capitolo 4

Il linguaggio come forma di
relazione

L’essere umano tende naturalmente all’altro. Egli, in quanto dotato di intelligenza, possiede una propria identità e nello stesso tempo, in quanto essere sociale, vive la dimensione della relazione con l’altro.

Identità e socialità sono fra loro strettamente collegate in quanto dimensioni proprie e co-originarie dell’essere umano; l’uomo costruisce la propria identità anche attraverso il suo vivere all’interno di una comunità. La persona, per mezzo del proprio agire e del linguaggio verbale e non verbale, si rapporta spontaneamente all’altro, cercando con esso un punto di contatto, uno spazio di incontro. E poiché la persona abita originariamente la dimensione della relazione, attraverso essa diviene e si realizza nella sua pienezza.

Questa ricerca dell’altro si è manifestata spontaneamente nella storia dell’umanità ed è diventata sempre più complessa e sofisticata. Attraverso l’interazione con l’altro, l’uomo ha sviluppato la propria individualità, creando le condizioni per comunità sempre più ampie, complesse e strutturate.
La stessa intelligenza dell’uomo si costruisce attraverso l’esperienza del mondo circostante e mediante la relazione con l’altro; comunicando all’altro un nostro pensiero, una nostra emozione, un nostro punto di vista, condividendo con lui un momento della nostra esistenza, interagendo con lui, apriamo un varco verso un’identità diversa dalla nostra, con la quale ci confrontiamo e creiamo un’interazione.

Attraverso questo scambio reciproco, l’individuo costruisce i propri pensieri, rafforza e modifica le proprie opinioni, progredisce nella ricerca e nella conoscenza di se stesso. Egli avanza nel cammino verso la conquista della propria umanità. Mettendosi in relazione con l’altro l’individuo, all’inizio della propria esistenza, inizia a costruire la percezione di sé e del mondo in cui vive.
Senza questo rimando che l’altro ci dà attraverso la sua presenza e il suo interagire con noi, ovvero nella solitudine più assoluta, l’essere umano perderebbe una dimensione essenziale di sé, sarebbe incompleto. Si ridurrebbe a individuo monologante, solitario, chiuso in se stesso ed estraneo a qualsiasi realtà altra dalla propria. La socialità si manifesta spontaneamente nell’individuo, essa gli appartiene in modo naturale: negarla equivale quindi a negare una dimensione essenziale del nostro essere uomini.La prima relazione che incontra il bambino è quella con la mamma, intensa e quasi assoluta nei suoi primi mesi di vita e che successivamente lascia spazio a una comunità più allargata, all’interno della quale egli impara ad agire in modo sempre più autonomo, lungo l’impegnativo processo di costruzione della propria identità. Grazie a questa relazione, il bambino sviluppa la percezione di sé e del mondo circostante, per il meglio o per il peggio, in base alla qualità delle esperienze vissute.

Il bambino si rivolge, in tutta la sua fragilità, all’adulto che lo accompagna per ricevere risposta alle sue richieste. Solo una relazione aperta, attenta, capace di rispondere ai suoi bisogni nei tempi e nei modi adeguati, gli permette di percepirsi e percepire il mondo come buoni e di realizzarsi come persona in modo armonico ed equilibrato, fiduciosa in se stessa e nel mondo che lo circonda.
Un bambino che vede nella relazione che vive con l’adulto i propri bisogni non ascoltati o addirittura negati, percepisce se stesso e i suoi bisogni come inadeguati e questa inadeguatezza lo porta a vivere con difficoltà una relazione positiva e pacifica con se stesso e con l’ambiente circostante1.

In alti termini, una relazione di qualità, attenta, rispondente in modo conveniente e nei tempi adeguati alle richieste del bambino, è una condizione necessaria per la costruzione di un’identità piena ed equilibrata.

Ma come si svolge la relazione della persona con l’altro? Attraverso uno sguardo, una carezza, un sorriso, il pianto, il silenzio, ovvero potremmo dire attraverso tutte le modalità con le quali un individuo riesce a esprimersi e che gli sono proprie. La relazione ci coinvolge continuamente; è l’orizzonte all’interno del quale viviamo ed essa viene vissuta ed espressa in tutte le dimensioni connaturali all’essere umano (ovvero la corporeità, le emozioni e il pensiero).
Questo vivere all’interno della relazione accade anche sul piano linguistico. Nella misura in cui il bambino inizia a comunicare verbalmente, con l’intenzione di condividere, di mettere in comune con l’altro qualcosa di lui, entra a far parte di una relazione verbale, ovvero di una relazione che si sviluppa attraverso le parole.

