CAPITOLO 2

Cominciamo da noi adulti

Sto viaggiando sul Frecciarossa da Milano ad Ancona. Dall’altro lato del corridoio c’è una famigliola giovane con due bambini, uno di neanche un anno e l’altro che di anni ne avrà avuti quattro. Il papà è immerso nel suo tablet, magari per un lavoro urgente da sbrigare, non so. La mamma, invece si sta occupando di tutto: dal cibo per i bambini al tenerli impegnati. A un certo punto deve andare in bagno a cambiare il piccolo. Il grande rimane con papà e guarda fuori dal finestrino. Dopo Rimini i binari corrono molto vicini al mare, il bambino è eccitatissimo, chissà, forse l’aveva visto raramente. Da quel momento per lui è stata una scoperta continua che proclama ad alta voce: una barca! Le onde! I sassi grossi nell’acqua! Il massimo dell’entusiasmo lo ha raggiunto quando il treno è passato sopra un fiumiciattolo. Non smetteva di raccontare questa esperienza per lui così strana e il papà niente, solo qualche “Mmm…” senza alzare gli occhi dallo schermo. Anzi, a un certo punto gli ha pure messo lo smartphone in mano per farlo stare zitto. Mi domando: perché?


Quel papà ha sprecato un’occasione molto bella di rapportarsi con suo figlio e gli ha trasmesso l’idea che uno schermo sia più importante e interessante del mare. Non sono però necessarie azioni dirette come questa, perché l’esempio che diamo è già molto potente: “Se mamma e papà sono spersi nello schermo del telefonino, allora è una cosa buona. Se lo fanno loro, lo faccio anch’io”. Non solo ci imitano, imparano dalle nostre azioni e non dai nostri discorsi. Se non cominciamo noi a mettere questi meravigliosi strumenti tecnologici al loro posto, non potremo pretendere che lo facciano loro, soprattutto quando saranno adolescenti. Ancor peggio, se utilizziamo in modo immaturo gli strumenti digitali perdiamo autorevolezza e difficilmente potremo diventare una guida per i nostri figli, almeno in questo campo. A volte credo che, sotto sotto, questi atteggiamenti nascano dalla competizione, dalla paura che abbiamo di essere superati dai nostri figli. Invece dovremmo convincerci che per quel che riguarda la tecnologia ne sanno più di noi e che dobbiamo collaborare invece di lottare per essere primi.


Come in ogni campo, i bambini hanno bisogno che i genitori li aiutino a dare un senso alle loro esperienze, soprattutto nel mondo digitale. Invece, a quanto pare, noi adulti facciamo esattamente l’opposto; la maggior parte delle interazioni familiari con i media digitali riguarda limitazioni, supporto tecnico, o la negoziazione dei tempi d’uso senza mai mettere in discussione il nostro modo di interagire con la tecnologia stessa.


Il primo passo è quindi essere consapevoli di quanto la tecnologia entri nella nostra vita famigliare. Questo non significa eliminarla, ma capire quando e come tenerla sotto controllo. Possiamo cominciare ponendoci alcune domande:


Riusciamo a lasciare il cellulare lontano da tavola durante i pasti?


Riusciamo a controllare posta e social solo quando non ci sono i figli attorno?


Lasciamo il lavoro in ufficio per quanto possibile? Niente mail di lavoro quando siamo in famiglia?


A casa la televisione, o gli schermi in genere, hanno i loro momenti oppure invadono tutta la giornata?


Quando andiamo al parco giochi con i figli piccoli, sappiamo mettere in pausa le telefonate per ascoltare cosa ci vogliono riferire dei loro divertimenti e delle loro attività?


Essere d’esempio è un discorso ben più ampio del solo insegnare a rapportarsi in maniera sana con la tecnologia, come ci fa intravvedere la poetessa Maya Angelou: “Ho imparato che le persone possono dimenticare ciò che hai detto, le persone possono dimenticare ciò che hai fatto, ma le persone non dimenticheranno mai come le hai fatte sentire”. Un bambino che si sente amato e ascoltato imparerà molto di più rispetto a una predica teorica di un genitore distratto da uno schermo.

