fatica a tenersi al passo con amici e siti web preferiti per esplorare davvero il mondo dell’informazione e lasciarsi stupire. Di fronte a una massa schiacciante di notizie e nozioni ci si ritira in ciò che è familiare e questa, purtroppo, è la morte della serendipità17. In effetti, si può affermare che la tecnologia attuale riduce concretamente il potenziale di scoperta fortuita incoraggiando eccessivamente l’efficienza e la specificità. La capacità di trovare ciò che non si stava cercando muore anche quando non siamo presenti a ciò che stiamo facendo e aperti alle novità. I mezzi tecnologici ci sono (motori di ricerca e link di navigazione), ma se manca la curiosità, se non insegniamo a essere attenti quando si “inciampa” su qualcosa, come ci metteva in guardia Churchill, allora la tecnologia non serve ad aumentare la creatività e la conoscenza dei nostri nativi digitali.

La didattica dell’errore

È esperienza comune che la scuola, le pubblicità e perfino la famiglia vogliano crescere dei giovani vincenti, che non sbagliano mai, che danno sempre la risposta “giusta”. In questo mondo l’errore è visto come qualcosa di riprovevole e la tecnologia segue questo andazzo creando situazioni in cui non si devono commettere errori (la mail inviata all’indirizzo sbagliato, il documento cancellato irrimediabilmente, eccetera). Ma il mondo non funziona così, non sempre c’è una sola risposta corretta come ci insegna la scuola o ci impone la tecnologia. Si apprende per prove ed errori. Maria Montessori riassumeva come dobbiamo trasmettere alle nuove generazioni il modo di porsi nei confronti dell’errore: “Così meglio sarà avere verso l’errore un atteggiamento amichevole e considerarlo come un compagno che vive con noi e ha un suo scopo, perché veramente ne ha uno”18 . Tanto che finisce per chiamarlo “Signor Errore”, un signore che i giovani e noi stessi dobbiamo imparare a frequentare.


Si deve sbagliare per creare qualcosa di nuovo. Thomas Alva Edison, che ha sperimentato innumerevoli materiali prima di trovare quello giusto per il filamento della sua lampadina a incandescenza, ripeteva: “Io non ho fallito 5.000 esperimenti. Ho avuto successo 5.000 volte, gli insuccessi mi hanno insegnato che quei materiali non funzionavano”. Google ha la “Moonshot Factory” – letteralmente la “fabbrica di lanci sulla luna” – una culla d’idee così grandi, così audaci da essere considerate impossibili, con un’unica missione: inventare e lanciare tecnologie che si spera un giorno possano rendere il mondo un posto radicalmente migliore19. Il suo direttore spiega che per progredire verso qualsiasi idea audace, devi fare errori, devi cercare un fallimento frequente, disordinato e istruttivo che ti mostri cosa fare (o non fare) in seguito20. Gli fa eco il Premio Nobel per la fisica Richard Feynman21: “Cerchiamo il più in fretta possibile di provare a noi stessi di aver sbagliato, perché solo così possiamo compiere dei progressi”. Senza ignorare che i moderni sistemi di “apprendimento automatico”, base dell’intelligenza artificiale, funzionano proprio perché c’è un errore fra quello che prevedono e la realtà che stanno analizzando e così possono aggiustare i loro parametri interni per ridurre l’errore, il che equivale ad apprendere la risposta corretta.


Il programma che non va oppure l’operazione sul computer che non sappiamo fare, non implicano che siamo degli incapaci, sono la normalità. Invece di colpevolizzarci, chiediamo aiuto sui tanti canali che le varie comunità di utenti mettono a disposizione in rete: forum, liste di discussione, tutorial. Riceveremo un aiuto disinteressato e magari potremo aiutare altri che hanno lo stesso problema. “Correggere l’errore, in qualunque campo, può diventare interesse generale. L’errore stesso diventa interessante: diventa un legame, e certamente un mezzo di coesione fra gli esseri umani, ma specialmente fra bambini e adulti”22. L’errore diviene così la base e il cemento della comunità. “Gli errori ci avvicinano e ci fanno più amici: la fratellanza nasce meglio sul sentiero degli errori che su quello della perfezione”23. Sembra una barzelletta, ma esistono addirittura delle riviste scientifiche che pubblicano solo risultati negativi e fallimenti. Uno dei proponenti di queste pubblicazioni sostiene che “la scienza è, per sua natura, una disciplina collaborativa e uno dei motivi principali per cui dovremmo segnalare risultati negativi è che i nostri colleghi non perdano tempo e risorse ripetendo le nostre scoperte”.


Invece troppo spesso vediamo dei ragazzi ipercompetitivi, con la sindrome del “primo della classe”, che non sanno affrontare un esame fallito o un brutto voto, come se questo volesse dire che non valgono nulla o, peggio ancora, li vediamo sviluppare delle patologie che nascono da un sentimento di vergogna per non essere all’altezza. Certo, la scuola come è generalmente concepita ha le sue colpe nel fomentare la competizione fra gli studenti ma, a parte questo, un’interrogazione andata male o un compito sbagliato sono le prime situazioni quotidiane in cui bambini e ragazzi incontrano un fallimento. In questi casi, ai genitori può capitare di andare nel panico, preoccuparsi, magari arrabbiarsi e “farne una tragedia”, come direbbero gli adolescenti, oppure di rendere banale la situazione, sottovalutando le emozioni e le delusioni che i figli provano in quel momento.


Educhiamo i figli a tollerare gli insuccessi, a farsi amici del “Signor Errore”, ma è altrettanto importante sostenere bambini e adolescenti nei momenti di crisi: si impara sin da piccoli a saper perdere, anche attraverso il comportamento dei genitori e le modalità con cui affrontano le sconfitte. Invece a volte si rischia di trasmettere ai figli, anche in modo inconsapevole, il messaggio che si è importanti solo se si vince, concentrandosi sui risultati e sul profitto, mentre per loro è fondamentale sentire di essere amati per quello che sono, con i loro limiti e le loro difficoltà, anche se non sono bravi in tutto e se non arrivano sempre al primo posto, a scuola, nello sport o in ogni altra attività. Bambini e ragazzi che si sentono amati in modo incondizionato non avranno paura di provare, di mettersi in gioco e magari anche di sbagliare, perché riusciranno ad affrontare e a tollerare meglio anche le sconfitte e le inevitabili prese in giro dei coetanei.


Allora, come aiutare i figli ad affrontare gli insuccessi?


Possiamo iniziare valorizzando gli aspetti positivi presenti in un fallimento. Nel gioco, ad esempio, si può sottolineare a bambini e ragazzi quando siano stati bravi a rispettare le regole, farli riflettere su quanto si siano divertiti, sulle emozioni che hanno provato, differenziando i giochi in cui si vince per fortuna da quelli in cui conta anche l’impegno. Ovviamente è opportuno utilizzare giochi adatti all’età dei figli o farli partecipare ad attività sportive in linea con le loro abilità, in modo da confrontarsi con gli altri ed entrare in contatto con i propri limiti, che possono però essere superati. Accettare la sconfitta significa anche che possono capire dove hanno eventualmente sbagliato, per evitare di commettere lo stesso errore in futuro.


Lasciamo a bambini e adolescenti del tempo per digerire l’insuccesso. Un adolescente deluso per un brutto voto, ad esempio, difficilmente vorrà parlarne appena tornato a casa. Non banalizziamo quello che prova e, allo stesso tempo, evitiamo di umiliarlo o di trasmettergli l’idea che sia un “fallito” perché non ha raggiunto un determinato obiettivo. Lasciamogli del tempo, poi possiamo provare a chiedere cosa è successo, magari dicendogli che comprendiamo la delusione, che ci dispiace e che se vuole può parlarne con noi per trovare insieme delle soluzioni.


Ai genitori spetta il compito di insegnare ai figli prima di tutto il valore dell’averci provato, dell’impegno e dei possibili errori. Perdere non significa essere dei perdenti o non avere gli strumenti e le capacità per competere, ma fa parte dell’esperienza: il successo sta nel riuscire ad accettare anche le piccole sconfitte e imparare da esse. Per la giornalista Arianna Huffington, autrice di uno dei blog più letti e influenti degli Stati Uniti, “Il fallimento non è l’opposto del successo: è parte del successo”.