Questa forma di relazione linguistica che lo rimanda all’altro è il dialogo. Il dialogo è la relazione con un altro individuo che si attua attraverso la parola. Ma si può affermare che ogni volta che parliamo con qualcuno dialoghiamo con lui? Qual è l’autentico significato del dialogo? Cosa vuol dire veramente dialogare con qualcuno?

Il termine dialogo deriva dal greco antico dia “attraverso” e logos “discorso”; esso è la parola condivisa da due o più individui parlanti che si confrontano, ognuno con un proprio punto di vista. All’interno del dialogo si pongono uno di fronte all’altro due pensieri, due vite interiori, due prospettive, due identità. Dialogo significa confronto con chi è altro da me, con chi ha un pensiero diverso dal mio o lo esprime in modo differente.

Tuttavia, dialogare non equivale semplicemente a parlare a qualcuno o con qualcuno. Accade spesso che parliamo con un altro individuo senza prestare realmente attenzione a quello che lui intende comunicarci; ci limitiamo a monologare di fronte a lui, chiusi nella nostra solitudine, senza aprire alcuno spazio di ascolto autentico. La parola a due, rivolta all’altro, è solo apparente, poiché esiste unicamente la nostra.

Quella dell’altro non viene accolta né riconosciuta.
Quando tronchiamo la parola dell’altro, non gli riconosciamo la possibilità di mettersi in relazione con noi, di esprimere la propria identità e in qualche modo lo neghiamo. Non riconosciamo una dimensione che gli appartiene naturalmente e che per questo motivo costituisce un suo diritto.

Il dialogo autentico ha invece come propria condizione di possibilità il riconoscimento dell’altro. Il dialogo, inteso come confronto verbale con l’altro, non è solo un rivelare una propria idea, un articolare un proprio pensiero, ma consiste soprattutto nel riuscire, attraverso la parola parlata, a creare uno spazio comune nel quale entrambi i punti di vista, il mio e quello dell’altra persona, possiedono di principio pari dignità.

L’io e il tu, soggetti della relazione dialogica, diventano un “noi”, senza prevalere uno sull’altro. Mediante il dialogo, essi mettono a confronto i rispettivi punti di vista, riconoscendosi reciprocamente un equivalente spazio di espressione. Attraverso il dialogo nasce una nuova comunità, diversa sia dall’io che dal tu. E questa comunità nasce in virtù di una relazione che si è venuta a creare fra i due soggetti che si stanno parlando e si ascoltano.

Attraverso il dialogo autentico, in cui nessuno degli interlocutori parte dalla convinzione di possedere in modo esclusivo la verità (certezza che presuppone di principio l’errore dell’altro), ma accoglie invece in modo onesto e rispettoso la parola altrui, viene creato qualcosa di nuovo. Il dialogo autentico è uno spazio di comunicazione verbale che va oltre i singoli individui che vi partecipano, poiché mette in comune le loro parole senza che le une prevalgano sulle altre. Si tratta di un discorso alla pari.

In questa prospettiva, l’altro con cui dialoghiamo non è l’estraneo su cui imporsi o da cui difendersi, il nemico verso cui si può nutrire un sentimento di calcolo e diffidenza. L’altro è un individuo come me, con uguali diritti e pari dignità, insieme al quale mi sposto su un piano comune di ascolto e di confronto, senza pretendere di possedere in modo esclusivo la ragione e la verità.

Il vero dialogo quindi, che è sostanzialmente relazione all’altro attraverso la parola, è possibile nella misura in cui non mi chiudo in me stesso, non mi arrocco sulle mie posizioni, ma invece mi rivelo e accolgo la rivelazione dell’altro. Viene in tal modo creato qualcosa di nuovo che va oltre i due singoli individui dialoganti, dando vita alla vera comunità.

All’interno di questo dialogo alla pari, in cui si parla ma al contempo si ascoltano in modo autentico le parole dell’altro, può accadere di rivedere le proprie posizioni, i propri punti di vista, sulla base di ciò che l’altro mi racconta e della nuova parola che nasce dall’incontro tra la mia parola e quella dell’altro.

Il dialogo veritiero richiede profonda onestà e rispetto per l’altro. Esso è parola virtuosa poiché richiede l’esercizio di virtù personali da parte di chi vi partecipa: innanzitutto l’umiltà, poiché non si pretende di possedere l’assoluta ragione; la capacità di attenzione che si manifesta nel rivolgersi all’altro con rispetto e genuino interesse; la pazienza che consiste nel dare all’altro il tempo di manifestarsi; la semplicità che ha origine nella capacità di esprimere e di cogliere con chiarezza ciò che realmente è essenziale.