Abbandoniamo le vecchie paure e aspettative

Non si arriva da nessuna parte nel nostro compito educativo se non mettiamo in discussione le idee preconcette, i luoghi comuni, l’affezione ai vecchi metodi e non accettiamo il presente rendendoci disponibili a mutare schemi mentali e aspettative. Molto spesso i preconcetti si trasformano in paure, aspettative malriposte, pregiudizi e giustificazioni che prendono il sopravvento e non ci permettono di ragionare lucidamente. Chi non si è mai imbattuto nelle seguenti opinioni infondate?


La tecnologia fa male ai bambini. È come quando qualcuno mi chiede aiuto per un certo programma informatico e mi dice solo “non funziona”. Che cosa non funziona? Che tipo di computer stai utilizzando? Non posso aiutarlo se non ho un quadro chiaro della situazione e soprattutto se non riesco a capire che cosa intende con “non funziona”. Allo stesso modo in che cosa una tecnologia fa male? Di che età stiamo parlando? Quale tecnologia?


La tecnologia comunque fa bene ai bambini. Siamo allo stesso punto. Fa bene in che senso? Spesso questo non è un preconcetto nato da noi stessi, ma qualcosa instillato da chi ha interesse a vendere dispositivi digitali.


Sono nati così, che cosa ci possiamo fare? L’idea del nativo digitale per molti è una giustificazione per non fare nulla. Nel momento in cui si trasforma in un’etichetta rischia di diventare una specie di alibi al pari del bollare la tecnologia come la fonte di ogni male.


Non è capace di usarla. Il bambino non riesce a usarla o non l’abbiamo lasciato provare abbastanza? Perché allora lo aiuti? Te lo ha forse chiesto?


È troppo difficile per loro. Spesso sottostimiamo le abilità dei bambini. A loro piacciono le sfide, ma quando le aspettative sono basse si adattano a quel livello. Spesso pensiamo “Ma perché devo rispondere a questa domanda o leggergli questo libro, tanto non capirebbe”. Chi siamo noi per affermarlo? Chi siamo noi per stabilire quali semi piantare, semi che magari avranno un impatto nelle loro vite fra molti anni?


La rete è pericolosa. Dobbiamo imparare a distinguere tra rischio e danno: trovarsi in una situazione di potenziale rischio non significa automaticamente venirne danneggiati. E poi, di quali pericoli stiamo parlando? Insieme a questi preconcetti viaggia la convinzione che certi metodi educativi hanno sempre funzionato e, quindi, funzioneranno anche nei riguardi della tecnologia:


È così perché lo dico io. Autoritarismo scambiato per autorevolezza. Suvvia, non siamo più negli anni ’50! In più, in campo tecnologico i nostri figli spesso ne sanno più di noi.


Vietare o porre limiti spesso arbitrari. È la manifestazione concreta del punto precedente. Invece dobbiamo riconoscere e affrontare le responsabilità, anche a costo di perderci qualcosa, perché per chiunque è più facile e conveniente vietare che cercare un contatto.


Quando sarai grande capirai. Una maniera per evitare i problemi. Non serve però, perché se non glielo spieghi tu, si informerà da qualche altra parte.


Ti punisco levandoti il telefonino. L’effetto è molto più profondo del togliere la TV come facevano i nostri genitori. Non togliamo loro qualche cosa di passivo, togliere il cellulare a un ragazzo oggi significa togliergli tutto: contatti, amici e perfino la pianificazione della sua giornata. Spesso è controproducente. E poi, quando la punizione finisce, possono facilmente rimettersi in pari, come se nulla fosse successo.


Mamma sa che cosa è meglio per te. Non metto in dubbio che mamma e papà vogliano il meglio per il proprio figlio, ma sono proprio sicuri di sapere che cosa è meglio per loro figlio? Gliel’hanno mai chiesto? Conoscono tutte le ricerche che riguardano il funzionamento del suo cervello riguardo alle tecnologie digitali? Magari un po’ di umiltà e di osservazione in più non guasterebbero.