E poi il suggerimento più ovvio: non mantenere i figli nella bambagia sostituendoci a loro in ogni situazione che potrebbe sfociare in un loro insuccesso: dal fare i compiti al posto loro al discutere con i suoi insegnanti. I bambini più piccoli di una scuola Montessori apparecchiano la tavola usando stoviglie vere di ceramica. Certo che quei piatti possono cadere e rompersi! Ma la maestra aiuterà con calma il bambino a raccogliere i cocci e a capire che non è successo nulla di irreparabile trasformando così una sconfitta in un’occasione di apprendimento e crescita. “Una delle più grandi conquiste della libertà psichica è il rendersi contro che noi possiamo fare un errore e possiamo riconoscere e controllare l’errore senza aiuto. Se vi è cosa che rende il carattere indeciso, è il non saper controllare qualcosa senza dover ricorrere all’aiuto di altri. Nasce un senso di inferiorità scoraggiante e una mancanza di confidenza in noi stessi. Il controllo dell’errore diventa una guida che dice se siamo sulla giusta via”24 .


Per quel che riguarda la tecnologia una paura molto comune è quella che i sistemi tecnologici ci tolgano la possibilità di sbagliare. Non la paura di cancellare qualcosa o di rovinare il computer, errori per cui esistono delle valide reti di sicurezza, ma la paura che un errore di gioventù rimanga registrato per l’eternità, cosa cui non c’è rimedio allo stato attuale della tecnologia. Questo margine d’errore si rivela molto limitato, per cui dobbiamo educare le giovani generazioni a considerare e soppesare i rischi che corrono nella loro vita digitale. Affronteremo questo problema nel capitolo 13.


Ripeto, è fondamentale educare bambini e adolescenti ad affrontare anche la sconfitta e trasmettere il messaggio che ciò che conta è arrivare in fondo, migliorare, divertirsi, saper accettare che un altro possa fare meglio di noi in quel momento senza insistere sul fallimento stesso. “Se dite a uno scolaro che non sa fare una cosa, vi potrà facilmente rispondere: «Perché me lo dici, lo so già!» Questa non è correzione, ma presentazione di fatti. Correzione e perfezionamento vengono soltanto quando il bimbo può esercitarsi a volontà per lungo tempo”25 .

La via del fare

Alla morte di Richard Feynman, sulla lavagna del suo ufficio è rimasto scritto: “Ciò che non posso creare, non lo posso comprendere”. Perché noi tutti apprendiamo e quindi comprendiamo, facendo esperienza, utilizzando le informazioni acquisite col ragionamento. La pedagogia costruttivista afferma che “la conoscenza è costruita nella mente del discente” che significa, detto in altri termini, che la conoscenza non si può trasferire ma ognuno la deve costruire per mezzo delle sue esperienze e della sua riflessione. Del resto anche nell’uso della tecnologia funziona così. Quando hanno fra le mani un nuovo dispositivo tecnologico o un nuovo videogioco, i ragazzini provano e riprovano, si scambiano esperienze e condividono i successi, mica leggono le istruzioni! Marc Prensky, che ha proposto la metafora del “nativo digitale”, considera questo un effetto molto positivo della tecnologia perché riscontra in loro una “saggezza o intelligenza digitale” che nasce dal learning by doing, dall’apprendere facendo e non, aggiungo io, dalla tecnologia in se stessa. Allo stesso modo una ricerca26 mostra che la nostra soddisfazione per l’acquisto di cose diminuisce nel tempo, ma aumenta sorprendentemente quando acquistiamo esperienze. Volendo ridurlo all’ovvio, possiamo riassumere tutto questo citando il detto attribuito a Confucio: “Se ascolto dimentico, se vedo ricordo, se faccio capisco”.


Un controesempio me l’hanno dato le giornate di orientamento professionale organizzate dal CSCS. Invece di spiegare il lavoro del Centro di Calcolo e come sono fatti i supercomputer, ai partecipanti facciamo smontare e rimontare un PC. Dovreste vedere le facce terrorizzate dei ragazzi che non lo hanno mai fatto! Ecco, sono utilizzatori della tecnologia digitale, ma realmente non la conoscono, mentre toccare e smontare serve loro per comprendere cosa c’è dietro a una tastiera e a uno schermo togliendo quell’alone di magia che la circonda.


Noi apprendiamo attraverso il corpo e da come questo percepisce l’universo. Questo radicamento sul corpo è la cornice su cui costruiamo la nostra esperienza. Se non ci fosse il corpo, la mente non potrebbe organizzare e strutturare i concetti, poiché non riceverebbe nessuna informazione; se non ci fosse la mente, gli stimoli provati sulla “propria pelle” rimarrebbero confusi e inutilizzati. Quindi noi “siamo” anche un corpo, non “abbiamo” solo un corpo. Siamo un tutt’uno, non siamo abitati da un homunculus che fa muovere il corpo come succede in una scena del film Men in Black.


Per contrasto la scuola, ma anche noi genitori, usiamo troppe parole con i bambini, siamo sempre troppo astratti. Diciamo al figlio piccolo: “Stai attento!” e lui rimarrà confuso su che cosa vorrà dire la raccomandazione, a che cosa e come deve stare attento. Gli diamo un’astrazione su cui scervellarsi. Ben diversa è la situazione se gli diciamo: “Ecco, prendi il piatto con due mani così non scivola”. Questa non è un’astrazione, è un’informazione molto concreta. Per queste persone in formazione le parole non funzionano e Montessori se ne era accorta: “Vi è un altro fatto interessante: i bambini non possono concentrare l’attenzione sulle parole, mentre è loro molto facile concentrarla su un oggetto”27 . Pensiamo alla differenza che c’è tra il passeggiare in un bosco e l’imparare da un libro la forma delle foglie. Le immagini e le descrizioni stampate scivolano via dalla mente, mentre le foglie nel loro ambiente naturale daranno luogo a moltissime micro-esperienze a cui ancorarsi nella memoria. La logorrea educativa, le conoscenze trasmesse come se fossero delle pastiglie, l’assenza dello sperimentare entusiastico, bloccano le capacità dei bambini iniziando dalle emozioni più importanti per l’apprendimento: la meraviglia e la sorpresa. Nella conferenza citata Montessori, partendo da una conoscenza specifica, quella della matematica, faceva infatti notare: “Le difficoltà che si incontrano in matematica e in geometria sono veramente tali quando vengono spiegate a voce. Ma esse possono venir appianate se ci si serve di un materiale che dia forma concreta alle astrazioni matematiche”28 . Questi materiali che fanno da ponte tangibile verso i concetti astratti io li ho visti in azione alla scuola di mio figlio che poi, quando aveva afferrato il concetto astratto, li abbandonava perché ormai non gli servivano più.


Parlare di apprendimento attraverso il corpo significa parlare di movimento. Non di movimento fine a se stesso, che chiamerei piuttosto agitazione scomposta, ma il movimento finalizzato a uno scopo. Anzi, per i neuroscienziati: “L’apprendimento di un’abilità motoria e non la mera attività motoria, appare causare un profondo rimodellamento sinaptico”29. Per secoli abbiamo guardato alla natura umana basandoci sulla nozione che siamo un’entità divisa, la ragione separata dalle emozioni e il progresso di una società che dipende dal grado in cui essa è capace di sopprimere le passioni. Questo ha prodotto una visione amputata e superficiale della natura umana, quando invece il movimento è parte integrante delle nostre capacità cognitive e base dello sviluppo della mente. In campo neuroscientifico, prima di accettare tutto questo, ci sono voluti molti studi che hanno rivalutato la funzione e l’importanza delle aree motorie nella fisiologia del cervello. Studi che hanno dimostrato come “lo stesso rigido confine tra processi percettivi, cognitivi e motori finisce per rivelarsi in gran parte artificioso: non solo la percezione appare immersa nella dinamica dell’azione, risultando più articolata e composita di come in passato è stata pensata, ma il cervello che agisce è anche e innanzitutto un cervello che comprende”, come sintetizza nel libro So quel che fai Giacomo Rizzolatti30, che con il suo gruppo a Parma ha scoperto i neuroni specchio. Gli fa eco in maniera provocatoria ma convincente Daniel Wolpert31 per il quale abbiamo un cervello per una e una sola ragione, ed è per produrre movimenti complessi e adattabili.


