SECONDA PARTE - L'introduzione di cibi solidi e semisolidi

16. Che cosa dare da mangiare

di Franco De Luca

Con l’avvio dell’alimentazione complementare i genitori hanno la possibilità di trasmettere ai loro piccoli abitudini alimentari basate sull’utilizzo di alimenti utili per la crescita e per la produzione di energia, e vantaggiosi per la salute.


Questo è quanto le madri hanno sempre cercato di fare nei secoli, anche quando la disponibilità di cibo era scarsa.


I cibi sperimentati da generazioni e generazioni in contesti geografici e culturali differenti, a mano a mano che la popolazione umana si espandeva sulla Terra, venivano adattati anche alle capacità di masticazione e di deglutizione dei più piccoli. Il gusto si costruiva sulla capacità di esplorare e riconoscere i sapori dei cibi del proprio contesto sociale e, quindi, sulla possibilità per i bambini (che tendenzialmente all’inizio hanno un gusto innato verso dolce, salato e umami, che in lingua giapponese significa “saporito” e indica il sapore di glutammato, particolarmente presente in cibi come carne, formaggio e altri alimenti ricchi di proteine) di scoprire pian piano quello che si mangiava in famiglia, apprezzandolo fino a renderlo un proprio personale patrimonio sensitivo.


Le prime esposizioni agli odori e ai sapori dei cibi mangiati dalla madre avvengono già in utero quando le piccole molecole volatili disciolte nel liquido amniotico sollecitano il gusto e l’olfatto del feto. Le stesse molecole passano poi nel latte. Il sapore del latte materno ha una base comune che deriva dalle proteine, dai grassi e dagli zuccheri, e una specificità individuale che dipende da ciò che la madre mangia.


Quando il bambino inizia l’alimentazione complementare è già stato esposto a questa esperienza sensoriale, che va a potenziarsi attraverso il contatto diretto con i cibi solidi e semisolidi che fanno parte delle abitudini alimentari della famiglia a cui appartiene.


Ben diverso è il percorso esplorativo se i cibi complementari sono rappresentati da prodotti industriali (omogeneizzati, pappe precotte a base di improbabili prodotti esotici, come la tapioca, e dal monotono gusto della vaniglia), omologati su poche sfumature sensoriali che inibiscono il percorso di scoperta e conoscenza del bambino.


Perché invece di usare il buon riso, schiacciato con la forchetta, con cui la famiglia prepara il risotto, proponiamo al bambino creme di riso dal gusto annacquato e discutibile o, invece di una gustosa polenta, gli offriamo la farina di mais e tapioca? A causa di campagne di marketing poco etiche condotte dalle grandi compagnie, che fanno credere alla superiorità e alla maggiore salubrità del cibo industriale rispetto a quello preparato in casa.


L’inizio dell’alimentazione complementare può, e deve, essere anche un’occasione per gli operatori che si occupano di madri, padri e bambini per aiutare le famiglie a modificare comportamenti alimentari inappropriati, promuovendo un’alimentazione sana e gustosa.


I bambini sono estremamente curiosi, ma hanno bisogno di tempo (possono essere anche assai prudenti) per accettare nuovi sapori la cui esperienza deve essere accomunata ad altri aspetti del cibo (consistenza, odore, struttura tridimensionale), compresi alcuni che noi adulti trascuriamo, come la possibilità di alcuni cibi di essere spostati, manipolati e lanciati nello spazio.


L’introduzione precoce di nuovi sapori è in grado di modificare le competenze innate del gusto. È quindi importante che sin dai primi tentativi, dopo il 6° mese, vengano proposti pezzettini di cibi singoli e non mischiati tutti insieme come avviene nel tradizionale brodo vegetale.


È un pregiudizio e un luogo comune diffuso che i bambini non amino le verdure; in realtà per questi alimenti hanno solo bisogno di un tempo maggiore perché vengano riconosciuti e accettati (il colore verde e il sapore amarognolo sono spesso segnali di deterioramento o di tossicità).


I nostri antenati nomadi, cacciatori e raccoglitori, alla continua ricerca di cibo da consumare rapidamente e sul posto perché non poteva essere conservato a lungo, selezionarono come gusti di sopravvivenza il salato, il dolce e quello delle proteine della carne, e questi caratteri divennero competitivi nella selezione naturale.