Un ultimo atteggiamento che dobbiamo sforzarci di cambiare è il coltivare aspettative immotivate. Vogliamo sempre il meglio per i nostri figli e vogliamo per loro un futuro felice. Il problema diventa quando questi nostri desideri si trasformano in coercizioni verso i figli che non tengono conto dei loro bisogni e delle loro abilità. Per esempio:


Mio figlio diverrà un genio se lo immergo nella tecnologia. Crescere non è una gara. Il figlio può essere un genio se ha queste predisposizioni, non se viene spinto a crescere in quella direzione. D’altro canto nostro figlio potrebbe essere geniale, ma in campi non tecnologici.


Mio figlio diverrà un genio se lo iscrivo alla tale scuola. Come genitore, devo cercare una scuola che faccia di mio figlio un genio? Magari una scuola Montessori, visto che ha sfornato i fondatori di Google e Amazon? No. Non è questo lo scopo di una qualsiasi scuola, men che meno di una scuola Montessori, tuttavia sappiamo che possiamo dare ai bambini un ambiente educativo che faccia crescere le loro potenzialità anche fino al livello di un genio, se il bambino è così predisposto. “È vero, come ho già detto prima, che noi non possiamo formare un genio, [ma] soltanto aiutare l’individuo a realizzare le sue potenzialità” scriveva Maria Montessori1 . Questo dovrebbe essere l’obiettivo di ogni forma di educazione, scolastica e non.


Diverrà un mago della tecnologia perché è bravo a utilizzare il tablet fin dalla tenera età. Quando li vediamo trafficare con un tablet o uno smartphone stabiliamo che i nostri piccoli abbiano un’intelligenza superiore e ce ne gloriamo di riflesso. Ci dimentichiamo, però, che sono i nostri “scienziati nella culla” e come tali, se diamo loro un qualsiasi gadget tecnologico, troveranno il modo di utilizzarlo in men che non si dica. Per i bambini piccoli, poi, i gesti contano più dei nomi, per cui un oggetto che funziona con dei gesti è irresistibile. Attenzione però a non fare confusione, perché questo comportamento dimostra solo che il bambino è capace di un apprendimento associativo (cerco – clicco – guardo/sento) che non ha nulla a che fare con l’intelligenza, né con il suo potenziamento2 .


Non ci dà mai problemi, diverrà un adulto responsabile. Non è che non vuole darci dispiaceri? Non c’è adolescente che non abbia problemi e che non litighi con i genitori ed è proprio il tentativo di non preoccupare i genitori l’allarme più rilevante. Ci sono adolescenti che si sentono inadeguati a diventare uomini e magari si vergognano di non essere all’altezza delle aspettative dei genitori.


Invece di perdere tempo con questi pensieri, dovremmo imparare a osservare i bambini e i ragazzi. Saper osservare significa essere in grado di mettere in pausa il proprio giudizio, porre a tacere ogni bisogno d’interrompere, dirigere o disturbare l’esperienza del bambino e limitarsi a guardarlo in maniera obiettiva, con l’attitudine dello scienziato. Solo così potremo cogliere le espressioni più profonde del suo animo, comprendere i suoi bisogni e interessi e offrire loro una risposta. Ci vuole tempo, ma scopriremo che sono persone con capacità e interessi spesso inaspettati. Pensate che Montessori di fronte ai bambini si domandava “Chi siete?” come se fossero gli ambasciatori provenienti da un altro pianeta3.


Un modo molto efficace per spazzare via i pregiudizi nei riguardi della tecnologia è quello di accompagnare i nostri figli nei giochi digitali e nelle comunicazioni sulla rete, facendoci spiegare che cosa stanno facendo, guardando assieme a loro i filmati che li affascinano e rendendoci disponibili a cambiare le nostre idee. A volte giocare assieme a un videogioco diventa una fonte di divertimento e di sane risate per tutta la famiglia perché, diciamocelo, spesso noi adulti e più di frequente quelli “immigrati” da più tempo, siamo proprio impediti con i videogiochi.


Così facendo trasmettiamo il messaggio che abbiamo a cuore quello che fanno e quello che vedono e si sentiranno compresi, anche se probabilmente non lo daranno a vedere.