Per la Montessori32 l’intelligenza parte dall’agire, dall’operare e, in definitiva, dalla mano: “La mano è quell’organo fine e complicato nella sua struttura che permette all’intelligenza non solo di manifestarsi, ma di entrare in rapporti speciali coll’ambiente: l’uomo, si può dire, «prende possesso dell’ambiente con la sua mano» e lo trasforma sulla guida dell’intelligenza, compiendo così la sua missione nel gran quadro dell’universo”. E la stretta connessione del movimento con lo sviluppo della mente l’aveva capita esattamente cinquant’anni prima di Rizzolatti: “Il movimento va considerato da un nuovo punto di vista. A causa di errori e malintesi lo si è considerato sempre come qualcosa di meno nobile di quello che è: specialmente il movimento del bambino, che è stato tristemente negletto nel campo educativo dove tutta l’importanza viene data all’apprendimento intellettuale. Soltanto l’educazione fisica ha preso in considerazione il movimento, ma senza riconoscerlo connesso all’intelligenza”33. Insomma, alla fine a scuola il movimento è stato accettato solo come “educazione fisica” o “gioco”, ma si è continuato a ignorare il suo stretto collegamento con lo sviluppo della mente dei bambini.

Questa stretta connessione del movimento col pensiero non è un’esclusiva dei bambini. Raccontano di Richard Feynman: “L’intuizione non era solo visiva, bensì anche uditiva e cinestetica. Coloro che osservavano Feynman nei momenti di intensa concentrazione potevano cogliere il forte, perfino fastidioso senso di fisicità che ne derivava, come se il suo cervello non si fermasse alla materia grigia, ma si estendesse a tutti i muscoli del corpo”34 . Non ci ritroviamo l’immagine di uno dei nostri irrequieti adolescenti?


Il movimento ha anche un altro beneficio: rende possibile l’imitazione significativa. Significativa perché è molto più dell’imitazione a pappagallo. Qui non si scimmiottano i movimenti visibili, ma si riproducono i movimenti, anzi, le azioni finalizzate perché se ne è capito il motivo e lo scopo. Nell’imitazione significativa entra in gioco un sistema neurale molto importante, il sistema specchio che è composto da neuroni motori che si attivano sia quando compiamo un gesto, sia quando lo vediamo compiere. Questo sistema è importante perché ci fa simulare internamente un movimento che stiamo osservando rendendo più facile comprenderne il significato e facilitandone così l’apprendimento35 ,36 . Come funziona l’imitazione in un mondo di tablet e smartphone? Non c’è, perché i movimenti sono troppo limitati e astratti. Fine della storia.


Oltre a questo, l’uso delle mani ha un altro grande beneficio: manipolare oggetti fisici è fondamentale per l’acquisizione delle abilità spaziali, cioè dell’abilità a manipolare rappresentazioni mentali. Di converso manipoliamo queste rappresentazioni mentali astratte maneggiandole come se fossero oggetti fisici, un comportamento dimostrato da un famoso esperimento psicologico37 dove il soggetto, per decidere se due forme tridimensionali nello spazio erano la stessa o meno, ruotava le rappresentazioni mentali come se fossero oggetti fisici. Come l’hanno dedotto i ricercatori? Perché per rispondere il soggetto impiegava un tempo proporzionale all’angolo formato fra di essi. Ma a che cosa servono le abilità spaziali? Servono non solo per montare un mobile dell’IKEA, ma hanno una enorme influenza anche sulle capacità matematiche, non a caso oggi la matematica viene definita come la scienza degli schemi e delle configurazioni.

Gesticoliamo per comunicare, per rendere concreti i nostri pensieri. Le strutture che costruiamo nella mente traboccano nei gesti con cui cerchiamo di renderle visibili agli altri. Non solo comunichiamo, “potremmo dire che quando l’uomo pensa, egli pensa e agisce con le mani”38 . Il gesticolare, il muovere le mani, ci aiuta a costruire i modelli mentali che faranno da impalcatura alle nuove conoscenze39 , ci aiuta a districarci nei problemi matematici e a comprendere meglio un testo scritto. La professoressa Susan Goldin-Meadow dell’Università di Chicago, che studia la convergenza tra gesti, segni, pensieri e parole, ha scoperto che il gesticolare mentre si parla, anche se nessuno ci può vedere, facilita il pensiero e riflette ragionamenti non espressi a voce40 . Non solo, ha dimostrato che chi gesticola apprende meglio41 .


Insegniamo ai nostri giovani a pensare con le mani, per esempio insegnando la tecnica delle mappe mentali, dette anche MindMap42 . Per costruire una tale mappa si usano colori, simboli, frecce e quant’altro disegnato a mano per stimolare la nostra capacità associativa e perché il movimento della mano aiuta a pensare. Poi ci sono i giochi che implicano l’uso delle mani e non solo dell’intelletto che stanno prendendo piede anche in ambienti serissimi come quelli aziendali. LEGO Serious Play43 è un metodo finalizzato a sviluppare il pensiero, la comunicazione e la risoluzione di problemi complessi di gestione aziendale attraverso l’impiego del gioco di costruzioni LEGO. Se possono giocare gli adulti, perché non possono farlo gli adolescenti?


Gli oggetti devono in qualche modo non essere completamente passivi, devono invitarci a utilizzarli, a modo loro parlandoci. Lo psicologo statunitense James Gibson ha introdotto il termine affordance per identificare la qualità fisica di un oggetto che suggerisce a un essere umano le azioni appropriate per manipolarlo44 . L’esempio più evidente è il manico di una brocca che ci invita a prenderla proprio da lì senza bisogno di istruzioni o di allenamento, oppure il vecchio telefono, dove la cornetta ci suggeriva chiaramente come doveva essere impugnata. Insomma, le affordance sono una specie di “invito ad agire”. Un invito che ha una base neuronale, perché vedere un oggetto evoca automaticamente che cosa potremmo fare con esso attraverso l’attivazione di una particolare classe di neuroni, i cosiddetti neuroni canonici. Questi neuroni rispondono alla semplice osservazione di un oggetto, indipendentemente se ci sia o no l’intenzione di agire, per esempio per afferrarlo.


Invece quali affordance offre un tablet? L’esperto di ergonomia Don Norman ci fa osservare che molti dei modi con cui interagiamo con la tecnologia informatica non sono affordance, sono convenzioni apprese45 . Il tablet o lo schermo del computer non ci invitano ad agire, semmai ci invitano a considerare una delle convenzioni, come per esempio il cursore che cambia forma quando si è su qualcosa che si può cliccare o l’icona della lente d’ingrandimento che ci suggerisce di cercare.


Una sentenza inappellabile sulle tecnologie di manipolazione diretta di uno schermo, le tecnologie touch, viene da Bret Victor, progettista di interfacce innovative e studioso del futuro della tecnologia, che le definisce “Immagini Sotto Vetro” che offrono “un paradigma di interazione da intorpidimento permanente. Si tratta di una flebo di novocaina al polso. Esso nega alle nostre mani quello che sanno fare meglio. Che cosa si può fare con queste «Immagini Sotto Vetro»? È possibile farle scorrere. Questo è il gesto fondamentale in tale tecnologia. Scorrere un dito lungo una superficie piatta. Non c’è quasi nulla nel mondo naturale che manipoliamo in questo modo”46 . Facciamo un confronto fra la mano e il mouse. Se guardiamo ai cosiddetti “gradi di libertà”, cioè i possibili movimenti indipendenti, vediamo che il mouse ne ha solo due, infatti può muoversi da destra a sinistra oppure su e giù. Stessa cosa per il dito che scorre su uno schermo. La mano umana ha invece ben 27 gradi di libertà: quattro in ogni dito, cinque per il pollice che è più complicato e sei gradi di libertà per la rotazione e la traslazione del polso. Mano batte mouse 27 a 2! Un robot ci guarderebbe con invidia quando con una mano sola estraiamo il mazzo di chiavi dalla tasca, selezioniamo la chiave giusta e apriamo la porta. Quante opportunità ci dà la mano per interagire col mondo, per fare esperienza. Perché sprecarle?

Capire, non solo usare

In un suo libro Grazia Cherchi47 racconta di un vecchio incrociato sull’autobus e del suo denso turpiloquio e continua: “il nostro ha deciso di lasciare l’autobus – le portiere erano aperte. Scendendo mi ha comunque lanciato un ultimo saluto: da par suo. «Vecchio infatuato e malvissuto» gli ho gridato. È rimasto sbigottito, letteralmente a bocca aperta, chiaramente in difficoltà circa il significato delle mie parole, tra il mozartiano e il moralistico. Ne discende che il vocabolario d’antan, non più noto nemmeno a persone d’antan, ha acquistato oggi una sua potenza intimidatoria.”


