CAPITOLO 7

Tempo, attenzione, comprendere e riflettere

Racconta Maria Montessori1: “Il primo fenomeno che richiamò la mia attenzione fu quello di una bambina di forse tre anni, che si esercitava a infilare e sfilare i cilindretti degli incastri solidi, che si maneggiano analogamente ai turaccioli delle bottiglie, che però sono cilindri di grossezza graduata, a ciascuno dei quali spetta un determinato collocamento. Fui sorpresa di vedere una bambina così piccola ripetere più e più volte un esercizio con profondo interesse. Non si palesava nessun progresso di rapidità e di abilità nell’esecuzione: era una specie di moto perpetuo. E io, per abitudine all’esame, cominciai a contare gli esercizi, poi volli provare a qual punto poteva resistere la strana concentrazione che mi si rivelava: e dissi alla maestra di far cantare e muovere tutti gli altri bambini. Ciò che infatti avvenne, senza che la bambina si scomponesse affatto nel suo lavoro. Allora presi delicatamente la poltroncina ove la bimba era seduta e, con essa dentro, misi il tutto sopra un tavolino. Con mossa rapida la piccolina aveva afferrato il suo oggetto e mettendoselo sulle ginocchia, continuò il medesimo lavoro. Da quando avevo cominciato a contare, la bambina aveva ripetuto l’esercizio quarantadue volte. Si fermò come uscendo da un sogno e sorrise come una persona felice: i suoi occhi lucenti, brillavano, guardando tutto attorno. Sembrava che non si fosse accorta nemmeno di tutte quelle manovre che non erano riuscite a disturbarla”.


Una bambinetta di tre anni che ripete quarantadue volte un esercizio senza distrarsi, mentre quello che percepiamo oggi, o crediamo di percepire nei nostri giovani, è una distrazione generalizzata, un’assenza di attenzione e concentrazione. È usuale vedere i figli adolescenti che, mentre dicono di studiare, hanno aperto YouTube sul computer e Instagram sul telefono e nel frattempo chattano con gli amici e saltellano dal libro agli schermi senza apparentemente soffermarsi su niente. Questo balletto è tutta colpa della tecnologia? Sì e no. È vero che buona parte delle applicazioni e dei dispositivi digitali è stata sviluppata per risparmiare tempo, ma in realtà creano nuovi lavori e nuove opportunità per tenerci occupati e consumarne così ancora di più. L’apparente risparmio si limita a soddisfare la necessità della mente di vivere nell’illusione di guadagnare tempo. Paradossalmente non ci rendiamo conto che il vero fine di queste applicazioni è proprio quello di non renderci consapevoli che il tempo sta trascorrendo2. Così passeremo più tempo sulle pubblicità e probabilmente faremo anche qualche acquisto d’impulso, come abbiamo avuto modo di approfondire nel capitolo 4. D’altro canto è sbagliato dare per scontato che la distrazione digitale derivi esclusivamente da influenze esterne anziché da una condizione mentale interna, perché, se si parte da una mente distratta, il trillo del cellulare e il ronzio del Web il soggetto se li poterà dentro, ma non saranno essi la causa della distrazione3.


La curiosità è invece il lato bello della distrazione. Da bambini una delle prime parole che impariamo è “perché” e da lì non smettiamo più di essere curiosi e di chiedere il perché delle cose. La già citata Alison Gopnik4 spiega che i neonati e i bambini piccoli sono pessimi nel non prestare attenzione perché non sono capaci di sbarazzarsi di tutte le cose interessanti che potrebbero significare qualcosa per loro. La curiosità è un istinto innato legato alla sopravvivenza e già i nostri antenati preistorici si distraevano in continuazione per non trascurare nessuna possibile minaccia. Anche il grande genio di Leonardo da Vinci era facile alla distrazione e spesso inconcludente, come dimostrano le migliaia di pagine dei suoi taccuini piene di progetti rimasti sulla carta. Purtroppo scuola e vita tecnologica di frequente spengono questa scintilla. Limitandosi alla matematica scolastica, Paul Lockhart5 arriva a scrivere: “Se io dovessi ideare un meccanismo che abbia lo scopo dichiarato di distruggere la naturale curiosità di un bambino e il suo amore per la realizzazione di forme, non riuscirei mai a fare un lavoro migliore di quello che attualmente viene fatto: non avrei l’immaginazione sufficiente per inventarmi una tale quantità di idee insensate e avvilenti che oggigiorno costituiscono l’insegnamento della matematica”.


Affronteremo qui ciò che ci può servire nel nostro lavoro educativo, partendo dall’importanza della concentrazione per poi passare al principale imputato della sua assenza nell’era tecnologica: il multitasking, ovvero l’allocare la propria attenzione a più compiti contemporanei; un modo di vivere molto comune fra gli adolescenti e, purtroppo, fra troppi adulti che si credono importanti.

La concentrazione e l’attenzione

Affinché qualsiasi apprendimento sia efficace ci vuole, ovviamente, concentrazione e attenzione perché, se si è concentrati, il cervello ha tempo per creare lunghe catene di neuroni che riescono così a formare, per così dire, una ragnatela che cattura e collega le conoscenze. Se si è distratti, se si viene interrotti frequentemente, le catene sono più corte, si apprendono nozioni ma difficilmente correlazioni e collegamenti fra di esse.