Non pretendiamo che faccia tutto la scuola

Anche per quel che riguarda il rapporto con la tecnologia, non abdichiamo al nostro compito educativo scaricandolo sulla scuola. Invece con la scuola dovremmo collaborare perché sia la famiglia, sia la scuola sono ambienti privilegiati per l’educazione del bambino e quindi dovrebbero condividere l’approccio formativo o quantomeno non essere in contraddizione tra loro su punti importanti per la sua crescita. Parlare di scuola non è però uno dei temi che tratteremo qui, perché ne ho già parlato diffusamente nel mio precedente libro4 .


Non credo oggi esistano scuole che non decantino le proprie attività tecnologiche, che siano il coding, l’aula di robotica o l’infrastruttura a base di tablet ed e-book. Tutta questa infrastruttura non ne fa una scuola orientata al futuro se non è diverso il modo d’insegnare, i programmi e il rapporto con gli alunni. Un esempio: la programmazione, che sembra più avanzata se la chiami coding, non è l’informatica. Ne è un piccolo sottoinsieme. Sarebbe differente se la scuola fornisse agli studenti una visione più ampia, più ad alto livello di un sistema informatico, per esempio mostrando che cosa c’è dietro un motore di ricerca come Google o com’è l’architettura di una App dello smartphone.


La scuola con cui mi troverei in sintonia non dovrebbe limitarsi ad addestrare all’uso di una qualche tecnologia digitale e non dovrebbe limitarsi a trasmettere solo informazioni, ma dovrebbe essere un luogo in cui il bambino e il ragazzo possano crescere e sviluppare le loro potenzialità. Questo mio pensiero l’aveva già sviluppato estesamente Albert Einstein5 che scriveva: “Sono contrario all’idea che la scuola debba insegnare direttamente quelle competenze particolari e quelle specificità che si dovranno poi impiegare direttamente nella vita. Le esigenze della vita sono troppo multiformi perché una scuola possa permettersi un tale addestramento specialistico. […] Bisognerebbe sempre dare la priorità allo sviluppo di una capacità generale di pensiero e di giudizio indipendente, non all’acquisizione di una competenza specialistica. Se una persona padroneggia i fondamenti della materia e ha imparato a pensare e a lavorare in modo indipendente, sicuramente se la caverà e sarà inoltre più capace di adeguarsi al progresso e ai cambiamenti di una persona il cui addestramento sia consistito principalmente nell’acquisizione di una conoscenza dettagliata”.


Io penso, quindi, che quando dovremo scegliere la scuola per nostro figlio sarà d’obbligo fissare la nostra attenzione su quanto può offrire in termini di interdisciplinarità, di capacità, non solo tecniche, degli insegnanti, di coesione dei gruppi classe, di cosa ha in programma per stimolare l’apprendimento e l’amore per la conoscenza. Da parte nostra, invece di chiedere a nostro figlio che torna da scuola: “Che cosa hai fatto oggi?”, domanda a cui con ogni probabilità risponderà “niente”, proviamo magari a domandare: “Che cosa ti ha incuriosito oggi?”, “Che domande hai fatto?”.


Controlliamo poi se la scuola organizza attività e incontri per i genitori in campo tecnologico, per esempio se invita esperti che parlino di problematiche legate al ciberbullismo, oppure di che cosa succede quando si entra su un social. Anzi, proviamo a fare il contrario: proponiamoci alla scuola per presentare il nostro lavoro che magari è proprio in campo tecnologico. Per preparare al futuro bambini e ragazzi, oltre che noi stessi, è estremamente utile allargare gli orizzonti oltre ciò che offre la scuola o la famiglia.

Non diamo sempre la colpa alla tecnologia

La “tecnologia” non è un’entità unica ed è quindi difficile pensare che abbia un unico effetto positivo o negativo. Inoltre gli scienziati non sanno ancora bene quali siano gli effetti a lungo termine delle tecnologie digitali sulla costruzione dell’identità di bambini e adolescenti e sul loro sviluppo cognitivo e socio-emotivo. Lo stesso capita a chi lavora in ambito didattico che spesso non ha chiara l’efficacia futura del software educativo che propone. Così per noi genitori alla fin fine è più facile appigliarci a prove a sostegno solamente aneddotiche, mentre troppo spesso ignoriamo le ricerche scientifiche più serie.