Come per “infatuato” e “malvissuto”, spesso anche noi fingiamo di sapere che cosa vogliano dire concetti e parole d’ordine in voga oggi nel mondo tecnologico: “internet delle cose”, “intelligenza artificiale”, “maker” per citarne solo alcune. Ma sappiamo che cosa significano? Forse no, come ha scoperto l’indagine “Tech Habits 2016” per cui “l’88% degli italiani usa termini legati alla tecnologia pur non avendo minimamente idea di ciò di cui si sta parlando. Il significato di: «streaming», «cloud», «emoji» è per lo più ignoto”48 . A questo si unisce una grande paura a mostrare la propria ignoranza. Sembra che dire al proprio figlio o allievo: “Non lo so” sia un’esecrabile debolezza.


Alla scuola Montessori di mio figlio avevano invece un cartellone intitolato “I cacciatori di parole” in cui ognuno scriveva le parole che non conosceva in cui si era imbattuto. Poi si cercavano i significati sul vocabolario o sull’enciclopedia – anche Wikipedia, perché no? – e si presentava il risultato a tutti i compagni. Perché non riproporre in famiglia qualcosa del genere? Non è necessario diventare dei guru delle tecnologie digitali, ma l’ignoranza non paga mai, nemmeno in questo campo. Per esempio, quasi ogni applicazione o sito in rete ci chiede moltissime informazioni per registrarci. Trasmettiamo ai nostri giovani un atteggiamento di attenzione e uno sforzo di comprensione che li spingano a chiedersi perché una certa informazione viene richiesta, se c’è veramente bisogno di fornirla e quali potrebbero essere le ripercussioni di una loro divulgazione.


Che cosa significa comprendere? Primo Levi che, oltre a essere uno scrittore era anche uno scienziato, per la precisione un chimico, scriveva: “Ciò che comunemente intendiamo per «comprendere» coincide con «semplificare»: senza una profonda semplificazione, il mondo intorno a noi sarebbe un groviglio infinito e indefinito, che sfiderebbe la nostra capacità di orientarci e di decidere le nostre azioni. Siamo insomma costretti a ridurre il conoscibile a schema: a questo scopo tendono i mirabili strumenti che ci siamo costruiti nel corso dell’evoluzione e che sono specifici del genere umano, il linguaggio ed il pensiero concettuale”49 . Ecco, uno dei più importanti “mirabili strumenti” è la creazione di modelli mentali di un qualcosa che sperimentiamo. Lo possiamo fare aiutandoci con strumenti grafici, come possono essere le MindMap o le mappe concettuali.


Agli inizi dell’informatica personale, mettersi alla tastiera ci rendeva più intelligenti e, viceversa, rendevamo più intelligente l’ammasso di ferraglia che era la macchina50 . Oggi invece, per semplificarci la vita, sistemi e istruzioni si livellano sempre più verso il basso. Per esempio, le applicazioni dell’iPhone non hanno mai problemi semplicemente perché non lo dicono all’utente. Il modem di cui mi ha dotato il fornitore di servizi di rete si installa in due minuti, a meno che si abbiano delle esigenze appena fuori dalla norma, come doverci collegare una stampante e allora diviene un piccolo incubo. Insomma, proprio il contrario di quello da cui ci metteva in guardia Albert Einstein: “Make everything as simple as possible, but not simpler” rendi tutto il più semplice possibile, ma non così semplice da risultare banale. Ottimo suggerimento, valido anche quando rispondiamo a un “perché” da parte di figli e allievi.

Il sovraccarico informativo

Già dieci anni fa consumavamo ogni giorno cinque volte più informazioni rispetto a trent’anni prima51 , una quantità incredibile che equivale a 174 quotidiani al giorno. Chissà oggi a quante copie siamo arrivati! Questa massa di conoscenze a nostra disposizione si sta espandendo così velocemente che nessuno di noi riesce più a tenere il passo. La conseguenza è che nel mondo ossessionato dalle informazioni di oggi, le nostre menti sono costantemente in fuori-giri, mentre per i nostri nativi digitali questo sovraccarico è semplicemente un fatto della vita, un atteggiamento che noi che abbiamo qualche anno in più spesso non comprendiamo.


Si potrebbe pensare che la massa di informazioni a nostra disposizione si traduca in una maggiore conoscenza. Sfortunatamente, questo non sembra essere il caso. Per esempio le conoscenze sulla società civile in generale, il tipo di nozioni che si suppone la gente raccolga dalla scansione di tutte queste informazioni, è rimasta quasi costante negli ultimi 80 anni52 , almeno negli Stati Uniti.


Come se non bastasse l’enorme quantità di informazioni che ci sommerge, si aggiungono altri problemi che vanno a complicare esponenzialmente questo sovraccarico informativo. Stiamo parlando della distrazione continua voluta dagli esperti di marketing e dagli sviluppatori di software che stanno ottenendo un accesso senza precedenti a dati sul comportamento umano e usano queste informazioni per catturare l’attenzione delle persone e renderle dipendenti dal loro prodotto.


Mentre tutti questi problemi dipingono un quadro potenzialmente cupo, il rovescio della medaglia è che oggi c’è più conoscenza innovativa disponibile che mai, prodotta spesso dai massimi esperti mondiali su qualsiasi argomento desideriamo e gran parte di essa è gratuita o a un prezzo abbordabile. Una conseguenza è che le persone che imparano ad accedere rapidamente a conoscenze innovative mentre minimizzano il rumore di fondo hanno un enorme vantaggio sugli altri. Gli studi di Duje Tadin53 sembrano dimostrare addirittura che ci sia una correlazione tra capacità di ignorare informazioni non rilevanti e l’intelligenza.


In questo momento, da qualche parte nel mondo c’è un paragrafo, un capitolo o un libro che cambierebbe la tua vita per sempre se lo leggessi. Chiamo questo tipo di informazioni «conoscenze rivoluzionarie» e padroneggiare la capacità di trovare conoscenze innovative nella nostra era di sovraccarico di informazioni è una delle abilità più importanti che possiamo sviluppare54 . Data la potenza della “conoscenza rivoluzionaria” e la difficoltà a trovarla, una delle domande fondamentali che tutti noi dobbiamo porci e dobbiamo insegnare a porsi è: “Come possiamo usare il tempo limitato che abbiamo a disposizione per trovare conoscenze rivoluzionarie in un mare di distrazioni?”. Per prima cosa dobbiamo imparare a distinguere la conoscenza rivoluzionaria dalla conoscenza incrementale. La conoscenza incrementale conferma ulteriormente ciò che già sappiamo essere vero. La conoscenza rivoluzionaria, d’altra parte, sfida le nostre credenze fondamentali su come funziona il mondo o introduce una nuova lente attraverso cui vedere il mondo. Un modo per riconoscere questi due tipi di conoscenza potrebbe essere quello di imparare a porsi una semplice domanda: “Questo ha il potenziale per cambiare radicalmente la mia vita?” Mentre tutti gli utenti del Web hanno lo stesso accesso, non tutti hanno la stessa comprensione di come utilizzare tale accesso e non tutti si pongono questa domanda. Di conseguenza, alcune persone vivono in un’apocalisse informativa e altre vivono in un’utopia informativa. L’unico modo per trasformare la prima nella seconda è cambiare il nostro approccio alle informazioni da reattivo a proattivo. In altre parole, invece di ingurgitare passivamente tutte le informazioni che ci bombardano, prendiamo noi l’iniziativa ed educhiamo i nostri nativi digitali in tal senso.


La prima iniziativa che possiamo prendere è renderci conto che il problema esiste. Banale, ma spesso trascurato. Come scrisse Christopher Strachey in una lettera al suo ex compagno di scuola Alan Turing nel 1954: “Sono convinto che il nocciolo del problema dell’apprendimento è riconoscere le relazioni e saperle usare”. Ecco, dobbiamo cercare le relazioni e le connessioni che portano a costruirsi un modello mentale, che è la soluzione del secolare problema del sovraccarico di informazioni. Ritornando al consiglio di Hamming dobbiamo quindi imparare a imparare.


