CAPITOLO 1

Il (loro) futuro non è più quello di una volta

Blade Runner è un film di fantascienza del 1982, diretto da Ridley Scott e interpretato, tra gli altri, da Harrison Ford e Rutger Hauer, ambientato nel novembre 2019 in una Los Angeles distopica, dove replicanti dalle sembianze umane vengono fabbricati e utilizzati come forza lavoro nelle colonie extraterrestri, dove la polizia si muove su automobili volanti e i negozi vendono animali robot e pezzi di ricambio per cyborg. Quello che il regista non riesce proprio a immaginare, invece, è un futuro in cui esistono i telefoni cellulari, perché il protagonista per telefonare è costretto a servirsi di una cabina telefonica. Non riesce nemmeno a immaginare le ora comuni TV a schermo piatto, perché nell’appartamento abitato da un replicante fa bella mostra di sé un televisore col tubo catodico, uno di quegli scatoloni che molti anni fa popolavano le nostre case.


Quale genitore non desidera che i suoi figli siano preparati per il futuro? È un desiderio legittimo che si scontra però con varie difficoltà. Il primo problema appare evidente quando ci domandiamo per quale futuro li stiamo preparando, perché qualsiasi risposta molto probabilmente si dimostrerà errata. Il grande guru del management Peter Drucker una volta ha commentato: “Tentare di prevedere il futuro è come cercare di guidare in una strada di campagna, di notte, senza luci e con lo sguardo fisso allo specchietto retrovisore”. Sì, l’unica cosa certa del futuro è che arriverà molto prima e in modo diverso da quanto riusciamo a prevedere. Pensiamo un po’, chi avrebbe immaginato lo smartphone agli inizi del 2000? Teniamo presente che l’iPhone è stato presentato solo a metà 2007. Secondo voi, i progettisti avevano previsto i cambiamenti epocali che questa scatoletta avrebbe generato? Prima della recente pandemia, chi avrebbe intuito i profondi cambiamenti nel mondo del lavoro e nei rapporti sociali? Non parliamo poi dei lavori che non esistevano solo dieci anni fa, come lo YouTuber, il pilota di droni o il social media manager, ma anche di tutti quei lavori che oggi sono spariti, come la dattilografa, il linotipista o il bigliettaio sul tram.


Su tutti questi cambiamenti, poi, aleggia la paura sempre più fondata che verremo rimpiazzati in tutto e per tutto dalle macchine, dalle intelligenze artificiali e dai robot. Come umani dobbiamo allora preoccuparci e disperarci per questa invasione delle macchine? Dobbiamo angosciare i nostri eredi? Per provare a ragionare su un esempio concreto, guardiamo al mondo dei giornalisti e degli scrittori. Senza addentrarci troppo nel futuro, già oggi scrittori robot stanno producendo articoli sugli andamenti di borsa o sui risultati sportivi. Il Washington Post, per esempio, nel 2017 ne ha creati 850 con uno scrittore robot. Se analizziamo questa notizia con un po’ di lucidità, ci renderemo però conto che gli scrittori non verranno sostituiti in blocco. Chi produce della scrittura semplicemente umana rimarrà, perché gli scrittori in carne e ossa sono un amalgama di vita, di esperienze, di cultura e di idee intuitive che mancano a una macchina. Anche i dietologi, per dire, sarà difficile che cedano alle macchine perché uniscono conoscenze facilmente automatizzabili (quante calorie fornisce un piatto di spaghetti alla carbonara lo può ricordare un qualsiasi database), con il rapporto empatico e socratico verso il paziente. Riassumendo, i lavori a prova di futuro sono tali perché mettono in gioco, oltre alle capacità relazionali proprie di noi umani, le nostre abilità uniche nel trovare scorciatoie cognitive, le cosiddette abilità euristiche, che ci permettono di attingere alla nostra esperienza quotidiana per sopravvivere, superare gli ostacoli e per gestire eventi e crisi imprevedibili.