Quando si parla di tecnologia digitale e figli, il primo argomento che scalda gli animi riguarda sempre la dipendenza dai videogiochi. Certo, è tremendo che alcuni ragazzini sviluppino una relazione poco salutare con la tecnologia, però credo che questo sia solo un sintomo di un problema psicologico più profondo. Forse è un problema di insicurezza o di mancanza di autostima, ma, in ogni caso, questi bambini hanno bisogno che i genitori diano loro amore, sostegno e approvazione. Se è opportuno, possono anche richiedere l’aiuto di un professionista che sappia come affrontare questo genere di problemi. Ma una cosa è certa, i videogiochi come droga sono solo un sintomo, non la causa. Dare loro la colpa è un modo per evitare le nostre responsabilità.


Lo stesso vale per la più comune lamentela da parte degli adulti e cioè che i videogiochi violenti generino comportamenti violenti. Non credo che giocare a un videogioco piuttosto che guardare un film o leggere un libro spinga la gente a fare certe cose. Questi discorsi si facevano anche sessant’anni fa quando si volevano bandire i fumetti e più recentemente quando si affermava che la musica rock conteneva messaggi satanici. Incredibile! La censura e l’oscurantismo sono ignoranza, ed è l’ignoranza che genera violenza. Se uno non capisce cosa è giusto o sbagliato non credo sia per colpa di un fumetto o di un videogioco. Ritorneremo più avanti su questo argomento.


Allo stesso modo possiamo considerare le altre “colpe” che addossiamo alla tecnologia. All’inizio del capitolo parlavo dell’esempio dei genitori riguardo al tempo passato davanti allo schermo. Se il figlio passa troppo tempo incollato allo smartphone, non è solo colpa di questo aggeggio tecnologico, forse è colpa di come si comportano i genitori o forse è colpa della famiglia o degli amici che non propongono alternative interessanti.

Non fidiamoci ciecamente della tecnologia

Notizia letta sul giornale: La sera del 5 novembre 2017, un milanese al volante della sua Volvo nuova di zecca, ha imboccato via De Cristoforis a Carate Urio nel comasco che, dopo i primi 200 metri asfaltati, diventa una mulattiera pedonale. Nonostante tutto l’uomo ha proseguito fino a quando è rimasto incastrato nel vicolo non potendo più procedere né avanti né indietro. Sono servite oltre cinque ore per rimuovere l’auto da quella “scomoda” posizione. L’uomo si è giustificato scaricando tutta la colpa sul navigatore.


Non è l’unico caso di fiducia cieca ma malriposta nella tecnologia. Ci sono tanti casi simili di turisti che, affidandosi al navigatore GPS, sono finiti giù per una scalinata, o automobili a guida autonoma ingannate da un bambino mascherato per Halloween. Sono incidenti che fanno sorridere, ma che puntano il dito verso una fiducia immotivata ma totale nell’apparato tecnologico e la conseguente disconnessione degli occhi e, peggio, del cervello dalla realtà che ci circonda. Purtroppo non tutti i casi sono divertenti o innocui.


La sera del 31 maggio 2009 il volo Air France 447 diretto a Parigi decollò normalmente da Rio de Janeiro. Per diverse ore tutto procedette senza problemi, poi, senza alcuna comunicazione a terra o al controllo del traffico aereo, scomparve. Le scatole nere, recuperate intatte dal fondo dell’oceano, raccontarono che, quando il sistema automatico che pilotava l’aereo improvvisamente si spense, i piloti rimasero sorpresi, confusi e alla fine incapaci di pilotare il loro proprio aereo. Questa è stata, purtroppo, una tragica conseguenza dell’avere ai comandi quelli che vengono chiamati “Children of the Magenta”, piloti troppo dipendenti dalle linee color magenta che li guidano dai loro schermi che non sanno più prendere in mano una situazione normalmente gestita da un qualche automatismo6.


Da questi esempi possiamo trarre due conclusioni. La prima, come ha commentato nel medesimo articolo William Langewiesche, giornalista ed ex-pilota: “Sembriamo essere bloccati in un ciclo in cui l’automazione genera l’erosione delle competenze o la mancanza di competenze in primo luogo e questo genera una maggiore automazione”. Lui parlava di aerei, ma pensiamo anche solo alla nostra automobile o a un assistente vocale come Alexa. Decenni di studi sull’insuccesso dei sistemi complessi mostrano che quelli altamente automatizzati non possono mai eliminare del tutto la complessità del mondo reale7 . Un problema che ha un risvolto interessante, perché i fallimenti della tecnologia fanno sentire stupido chi la usa8 . Noi siamo pronti a resistere a tutto questo?