Ci dimentichiamo, però, che questi due ingredienti sono anche alla base di una vita felice. Durante la Seconda Guerra Mondiale, lo psicologo Mihály Csíkszentmihályi si sorprese quando scoprì che alcune delle persone che conosceva erano in grado di resistere alle tragedie portate dalla guerra e come alcuni di loro fossero addirittura in grado di condurre una vita normale, soddisfacente e felice, dopo che il loro lavoro, la loro casa, la loro sicurezza erano andate distrutte6 . Iniziò così a studiare lo stato di profonda concentrazione che accomunava queste persone e lo chiamò stato di Flow o esperienza ottimale. Per lui questo modo di vivere ha quattro componenti principali7 : “La concentrazione è così intensa che non resta attenzione per pensare ad alcunché di irrilevante o per preoccuparsi dei problemi. La consapevolezza di sé scompare e il senso del tempo si distorce. Un’attività che produce un’esperienza di questo genere è talmente gratificante che si desidera praticarla per il puro piacere di farlo, senza preoccuparsi di quello che se ne ricaverà anche quando è difficile o pericolosa”.


Vedere con i miei occhi tale concentrazione nei bambini è stata una scoperta che ho fatto il primo giorno in cui ho accompagnato mio figlio alla scuola Montessori. Mi ha subito colpito il silenzio dovuto non a una qualche imposizione, ma perché i bambini erano totalmente assorbiti nelle loro attività. Mi verrebbe da dire che se Csíkszentmihályi si fosse concentrato sui bambini o avesse visitato una scuola Montessori vi avrebbe ritrovato tutti i risultati dei suoi studi già belli e pronti. Anzi, avrebbe addirittura potuto condensare i suoi libri nelle quattro righe scritte in quegli stessi anni da Maria Montessori: “La prima premessa per lo sviluppo del bambino è la concentrazione. Il bambino che si concentra è immensamente felice”8.


È del tutto normale che pensiero, concentrazione e manualità vadano assieme quando realizziamo qualche compito manuale non di routine, per esempio quando dobbiamo riparare un lavandino o un pezzo dell’automobile. Ma a volte è il movimento delle mani, le operazioni che svolgiamo concentrati che aiutano il pensiero, tanto che possiamo dire che “pensiamo agendo”, un qualcosa che vedo spesso nel mio lavoro. Vedo scienziati che “pensano agendo”, manipolando sullo schermo dei modelli tridimensionali basati sui loro calcoli che d’improvviso se ne escono con un “That’s it!” (Ecco qua!), perché con la manipolazione sono riusciti a scoprire qualcosa di nuovo nascosto nei numeri o a confermare la corrispondenza tra il risultato computazionale e ciò che stavano studiando. Del resto queste sono esperienze comuni anche fuori dalla scuola. Avete mai visto bambini che leggono il manuale d’uso di un videogioco? No. Imparano usandolo.


Quello che rende difficile tutto ciò è che, nonostante tutti i benefici derivanti da un’attività concentrata, i giovani d’oggi hanno un tempo di attenzione che è calato dai 15-30 minuti pre-tecnologici a soli otto secondi, meno di un pesce rosso che sembra riesca a starne attento nove, come riporta uno studio citatissimo ma introvabile9. Questo intervallo di attenzione sta diventando sempre più corto, complice l’eccesso di informazioni che li bombarda e uno scorrere del tempo percepito più rapido del normale. È questo il motivo per cui non si accorgono del tempo sempre più breve in cui sono attenti a quello che stanno facendo.


Prendiamo come esempio Instagram. La visione di un post richiede in tutto al massimo tre secondi, tra la lettura della didascalia, il piazzamento del “mi piace” e la vista dell’immagine. Tre secondi per fare tutto, poi si scorre. Il cervello si riprogramma in base a quei tre secondi. È ovvio che un ragazzo abituato a cambiare contesto ogni tre secondi ha delle difficoltà di fronte a una pagina di testo. Questo vale a maggior ragione per i più piccoli. Ci sono studi10 che dimostrano la stretta – e ovvia – correlazione tra il tempo trascorso davanti a uno schermo, magari tre secondi alla volta e la loro mancanza di attenzione.


C’è però il rovescio della medaglia. Bambini e adolescenti sono capaci di grande concentrazione se sono impegnati in qualcosa che li interessa. Un giorno mio figlio è letteralmente sparito davanti al computer perché voleva imparare a montare un filmato. Ci è riuscito, ha imparato a usare lo strumento software, ha creato un filmato buffo e solo a questo punto è ritornato a essere presente fra di noi. Questo comportamento può essere considerato un’esperienza di Flow? Io credo di sì. Possiamo invece affermare che stia vivendo un’esperienza ottimale un ragazzo concentrato sullo smartphone? Proviamo ad applicare a questo caso le sei condizioni che Csíkszentmihályi reputa necessarie per entrare in Flow11,12 :