Il sale si trovava solo vicino al mare ed era un alimento prezioso al punto tale che il termine salario si rifà all’antica Roma, dove i soldati delle legioni venivano pagati in sale, che non solo veniva utilizzato come condimento ma anche come uno dei primi e più efficaci metodi di conservazione dei cibi.


Il sapore dolce apparteneva alle bacche e ai frutti selvatici, assai ricchi di vitamine idrosolubili, come la A e la C, che i nostri antenati nomadi incontravano nel loro vagare e nei percorsi di migrazione. Un altro alimento dolce reperibile in natura era il miele, difficile da conquistare perché le api si opponevano strenuamente a tale rapina.


E poi c’era la carne, importante fonte di proteine ottenute attraverso la caccia di animali sempre più grandi grazie all’invenzione dei primi utensili, dai chopper (selce scheggiata) alle punte di lancia, e alla elaborazione di tecniche che richiedevano la collaborazione di più individui.


Questi cibi erano molto preziosi perché salubri e nutrienti e perché richiedevano un grande sforzo e dispendio di energia per essere reperiti; non “fare tante storie” a mangiarli era una necessità per la sopravvivenza.

Il lattosio, il latte vaccino e i formaggi

La scoperta di tracce di formaggio in alcuni frammenti di manufatti di terracotta della costa dalmata anticipa a 7200 anni fa (5200 a.C.) la datazione dell’inizio della produzione del formaggio in Europa, come descritto dall’archeologa Sarah McClure della Pennsylvania State University in un articolo comparso sulla rivista “PLoS ONE”1.


Quando ero bambino, negli anni Cinquanta, i pediatri e le madri erano tutti d’accordo che per la sana crescita dei piccoli fosse necessario la mattina a colazione bere una bella tazzona di latte e, se possibile, come vedevamo nei primi telefilm americani, un bicchiere anche a pranzo e a cena.


Poi, con il passare dei decenni, abbiamo assistito a due fenomeni paralleli, ma probabilmente non indipendenti tra loro: il calo della pratica dell’allattamento al seno e, contemporaneamente, l’aumento delle manifestazioni riconducibili all’allergia alle proteine del latte vaccino (asma, dermatiti atopiche ecc.).


Attualmente sta montando una ondata di ostilità nei confronti del latte vaccino e dei latticini, da molti considerati a priori alimenti dannosi per la salute tout court, perché causa di risposte allergiche alle proteine del latte o di intolleranza al lattosio.


La disponibilità di latte e dei suoi derivati ha rappresentato per l’Homo sapiens una grande occasione, sia per la disponibilità di un nuovo alimento ricco di grassi e proteine che per l’opportunità di poter conservare i prodotti da esso derivati. L’utilizzo del latte ovino o bovino in Europa viene fatto risalire dagli scienziati a circa 9000 anni fa, con l’inizio dell’agricoltura e della pastorizia. Le più antiche tracce di formaggio erano fatte risalire invece a circa 5000 anni fa, all’inizio dell’Età del Bronzo, ed si trattava per lo più di deduzioni provenienti, ad esempio, dall’analisi di qualche artefatto. I resti rinvenuti presso i siti croati di Pokrovnik e Danilo Bitinj, nella costa dalmata, popolati tra il 10.000 e l’8000 a.C., hanno spostato di circa 2000 anni l’epoca in cui oggi riteniamo che i nostri antenati abbiano cominciato a produrre e consumare formaggi.

Le analisi condotte sui resti trovati nelle ceramiche dalmate mostrano come la dieta dei nostri antenati fosse alquanto variegata. Mangiavano pesce, carne e, esclusivamente i bambini, latte fresco di mungitura. L’analisi dei grassi tra i resti depositati nei cocci mostra che questi venivano usati anche per la produzione e il mantenimento dei formaggi, più o meno 7000 anni fa, confermando che l’uso e il gusto per i prodotti più stagionati fossero presenti nel Mediterraneo prima di quanto riscontrato finora. Inoltre gli abitanti di Pokrovnik e Danilo Bitinj usavano già recipienti diversificati per il latte, conservato nelle ciotole, e per il formaggio, conservato invece in speciali contenitori tradizionalmente usati per bere: i rythà.


Dunque questi studi anticipano la produzione del formaggio nell’area del Mediterraneo a poco più di 7000 anni fa e mostrano come in queste prime comunità di agricoltori e allevatori stanziali non fosse ancora presente la variante genetica che avrebbe permesso anche ad alcuni individui adulti di digerire il lattosio (lo zucchero comune al latte di tutti i mammiferi) e, quindi, di consumare il latte fresco di altri mammiferi a tutte le età. Questi stessi agricoltori dalmati avevano però trovato il modo di produrre formaggi (meno ricchi di lattosio) per sfruttare al meglio, anche da adulti, il latte che poteva allora essere consumato solo dai più piccoli, che continuavano a produrre lattasi finché erano allattati (a quei tempi probabilmente fino a 5-7 anni).