Un campo in cui mi sento un po’ “Children of the Magenta” è quello delle password e dei PIN che i vari sistemi memorizzano per me facilitandomi la vita. Quando poi per qualche oscuro motivo devo inserirli manualmente entro in panico. Magari sarebbe meglio che ogni tanto riavviassi il telefono per ricordarmi il PIN di sblocco della SIM, oppure immettessi da tastiera la password dell’account Google anche se il browser mi propone quella che ha memorizzato.


La seconda conclusione che possiamo trarre dagli esempi riportati sopra è che sembra giustificato il rifiuto, spesso in blocco e senza appello, di ogni tipo di tecnologia digitale, mentre non dovremmo avere paura del nuovo o rifiutare le comodità che questa ci offre. Molto spesso chi glorifica il passato tende a dimenticare le cose brutte e scomode che ora non ci sono più. Peggio ancora, se con i più giovani ci trinceriamo dietro affermazioni del tipo: “L’atlante funziona anche quando non c’è corrente, mica come il navigatore GPS”, a parte il fatto che bisognerebbe capire se i ragazzi sanno che cosa sia un atlante, in realtà vogliamo dire: non ho fiducia nel futuro che ti sto preparando. Pensiamoci. Se mancasse la corrente seriamente, avremmo ben altri problemi che consultare un atlante. E poi, perché tutto questo zelo non lo mettiamo nel ridurre il nostro consumo delle risorse della terra o l’inquinamento che produciamo?


Un’analisi della situazione ce la suggerisce Montessori9. Secondo lei: “Il male che affligge la nostra epoca viene dallo squilibrio originato dalla differenza di ritmo secondo il quale si sono evoluti l’uomo e la macchina: la macchina è andata avanti con grande velocità mentre l’uomo è rimasto indietro. Così l’uomo vive sotto la dipendenza della macchina, mentre dovrebbe essere lui a dominarla”. Ancora una volta non è un problema tecnologico, ma educativo. Dovremmo educare i nostri figli a tenere il cervello acceso, a mantenere vivo lo spirito critico e a domandarsi sempre “perché?”.


Negli anni ’60, il pioniere delle interfacce uomo-macchina Joseph Licklider10 parlava addirittura di simbiosi uomo-computer, che nel suo pensiero significava consentire agli esseri umani e ai computer di cooperare nel prendere decisioni e controllare situazioni complesse senza una dipendenza inflessibile da programmi prestabiliti. Quindi, anziché considerare le capacità digitali e umane in competizione, pensiamole come complementari. Noi non riusciamo a memorizzare neppure lontanamente quanto possono immagazzinare e recuperare i computer. Però noi abbiamo la capacità di gestire l’ambiguità, di creare connessioni e di immaginare cose completamente nuove, capacità con cui nessun computer può competere11 .


In questo campo i bambini e i ragazzi, a differenza di noi adulti, sono molto più avanti di noi, perché sono più interessati a cosa la tecnologia può fare “con loro” piuttosto che “per loro”12 . Se li osserviamo, magari anche noi potremmo imparare a trasformare e rendere più umano l’uso delle tecnologie digitali e farle diventare non un mero strumento o un asfissiante padrone, ma un compagno di lavoro e di vita.

Dobbiamo acquisire competenze digitali?

Si impara facendo. Anche chi da anni lavora nel ramo delle tecnologie dell’informazione non deve supporre di sapere tutto quando si tratta di dialogare di questi temi con i propri figli.