  1. Devono esistere regole chiare e condivise. Se come genitori non mettiamo dei paletti e parliamo di queste regole con i figli, questa condizione non viene soddisfatta.
  2. Il compito non deve essere open ended, senza chiari limiti e obiettivi. Purtroppo navigare sulla rete o fra le chat non ha dei limiti intrinseci e non ha un obiettivo definito se non passare il tempo.
  3. Il compito deve fornire un feedback immediato su quanto lavoro si è fatto e quanto ne manca. Visto il punto precedente anche questa condizione non viene soddisfatta.
  4. Deve esistere un bilanciamento fra la difficoltà del compito e le capacità di chi lo esegue, altrimenti il soggetto si annoia se quanto sta facendo è troppo facile, ma si sente frustrato ed entra in ansia se il compito è troppo difficile. Invece, quando la difficoltà è ben bilanciata, il lavoro può innescare la concentrazione del Flow. Quello che vediamo in molte attività mangia-tempo, al contrario, è che sembra vengano vissute col pilota automatico e che quindi capacità e difficoltà siano due variabili non legate tra di loro.
  5. La gratificazione deve derivare dall’esperienza stessa. Non devono esserci premi o ricompense. Qui effettivamente ci siamo, ma oggi sembra che la necessità di una ricompensa sia onnipresente. Nei videogiochi è ovvio che i meccanismi di ricompensa siano fondamentali, ma perché l’App che mi ricorda le pillole che devo prendere, alla fine della giornata mi gratifica con una bella immagine?
  6. Si deve essere liberi dalla tirannia del tempo. Rigidi limiti temporali possono distruggere la concentrazione del Flow per l’ansia di finire in tempo il lavoro. Se non ci sono limiti e confini alle attività stabiliti dai genitori, questa condizione è decisamente soddisfatta.

Possiamo quindi affermare che essere spersi dentro a un dispositivo tecnologico forse è concentrazione, ma sicuramente non è Flow. Del resto la tecnologia attuale non è interessata a creare strumenti che aiutino a raggiungere questo stato, come non è interessata a stimolare un’appagante creatività o a spingerci verso scoperte inaspettate. Non è sempre colpa della tecnologia, ma purtroppo devo aggiungere una nota dolente. Spesso siamo noi adulti che impediamo il raggiungimento della concentrazione e del Flow da parte dei nostri piccoli. Da un lato troppo spesso li disturbiamo quando sono concentrati per proporre loro cose che reputiamo più importanti, dall’altro, con tutte le buone intenzioni, finiamo per iperstimolarli, per paura che si perdano qualcosa. Ma saltare da attività ad attività non aiuta certo a concentrarsi su quello che si sta facendo. Comportandosi così non si è liberi dalla tirannia del tempo (punto 6) e, soprattutto se l’attività è stata decisa dai genitori, la gratificazione non deriva dall’esperienza stessa (punto 5).


Invece è la curiosità, che ha radici profonde nel nostro cervello più antico perché legata alla nostra sopravvivenza, che attiva il meccanismo dell’attenzione. Poi ci sono le emozioni che mantengono viva l’attenzione così generata. È lì che bisogna agire, sulla curiosità per catturare l’attenzione e poi sulle emozioni, sull’interesse e sulla motivazione per mantenerla.


Veniamo ora al primo mostro che toglie la concentrazione ai nostri figli, ma soprattutto a noi adulti: il multitasking, il dividere l’attenzione su più attività contemporanee.

Il multitasking

Viviamo in una società ossessionata dal multitasking, dall’impegnarsi su più attività contemporanee per essere più produttivi, per fare molto di più, o almeno così crediamo. Sfortunatamente, questa frenesia che riempie il nostro tempo con molteplici impegni è caratterizzata da alti livelli di distrazione e da una grave mancanza di concentrazione. Il multitasking è un’illusione che colpisce tutti, indipendentemente dall’età, ma a noi adulti sembra che siano solo gli adolescenti quelli che fanno più cose assieme, come guardare un filmato su YouTube mentre studiano e chattano con gli amici.


Purtroppo il multitasking non funziona. Il nostro cervello non è predisposto per questo modo di lavorare e quello che chiamiamo multitasking è, in realtà, scambio rapido tra attività. Un meccanismo che ha dei limiti fisiologici sulla velocità cui può avvenire – si parla di almeno 700 millisecondi per ogni scambio – e che funziona solo tra attività diventate di routine e attività coerenti tra di loro, non in generale. Camminare e masticare chewing-gum non è multitasking, mentre studiare e chattare lo è. Questo processo di scambio fra attività è mentalmente faticoso: il cervello deve richiamare le istruzioni su come svolgere un’attività, quindi metterle da parte e richiamare le istruzioni su come fare l’altra, poi ripetere di nuovo l’intero ciclo col risultato di avere prestazioni scarse su entrambi i fronti. C’è chi afferma che lavorare così equivale a una notte di sonno persa. E poi, non per fare terrorismo, ma il multitasking può causare seri danni permanenti al cervello, come ha scoperto uno studio13 da cui risulta che i multitasker hanno una minore densità cerebrale nelle aree che controllano l’empatia e le emozioni. Ne vale la pena?

Certo, ci sono molte cose che tutti noi facciamo contemporaneamente, come guidare e parlare oppure cucinare più pietanze allo stesso tempo o, per me, programmare e ascoltare musica. In questi casi riusciamo a tenere a mente più linee d’azione parallele perché queste – mi si perdoni l’errore geometrico – convergono in un unico punto e si muovono in un contesto consistente. È un multitasking gratificante, anche se impegnativo, che incoraggia la concentrazione. L’autore di Distrazione Digitale propone un esercizio divertente per capire la fondamentale differenza fra i tipi di attività14 . Provate a contare da 1 a 10. Non c’è nessun problema, come non crea problemi ripetere le lettere dalla A alla L (o alla J se seguiamo l’alfabeto anglosassone). Ora provate a recitare numeri e lettere a coppie: 1 A, 2 B, eccetera. Il risultato è un disastro, perché il cervello deve cambiare continuamente contesto quando passa da una lista all’altra.