Che altro? Possiamo rinfrescare la nostra comprensione del metodo scientifico per identificare informazioni di alta qualità. Possiamo convincerci dell’importanza di avere conoscenze diversificate senza pensare che coltivare troppi interessi sia un problema, anzi, secondo una ricerca le persone con tanti interessi hanno più probabilità di avere successo55 . Per vagliare le informazioni su cui vale la pena di spendere del tempo, possiamo cercare di capire perché ci sono informazioni spazzatura. Questo ci porta a considerare l’altra malattia mortale delle informazioni prodotte e circolate con facilità: le bufale e le false informazioni in rete.

Post-verità, bufale e false informazioni

Leggo in uno studio serio sulle fake news legate alla recente pandemia56 : “La disinformazione alimentata da voci, discriminazioni e teorie del complotto può avere implicazioni potenzialmente gravi per l’individuo e la comunità se prioritaria rispetto alle linee guida basate sull’evidenza scientifica. In questo studio abbiamo identificato 2.311 segnalazioni in 25 lingue da 87 paesi. Di queste l’82% è risultato falso.


Ad esempio, un mito popolare secondo cui il consumo di alcol altamente concentrato potrebbe disinfettare il corpo e uccidere il virus circolava in diverse parti del mondo. A seguito di questa disinformazione, circa 800 persone sono morte, mentre 5.876 sono state ricoverate in ospedale e 60 hanno perso la vista dopo aver bevuto metanolo come cura del coronavirus.

In India, 12 persone, tra cui cinque bambini, si sono ammalate dopo aver bevuto liquore a base del seme tossico di Datura come cura per la malattia da coronavirus. Secondo quanto riferito, le vittime hanno guardato un video sui social media che spiegava come i semi di Datura danno l’immunità al COVID-19”.


Con una rapidità senza precedenti, nell’era social le notizie false, o fake news, come si usa chiamarle, inventate o manipolate a fini politici o per attirare click, nascono e si propagano come virus, rimbalzando da un account all’altro a colpi di like e retweet e contagiando amici e follower. Questa facilità ha generato false credenze che risultano refrattarie a ogni tentativo di dimostrarle false arrivando a influenzare decisioni che hanno notevole rilevanza sociale: dalle elezioni alle scelte relative alla salute pubblica o a questioni ambientali. Persino i siti web ufficiali sono pieni di bugie o verità parziali dove l’omissione di fatti è essa stessa una falsa rappresentazione della verità. Dire la verità è addirittura percepito come qualcosa che fanno gli sciocchi e di conseguenza c’è una grande paura nel proclamarla. Spesso, poi, le istituzioni politiche e sociali hanno programmi nascosti e usano le informazioni non per rendere le persone più informate, ma per influenzare e agitare opinioni e comportamenti. Questo modo di agire ha portato alla nascita del termine post-verità che indica quella condizione secondo cui la verità di una notizia o di un fatto viene considerata una questione di secondaria importanza. Nella post-verità la notizia viene percepita e accettata come vera dal pubblico sulla base di emozioni e sensazioni, senza alcuna analisi concreta della effettiva veridicità dei fatti raccontati. Un tipo di post-verità è quella che instilla paure, insicurezze e dubbi, il maledetto FUD: “Fear, Uncertainty, and Doubt”, che ha un potere immenso su menti non avvezze al pensiero critico.


A questi tipi di false informazioni aggiungerei quegli argomenti che prendono spunto da qualcosa di vero e accertato, ma a forza di essere resi più semplici non rimane nulla, soprattutto se si parte dal presupposto che la gente, ma soprattutto i giovani, non riesca a capire. Un esempio sono i neuromiti, di cui parleremo, che partono da una verità scientifica e via via che vengono semplificati per il grande pubblico divengono, appunto, dei miti, o peggio, delle bufale. Un esempio arcinoto è l’affermazione che “utilizziamo solo il 10% del nostro cervello”.


Purtroppo la diffusione di false informazioni incarna il modello: “investire poco, profitto alto”. Se parliamo di politica, sostenere una verità costa e spesso non porta molti voti, mentre una paura che fa risuonare qualche terrore ancestrale nel popolo paga e ripaga. Fare la manutenzione delle scuole non porta voti, dare addosso agli stranieri invece sì. Che cosa possiamo fare allora?


Per prima cosa rendiamoci conto che alle bufale credono più gli adulti che i ragazzi. Quindi forse i suggerimenti che seguono dovremmo applicarli prima a noi stessi e dopo incorporarli nel nostro lavoro educativo.


Dobbiamo insegnare ai nostri figli fin da piccoli il pensiero critico, a dubitare sempre e a verificare sempre i fatti, a comprendere la distorsione dei dati, l’interpretazione e il contesto e ad andare oltre la superficie delle informazioni. Il metodo scientifico è il miglior metodo che abbiamo a disposizione per trovare la verità, magari una verità parziale, ma sempre fondata sulla realtà. Far appassionare i giovani al fare scienza perché chi si appassiona così è più facilmente immune al clamore ottuso delle pseudo-scienze e pseudo-verità. Dobbiamo assicurarci che i ragazzi imparino a valutare se le informazioni che hanno a disposizione arrivano da una fonte attendibile, o anche solo identificabile, quali potrebbero essere gli interessi della fonte e quali le sue credenziali.


Impariamo a vedere attraverso le falsità. È un dato di fatto che le persone mentono costantemente su internet. La maggior parte del tempo mentono molto male, a volte mentono decentemente e molto raramente mentono bene. Non importa identificare i bravi bugiardi, ce ne sono troppo pochi e le possibilità di scoprirli sono troppo basse. Invece possiamo filtrarne il 99% imparando gli errori logici comuni e gli argomenti errati. Non sarebbe quindi male rendersi conto dei pregiudizi cognitivi che ci portano a confidare in informazioni di cui non dovremmo fidarci. Alcuni di questi pregiudizi cognitivi o bias che hanno a che fare con questo sono: il bias di conferma per il quale le persone tendono a muoversi entro un ambito delimitato da ciò che già sanno e dalle loro convinzioni acquisite; l’effetto di ritorno di fiamma per cui i fatti, per quanto suffragati da dati e documenti, non ci fanno cambiare idea; l’effetto Dunning-Kruger, una distorsione cognitiva a causa della quale individui poco esperti in un campo tendono a sopravvalutare le proprie abilità mentre persone davvero competenti tendono a sminuire o sottovalutare la propria reale competenza; l’effetto alone, un bias per il quale la percezione di una caratteristica di un individuo o di un oggetto è influenzata dalla percezione di uno o più altri suoi tratti; e infine l’illusione di verità per cui il grado di familiarità di un’informazione porta la persona a considerarla attendibile a prescindere dal suo reale stato di verità.


Familiarizzare i cittadini, a partire dai giovani, con i bias del nostro cervello, per assicurarci un futuro migliore, è la sfida di oggi. Nel modo in cui la politica sta iniziando a usare questi limiti cognitivi, abbinandoli a strumenti di profilazione di massa delle preferenze individuali ieri inimmaginabili, c’è il pericolo di una totale divaricazione tra narrazione e percezione della realtà. Il metodo scientifico è un portentoso antidoto a questo scenario, ma per farlo funzionare dobbiamo essere tutti costantemente allenati, iniziando dai più giovani. Dalla capacità di discernimento di ciascuno passa il confine tra la costruzione di una società democratica e libera improntata all’innovazione o un regime populista governato da istinti, oscurantismo e tribalismo identitario.


Sì, va bene. Sono discorsi importanti, ma io genitore che mi trovo bombardato da avvisi di pericolo al limite del panico per delle presunte sfide che spingono i più piccoli a portare a termine compiti dannosi, che devo fare? Per prima cosa non dobbiamo andare nel panico perché così si annebbiano tutte le facoltà razionali. Poi parlarne con i figli con cui abbiamo da sempre stabilito un dialogo aperto, vero? A questo punto potete visitare uno dei siti di verifica dei fatti come “Snopes.com57 o, dalle nostre parti, “bufale.net58 per capire quanto di verità c’è nel pericolo mostrato. Per esempio la “Momo challenge”, con il video di un’inquietante testa dagli occhi sporgenti, si è rivelata abbastanza presto una bufala e il personaggio inquietante nient’altro che una scultura giapponese. Insomma, la rete diffonde le bufale, ma ci dà anche la possibilità di smascherarle, se investiamo un po’ di tempo nella ricerca.