Il dialogo così inteso non equivale tuttavia a essere conformisti; ascoltare l’altro non vuol dire adeguarsi in modo incondizionato a ciò che l’altro mi dice, ma significa piuttosto capacità di essere disponibili ad ascoltare un pensiero diverso dal mio e a rivedere eventualmente la mia posizione attraverso lo scambio con l’altro.

Il dialogo è un momento nel quale ci si confronta in modo reciproco.
In quanto tale, è caratterizzato da un movimento a doppio senso che unisce i due interlocutori e crea una nuova dimensione, quella dello scambio reale grazie al quale i soggetti dialoganti escono dalla loro individualità e si aprono vicendevolmente uno all’altro. Attraverso questo scambio reciproco che avviene con la parola, gli individui si costruiscono, fedeli a quella dimensione di apertura all’altro che li costituisce.

La persona, attraverso la relazione, è in una continua tensione verso la propria realizzazione. Essa è chiamata ad aprirsi all’altro. In tal senso la relazione è una vocazione propria dell’essere umano a cui ci si può sottrarre poiché l’individuo è libero, ma senza la quale la persona non raggiunge la sua pienezza. Questa pienezza avviene anche mediante la comunicazione verbale. Poiché l’ascolto dell’altro è un valore della comunicazione autentica, esiste allora un’etica della comunicazione.

Una comunicazione è virtuosa nella misura in cui hanno luogo il rispetto per l’altro e il riconoscimento della sua dignità come pari alla mia. La comunicazione autentica è allora quella in cui si realizza una relazione vera con l’altro ovvero in cui lo si ascolta e si rispetta la sua parola, senza volerla in alcun modo dominare, manipolare o negare.

La parola violenta è quella che nega l’altro, che non riconosce all’altro il diritto di espressione, che si richiude sulla propria personale verità, che strumentalizza la parola altrui per propri fini personali. Quando manipoliamo l’altro, quando lo zittiamo, quando lo priviamo della possibilità di esprimere il proprio punto di vista, di dare voce alle proprie idee, compiamo un atto violento. Neghiamo la sua libertà di individuo in nome di una nostra presunta verità.

Dall’altra, il sentirsi non ascoltati porta chi parla a percepirsi rifiutato, non riconosciuto nel proprio punto di vista, nelle proprie opinioni, nella propria identità. Quando parliamo e percepiamo di non essere ascoltati in modo autentico, ci sentiamo in qualche modo negati. Il non ascoltare l’altro nasce da due atteggiamenti, ovvero dalla presunzione di possedere in modo esclusivo la verità e dalla superficialità. Ciò nega ineluttabilmente sia la dignità dell’altro che la propria.

Poiché la relazione è una dimensione essenziale del nostro essere uomini, se siamo incapaci di viverla pienamente, negando l’altro, in un certo qual modo neghiamo anche una parte di noi. Negare la relazione non solo costituisce un atto violento nei confronti dell’altro, ma diminuisce anche la propria umanità e per questo porta a una vita inautentica.

La parola felice è invece il dialogo alla pari, che solo consente la creazione di un senso comune, istituendo il rispetto mutuo delle persone. Nel dialogo vero ognuno condivide il proprio punto di vista, con un atteggiamento di apertura e di rispetto verso il proprio interlocutore.

Questa condivisione coincide con il bene del dialogo che, come ogni atto umano, è affidato alla libertà e alla responsabilità dei singoli. Il soggetto ha il potere di troncare il suo rapporto con l’altro.

L’immorale, l’ingiusto, il violento si servono della parola contro la sua vocazione normale alla comunicazione. L’uomo che viola questo principio, che cioè non interpella l’altro o lo interpella senza lasciargli la possibilità di controbattere, adotta un comportamento violento. Questo significa che, anche se la persona abita originariamente il linguaggio, è continuamente responsabile di un suo esercizio corretto, che consiste nel preservare la propria integrità e al contempo quella dell’altro.

Una comunicazione pienamente morale parte proprio dal riconoscimento dell’altro, in una relazione di reciprocità che accetta il diverso e lo rispetta nella sua peculiarità. La comunicazione così intesa diventa allora costruzione di un patrimonio comune.
Questo non significa che nel dialogo non vi sia conflitto. Esso è inevitabile proprio perché il dialogo scaturisce dalla diversità di più individui che si confrontano. Tuttavia, attraverso una comunicazione virtuosa, che riconosce e ascolta in modo autentico l’altro, non si trova nel conflitto l’ultima parola. Come afferma il filosofo Francis Jacques2, un mondo pacifico non è un mondo senza conflitto, ma piuttosto un mondo in cui il conflitto non degenera in lotta violenta.