La situazione è ancora peggiore se si viene distolti da compiti che richiedono molte risorse mentali e la creazione di un contesto specifico, come sono quelli necessari alla stesura di una relazione impegnativa o quelli collegati alla programmazione dei computer. Quando sto scrivendo un programma per un supercomputer, devo avere in testa un bel po’ di informazioni: le strutture dati che modifico, le librerie che sto utilizzando, il comportamento che voglio abbia quella parte del codice. Ora, se vengo distratto, le statistiche dicono che ci metterò almeno venti minuti a ricostruire questo contesto nella mia mente per poter così ricominciare a scrivere del codice sensato15.


Lo stesso, identico problema lo hanno i nostri figli a scuola. Pensate a quanto costa cambiare contesto mentale a uno studente quando a scuola “finisce l’ora” e ne inizia un’altra. Le conseguenze ce le ricorda ancora Maria Montessori: “Chi interrompe i bambini nelle loro occupazioni affinché si soffermino a imparare certe determinate cose, e li fa cessare dallo studio dell’aritmetica per passare a quello della geografia e simili, pensando che sia importante dirigere la loro cultura, confonde il mezzo col fine e distrugge l’uomo per una vanità. Ciò che è necessario di dirigere, non è la cultura dell’uomo, è l’uomo stesso”16. Questo avviene spesso anche al di fuori della scuola e troppo spesso per colpa di noi adulti. A tal proposito voglio raccontarvi un fatterello che mi è capitato qualche anno fa. Mi trovavo a un matrimonio. Ero a tavola per il pranzo di nozze e di fronte a me era seduta una mamma con una bambina piccola in braccio. La bambina era tranquilla, occupata nelle sue cose. A un certo punto mi sono pulito la bocca con il tovagliolo e la bambina di colpo ha mollato quello che stava facendo e ha iniziato a fissarmi concentratissima. Visto che non facevo nulla, ha cominciato a guardare il tovagliolo e poi la mia bocca come per invitarmi a rifare l’azione. Mi sono pulito di nuovo e la bambina non si è persa un movimento. Non so quante volte avrò rifatto il gesto e lei sempre concentrata. A un certo punto la mamma si accorge di cosa stava succedendo, si alza e le dice: “Cara, non disturbare il signore. Andiamo a giocare”. Ovviamente la bambina si è messa a piangere a dirotto. Questo mi ha spinto a domandarmi quali rotelline stavano girando nella testa della piccolina per renderla capace di così tanta concentrazione e mi ha fatto riflettere su come troppo spesso giudichiamo i bambini utilizzando le nostre categorie da adulti senza veramente osservarli né conoscerli. In questo caso la mamma non si è resa conto che in quel momento la bambina stava apprendendo qualcosa per lei molto importante e che “disturbare” è una preoccupazione solo degli adulti.


Con l’esplosione delle tecnologie multimediali che hanno reso disponibili più canali simultanei tra i quali muoversi, il multitasking cronico dei media, cioè il saltare dall’uno all’altro, da una fonte di notizie o intrattenimento all’altra è ormai diventato onnipresente, sebbene l’elaborazione di più flussi di informazioni sia considerata una sfida per la cognizione umana. Una serie di esperimenti17,18 hanno esaminato se ci siano differenze sistematiche negli stili di elaborazione delle informazioni tra multitasker pesanti, quelli che hanno molti canali multimediali aperti contemporaneamente e passano da uno all’altro e quelli leggeri, che invece saltano solo tra un paio di canali. I risultati mostrano che i multitasker pesanti sono più suscettibili alle interferenze prodotte da stimoli ambientali e pensieri irrilevanti. Ciò ha portato al risultato sorprendente che i multitasker multimediali pesanti hanno ottenuto prestazioni peggiori proprio nei test di capacità di cambio di attività, probabilmente a causa della loro ridotta attitudine a filtrare disturbi e rumore. Come vedevamo nel capitolo 6 la capacità di ignorare informazioni non rilevanti sembra sia correlata addirittura con l’intelligenza19 .


Riassumendo, i multitasker sono in effetti un disastro in tutti gli aspetti del multitasking: non sono capaci di ignorare le informazioni irrilevanti, non riescono a tenere le informazioni ben organizzate in testa e a saltare con efficacia da un compito all’altro20, 21 . Il risultato è che concentrarsi su più di un’attività allo stesso tempo ottiene l’effetto contrario, riduce la produttività e le capacità intellettuali.

L’attenzione parziale continua

Un fenomeno simile, ma con motivazioni differenti, è quello dell’attenzione parziale continua studiata da Linda Stone e altri22 . Quando le persone fanno multitasking, è perché vogliono essere più produttive e più efficienti, mentre nell’attenzione parziale continua ciò che le spinge è il desiderio di non perdersi nulla di ciò che accade nel loro ambiente sociale. Questo fenomeno è conosciuto anche con l’acronimo FOMO cioè Fear of Missing Out, paura di perdersi qualcosa, di essere tagliati fuori da quello che succede e che potrebbe rivelarsi essenziale per la loro sopravvivenza sociale23 . Una ricerca24 ha scoperto che la paura di perdersi qualcosa è strettamente correlata alla quantità di tempo trascorso con lo smartphone: chi lo utilizza più intensamente ha più paura di perdersi qualcosa quando non ce l’ha tra le mani.