Più che gli aspetti tecnici, per affrontare una tecnologia in continua evoluzione è necessario coltivare atteggiamenti flessibili, esplorativi e adattativi. In pratica vuol dire cominciare col mettere da parte l’orgoglio di adulti e chiedere aiuto ai nostri figli che ci spieghino come funziona quell’applicazione o come si usa un certo social. Non è una gara, non dobbiamo competere o superare le conoscenze tecniche che i nostri giovani hanno acquisito sul campo. Non temiamo di perdere autorevolezza. Consideriamo che noi adulti abbiamo, o dovremmo avere, una visione ampia sulla società e sul futuro, mentre i nostri figli vivono nel presente tecnologico. Meglio, quindi, trovare modi per collaborare. Forse è la prima volta che i figli ne sanno più dei genitori. Facciamoci sorprendere!


Detto questo, ci sono delle competenze che possiamo e dobbiamo acquisire, senza dover diventare necessariamente dei guru. I nostri ragazzi, anche se definiti nativi digitali, spesso non sanno usare le macchine al meglio delle loro capacità e utilizzare i fogli di calcolo, gli elaboratori di testo, o quant’altro al di fuori delle reti sociali e delle applicazioni di messaggistica, oppure hanno difficoltà a navigare in rete per cercare informazioni in modo efficiente e consapevole. Sono tutte abilità che vanno insegnate. Tuttavia, come suggeriscono anche i documenti europei sull’educazione digitale13 , le abilità tecniche non bastano. La maggior parte della competenza necessaria è costituita dal saper cercare, scegliere e valutare le informazioni in rete e nella responsabilità nell’uso dei mezzi tecnologici e informatici, per non nuocere a se stessi e agli altri. E su questo noi possiamo e dobbiamo acquisire la competenza necessaria per aiutare i nostri figli. Man mano che si sviluppa questa nostra chiacchierata affronteremo questi temi nel dettaglio.


Oltre che con i figli, scambiamo idee con gli altri genitori. Lo so, temiamo di mostrarci ignoranti. Ma nello scambio di esperienze tutti ne guadagnano. Approfittiamo delle riunioni a scuola o degli incontri al parco giochi per domandare come affrontano questi temi nelle loro famiglie. Magari, se il discorso si fa interessante, possiamo proporre loro la creazione di un gruppo WhatsApp o simili per continuare la condivisione di esperienze. Insomma, perché non usare la tecnologia per aiutarci a comprendere la tecnologia?

Basta genitori-guardie!

A volte, parlando con altri genitori, invece di sentir raccontare come aiutano i figli a migliorare il loro comportamento, sento elencare una lunga lista di punizioni. I racconti più o meno sono tutti simili: “La regola è che deve mettere in ordine la sua stanza ma non lo fa mai, quindi gli abbiamo portato via il tablet, vietato di guardare la TV e abbiamo annullato gli incontri di gioco con i suoi amici. Qualsiasi cosa facciamo, però a lui non importa”.


Genitori che si comportano così sono come delle guardie. Confondono autorità con autoritarismo dando spazio a una genitorialità inflessibile e basata sulle regole che esige una punizione quando i figli non si comportano come dovrebbero. Spesso i bambini più antisociali hanno dei genitori fatti così. A questi bambini non importa il motivo che c’è dietro alle regole stabilite, ma decidono di conformarsi a esse solo per il rischio di venir puniti se le infrangono.


Quando ci trasformiamo in genitori-guardie, stiamo cercando di cambiare un comportamento inopportuno attraverso il controllo e il dominio, che si traduce in regole e punizioni. Una guardia si aspetta che prima o poi ci saranno dei problemi e tratta le persone di conseguenza. A una guardia non importa se sei triste, confuso o non ti senti parte del gruppo o della società. A una guardia importa solo che rispetti le regole. Una guardia non può essere flessibile e questo significa che, se un bambino non le rispetta, indipendentemente dal motivo, la sua unica opzione è di intensificare le punizioni fino a quando non lo fa, anche se questo significa escluderli dagli stessi gruppi a cui vogliamo appartengano. Stesso identico discorso vale per i premi e vale per gli adulti. In effetti, ci sono molti adulti che fanno le cose bene solo per ricevere qualche tipo di ricompensa, o che evitano atti antisociali solo perché temono le conseguenze per se stessi se vengono scoperti. Ma sono questi i tipi di persone che vorremmo i nostri figli divengano?