Possiamo quindi stare tranquilli sul futuro lavorativo dei nostri figli? Penso di sì, ma a due condizioni. La prima è che dovranno essere disposti a imparare sempre, a non essere mai soddisfatti – “ora so tutto”, non funziona più – e a tenere d’occhio, senza angoscia, che cosa dicono gli esperti sui lavori del futuro e regolarsi di conseguenza. La seconda condizione è non accontentarsi di puntare a lavori ripetitivi o di semplice manovalanza, ma tendere verso quei lavori che richiedono capacità spiccatamente umane. In rete esistono numerosi siti1,2 e studi3 che classificano i lavori esistenti oggi in base alla minore o maggiore probabilità che vengano automatizzati in futuro. Una risorsa che può ridurre l’ansia per quello che ci riserverà il domani. Se però, nonostante tutto, facciamo prevalere l’incertezza, puntare tutto su un addestramento tecnologico è l’unica maniera che abbiamo per preparare i nostri figli? Penso proprio di no, perché le competenze che saranno loro necessarie sono molto più ampie delle sole abilità tecnologiche.

Che cosa serve loro per affrontare il futuro?

Visto che prevedere il futuro non è né facile né certo, penso sia più importante investire le nostre energie per far crescere persone che sappiano affrontare un qualunque futuro. Eric Hoffer4 scriveva: “In tempi di profondo cambiamento, quelli che studiano erediteranno la terra, mentre i dotti si ritroveranno ben attrezzati per affrontare un mondo che non esiste più”. Un esempio storico può rendere più chiaro il concetto. La Linea Maginot, creata fra il 1928 e il 1940 per difendere la Francia da un’invasione tedesca, era perfettamente preparata per un futuro che non si è verificato, anzi, sappiamo tutti come è andata a finire: l’esercito tedesco le ha semplicemente girato attorno e ha invaso la Francia passando per il Belgio. Purtroppo pensare di essere ben attrezzati per fronteggiare il futuro è solo la prima delle zavorre che frenano noi e i nostri giovani sulla strada del futuro.


Il secondo handicap che ci appesantisce è l’illusione del controllo. Abbiamo un’idea rigida di come dovrebbe essere l’universo e invece l’universo non sta giocando secondo le nostre regole. Dobbiamo quindi smettere di cercare di predire il futuro e cominciare a vivere al meglio le situazioni attuali. In questo i giovani e i bambini sono più bravi di noi nel lasciarsi sorprendere dalla vita. Noi adulti, invece, spesso viviamo quel che cantava John Lennon nel suo ultimo disco: “La vita è ciò che ti accade mentre sei impegnato a fare altri piani”.


La terza zavorra è molto simile: pensiamo al futuro come mera prosecuzione dell’oggi. Non è completamente colpa nostra, i messaggi pubblicitari vogliono convincerci di questo. Pensate a una casa automobilistica che prospetti un futuro in cui il petrolio, a differenza di oggi, scarseggi. Non venderebbe più automobili. Allo stesso modo, troppo spesso cerchiamo di soddisfare le presunte esigenze del futuro facendo le stesse cose che abbiamo sempre fatto. Persino Albert Einstein ci mette in guardia: “Non possiamo risolvere i problemi usando lo stesso tipo di pensiero che abbiamo usato quando li abbiamo creati”. Dovremmo invece crescere generazioni di giovani che siano pensatori creativi e originali.


Vi siete domandati perché ho scelto come titolo di questo capitolo la citazione di Paul Valéry: “Il guaio del nostro tempo è che il futuro non è più quello di una volta”? L’ho scelto perché Valéry con parole poetiche ci ricorda che il futuro dei nostri figli non sarà quello che immaginavamo noi. Il futuro che immaginavamo è il nostro presente. Mentre il futuro dei nostri figli non sarà più questo. Perché, allora, non utilizziamo quella capacità spiccatamente umana che è l’immaginazione per pensare ad altre possibilità, per vedere il futuro, per immaginare nuove domande? È difficile, lo so. Anche il futuristico Blade Runner nel prevedere quello che accadrà in tanti aspetti ha fallito, ma dobbiamo provarci per il bene dei nostri figli.