Il neuroscienziato Russell Poldrack25 dà una spiegazione molto interessante del perché questo avvenga: “Penso che forse il motivo più importante per cui questi dispositivi diventano così avvincenti sia che trasmettono continuamente un flusso di nuove informazioni sociali, ma che non siamo mai certi di ciò che arriverà e quando arriverà. Una cosa che sappiamo dalle neuroscienze è che nuovi eventi inaspettati causano un rilascio di dopamina nel cervello”. E continua: “La gente spesso pensa alla dopamina come correlata al piacere, ma in realtà è più coinvolta nel ‘desiderio’ delle ricompense che nel piacere reale che si ottiene da esse. Sappiamo anche che la dopamina è intimamente legata all’apprendimento di nuove abitudini e alla creazione di nuovi ricordi; se stiamo facendo qualcosa quando viene rilasciata la dopamina, allora abbiamo maggiori probabilità di fare la stessa cosa in futuro”. Questo è sostanzialmente il motivo per cui è così difficile educare gli adolescenti in modo che cambino tali comportamenti. Però è anche un suggerimento per una strategia di attacco al problema. Se siamo noi a decidere i tempi, le notizie non saranno più inaspettate, perché al tempo comandiamo noi.

Vivere il tempo

La vita biologica è un processo automatico fintanto che ci prendiamo cura dei bisogni del corpo, ma vivere nel senso di rendere significativo questo tempo non è affatto qualcosa di automatico. In effetti, tutto cospira contro questo obiettivo e se non ci assumiamo la responsabilità della sua direzione, la nostra vita sarà controllata dall’esterno per servire gli scopi di chissà chi. Non possiamo aspettarci che qualcuno ci aiuti a vivere, dobbiamo scoprire come farlo da soli. Un libro di Csíkszentmihályi26 inizia citando il poeta W. H. Auden: “Se vogliamo davvero vivere, è meglio che iniziamo subito a provarci; / Se non lo facciamo, non importa, ma faremmo meglio a cominciare a morire”. In maniera meno cupa si esprimeva Rita Levi Montalcini: “Invece di aggiungere anni alla vita sarebbe meglio aggiungere vita agli anni”. Insegnare questo potrebbe essere la lezione più importante che lasceremo in eredità ai nostri figli.


Torniamo al tempo. L’accesso alle tecnologie digitali ha tanti pregi ma ci spinge, con la sua frenesia, a una continua proiezione verso il futuro, all’incapacità di goderci il presente. Finiamo così per perdere il contatto con la realtà, come se vivessimo scollegati dal resto del corpo. Un esempio? Prendiamo la moda degli autoscatti – perché chiamarli selfie? – o la sindrome del turista giapponese, quello che fotografa tutto. Chi si comporta così non vive il momento e il luogo dove si trova. Per lui è più importante la foto di un piatto che il suo sapore. Potrebbe quasi mandare al ristorante un robot che scatti le fotografie, senza scomodarsi ad andarci di persona.


Cosa possiamo fare per mettere un freno a questa agitazione tecnologica? Possiamo cominciare noi per primi a essere presenti e consapevoli imparando e insegnando la gioia del coinvolgimento completo in ciò che stiamo facendo, vivendo quella che gli Anglosassoni chiamano mindfulness, ma che noi possiamo chiamare semplicemente consapevolezza.


Imparare la mindfulness non significa frequentare uno dei tanti corsi che vengono proposti o inserire il figlio in uno dei tanti progetti scolastici su questo tema. Praticare la consapevolezza non è altro che concentrare tutta la propria attenzione sul momento presente: i pensieri e le sensazioni, l’ambiente attorno, il respiro, il battito cardiaco… Non importa su cosa ci si concentra: finché si è “qui” e “ora”, la mente è presente. Già ottant’anni fa Montessori scoprì l’importanza di queste pratiche e propose quella che chiamò “lezione del silenzio”27 . Rileggendo quel brano senza lasciarsi distrarre dal linguaggio per noi così desueto, ritroviamo un modo pratico per insegnare la mindfulness ai più piccoli. Alle stesse conclusioni arriva Csíkszentmihályi28 anche se per un’altra via. Per lui vivere pienamente la propria vita, essere presente, vuol dire mettersi alla prova con compiti che richiedono un alto grado di abilità e impegno. Se ci pensiamo, i momenti migliori della nostra vita non sono tempi passivi e rilassanti. I momenti migliori di solito si verificano quando il corpo e la mente sono spinti ai loro limiti nello sforzo volontario di realizzare qualcosa di difficile e per cui ne valga la pena. Non vuol dire che tutti dobbiamo metterci a praticare il free climbing o comporre poesie in greco antico, significa trovare delle sfide, qualcosa che abitualmente non facciamo e concentrarsi. Imparare a suonare uno strumento invece di accasciarsi di fronte alla TV o provare a trasformare un’attività di routine inventandosi un approccio differente, per esempio. In fondo lo stato di Flow e la mindfulness sono praticamente sinonimi. Quindi, per “riempire di vita gli anni” come dice Montalcini, diamo l’opportunità ai nostri giovani di mettersi alla prova con qualcosa che sia pieno di significato. Insegniamo loro a preferire il tempo vivo, quando stanno imparando, agendo e utilizzando ogni secondo, rispetto al tempo morto, quando sono passivi e in attesa29 .