La memoria

Dati, informazioni e memoria, un connubio solido, sancito ancor più dalla tecnologia digitale a suon di gigabyte, terabyte e quant’altro. In quest’atmosfera, come persona, il dimenticarsi le cose suona come un difetto, ma si liquida il problema dando la colpa a Google. Addirittura ho trovato scritto che “Google uccide poco a poco la forza della memoria”, suggerendo che dipendere dai motori di ricerca sia una cattiva idea “se si vuole restare mentalmente agili”. Tale argomentazione è di per sé stupida. Primo, perché la nostra memoria è radicalmente differente dalla memoria di un computer. Secondo, perché non abbiamo un solo tipo di memoria. Terzo, perché da sempre, da prima dell’uso della tecnologia, la nostra memoria si è dimostrata altamente fallibile e soggetta a una lunga lista di pregiudizi ed errori. Quarto, perché le risorse cerebrali sono limitate e la memoria deve competere con le altre funzionalità mentali.


La prima differenza fra una memoria elettronica e una umana è nel tipo di accesso. Nel suo libro Il Pallino della Matematica, il neuroscienziato Stanislas Dehaene59 spiega la differenza tra i due tipi di memoria servendosi come esempio della tavola pitagorica e parlando della difficoltà intrinseca che presenta ai bambini che la vedono per la prima volta. La cosa straordinaria, dice, non è che facciano fatica a impararla, ma piuttosto che finiscano per ricordarsela. Perché questo tipo di elenco è un serio ostacolo per la nostra memoria? Qualsiasi agenda elettronica, dotata di una minuscola memoria di meno di un migliaio di caratteri, potrebbe immagazzinarlo senza difficoltà. Questa metafora informatica offre da sola la risposta: se il nostro cervello non riesce a ricordare i fatti matematici è proprio perché la sua memoria non è organizzata come quella di un calcolatore. La memoria umana è associativa e intreccia legami multipli tra informazioni disparate. Sono proprio questi legami associativi che permettono la ricostruzione di un ricordo sulla base di informazioni frammentarie. Una memoria elettronica, invece, mantiene le conoscenze separate le une dalle altre, al riparo da qualsiasi interferenza e, dato un indirizzo preciso e completo, vi accede direttamente in maniera indipendente dal contenuto. Non solo, mentre un cervello artificiale assorbe le informazioni e le salva immediatamente nella sua memoria, il cervello umano continua a elaborarle a lungo dopo averle acquisite e a classificarle secondo la loro importanza; di conseguenza la qualità di quei ricordi dipende proprio da come l’informazione viene elaborata. In poche parole: la memoria biologica è viva, quella informatica, no. La memoria biologica è contingente, esiste nel tempo, cambia e si rinnova con il cambiare del corpo. La memoria elettronica, invece, se si modifica è un guaio, perché significa corruzione dei dati.


Parlare genericamente di memoria è per lo meno incompleto. Di memorie ne abbiamo varie per vari scopi che non solo memorizzano, ma anche selezionano cosa memorizzare. C’è la memoria sensitiva che trattiene pochi attimi le informazioni che provengono dagli organi di senso, scartandone il 75%. Del rimanente, meno dell’1% viene selezionato nell’area del linguaggio e immagazzinato nella limitata memoria a breve termine o memoria di lavoro, che ci permette di immagazzinare esperienze immediate e un po’ di conoscenza recuperata dalla memoria vera e propria, combinandole ed elaborandole in funzione del nostro obiettivo. Le informazioni sono qui trattenute per un periodo variabile tra qualche secondo e alcuni minuti, dopo di che o sono dimenticate o sono archiviate permanentemente nella memoria a lungo termine. Il trasferimento dalla memoria di lavoro e la conseguente selezione delle informazioni da memorizzare stabilmente è un processo delicato, nel quale il cervello sceglie che cosa debba essere ricordato e cosa dimenticato, che è gestito dall’ippocampo, la zona del cervello che governa le emozioni, i sentimenti e perciò anche la nostra percezione della realtà. La memoria a lungo termine non ricorda solo concetti astratti o eventi personali o storici, ricorda anche azioni e procedure per eseguire comportamenti complessi, quella che Montessori chiamava memoria muscolare e che oggi ha il nome di memoria procedurale, che viene alimentata dal ripetere movimenti e azioni fisiche. Oltre a queste c’è anche un altro tipo di memoria di cui spesso ci si dimentica e che ha assunto maggiore importanza con l’avvento delle sconfinate memorie elettroniche: la cosiddetta memoria transattiva, una memoria che non ha a che fare con le informazioni in sé, ma con il sapere come e dove trovarle. Il Web è un esempio di memoria transattiva, una sorta di deposito esterno al nostro cervello che memorizza le informazioni al posto nostro e al quale ci riferiamo quando abbiamo bisogno di recuperarle.


La memoria transattiva non è però una memoria nata con la tecnologia perché da sempre, oltre a farci aiutare da agende e Post-it, usiamo le altre persone come archivi di memoria transattiva. Chiediamo al collega anziché cercare la risposta sulla rete aziendale, o ci appoggiamo al coniuge per ricordare dove abbiamo parcheggiato la macchina o dove è conservata quella camicia così elegante. Lo stesso succede per quelle informazioni, come il tempo di cottura della pasta, di cui non avremo mai bisogno, a meno di non avere la scatola tra le mani quando stiamo cucinando gli spaghetti60.


La memoria è importante, d’accordo, ma ci possiamo fidare davvero? La maggior parte di noi vorrebbe credere di ricordare il passato con precisione. Purtroppo, il nostro cervello è meno affidabile di quanto si è soliti pensare: i testimoni oculari sono notoriamente inaffidabili e vari studi hanno dimostrato che una persona su quattro potrebbe essere indotta a ricordare eventi che non sono mai avvenuti61. Del resto dimenticare può essere una cosa saggia. Dimentichiamo traumi, dimentichiamo azioni negative e così via. La memoria digitale rischia di mandare questo nostro sistema di difesa in cortocircuito perché fa ricordare tutto in modo indiscriminato62.


Infine, imparare le cose a memoria viene citato come una attività essenziale da taluni intellettuali come Umberto Eco63, che sembra, però, ignorare gli aspetti associativi della memoria e suppone che chi dispone di molta memoria possieda anche un’alta capacità di stabilire connessioni pertinenti tra le informazioni che ha memorizzato. Oppure l’esempio riportato dall’esperto in catastrofi Manfred Spitzer64 che riguarda la sviluppata memoria dei tassisti di Londra che devono riempirla con le 25.000 strade e piazze della città per ottenere la licenza di tassista. Quello che non dice, però, è che queste persone hanno minori capacità di manipolare modelli in 3D nella loro mente. Gli fa da contraltare quello che accade alle future mamme che in gravidanza sembrano perdere le capacità più elementari dimenticando chiavi e pentole sul fuoco, ma nel contempo sviluppando incredibilmente gli altri sensi. In questo caso la maternità effettua una sorta di selezione che predilige le esigenze dei bambini mettendo in secondo piano tutto il resto65 . Dove voglio arrivare? Voglio ricordare che la nostra memoria deve contendersi le risorse cerebrali disponibili e che quindi dobbiamo decidere se riempire la memoria oppure sviluppare altre abilità.

Riassumendo. Siamo dotati di una memoria largamente inaffidabile, che seleziona cosa memorizzare e che è influenzata da una miriade di fattori. Nonostante questo, perché è comunque importante la memoria? Primo perché per accedere alle memorie transattive serve una sorta di indice analitico che ci dica dove andare a recuperare le informazioni. In secondo luogo perché “per rimanere vitale, la cultura deve essere rinnovata nelle menti dei membri di ogni generazione. Se affidiamo all’esterno la memoria, la cultura avvizzisce”, come scrive Nicholas Carr66 . Un esempio ci è dato da quelle ideologie che hanno reso orribile il secolo scorso e che ora, a dispetto dei tanti libri e musei, tendono a non essere più considerate così malvagie perché fanno meno parte della memoria delle attuali generazioni. Il terzo e più importante motivo è che per far funzionare il pensiero, la memoria a breve termine deve avere immagazzinato e poter mettere a disposizione il materiale che sarà combinato per creare i pensieri, così come è fondamentale per l’immaginazione, come vedremo nel capitolo 8, perché a questa servono “materiali da costruzione” come punto di partenza.