L’ultimo freno è la convinzione che la tecnologia sia la soluzione di tutti i problemi. Seymour Papert, da buon pedagogista qual era, criticava fortemente questa posizione: “Ho coniato la parola tecnocentrismo dall’uso di Piaget della parola egocentrismo. Ciò non implica che i bambini siano egoisti, ma significa semplicemente che quando un bambino pensa, tutte le domande sono indirizzate a sé, all’ego. Il tecnocentrismo è l’errore di riferire tutte le domande alla tecnologia5 . La conseguenza è una proposta educativa centrata sulla fornitura di informazioni o addirittura sulla sola fornitura di accesso alle informazioni, che non è molto diverso da un approccio tecnocentrico. Alan Kay definiva lo stesso problema da un differente punto di vista. In un’intervista6 parlava di “vandalismo inverso” cioè della tendenza a creare qualcosa per nessun altro motivo se non il semplice fatto che si può crearlo. Molte tecnologie – mi vengono in mente i defunti Google Glass Consumer o la cosiddetta Internet delle Cose – mi danno esattamente questa impressione: esistono solo perché potevano essere create, indipendentemente dai reali bisogni della gente.


Per fortuna, per combattere questi pesi morti abbiamo armi e competenze della cui efficacia dobbiamo convincerci e convincere i nostri figli. Non solo. Queste armi dobbiamo utilizzarle. Vediamole.

La prima arma è la nostra capacità di adattamento. Come esseri umani possiamo continuamente migliorare le nostre abilità attraverso la comprensione dei cambiamenti che accadono attorno a noi e modificando di conseguenza in maniera flessibile le nostre risposte. Montessori suggeriva più di settant’anni fa: “È necessario, perciò, preparare la personalità umana alle eventualità impreviste, e non più soltanto considerando le condizioni che la sola logica prevedeva. È necessario sviluppare in essa, evitando ogni rigida specializzazione, una capacità di adattamento flessibile e pronta”7 . Questo non vale solo per la scuola, vale soprattutto in famiglia dove dovremmo sviluppare questa capacità. Potremmo, per esempio, provare a utilizzare tecniche come il pensiero laterale, ovvero l’osservazione di un problema da diverse angolazioni, invece della tradizionale modalità che prevede di concentrarsi su una soluzione diretta al problema8 .


La seconda arma, la più potente, è la personalità, l’indipendenza e di conseguenza il carattere forte di chi abiterà il futuro. Queste fondamenta sono la base per gestire un qualunque futuro che ci stiamo preparando. “In questa accanita battaglia che è diventata la vita sociale, l’uomo ha bisogno non soltanto del coraggio, di un carattere forte e di un ingegno vivace. Egli deve allo stesso tempo rafforzare i suoi principi morali attraverso un esercizio morale, e possedere capacità pratiche, per fronteggiare le difficoltà della vita”9 . Pensiamo, per esempio, a un giovane che viene licenziato perché il suo lavoro è stato automatizzato. È solamente il suo carattere quello che gli permetterà di non darsi per vinto e, magari, di reinventarsi imprenditore di se stesso.