E la tecnologia? Se vogliamo, ci renderemo conto che è possibile usare consapevolmente qualsiasi tecnologia. Per esempio, Soojung-Kim Pang30 racconta di come ha scoperto che la sua macchina fotografica digitale lo avesse reso più consapevole di ciò che lo circondava: “Sicuramente ci sono state volte in cui mi sono concentrato troppo a documentare il momento, per essere nel momento. Ma, camminando attraverso Grantchester Meadow, sono rimasto colpito da quanto il fatto di portare con me la macchina mi stesse incoraggiando a guardare più da vicino quel che avevo intorno, prestando più attenzione a luci e ombre, notando riflessi nell’acqua e contrasti tra sfumature diverse di verde e marrone”. Dovremmo vivere assieme ai nostri figli qualcosa del genere, qualcosa di più coinvolgente della stanca lotteria dove fra tanti scatti, magari uno viene bene.


La tecnologia che abbiamo tra le mani non deve spingerci a correre e correre, a fare e fare, perché i nostri figli e noi abbiamo bisogno di fermarci, di riflettere, di guardare noi stessi e le vite che abbiamo costruito. È qualcosa di cui abbiamo bisogno anche dal punto di vista cognitivo. Per il pedagogista John Dewey: “Non impariamo dall’esperienza. Impariamo riflettendo sull’esperienza”. E poi, quando la mente non è coscientemente occupata con un problema, in questo misterioso tempo di inattività, avviene quel lavoro sotterraneo, chiamato incubazione, fondamentale per il processo creativo. Unendo il movimento alla riflessione eliminiamo anche i brutti pensieri che ci spingono, per evitarli, sulla via della distrazione, tant’è che per il pioniere della cardiologia preventiva Paul Dudley White “una bella camminata di cinque chilometri è molto più efficace per un uomo infelice di tutte le medicine e gli psicologi del mondo”.


È vero che tutti noi – bambini, adolescenti e adulti – oggi abbiamo una notevole intolleranza alla solitudine. La capacità di stare da soli sta scomparendo. Invece di perdersi in qualche sogno a occhi aperti, o riflettere sulle proprie esperienze, preferiamo la compagnia di un sostituto digitale. Una ricerca già citata31 ha trovato che, lasciato in balìa di se stesso e dei suoi pensieri, un uomo non reggerà più di 21 secondi prima di prendere in mano il suo smartphone, mentre le donne riescono a resistere per ben 57 lunghi secondi. Se non ci riusciamo noi adulti, figuriamoci come riusciremo a educare i nostri figli alla necessità dello stare soli con se stessi. Eppure, sarebbero soprattutto i bambini ad avere bisogno di questo perché la capacità di stare per conto proprio e scoprire se stessi è alla base dello sviluppo. Ma oggi, fin dalla più tenera età diamo ai bambini una tecnologia che toglie la solitudine, dando loro qualcosa che li distrae dall’esterno.


Perché questa paura della solitudine? Anatole France, che non avendo uno smartphone si riferiva al lavoro, scriveva: “Il lavoro è un’ottima cosa per l’uomo: lo distrae dalla sua vita, gli impedisce di vedere quell’altro essere che è sé stesso e che gli rende spaventosa la solitudine”. Non è, quindi, colpa solo della tecnologia, che semmai è solo una facilitatrice. È il non essere più amici di noi stessi, un amico con cui sia piacevole passare del tempo assieme. E poi la paura di perdersi qualcosa, il famigerato FOMO, il “condivido dunque sono” dà la botta finale.


Comunque la vediamo è una sfida monumentale, che va affrontata prima su noi stessi, poi, iniziando da molto piccoli, con i nostri figli. Assieme a loro possiamo a piccole dosi fermarci e non fare niente, sederci ad ammirare il tramonto, camminare in montagna dove non puoi fare altro che stare con te stesso, possiamo imparare la meditazione, ma mai imporla come un’attività in più che riempia il tempo dei nostri figli. Possiamo per prima cosa osservarli, magari amano già stare con se stessi senza fare niente. I bambini amano i rituali, perché non inventarne uno che permetta loro di riappropriarsi del loro tempo? Alla scuola Montessori avevano un angolo appartato con dei cuscini dove i bambini potevano stare da soli senza essere impegnati in alcuna attività e la maestra rispettava rigorosamente questo tempo.

Domare il mostro della distrazione

Come si può affrontare una così diffusa mancanza di attenzione e concentrazione? Il terrorismo contro le distrazioni non è mai servito: se ora sono gli smartphone a catturare l’attenzione dei ragazzi, ieri erano i giornaletti. Certo, esistono meccanismi per combattere la distrazione incorporati nella tecnologia digitale, ma senza una motivazione interna non cambiano la situazione32 . Principalmente questi sono meccanismi pensati per gli adulti, che hanno poco spazio nel mondo di bambini e adolescenti. Per queste fasce d’età invece sembra che l’unica strategia usata dai genitori sia quella a “interruttore”: tutto o niente.


Premesso questo, che aiuti ci offre la tecnologia per ridurre la distrazione? Un meccanismo è lo “Zen mode” di cui sono dotati tanti programmi di scrittura che toglie ogni altra finestra dallo schermo in modo da eliminare alla radice le possibilità di distrazione mentre si scrive. Un altro sono i programmi che bloccano l’accesso alla rete per come FocusMe33, Offtime34 oppure StayFocusd35, un’estensione del browser Chrome che permette di impostare limiti di tempo per l’accesso a determinati siti web. Per quest’ultima tipologia di aiuti, è interessante l’analisi che fa Ian Bogost36 dell’App Screen Time, preinstallata sull’iPhone, che abilita l’accesso alla rete per un tempo stabilito. Bogost conclude la sua analisi dicendo che gli è stata inutile per ridurre il tempo speso sui social, ma utile per ricordargli quanto le tecnologie digitali possano migliorare la vita, se gestite in maniera consapevole. Ecco che ritorna il tema della consapevolezza. Secondo me, bisogna incoraggiare una positiva integrazione della tecnologia nella vita dei nostri figli perché “modulare e moderare” è molto più efficace della mentalità “tutto o niente”. Cioè, invece di bloccare, educare alla consapevolezza e stabilire regole chiare.