Poter fare affidamento sul latte di altre specie e sui suoi derivati, come alimento, fu particolarmente vantaggioso sia per i più piccoli, una popolazione assai fragile fino all’inizio dell’età industriale, che per gli adulti: grassi, proteine ed energia derivanti dai prodotti case-ari sono stati alleati preziosi nella lotta alla sopravvivenza.


L’intolleranza al lattosio è un fenomeno mondiale ormai ampiamente studiato. Il primo a descrivere l’intolleranza al lattosio fu Ippocrate nel 400 a.C., ma i sintomi clinici sono stati riconosciuti solo negli ultimi cinquant’anni. Tale intolleranza si manifesta, generalmente, con sintomi di diversa intensità che vanno dal dolore e gonfiore addominale al mal di testa troppo frequente, al meteorismo, a una immotivata irritabilità, ai crampi addominali e alla diarrea.


Nella maggior parte delle persone, l’espressione e l’attività della lattasi iniziano a diminuire intorno ai 2 anni di vita con una riduzione progressiva, programmata geneticamente. I sintomi dell’intolleranza al lattosio raramente si sviluppano prima dei 6 anni, o meglio, prima di quell’età il bambino non è in grado di esprimere il disagio che può essere solo sospettato da genitori attenti osservando l’addome teso, gonfio e molto meteorico del proprio figlio.

Circa il 70% della popolazione mondiale ancora oggi ha, in età adulta, una carenza di lattasi, l’enzima che scinde il lattosio in galattosio e glucosio. Il restante 30% non è intollerante al lattosio, poiché la tolleranza è stata influenzata da fattori nutrizionali e genetici.


La frequenza dell’intolleranza al lattosio cambia a seconda dell’origine etnica e delle abitudini alimentari di popolazioni con tradizioni pastorali. In Nord Europa la persistenza della lattasi è la situazione più comune, con punte del 89%-96% in Scandinavia e nelle isole Britanniche, e percentuali via via più basse andando verso sud; nell’Europa del Sud sfiora il 30%, Italia compresa, toccando solo il 15% tra i Sardi che, pur essendo tradizionalmente pastori, probabilmente a causa dell’isolamento non sono riusciti a esprimere appieno la variante genetica. Nel Nord dell’India la percentuale di adulti che produce lattasi è del 63%, diminuendo fino al 23% spostandosi verso sud. Nel resto dell’Asia e tra le popolazioni native americane, invece, la persistenza della lattasi è molto rara. In Africa la distribuzione è a macchia di leopardo: tribù tradizionalmente dedite alla pastorizia mostrano alti livelli di persistenza dell’enzima, mentre popolazioni contigue ma non pastorali hanno percentuali molto più basse.

In Europa la produzione della lattasi è regolata da un singolo gene. Negli individui “lattasi persistente” è avvenuto casualmente il cambiamento di una singola base del DNA rispetto al gene comune. Tale mutazione è sorta in alcune popolazioni dedite alla pastorizia e ha offerto, come abbiamo visto, una nuova grande opportunità alimentare allargando all’età adulta la possibilità di consumare il latte. In Africa e in Medio Oriente, invece, la produzione di lattasi è regolata da più di un gene.


L’evoluzione della tolleranza al lattosio tra gli europei è stata attribuita alla necessità di fronteggiare le conseguenze della carenza di calcio e vitamina D2 dei nostri antenati agricoltori, nutrendosi anche con il latte degli erbivori addomesticati. In particolare, si pensa che nel Nord Europa, a causa di una bassa esposizione solare, l’assunzione di latte possa aver fornito una fonte di calcio e vitamina D in un ambiente dove il latte, alimento facilmente deperibile, poteva essere conservato, almeno nei freddi inverni, senza particolari rischi. La vitamina D viene prodotta per azione del sole o assimilata da una dieta ricca di pesce.

La persistenza della lattasi è un classico esempio di coevoluzione gene-cultura avvenuta nell’uomo in periodi relativamente recenti.