Su queste basi – zavorre e armi, freno e acceleratore – quali competenze i nostri “nativi digitali” dovrebbero acquisire per affrontare il futuro? Già oggi ci rendiamo conto che non basta più saper leggere, scrivere e far di conto come bastava alla gente del dopoguerra, o anche disporre di vaste conoscenze tecniche come avevano i nostri genitori. C’è uno studio10 che ha seguito un campione rappresentativo di cinquantenni americani, esaminando i tratti della personalità e gli interessi professionali nell’adolescenza, insieme all’intelligenza e allo status socioeconomico. Il risultato sorprendente è che ogni aumento di 15 punti nel quoziente intellettivo (QI) prevedeva un calo del 7% nella probabilità che il loro lavoro venisse informatizzato. Allo stesso modo, un aumento di un 20% nella maturità o negli interessi scientifici portava a un calo del 2% nei lavori persi a causa dell’automazione. “Sfortunatamente, il nostro sistema educativo ha praticamente escluso il genio. Invece di insegnarci a creare, ci ha insegnato a copiare, memorizzare, obbedire e dar valore ai voti. Praticamente le stesse qualità che cerchiamo nelle macchine. E ora le macchine stanno prendendosi il nostro lavoro”, scrive Marty Neumeier11 nel suo libro Metaskills: Five Talents for the Robotic Age dove elenca i talenti di cui abbiamo bisogno in un’economia post-industriale. Per l’autore queste competenze sono: il feeling (l’intuizione, l’empatia e l’intelligenza sociale), il vedere (la capacità di pensare per sistemi completi, noto anche come system thinking), il sognare (l’immaginazione applicata), il fare (il padroneggiare il processo di progettazione, fino alla creazione di prototipi) e l’apprendere (la capacità autodidattica di apprendere nuove abilità). Di queste, quali possiamo coltivare in famiglia? Nei prossimi capitoli le analizzeremo singolarmente per trarne dei suggerimenti operativi.

Guardandoci attorno ci rendiamo invece conto dello sfasamento che c’è fra ciò che serve realmente e ciò che le potenze tecnologiche ci propongono in maniera insistente. Chiediamoci allora che tipo di persone, che tipo di cittadini vogliamo crescere, prima ancora di ragionare sulle competenze tecniche che dovrebbero possedere. Vogliamo individui capaci di prendere le proprie decisioni e modellare la propria vita? Oppure preferiamo cittadini disciplinati che accetteranno di seguire le istruzioni e i programmi che sono stati predisposti da altri? Questo si domandava Papert12 e questo dobbiamo domandarci noi genitori.


Quelle che abbiamo visto non sono proposte o problemi campati per aria. Io le ritrovo quando osservo i miei colleghi al CSCS. Ammetto che è un campione piuttosto piccolo e peculiare, ma credo possieda un assaggio di quelle caratteristiche che, a mio avviso, serviranno in futuro. Innanzitutto non vedo attorno a me esclusivamente scienziati geniali, ma vedo persone normali provenienti da svariate culture – arriviamo da venticinque nazioni differenti, se non ho dimenticato nessuno – che hanno sempre voglia di imparare e non pretendono di sapere già tutto, sanno dove e come trovare le informazioni di cui hanno bisogno, sono capaci d’immaginare e navigare mentalmente architetture complesse e interagiscono, collaborano e contribuiscono alle comunità di utenti con cui operano. Alcuni, poi, provengono da percorsi scolastici assolutamente alieni alle tecnologie digitali, ma con una passione per il mondo dei computer che li ha fatti arrivare fin qui. Non trovo un esempio più chiaro di questo dello sfasamento esistente fra ciò che realmente serve nel mondo del lavoro futuro e quello che a gran voce insinuano i fornitori di tecnologie e gli esperti di educazione digitale.

Inventare il futuro

Uno sfasamento che ci porta ansia. Inseguiamo affannosamente il futuro con la paura che emerga una tecnologia che ce lo rubi. Gli scenari stanno cambiando, come abbiamo visto, ma come possiamo cavalcare questo cambiamento e non subirlo? Possiamo farlo inventando noi stessi il futuro. Alan Kay in una riunione del PARC, il Palo Alto Research Center della Xerox dove lavorava, suggeriva di “non preoccuparti di cosa sta per fare qualcun altro. Il miglior modo per predire il futuro è inventarlo”, cosa che ha fatto in prima persona concependo, tra l’altro, il Dynabook, un progenitore chiave dei laptop e tablet, le interfacce grafiche moderne e i linguaggi object oriented. Ah, dimenticavo, ha anche coniato, nel 1973, il termine “Personal Computer”.