Una tecnica efficace quando si hanno delle incombenze in cui proprio non si riesce a entrare in Flow, come potrebbe essere lo studio o i compiti a casa, è quella di darsi degli intervalli di tempo inframezzati da pause di riposo, tecnica che in generale si chiama del Time Boxing, tempo a blocchi. Francesco Cirillo, alla fine degli anni ’80, aveva difficoltà con lo studio universitario. Per vincere le distrazioni iniziò a utilizzare uno di quei timer a forma di pomodoro, spesso utilizzati in cucina per tenere sott’occhio i tempi di cottura. Lo puntava su dieci minuti e iniziava a studiare sapendo che al trillo del timer poteva prendersi una pausa. Era un metodo così efficace che ha trasformato questa strategia personale nella “Tecnica del Pomodoro” in cui si lavora per 25 minuti e poi si prendono cinque minuti di pausa in cui si fa tutt’altro, come muoversi o fare del lavoro manuale. Ogni quattro cicli si fa una pausa più lunga di 15-30 minuti. Ci sono tantissime App e programmi per computer che supportano questa tecnica, per esempio Productivity Challenge Timer37 o Tomighty38, ma anche il semplice timer da cucina meccanico può aiutare i più giovani, magari durante lo studio. Oltre alle difficoltà comuni a tutti loro, devono superarne anche un’altra ben nota nell’utilizzo delle tecnologie informatiche: la mancanza di misura nel loro uso dovuta a un’immatura percezione del tempo e della durata. Racconta Patrizia Enzi39, formatrice dell’Opera Nazionale Montessori e maestra, che in una delle prime sperimentazioni con il computer in classe “gli stessi bambini si sono accorti che quando iniziavano a usarlo non si rendevano conto del passare del tempo rendendo così difficile l’uso da parte degli altri. Loro stessi hanno proposto la soluzione: usare un timer da cucina”. Quando i bambini gli ascoltiamo veramente e ci fidiamo delle loro proposte, quanta creatività!


Un altro metodo per ridurre le distrazioni tecnologiche è quello di abituarsi a estrarre le informazioni piuttosto che riceverle passivamente. Nel linguaggio del computer, estrarre le informazioni (pop) è quando vi si accede volontariamente, come facciamo quando scarichiamo manualmente la posta elettronica sul computer, mentre il riceverle passivamente (push) è quando un’entità esterna ce le invia, come accade per le notifiche sul telefono. Fondamentalmente, più dati mi vengono inviati, più sarò distratto. In concreto quello che possiamo fare è eliminare o ridurre la sincronizzazione automatica delle mail, suggerimento per noi adulti più che altro, o eliminare per quanto possibile le notifiche dai vari social e applicazioni di messaggistica. Riusciremo a insegnarlo ai nostri figli?


Nei suoi incontri di formazione Michael Altshuler ripete che: “La cattiva notizia è che il tempo vola. Quella buona è che tu sei il pilota”. Questi strumenti e tecniche sono ottimi aiuti, ma purtroppo trionfare sulle tendenze alla distrazione non è qualcosa che una fonte esterna può darci. Invece abbiamo un’abilità interna, un’abilità da pilota che ci aiuta a mantenere l’attenzione e la concentrazione e che fa parte di un’importante famiglia di funzioni cerebrali che vengono attivate quando affrontiamo situazioni nuove e impegnative: le cosiddette funzioni esecutive. Pensate a cosa entra in azione nella vostra mente quando vi trovate a guidare in una città sconosciuta: dovete prestare attenzione al navigatore, guardarvi in giro, decifrare i segnali stradali e quant’altro. Mentre quando guidate su un percorso come quello casa-lavoro, una situazione di routine, viaggiate con il pilota automatico. Ecco, nel primo caso entrano in azione le funzioni esecutive, nel secondo le abilità apprese. Le funzioni esecutive sono un complesso sistema di moduli funzionali della mente, di cui i tre principali sono quelli che soprassiedono all’inibizione della risposta, all’aggiornamento della memoria di lavoro e alla flessibilità cognitiva. Le funzioni esecutive sono così importanti che il loro grado di sviluppo è un previsore molto affidabile del futuro successo accademico del soggetto.


Concentriamoci ora sulla prima delle funzioni esecutive, quella che soprassiede all’autocontrollo. Questa è una capacità che comunque deve essere allenata perché non è presente nei bambini più piccoli. Vi ricordate dell’“Esperimento marshmallow” concepito a Stanford nel 1972 dallo psicologo Walter Mischel? Bambini tra i tre e i sei anni ricevevano un marshmallow – toffoletta in italiano – e veniva detto loro che se aspettavano un quarto d’ora a mangiarlo, ne avrebbero ricevuto anche un altro. Il risultato fu che su oltre seicento bambini solo un terzo riuscì a rimandare la gratificazione abbastanza a lungo per ottenere il secondo marshmallow. Sono interessanti le strategie che i bambini si erano inventati per resistere alla tentazione di mangiare il dolcetto: c’è chi lo allontanava, chi si girava dall’altra parte e chi trovava qualcosa di divertente da fare per far passare gli interminabili minuti come cantare una canzone. Se al marshmallow sostituiamo lo smartphone, forse queste strategie possono aiutare i nostri figli ad allenare l’autocontrollo.