“Quando si considera l’evoluzione dell’uomo moderno, si presuppone solitamente che le forze evolutive che agiscono sulle popolazioni siano innescate quasi esclusivamente da cambiamenti ambientali esterni, come quelli climatici o geografici. Tuttavia, recenti studi antropologici hanno insinuato il sospetto che anche i cambiamenti nelle pratiche culturali possano promuovere in modo significativo l’evoluzione, attraverso i cambiamenti comportamentali e ambientali”3.


In conclusione, il latte e i suoi derivati fanno bene o fanno male?


Nei primi sei mesi di vita fa bene solo il latte di donna; non per la presenza negli altri latti del lattosio, zucchero contenuto anche nel latte delle loro mamme e che, come i cuccioli di tutti i mammiferi, i nostri piccoli sono perfettamente in grado di digerire, ma perché una esposizione precoce al latte di mucca attraverso i latti di formula è un fattore di rischio per l’insorgenza dell’allergia alle proteine del latte vaccino, condizione che impedirà, per tutta o per buona parte della vita, di consumare il latte anche a individui “lattosio tolleranti”.


Dopo i sei mesi il rischio di provocare allergia alle proteine cala nettamente e, quindi, latte e latticini possono entrare nella dieta di un bambino come tutti gli altri alimenti. È possibile, però, che con il passare degli anni, un individuo che prima digeriva il lattosio perda questa competenza e diventi lattasi intollerante. Questo spiega perché ci sono anche persone anziane che bevono senza problemi e con vantaggio un bicchiere di latte al giorno e tanti altri che non possono farlo.


Se quindi possiamo affermare che l’uso del latte di altri mammiferi come alimento e il consumo dei suoi derivati hanno rappresentato un significativo arricchimento della dieta per molte popolazioni umane, dobbiamo anche chiederci se la produzione del latte di mucca a livello industriale, in aumento nel mondo a livello esponenziale, rappresenti un reale vantaggio per l’ambiente e per l’uomo.


Il prodotto che un tempo consideravamo naturale e innocuo si è ormai trasformato in un prodotto industriale commercializzato in tutto il mondo, capace di fatturare cifre da capogiro per le multinazionali del cibo.


Come ben descritto nel documentario Il Sistema latte del regista Andreas Pichler, apparso in poche sale cinematografiche nell’ottobre 2018, gli strateghi del marketing cercano continuamente di conquistare nuovi gruppi di consumatori di tutte le fasce di età e in tutto il mondo. In questo contesto, fattori come la sostenibilità o il rispetto dei metodi di produzione tradizionali sono totalmente ignorati dalle grandi compagnie. In questo interessantissimo documentario viene messa in luce la costante ricerca globale di una crescita infinita e la follia della produzione alimentare industriale. Il documentario mostra da vicino chi paga il prezzo della produzione di queste enormi quantità di latte, e si chiede se il sistema vigente, che si regge su miliardi di sussidi, sia sostenibile in futuro.


Dalla Danimarca alla Germania passando per l’Italia, dalle piccole aziende biologiche alle mastodontiche fabbriche di latte in Cina, scienziati, politici UE, lobbisti, così come allevatori del Senegal: tutti fanno parte del sistema latte, ormai interconnesso a livello mondiale, come perdenti e come vincitori. Gli interessi delle grandi aziende sono la forza trainante di questo mercato. Determinano il ritmo del mercato, utilizzando unicamente la logica della crescita continua. Stabiliscono i prezzi fornendo ai consumatori una varietà di prodotti sempre nuovi come merendine, prodotti cremosi, formaggi di bassissima qualità e i latti di crescita, tanto inutili quanto probabilmente dannosi, sebbene pubblicizzati spesso anche dagli operatori sanitari.

A questo proposito, il test salute effettuato per conto di Altro Consumo4 ha riscontrato la presenza, in quasi tutti i campioni di latti di crescita, di contaminanti potenzialmente pericolosi che si formano negli olii vegetali (palma, colza, girasole). L’olio di palma è il principale responsabile della presenza di queste sostanze nocive e, quindi, si potrebbe dare la preferenza a quelli che non contengono questo olio. Tuttavia, poiché dal punto di vista nutrizionale, dopo l’anno, non c’è alcuna controindicazione a utilizzare il latte fresco intero, per il principio della massima prudenza, i latti di proseguimento vanno evitati.


La maggior parte degli allevatori di bovini segue il diktat della “crescita continua”. Chi non riesce a tenere il passo, viene travolto dal sistema.