Anche se i contrasti sono inevitabili, sono trasferibili in un dibattito negoziato o dialogato.
Comunicare in modo autentico significa quindi entrare in relazione con l’altro, nella sua specificità. La comunicazione pacifica è per l’uomo una vocazione a cui può sfuggire con un atto libero; essa quindi è frutto di esercizio e di virtù.

Per dialogare in modo autentico, dunque, dobbiamo imparare a comunicare rispettando l’altro, senza imporre il nostro punto di vista e ascoltando quello altrui. Questo accade anche con il bambino di fronte a cui ci troviamo e col quale non sussiste alcun tipo di comunicazione vera se non ci poniamo in un atteggiamento di accoglienza e di apertura.
L’origine della comunicazione autentica con il bambino è l’ascolto rispettoso della sua parola. Questa è la prima dimensione importante di cui tener conto, in un percorso che si propone di favorire il linguaggio nel bambino, ovvero la sua capacità di raccontarsi e di comprendere e raccontare il mondo.

L’accoglienza che noi riserviamo al bambino, ascoltandolo con rispetto e interesse, senza correggerlo continuamente, senza voler interpretare a tutti i costi i suoi sentimenti proiettando su di lui i nostri vissuti o i nostri desideri, senza sostituirci a lui, favorisce non solo la costruzione del linguaggio, ma anche lo sviluppo dell’individuo. Il bambino, per poter costruire in modo equilibrato, gioioso e sereno la propria capacità verbale, deve sentire il desiderio di condividere con noi i propri pensieri, le proprie emozioni. E questo desiderio è rafforzato dalla percezione del sentirsi ascoltati in modo autentico e rispettoso.

Diversamente, la comunicazione non ha luogo e il bambino, sentendosi non ascoltato e quindi rifiutato nella propria individualità, potrebbe rinunciare alla parola, isolandosi oppure optare lui stesso per una parola violenta, imposta, non rispettosa dell’altro, proprio perché il primo grande insegnamento che possiamo offrire al bambino è l’esempio personale.

Se desideriamo che il bambino attui una comunicazione rispettosa e di ascolto vero nei nostri confronti, occorre promuovere noi stessi per primi questa attitudine. In caso contrario, l’ascolto che otterremo dal bambino sarà semplicemente obbedienza a un nostro comando e lui stesso sarà promotore di questa modalità nella sua vita adulta, all’interno della comunità.

La parola troncata da parte dell’adulto porta il bambino a percepire il mondo, il proprio vissuto, le proprie emozioni e i propri pensieri come inadatti. Equivale a una negazione della sua individualità. Una comunicazione autentica con il bambino presuppone quindi l’esercizio dell’umile e attento ascolto della sua parola.

Il linguaggio più profondo e vero parte allora proprio da una corretta relazione che riconosce al bambino la sua dignità e si pone sul suo stesso piano, senza alcuna forma di prevaricazione. La stessa manipolazione del discorso altrui, lo stesso dichiarare al bambino cosa desideriamo lui dica, ci porta a dirigere la comunicazione a nostro esclusivo vantaggio, spingendo l’altro interlocutore (il bambino) a dire non ciò che lui pensa o sente o desidera, ma piuttosto ciò che gli abbiamo detto ci potrà rendere felici o soddisfatti.

Così può accadere che il bambino a cui parliamo, senza ascoltarlo veramente, senza cogliere ciò che desidera comunicarci, senza tenere in considerazione il suo punto di vista, non impari ad ascoltarsi e a condividere attraverso il linguaggio i contenuti del proprio ascolto personale. 

Diverrà così soggetto di un linguaggio che non ha origine in lui, a partire dalle proprie emozioni e dai propri pensieri.

Una parola non ascoltata o manipolata porta a una vera e propria scissione tra pensiero e parola: non dico ciò che penso o sento, ma ciò che rende felice l’altro o ciò che mi è stato comandato. Così il bambino si sente confuso, frustrato, inadeguato, sopraffatto da una parola che non parte da lui, ma da luoghi lontani che non gli appartengono.

Occorre ascoltare il bambino, fargli percepire tutta la nostra presenza in quel momento, il nostro essere-con-lui reale e concreto, affinché egli possa sentirsi accolto in una relazione che lo rispetti e alla quale può partecipare con spontaneità e gioia.