Pratica!

1. Favorire l’autonomia. Nell’esperimento del marshmallow i figli di madri che favorivano l’autonomia arrivavano più facilmente alla seconda toffoletta. Come farlo? Dobbiamo osservare quando ci sostituiamo ai figli, quando non li lasciamo provare, quando non ci chiedono di aiutarli.


2. Allenare all’autocontrollo. Se vostro figlio frequenta una scuola Montessori, avrete notato che varie prassi, come l’aspettare che il compagno finisca un lavoro prima di iniziarlo e vari lavori, come il gioco del silenzio e il camminare sul filo, puntano proprio ad allenare l’autocontrollo. Ho letto che nelle scuole inglesi, invece, si usano le “bolle dell’autocontrollo”: si soffiano delle bolle di sapone sopra la testa dei bambini e tutti cercheranno di farle scoppiare, sarà più forte di loro. Poi la maestra dice: “Siete capaci di lasciarle cadere senza scoppiarle?”. Un allenamento bello e divertente.


3. Allenare la curiosità. Bisogna iniziare quando i figli sono piccoli: non rifiutare di rispondere ai loro perché, non mostrare di sapere sempre tutto ma scoprire le risposte assieme.


4. Osservare che cosa li fa entrare in Flow. Magari così riusciamo a scoprire quali attività li prendono completamente e proporle senza imporle e senza che sembrino una proposta dei genitori.


5. Sperimentare il Time Boxing. Magari iniziando con soli cinque minuti e utilizzando un timer meccanico. Di solito dopo cinque minuti, il cervello rettile, quello delle reazioni più primitive, si spegne e la concentrazione può iniziare. In caso contrario, cinque minuti sono meglio di niente.


6. Acquisire la consapevolezza. Iniziando dal corpo, ascoltando il respiro. Si può proporlo inizialmente come un gioco (ricordate il gioco del silenzio?), ma senza che divenga un peso. Possono aiutare anche i tanti corsi di yoga per bambini proposti da scuole e associazioni.


7. Acquisire la consapevolezza delle distrazioni. E se poi ci si distrae comunque? Un suggerimento è utilizzare un metodo poco tecnologico, ma efficace: scrivere, mettere nero su bianco la distrazione, così di fatto la si depotenzia. Proviamo a farlo noi per primi e a passarlo ai nostri giovani.


8. Incoraggiare momenti di ozio. Ovviamente senza telefono a portata di mano. Magari sedersi fianco a fianco a guardare le nuvole o le stelle.


9. Far provare una vita in cui siano loro a comandare le notifiche. È difficile, ma far loro scoprire la funzione “Non Disturbare” del telefono definendo poi uno o più momenti in cui invece vedere le notifiche arrivate.

Le tecnologie digitali in famiglia
Le tecnologie digitali in famiglia
Mario Valle
Nemiche o alleate? Un approccio Montessori.Come risponde il cervello di un bambino alle sollecitazioni di un mondo tecnologico e che cosa possiamo fare per consentire un uso appropriato dei dispositivi tecnologici? Il mondo dei nostri figli è dominato dalla tecnologia: tablet, smartphone e computer costituiscono ormai parte integrante della loro vita; compito di noi genitori è quello di “prepararli al futuro” e educarli all’uso delle nuove tecnologie. Ma come?Mario Valle, esperto di supercomputer, nel libro Le tecnologie digitali in famiglia si rifà al pensiero di Maria Montessori (grande ammiratrice delle tecnologie del suo tempo e profonda conoscitrice della mente del bambino) per provare a delineare questo futuro: come risponde il cervello di un bambino alle sollecitazioni di un mondo tecnologico e che cosa possiamo fare per consentire un uso appropriato di questi dispositivi?Non si tratta, quindi, di demonizzare o idolatrare la tecnologia, ma di analizzare il presente per prepararsi al futuro. A questo punto si impone una riflessione: la civiltà ha dato all’uomo, per mezzo delle macchine, un potere molto superiore a quello che gli era proprio ma, perché l’opera della civiltà si sviluppi, bisogna anche che l’uomo si sviluppi. Il male che affligge la nostra epoca viene dallo squilibrio originato dalla differenza di ritmo secondo il quale si sono evoluti l’uomo e la macchina: la macchina è andata avanti con grande velocità mentre l’uomo è rimasto indietro. Così l’uomo vive sotto la dipendenza della macchina, mentre dovrebbe essere lui a dominarla.Maria Montessori, Dall’infanzia all’adolescenza Conosci l’autore Mario Valle lavora da oltre trent’anni nei campi più disparati della scienza e dal 2003 è al Centro Svizzero di Calcolo Scientifico (CSCS) di Lugano, a stretto contatto con scienziati e ricercatori, utilizzando quotidianamente supercomputer e tecnologie di punta.Tramite suo figlio, che ha frequentato una scuola Montessori, si è avvicinato a questo mondo e si è appassionato alla concreta scientificità delle idee della Dottoressa Montessori. Ora studia e approfondisce questi temi e condivide le sue riflessioni in pubblicazioni, corsi e presentazioni pubbliche.