Gli fa eco Seymour Papert13 , che, oltre a essere un pedagogista, era un matematico e un informatico: “Stiamo entrando in questo futuro del computer; ma come sarà? Che tipo di mondo sarà? Non mancano esperti, futuristi e profeti pronti a dircelo, ma non sono d’accordo tra di loro. Gli utopisti ci promettono un nuovo millennio, un mondo meraviglioso in cui il computer risolverà tutti i nostri problemi. I critici sottolineano, invece, l’effetto disumanizzante dell’eccessiva esposizione alle macchine e gli effetti distruttivi sull’occupazione. Chi ha ragione? Bene, entrambi hanno torto perché stanno ponendo la domanda sbagliata. La domanda non è «Cosa farà il computer per noi?» La domanda è «Cosa faremo del computer?» Il punto non è prevedere il futuro del computer. Il punto è realizzarlo”.


Come facciamo allora a inventare il futuro e insegnare ai nostri figli a farlo? Non c’è una ricetta unica. Per Alan Kay14 “il futuro non è scritto su un percorso obbligato. È qualcosa che possiamo decidere e nella misura in cui non violiamo alcuna legge nota dell’universo, possiamo probabilmente farlo funzionare nel modo in cui vogliamo”. La tecnologia in questo gioca sicuramente un ruolo, ma in subordine perché “se hai delle idee, puoi fare molte cose anche senza macchine. Una volta che hai delle idee, le macchine inizieranno a lavorare per te… Molte delle idee si possono unire con un bastoncino sulla sabbia”15 o schizzare su un tovagliolino di carta al bar, aggiungo io. L’importante sono quindi le idee e le tecnologie da sole non ne creano di nuove, come possono invece fare persone allenate a pensare e a creare fin dalla tenera infanzia.

Prepariamo il futuro in famiglia

In famiglia possiamo cominciare a preparare il futuro dei nostri figli combattendo i “Signori Grigi” che nel romanzo Momo di Michael Ende16 rubano l’infanzia ai bambini dicendo: “I bambini sono il materiale umano del futuro. Il futuro sarà l’epoca delle macchine a reazione e dei cervelli elettronici. Occorrerà un esercito di specialisti e di tecnici per badare a queste macchine. Ma, invece di preparare i nostri figli a questo mondo di domani, permettiamo a troppi di loro di sprecare anni di tempo prezioso in giochi inutili. È una vergogna per la nostra civiltà e un delitto davanti all’umanità futura!”. Non vi ricordano niente queste parole? Magari i discorsi trionfalistici di qualche dirigente scolastico all’Open Day della scuola? Anche se ci tacciano di arretratezza tecnologica, difendiamo il diritto a crescere e il diritto a essere bambini dei nostri figli. Per noi e per loro è un lavoro full-time e sprecare anni di tempo prezioso inseguendo le ultime mode tecnologiche è ignorare i meccanismi cerebrali e psicologici della loro crescita. Quali siano lo tratteremo più avanti.


Sicuramente aprire strade nuove, mescolare settori del sapere, guardarsi in giro osservando e non solo gettando uno sguardo superficiale e distratto, sono alcuni degli ingredienti necessari per inventare il futuro, ma l’ambiente in famiglia gioca un ruolo fondamentale. Un articolo pubblicato sull’Harvard Business Review17 esplora come pensano gli innovatori, notando che “gli imprenditori più innovativi siano stati molto fortunati a essere cresciuti in un’atmosfera dove il porre domande era incoraggiato”. In famiglia possiamo e dobbiamo creare un ambiente del genere.