Che strumenti possiamo allora offrire ai nostri figli che si lamentano di non riuscire a imparare le tabelline o le capitali dell’Europa? Soprassiedo qui alle critiche che vorrei portare allo studio meramente mnemonico e a un sapere libresco e proviamo a vedere che cosa possiamo fare per migliorare la loro memoria. Dare loro più memorie digitali da solo non serve, invece possiamo passar loro tecniche ed espedienti mnemonici. In realtà non abbiamo bisogno di molto, perché funzioniamo tutti secondo gli stessi princìpi di base. Per ricordare dobbiamo rendere più concreto quello che appare astratto e creare legami e associazioni fra quello che vogliamo memorizzare e la conoscenza che già possediamo. Ma andiamo con ordine.


Per prima cosa, maggiori sono le possibili associazioni e più sarà facile che quanto appreso sia ricordato per tempi più lunghi. La chiave per il consolidamento della memoria è data dall’attenzione. Acquisire ricordi e formare connessioni tra di essi, richiede una forte concentrazione mentale, affiancata dalla ripetizione o da un intenso coinvolgimento emotivo o intellettuale. Il mero richiamo di nozioni, come avviene nel risolvere le parole crociate, per esempio, non basta ad allenare la memoria, perché andiamo semplicemente a recuperare informazioni già lì presenti.


In un TED Talk, lo psicologo ed educatore Peter Doolittle67 ci spiega che, se vuoi ricordare ciò di cui fai esperienza, è importante fare qualcosa con quell’informazione. Questo può voler dire parlare o scrivere di quello che stai studiando o spiegare agli altri ciò che pensi di avere imparato. Se proprio scopri che non riesci a esporlo, bene, vuol dire che devi rileggerlo ancora perché non lo hai compreso bene e quindi è stato scartato dai meccanismi di filtraggio della memoria.


Dobbiamo poi pensare per immagini, altro che nodo al fazzoletto e liste della spesa! Disegnare aiuta la memoria generando ricordi più forti nel cervello68 perché incoraggia una perfetta integrazione degli aspetti semantici, visivi e motori di una traccia di memoria. Se anche Einstein si lamentava della sua memoria e raccontava che “il mio maggior difetto consisteva nella scarsa memoria, soprattutto per parole e testi…” abbiamo un briciolo di speranza e ne possiamo ricavare un suggerimento: possiamo cercare di memorizzare qualcosa che non siano solo parole e testi. Facciamoci aiutare da mappe mentali, scarabocchi e simili, invece di affidarci a blocchi compatti di parole. Guardiamo come fanno computer e tablet. Questi oggetti tecnologici cercano di favorire il riconoscimento rispetto al richiamo dalla memoria per trasformare il lavoro mnemonico di ricordarsi un comando o il nome di un’applicazione nel riconoscere la corrispondente icona o immagine grafica. Un supercomputer non ha questi lussi e i comandi devo impararli a memoria o andare a consultarli nella documentazione.


Quindi disegno, ma anche movimento. Vi ricordate il metodo mnemonico dei loci? Cicerone è stato uno dei più celebri utilizzatori di questa tecnica. Associava alle stanze di un palazzo le varie parti dei suoi discorsi e poi lo percorreva nella sua mente quando doveva esporlo. Così fanno ancor oggi molte persone che hanno capacità straordinarie di memorizzazione. Neuroscienziati hanno dimostrato69 che il metodo può essere insegnato a persone senza particolari doti di memoria, che così si avvicinano per capacità mnemoniche ai soggetti più dotati. Come mai funziona? Una scoperta recente70 dimostra che utilizziamo gli stessi neuroni – chiamati Place e Grid Cell – sia per muoverci in un ambiente, sia per navigare i concetti e quindi per formulare i pensieri. Il pensiero è quindi strettamente legato al movimento. Organizzare i ricordi in maniera spaziale o, in generale, organizzare le informazioni in modi che abbiano un senso per noi, ci aiuta. Abbiamo già visto l’importanza delle connessioni per l’apprendimento e di conseguenza per la memoria.

Visto che il processo di consolidamento delle memorie è gestito dall’ippocampo, che è quella zona del cervello che governa le emozioni, queste hanno un ruolo primario nella memorizzazione e nel conseguente recupero delle informazioni. Se qualcosa stimola in noi emozioni positive, o se qualcosa ci sorprende perché inaspettato, sarà più facile ricordarlo, non serve un neuroscienziato per capirlo e la curiosità è il motore più importante che abbiamo per scatenare queste emozioni. Pensiamoci, il cervello passa la giornata intera a classificare le informazioni secondo la loro importanza. Le cose che non scatenano alcuna reazione, che non generano alcuna emozione vengono scartate come irrilevanti. I ricercatori hanno scoperto che quando esponevano dei topi a esperienze che attiravano la loro attenzione o prima o subito dopo qualcosa che volevano che ricordassero, la loro capacità di conservare tali informazioni migliorava71 . Lo stesso accade negli esseri umani, quando qualcosa di nuovo si verifica poco prima o poco dopo la codifica del ricordo. Se ci pensiamo bene, tanti dei nostri ricordi sono definiti da, o almeno associati, a grandi eventi della vita. Gli scienziati la chiamano “memoria flash”: l’evento che ci interessa o ci colpisce genera una scarica di dopamina che ci aiuta a fissare il momento, come fa un flash fotografico. Senza andare tanto lontano, varie ricerche suggeriscono che i bambini usano ciò che già conoscono del mondo per elaborare delle previsioni. Quando queste si dimostrano sbagliate, i bambini sfruttano la sorpresa come una speciale opportunità di apprendimento.


Si è scoperto, poi, che il recupero delle memorie legate a particolari eventi richiede la rivisitazione delle informazioni sensoriali registrate in quel momento e che questo processo avviene in tempi rapidi, fra i 100 e i 200 millisecondi. Proust scrive nel suo Alla ricerca del tempo perduto come il profumo delle Madeleine avesse richiamato in lui una catena di ricordi del passato. Un’intuizione folgorante sul ruolo fondamentale che l’olfatto e il gusto hanno per la memoria e per richiamare i ricordi. Guarda caso, gusto e olfatto sono gli unici due sensi direttamente collegati all’ippocampo. Quindi, per immagazzinare correttamente nuovi ricordi, è necessario avere una piena percezione del proprio corpo e dei propri sensi. Se questa percezione viene a mancare, per esempio quando gli stimoli sensoriali sono filtrati da strumenti e visori per la realtà virtuale, la memoria diventa frammentaria.


Infine sfruttare la memoria transattiva. È confortante, in un certo senso, sapere che il mago del rintracciare e sbloccare i ricordi, il Premio Nobel Susumu Tonegawa, crede che nessun cervello sia un’isola e che sia meglio non memorizzare tutto, ma avere un cervello esterno che conservi le informazioni72 . Vale la pena notare che chi deplora la perdita della memoria così preziosa per i nostri avi si dimentica che nell’epoca che seguì quella in cui si declamavano a mente i poemi di Omero, si liberarono le funzioni cognitive dal carico impietoso di milioni di versi e poté così svilupparsi la geometria. E non è l’unico esempio. C’è un metodo per aumentare la produttività chiamato GTD (Getting Things Done)73 che ha come primo dei suoi principi fondamentali quello di liberare il più possibile la memoria affidando a supporti esterni ciò che dobbiamo ricordare. Il suo fondatore afferma che: “Essere creativi, strategici o semplicemente presenti e amorevoli non richiede tempo: richiede spazio”. Spazio mentale, appunto.


La memoria va allenata, siamo d’accordo, allora perché non iniziamo ad allenarla da giovanissimi, quando le capacità cerebrali si stanno sviluppando grazie alla plasticità del cervello propria di questo primo periodo della vita? Attenzione, non sto parlando di forzare l’apprendimento a memoria di poesie, basta leggere assieme a dei bambini piccoli fiabe e racconti e vedrete come vi riprendono se sbagliate una frase! Certo, i ricordi episodici formati durante il primo periodo postnatale vengono rapidamente dimenticati, un fenomeno noto come “amnesia infantile”, soprattutto perché l’ippocampo attraversa un periodo critico di sviluppo prima di diventare funzionalmente competente74 . Un periodo critico, come tanti altri che abbiamo visto nel capitolo 5, che deve essere protetto e aiutato perché questa struttura del cervello è cruciale per la formazione dei ricordi di lunga durata.