Non vogliamo che, anche inconsciamente, si realizzi quanto osservava Montessori14 : “Verso il bambino l’adulto «manifesta un disprezzo» che egli consciamente non sente: perché crede il suo bambino bello e perfetto e mette in lui il proprio orgoglio e la speranza dell’avvenire; ma una spinta occulta lo fa agire secondo una tenebrosa disposizione, che non è soltanto la convinzione del «bambino vuoto» e del «bambino cattivo» a cui egli deve dare un contenuto o che deve correggere. È soltanto il «disprezzo del bambino»”. Un’analisi molto dura.


Soprattutto mettiamoci in testa che il controllo non è educazione. Il controllo ossessivo sui figli è spesso il riflesso delle nostre paure. Ecco allora che torna in primo piano tutto quanto scritto qui perché un’alternativa al genitore-guardia esiste ed è quella del genitore come guida per i propri figli. E di questo parleremo nel prossimo capitolo.

Pratica!

1. Teniamo un diario. Se ci è difficile rispondere alle domande proposte all’inizio di questo capitolo, proviamo a tenere per una settimana un diario di auto-osservazione sull’uso che facciamo della tecnologia15 . Poi ragioniamoci su e scriviamo che cosa dovremmo cambiare.


2. Immaginiamo gli scenari peggiori. Che succederebbe se si rompesse il disco del nostro computer? O meglio, quando si romperà, il che è sicuro, che cosa faremo? Non è che abbiamo una fiducia mal riposta sulla durata di vita della tecnologia? Cerchiamo di passare questa idea al resto della famiglia.


3. Ogni tanto proviamo a escludere gli automatismi. Come primo passo, elenchiamo gli automatismi a cui ci siamo abituati: password memorizzate nel browser, PIN del telefono (che non spegniamo mai), numero di cellulare della moglie, del marito o dei figli e così via. Secondo passo: ogni tanto rinfreschiamo questi automatismi introducendo manualmente password e PIN.

Le tecnologie digitali in famiglia
Le tecnologie digitali in famiglia
Mario Valle
Nemiche o alleate? Un approccio Montessori.Come risponde il cervello di un bambino alle sollecitazioni di un mondo tecnologico e che cosa possiamo fare per consentire un uso appropriato dei dispositivi tecnologici? Il mondo dei nostri figli è dominato dalla tecnologia: tablet, smartphone e computer costituiscono ormai parte integrante della loro vita; compito di noi genitori è quello di “prepararli al futuro” e educarli all’uso delle nuove tecnologie. Ma come?Mario Valle, esperto di supercomputer, nel libro Le tecnologie digitali in famiglia si rifà al pensiero di Maria Montessori (grande ammiratrice delle tecnologie del suo tempo e profonda conoscitrice della mente del bambino) per provare a delineare questo futuro: come risponde il cervello di un bambino alle sollecitazioni di un mondo tecnologico e che cosa possiamo fare per consentire un uso appropriato di questi dispositivi?Non si tratta, quindi, di demonizzare o idolatrare la tecnologia, ma di analizzare il presente per prepararsi al futuro. A questo punto si impone una riflessione: la civiltà ha dato all’uomo, per mezzo delle macchine, un potere molto superiore a quello che gli era proprio ma, perché l’opera della civiltà si sviluppi, bisogna anche che l’uomo si sviluppi. Il male che affligge la nostra epoca viene dallo squilibrio originato dalla differenza di ritmo secondo il quale si sono evoluti l’uomo e la macchina: la macchina è andata avanti con grande velocità mentre l’uomo è rimasto indietro. Così l’uomo vive sotto la dipendenza della macchina, mentre dovrebbe essere lui a dominarla.Maria Montessori, Dall’infanzia all’adolescenza Conosci l’autore Mario Valle lavora da oltre trent’anni nei campi più disparati della scienza e dal 2003 è al Centro Svizzero di Calcolo Scientifico (CSCS) di Lugano, a stretto contatto con scienziati e ricercatori, utilizzando quotidianamente supercomputer e tecnologie di punta.Tramite suo figlio, che ha frequentato una scuola Montessori, si è avvicinato a questo mondo e si è appassionato alla concreta scientificità delle idee della Dottoressa Montessori. Ora studia e approfondisce questi temi e condivide le sue riflessioni in pubblicazioni, corsi e presentazioni pubbliche.