Un’altra cosa che possiamo sicuramente fare è trasmettere ai nostri figli la passione per la lettura che, spero, viviamo noi per primi. Qualche anno fa era stato dato abbondante risalto ai risultati di una ricerca di Mark Taylor18 del dipartimento di sociologia dell’Università di Oxford relativa alla lettura. Taylor aveva analizzato 17.200 risposte a questionari compilati da persone nate nel 1970. Il questionario aveva lo scopo di raccogliere informazioni circa le attività extrascolastiche svolte dai 16 ai 33 anni d’età unitamente a informazioni sulla loro carriera. I risultati hanno mostrato come le ragazze che avevano letto frequentemente libri non di studio all’età di 16 anni, avevano il 39% di probabilità di ottenere un lavoro manageriale o di diventare professioniste in qualche campo entro i 33 anni, mentre avevano solo il 25% di probabilità le coetanee non lettrici. Per i maschi lettori regolari, le cifre sono il 58% per i lettori e il 48% per i non lettori. Nessuna delle altre attività extracurricolari, dalla pratica di qualche sport sino alle attitudini alla socializzazione, dalla fruizione di attività culturali di vario tipo sino alle attività pratiche, mostrava un’incidenza significativa sulle prospettive di lavoro future.

E ancora. Possiamo e dobbiamo insegnare ai nostri figli a essere responsabili della loro vita al 100%, senza aspettare che la soluzione ai problemi caschi loro dall’alto. Nel limitato ambito della scuola, i risultati del programma per la valutazione internazionale degli studenti, o PISA19 , mostrano che gli studenti di maggior successo sono quelli che sentono una vera “proprietà” della loro istruzione, quelli che sentono di poter fare personalmente la differenza nei propri risultati e che l’educazione farà la differenza per il loro futuro20.


Quando guardiamo le persone che hanno avuto più impatto sulla società odierna, come Elon Musk, Richard Feynman, Benjamin Franklin, Thomas Edison, Leonardo da Vinci e Marie Curie, oppure i fondatori delle più grandi compagnie mondiali, quali Bill Gates, Steve Jobs, Warren Buffett, Larry Page e Jeff Bezos, vediamo che erano tutte persone con interessi variegati e competenze in più di un settore che sono riuscite a integrare fra loro queste conoscenze, tanto che il pedagogista Ernest Boyer21 arriva a sostenere che “il futuro appartiene agli integratori”. Nel mio piccolo ho cercato di essere un “integratore” in questo libro, dove con le mie riflessioni lego fra loro conoscenze e citazioni di fonti diverse. Le basi di questo modo di fare, però, si pongono in famiglia, dove si può coltivare la curiosità e l’interesse per quello che accade attorno.


Quando qualcuno chiese al Dalai Lama che cosa dell’umanità lo sorprendesse di più, egli rispose: “L’uomo, perché sacrifica la sua salute per il denaro. E poi sacrifica il denaro per recuperare la salute. E diventa così ansioso per il suo futuro che non si gode il presente, col risultato che vive il presente o il futuro come se non dovesse mai morire e alla fine muore non avendo mai veramente vissuto”. Queste parole ci suggeriscono che possiamo cercare di ridurre l’ansia per il futuro se ci sforziamo di vivere veramente ogni giorno. Un vecchio amico di famiglia che era passato per la guerra e il terribile dopoguerra di Trieste, ripeteva al riguardo: “Io non mi preoccupo del futuro, mi occupo”. Un buon consiglio.


Occuparsi del futuro significa anche insegnare a mantenere la mente aperta riguardo alle opportunità inaspettate che possono incrociare la nostra strada e quella dei nostri figli. Quando una tale opportunità si presenta, dobbiamo essere pronti a coglierla perché spesso l’occasione perfetta arriva una volta sola.

Pratica!

1. Scacciamo l’ansia per il futuro. Occupiamoci del futuro invece di tormentarci. Ci assilla la preoccupazione per il nostro futuro lavorativo e quello dei nostri figli? Visitiamo siti come “Will Robots Take My Job”22, per chiarirci le idee oppure immaginiamo professioni che oggi non esistono ancora (può essere un gioco di immaginazione da fare con i figli).


2. Dove saremo fra dieci anni? Assieme ai figli immaginiamo dove vorremmo essere tra dieci anni. Da lì lavoriamo all’indietro (perché avvenga questo devo fare quest’altro) per capire che cosa possiamo fare oggi. Non proponiamo questo esercizio solo una volta, ripetendolo forse può emergere una proposta concreta per il loro futuro.