Soffre anche l’ambiente: ogni litro di latte prodotto equivale a ben tre litri di liquame. Per alimentare le mucche si procede al disboscamento massivo del pianeta per creare grandi coltivazioni di soia e mais che stimolano nelle mucche la produzione del latte, ma, non essendo per loro un cibo naturale, riescono a utilizzarne solo una piccola parte con conseguenti grandissimi sprechi.


È moralmente sbagliato allevare delle vacche dalla crescita accelerata e con un ciclo di vita sempre più breve per produrre un latte non più così sano come vuole farci credere l’industria.


Muovendosi tra Europa, Africa e Cina, il film mostra chiaramente in che modo il Sistema latte è interconnesso a livello mondiale. In gioco ci sono il nostro habitat, le nostre campagne, il nostro tessuto sociale, ma anche la nostra salute e quella delle generazioni a venire. Grazie al modello dell’industria del latte possiamo immaginare che tipo di agricoltura vogliamo per il futuro, esaminando le alternative già esistenti e capendo cosa va cambiato e cosa migliorato.

Che cosa non dare da mangiare

Fatte queste premesse, possiamo dire che il bambino può mangiare tutto salvo le bevande zuccherate e gli alimenti dolci industriali, come succhi di frutta, bevande gassate e merendine, perché rovinano i denti, riducono l’appetito e predispongono al sovrappeso; il miele prima dell’anno di vita, perché può contenere una tossina (C. Botulinum) che può far ammalare il bambino; gli alimenti troppo salati come salumi, patatine fritte, alimenti cotti con dado e, infine, il latte di mucca prima dei sei mesi di vita.


Se l’introduzione di cibi diversi dal latte inizia non prima del 6° mese di vita, non c’è alcuna necessità di utilizzare liofilizzati e omogeneizzati, nati e prodotti per anticipare l’inizio dello svezzamento al 3°-4° mese e creare consumatori precoci di cibi industriali.

Aiutami a mangiare da solo!
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Centro Nascita Montessori
L’alimentazione dei bambini da 0 a 3 anni.Quali preziosi consigli darebbe Maria Montessori sull’alimentazione dei bambini?Una guida per rendere il momento del pasto un’occasione per aiutare i più piccoli a “fare da soli”. Quali preziosi consigli darebbe Maria Montessori a genitori e operatori della prima infanzia sull’alimentazione dei bambini?Quali suggerimenti per facilitare l’introduzione del cibo complementare e far sì che i più piccoli vivano questo momento come un piacere, piuttosto che un dovere?L’osservazione e il rispetto delle competenze e dei tempi di ciascun bambino dovrebbe essere la norma anche a tavola. Aiutami a mangiare da solo!, curato dal pediatra Franco De Luca, partendo dalle linee guida dell’OMS e dalle raccomandazioni delle più importanti società scientifiche pediatriche, raccoglie i contributi degli operatori del Centro Nascita Montessori e vuole essere una guida per tutti coloro che credono che il momento del pasto sia un’occasione per aiutare il bambino a “fare da solo” e scoprire il piacere dell’esperienza sensoriale che deriva dal gusto e dal piacere di mangiare. La madre che imbocca il bambino senza compiere lo sforzo per insegnargli a tenere il cucchiaio non lo sta educando, lo tratta come un fantoccio. Insegnare a mangiare, a lavarsi, a vestirsi è un lavoro ben più difficile che imboccarlo, lavarlo e vestirlo.Maria Montessori, Educazione alla libertà Conosci l’autore Il Centro Nascita Montessori di Roma si occupa di ricerca sullo sviluppo e sul mondo relazionale del bambino nei primi anni di vita, organizza corsi di formazione per operatori della prima infanzia e promuove la cultura di una buona nascita, accompagnando le coppie verso il nuovo ruolo genitoriale. L’operato del Centro è guidato dal pensiero montessoriano, in un costante confronto di idee, eventi ed esperienze a livello nazionale e internazionale. Franco De Luca ha svolto l’attività di Pediatra di Comunità dal 1978 presso il consultorio familiare di Campagnano di Roma, dove, dal 2012 al 2016, è stato Direttore dell’Unità Operativa Complessa “Tutela Salute della Donna e Medicina Preventiva in età evolutiva”.Attualmente in pensione, affianca alla libera professione l’impegno nella promozione, protezione e sostegno dell’allattamento al seno, come formatore e tutor valutatore per l’UNICEF delle iniziative Comunità e ospedali Amici dei bambini. Dal 2003 è presidente del Centro Nascita Montessori.