Anche il bambino di pochi mesi, che ancora non riesce a pronunciare le sue prime parole, sta comunicando con noi attraverso lo sguardo, attraverso i primi imperfetti esercizi vocali. Si sta aprendo, con vitalità e slancio, alla relazione, in balia dell’interlocutore adulto che ha il potere e la forza insindacabile di riconoscere e promuovere oppure negare questo suo tentativo. La parola negata al bambino è una piccola porta che si chiude; la parola ascoltata è una porta aperta, che fa entrare luce e fa scorgere oltre.

Diamoci il tempo di ascoltare il bambino, sempre, con l’attenzione, l’interesse e il rispetto che pretendiamo per noi e che riserveremmo a qualsiasi persona adulta. Con umiltà, calma, pazienza, senza temere di perdere autorevolezza e senza il desiderio di dimostrare continuamente la nostra superiorità. Di fronte alle ragioni di un bambino che, alla ricerca della propria identità, si oppone a noi con i suoi primi “no”, diamo spazio a questa sua ricerca con rispetto, sapendo certo guidarlo con lungimiranza e autorevolezza verso il suo bene, adottando i limiti e le misure di cui il bambino ancora immaturo ha bisogno, ma senza limitarci a piegarlo incondizionatamente ai nostri dettami.

Cerchiamo di salvaguardare quella vita che sta compiendo i suoi primi passi nell’affermazione personale di sé, dando esempio di individui equilibrati e di pace attraverso la pratica di una parola capace di orientare e nel contempo di ascoltare e di cercare un punto di incontro.

Questo, come accennato in precedenza, non significa conformarsi incondizionatamente al volere dell’altro ovvero del bambino che, ancora immaturo, potrebbe non agire in vista del proprio benessere; un tale atteggiamento equivarrebbe a non salvaguardare il ruolo di educatori a supporto del bambino. Vuol dire piuttosto interagire con rispetto e capacità di ascolto, tentando di comprenderne le ragioni.

Lo sguardo del bambino è continuamente rivolto verso di noi, alla ricerca di un modello: cerchiamo di esserne all’altezza, offrendogli una relazione ricca, attenta e che sia di guida.

Il linguaggio del bambino piccolo e il pensiero Montessori
Il linguaggio del bambino piccolo e il pensiero Montessori
Isabella Micheletti
Come favorire l’uso della parola nei primi anni di vita.Un piccolo libro che suggerisce idee pratiche per sviluppare il linguaggio, partendo dal pensiero di Maria Montessori e di altri rinomati studiosi dell’infanzia. L’apprendimento del linguaggio avviene nei primissimi anni di vita del bambino, grazie all’utilizzo di competenze innate che necessitano di essere esercitate quotidianamente. Per favorire questo ricco processo di sviluppo, è importante predisporre un ambiente che consenta esperienze di qualità, ma è altresì essenziale che l’adulto instauri una relazione di comprensione e rispetto con il bambino: imparare a parlare, infatti, non equivale solo ad apprendere parole nuove o a costruire frasi, ma significa porsi in relazione con l’altro, donando una parte di sé. È consigliabile, dunque, offrire al bambino non solo un linguaggio chiaro e corretto, ma anche la propria attenta presenza, sapendo regalargli momenti di ascolto, senza scordarsi che anche il silenzio rappresenta un prezioso tempo di raccoglimento e di costruzione personale. Isabella Micheletti nel suo libro Il linguaggio del bambino piccolo e il pensiero Montessori (ma non solo!) affronta questi temi con chiarezza e semplicità, suggerendo idee pratiche da sperimentare in famiglia. Seguire nel bambino lo sviluppo del linguaggio è studio di un immenso interesse e tutti coloro che vi si sono dedicati concordano nel riconoscere che l’uso di parole e nomi, dei primi elementi del linguaggio, cade in un determinato periodo della vita come se una precisa regola di tempo sovrintendesse a questa manifestazione dell’attività infantile. Il bambino sembra seguire fedelmente un severo programma imposto dalla natura, e con tale puntuale esattezza che nessuna scuola, per quanto sapientemente diretta, reggerebbe al confronto.Maria Montessori Conosci l’autore Isabella Micheletti è educatrice Montessori e formatrice nei corsi dell’Opera Nazionale Montessori. Specializzata nel metodo Montessori, lavora da anni in questo ambito educativo con esperienza sia in Italia che all’estero.È co-fondatrice del progetto educativo e sociale “Spazio Montessori, uno spazio per la famiglia”, rivolto ai bambini della prima infanzia e alle loro famiglie.Scrive articoli di settore ed è appassionata ricercatrice nell’ambito del pensiero pedagogico.