3. Disegniamo (letteralmente) il futuro con i nostri figli. Lasciamo più spazio ai bambini ascoltandone sogni e modi in cui immaginano il futuro. Facciamoli disegnare queste immagini su un foglio. Vedremo più avanti che il cervello ricorda meglio le immagini delle parole e vedere concretizzato in linee e colori il frutto della loro immaginazione renderà più semplice convincerli che si tratta di qualcosa di reale e quindi di possibile.


4. Leggiamo, magari anche fantascienza. A seconda dell’età, anche piccole dosi di buona fantascienza come i libri di Isaac Asimov, i cartoni animati dei Pronipoti o il film Interstellar, per esempio, possono stimolare a immaginare un futuro che non sia la banale replicazione dell’oggi e possono aiutarci a combatte la paura di quello che potrà diventare. Dopo aver letto o guardato filmati, giochiamo con i figli al gioco del “Che cosa succederebbe se…”. Se esistesse il viaggio interstellare, se ci fosse la cameriera robot e così via. Soprattutto ascoltiamo le loro idee, anche se ci sembrano molto fantascientifiche.


5. Ascoltiamo e poniamo domande. Certo, questo va oltre il solo pensare al futuro, ma interroghiamoci sull’interesse che mostriamo alle domande dei nostri figli. Se non sappiamo rispondere siamo capaci di dire: “Non lo so, ma se vuoi lo scopriamo insieme”? Devono sapere che non hanno per genitori dei supereroi, ma persone curiose come loro.

Le tecnologie digitali in famiglia
Le tecnologie digitali in famiglia
Mario Valle
Nemiche o alleate? Un approccio Montessori.Come risponde il cervello di un bambino alle sollecitazioni di un mondo tecnologico e che cosa possiamo fare per consentire un uso appropriato dei dispositivi tecnologici? Il mondo dei nostri figli è dominato dalla tecnologia: tablet, smartphone e computer costituiscono ormai parte integrante della loro vita; compito di noi genitori è quello di “prepararli al futuro” e educarli all’uso delle nuove tecnologie. Ma come?Mario Valle, esperto di supercomputer, nel libro Le tecnologie digitali in famiglia si rifà al pensiero di Maria Montessori (grande ammiratrice delle tecnologie del suo tempo e profonda conoscitrice della mente del bambino) per provare a delineare questo futuro: come risponde il cervello di un bambino alle sollecitazioni di un mondo tecnologico e che cosa possiamo fare per consentire un uso appropriato di questi dispositivi?Non si tratta, quindi, di demonizzare o idolatrare la tecnologia, ma di analizzare il presente per prepararsi al futuro. A questo punto si impone una riflessione: la civiltà ha dato all’uomo, per mezzo delle macchine, un potere molto superiore a quello che gli era proprio ma, perché l’opera della civiltà si sviluppi, bisogna anche che l’uomo si sviluppi. Il male che affligge la nostra epoca viene dallo squilibrio originato dalla differenza di ritmo secondo il quale si sono evoluti l’uomo e la macchina: la macchina è andata avanti con grande velocità mentre l’uomo è rimasto indietro. Così l’uomo vive sotto la dipendenza della macchina, mentre dovrebbe essere lui a dominarla.Maria Montessori, Dall’infanzia all’adolescenza Conosci l’autore Mario Valle lavora da oltre trent’anni nei campi più disparati della scienza e dal 2003 è al Centro Svizzero di Calcolo Scientifico (CSCS) di Lugano, a stretto contatto con scienziati e ricercatori, utilizzando quotidianamente supercomputer e tecnologie di punta.Tramite suo figlio, che ha frequentato una scuola Montessori, si è avvicinato a questo mondo e si è appassionato alla concreta scientificità delle idee della Dottoressa Montessori. Ora studia e approfondisce questi temi e condivide le sue riflessioni in pubblicazioni, corsi e presentazioni pubbliche.