Infine, l’importantissimo ruolo del sonno per la memoria. Quando siamo addormentati il nostro cervello lavora per ordinare le informazioni raccolte durante il giorno e archiviare i ricordi, ripulendo la memoria dai dati inutili o superflui. Proteggiamo questo periodo, solo apparentemente improduttivo, nei bambini e soprattutto negli adolescenti.

Infine, l’umiltà

Uno strano consiglio da mettere in pratica nel lavoro educativo è quello di insegnare a essere pronti a disimparare quello che si è imparato a scuola. Credo che questo sia cruciale, perché molti studenti pensano di sapere tutto, quando in realtà la conoscenza che hanno acquisito diventa obsoleta il giorno della laurea e, comunque, per il World Economic Forum75 la durata media delle abilità professionali è di cinque anni. Nel mio campo, poi, la conoscenza tecnica diviene obsoleta addirittura nel giro di sei mesi. Il mondo in cui entrano le nuove leve è in continua evoluzione, devono quindi adattarsi, apprendere di nuovo quasi tutto e spingersi costantemente in avanti, esplorando nuove opportunità, raggiungendo nuove vette, crescendo attraverso le sfide e diventando la loro migliore versione di se stessi. Altrimenti “è impossibile per un uomo imparare ciò che crede di sapere già” come ci ammoniva Epitteto circa cento anni dopo Cristo.


Non penso che nel mondo del lavoro serva la persona che sa tutto. Questi, come scrive Eric Hoffer76 , saranno ben attrezzati per affrontare un mondo che non esiste più. Un bel po’ di anni prima la Dottoressa sosteneva esattamente lo stesso: “Se l’educazione dovesse continuare lungo le vecchie linee, coi vecchi sistemi di semplice trasmissione di nozioni, il problema sarebbe insolubile, e non vi sarebbe speranza per il mondo”77 .


E allora che fare? Un buon consiglio ci viene da Alvin Toffler78 che nel libro Lo choc del futuro ha anticipato quello che sarebbe successo 40 anni dopo: “Gli analfabeti del ventunesimo secolo non saranno quelli che non sanno leggere e scrivere, ma quelli che non saranno in grado d’imparare, disimparare e imparare di nuovo” perché il mondo evolve troppo rapidamente, occorre adattarsi ai cambiamenti e non attendere che tutto ritorni come prima. I Neanderthal sembra si siano estinti per la loro incapacità, appunto, di adeguarsi ai cambiamenti ambientali. In un certo senso dobbiamo essere sempre dei principianti che hanno fame di imparare, come si definisce una scrittrice diciassettenne di mini-storie pubblicitarie per smartphone: “Impariamo dall’ignoto. Ciò che si sa, non serve già più”. Voler sempre imparare perché “nella mente del principiante ci sono molte possibilità, in quella dell’esperto ce ne sono poche” come fa notare il maestro Zen Shunryu Suzuki.

Pratica!

1. Creare occasioni di apprendimento. Si apprende sempre e si impara dall’esperienza. Si può rendere speciale anche il portare la carta e le lattine a riciclare. Si possono proporre dei “Perché?” ogni volta che facciamo qualcosa assieme ai nostri figli. Sappiamo per esempio raccontare perché il Bancomat chiede e dà le cose in un determinato ordine?


2. Dare un campo vasto di cultura in cui nutrirsi. Non pensiamo che qualcosa sia troppo complessa per la loro mente. Magari al momento non capiranno una mostra di pittura moderna o la visita a un museo, ma così forniamo loro il “vasto campo di cultura” per nutrire la loro mente.


3. Creare occasioni per apprendere con l’esperienza. Ci sono musei che offrono ai visitatori più giovani la possibilità di toccare e manipolare. Per esempio a Winterthur vicino a Zurigo c’è il Technorama e a Milano il Museo della scienza e della tecnica.


4. Le buone idee nascono con gli altri. Possiamo organizzare delle attività assieme agli amici dei nostri figli per immaginare il futuro tutti assieme, per esempio.


5. Il muro delle parole. Appendiamo un grande foglio bianco e scriviamo tutte le parole che non conosciamo. Poi cerchiamole tutti assieme in famiglia su vocabolari ed enciclopedie.


6. Un tuffo nel passato tecnologico. Cerchiamo vecchie tecnologie come un telefonino GSM, una scheda perforata, un floppy disk e giochiamo a scoprire come funzionavano e cosa hanno di diverso dalla tecnologia attuale.


7. Cercare le connessioni. Provare a creare delle MindMap per collegare idee ed esperienze tra loro.


8. Cerchiamo di scoprirlo assieme. Ogni occasione è buona per cercare di rispondere a una domanda di cui non conosciamo la risposta. “Non lo so. Ma se vuoi cerchiamo di scoprirlo assieme” è una maniera fantastica per imparare assieme ai figli.


9. Inneschiamo la serendipità. Usiamo e insegniamo a usare i motori di ricerca al massimo dell’efficacia. Siti e suggerimenti come “How to be a Google Power User”79 possono darci delle idee da sperimentare assieme ai nostri figli.


10. Andate a fare una passeggiata. Perché le grandi idee nascono camminando. Darwin faceva lunghe passeggiate per pensare185 . Fare quattro passi stimola la creatività e il cervello è libero di distrarsi e può lavorare per cercare connessioni con idee apparentemente dimenticate. Nel farlo assieme ai figli magari il cervello non è così libero, ma gli spunti che gli arrivano dai loro discorsi compensano a meraviglia.


11. Mettiti deliberatamente in situazioni dove sei la persona meno informata. Osserva e impara. Resisti a quella sensazione di disagio, a quella difesa che provi quando le tue supposizioni più profonde vengono messe in discussione.


12. Impariamo a imparare. A scuola nessuno tiene corsi di metodi di studio per i ragazzi di medie e superiori. Cerchiamoli in rete e proponiamoli alle scuole dei nostri figli. Strategie di apprendimento, tecniche per aumentare l’efficacia dello studio, metodi per organizzarsi e strutturare il tempo sono fondamentali e non possiamo lasciare che ognuno le impari sulla propria pelle.

Le tecnologie digitali in famiglia
Le tecnologie digitali in famiglia
Mario Valle
Nemiche o alleate? Un approccio Montessori.Come risponde il cervello di un bambino alle sollecitazioni di un mondo tecnologico e che cosa possiamo fare per consentire un uso appropriato dei dispositivi tecnologici? Il mondo dei nostri figli è dominato dalla tecnologia: tablet, smartphone e computer costituiscono ormai parte integrante della loro vita; compito di noi genitori è quello di “prepararli al futuro” e educarli all’uso delle nuove tecnologie. Ma come?Mario Valle, esperto di supercomputer, nel libro Le tecnologie digitali in famiglia si rifà al pensiero di Maria Montessori (grande ammiratrice delle tecnologie del suo tempo e profonda conoscitrice della mente del bambino) per provare a delineare questo futuro: come risponde il cervello di un bambino alle sollecitazioni di un mondo tecnologico e che cosa possiamo fare per consentire un uso appropriato di questi dispositivi?Non si tratta, quindi, di demonizzare o idolatrare la tecnologia, ma di analizzare il presente per prepararsi al futuro. A questo punto si impone una riflessione: la civiltà ha dato all’uomo, per mezzo delle macchine, un potere molto superiore a quello che gli era proprio ma, perché l’opera della civiltà si sviluppi, bisogna anche che l’uomo si sviluppi. Il male che affligge la nostra epoca viene dallo squilibrio originato dalla differenza di ritmo secondo il quale si sono evoluti l’uomo e la macchina: la macchina è andata avanti con grande velocità mentre l’uomo è rimasto indietro. Così l’uomo vive sotto la dipendenza della macchina, mentre dovrebbe essere lui a dominarla.Maria Montessori, Dall’infanzia all’adolescenza Conosci l’autore Mario Valle lavora da oltre trent’anni nei campi più disparati della scienza e dal 2003 è al Centro Svizzero di Calcolo Scientifico (CSCS) di Lugano, a stretto contatto con scienziati e ricercatori, utilizzando quotidianamente supercomputer e tecnologie di punta.Tramite suo figlio, che ha frequentato una scuola Montessori, si è avvicinato a questo mondo e si è appassionato alla concreta scientificità delle idee della Dottoressa Montessori. Ora studia e approfondisce questi temi e condivide le sue riflessioni in pubblicazioni, corsi e presentazioni pubbliche.