capitolo 4

Il valore psicologico
del lavoro a scuola

Una valutazione del valore psicologico del lavoro a scuola esige una sintesi sia del significato psicologico del contributo di Maria Montessori alla conoscenza umana, sia del lavoro inteso come fenomeno umano. Entrambe le questioni devono a loro volta essere messe in rapporto con il contesto educativo. Sarà quindi possibile giudicare il lavoro entro l’impostazione scolastica e, allo stesso tempo, stimare i meriti psicologici dell’approccio montessoriano e dell’educazione tradizionale così come viene impartita al giorno d’oggi.


La forza trainante alla base del pensiero della Dottoressa era una concezione davvero profonda dell’uomo e del suo posto nel mondo. Tale concezione era radicata nell’idea secondo cui, quando l’uomo comparve sulla terra, venne alla luce una nuova specie. Tale convinzione la portò a parlare di un nuovo inizio nello studio dello sviluppo infantile e fu proprio il suo orientamento antropologico che alla fine le permise di scoprire il bambino. La scoperta riguardava la realizzazione della specifica funzione del bambino nella formazione dell’uomo e in quanto collegamento tra le varie generazioni nell’evoluzione culturale dell’umanità. Gli schemi comportamentali tipici della specie umana non sono ereditari, ma lo è la capacità di crearli. L’uomo raggiunge la maturità solo nella fase postnatale, quando è già esposto alle influenze ambientali. La continuità del processo embrionale che avviene dopo la nascita è di ordine psicologico perché richiede l’attiva partecipazione dell’individuo coinvolto. Il bambino ha poteri speciali che favoriscono l’autocostruzione: la mente assorbente e i periodi sensitivi, ma ha bisogno dell’aiuto degli adulti. L’educazione ha un ruolo fondamentale nella formazione dell’uomo, e il suo obiettivo principale è quello di offrire aiuti e stimoli adeguati durante il complicato processo di costruzione interiore.


Tutti noi sappiamo che qualunque cosa siamo adesso e qualunque cosa siamo in grado di fare è il risultato di un precedente periodo di sviluppo e un processo di apprendimento influenzato dall’educazione che abbiamo ricevuto. La Montessori tuttavia riteneva che una mancanza di educazione non avrebbe solo limitato le nostre capacità da adulti ma, nel peggiore dei casi, avrebbe addirittura precluso la possibilità di diventare esseri umani. Immaginiamo per esempio un neonato in salute, separato dalla madre al momento della nascita e cresciuto in condizioni ottimali, allevato in uno spazio insonorizzato e ben illuminato, dotato di aria condizionata e con il cibo migliore, ma senza altri oggetti né contatti con esseri umani. Se tale individuo sopravvivesse fino alla fine della pubertà, cosa di per sé estremamente improbabile, non sarebbe affatto un essere umano ma una mera creatura con sembianze umane. E il problema non sarebbe l’aver perso quindici anni di tutela da parte di un adulto, che dovrebbero essere recuperati; egli non possederebbe nessuno di quegli attributi che riteniamo essenziali per definire l’uomo e di cui siamo così orgogliosi. Se una creatura così sfortunata fosse ammessa nella società in una fase più matura, non sarebbe in grado di recuperare il tempo perduto; per tutta la durata della sua vita rimarrebbe un disadattato, anche nel caso in cui gli venisse fornito ciò di cui era stato privato durante il periodo di isolamento. Ovviamente sarebbe troppo crudele dimostrare questa affermazione attraverso un esperimento, ma l’umanità è spesso crudele, ed esistono esempi in cui bambini che per varie ragioni avevano subìto privazioni, avevano perso per sempre certe capacità inerenti agli esseri umani. Un esempio storico molto noto è quello riportato dal dottor Jean Itard attinente al sauvage de l’Aveyron, un bambino-lupo trovato nei boschi poco dopo la Rivoluzione Francese. La descrizione delle esperienze di Itard con questo bambino suscitò l’interesse e l’attenzione di Montessori molto prima che incominciasse con il suo lavoro pedagogico.

Consideriamo ora il lavoro come un fenomeno umano. In una delle sue rare riflessioni sul lavoro, Freud osserva che dopo che l’uomo primitivo aveva scoperto di poter usare le mani per migliorare il proprio destino sulla Terra attraverso il lavoro, non poteva essergli indifferente che un altro uomo decidesse di lavorare insieme a lui o contro di lui. L’altro uomo acquisiva valore in quanto compagno di lavoro; era un individuo con cui era vantaggioso vivere insieme19 . E io aggiungerei “e per raggiungere una coesistenza pacifica e una proficua collaborazione ha inventato il linguaggio per poter comunicare con lui”. A partire da questa citazione, che si potrebbe credere di provenienza dagli scritti della Montessori, Freud definisce l’essenza del lavoro come un fenomeno umano. In pratica afferma che l’uomo ha uno scopo nella vita e tale scopo è migliorare il proprio destino; da qui la necessità di un rapporto intrinseco tra lui e l’ambiente. Questo obiettivo lo porta a scoprire che è solo attraverso la propria attività, vale a dire usando la propria intelligenza e i propri strumenti, le mani, che l’uomo diventa capace di modificare l’ambiente. Il lavoro è una caratteristica fondamentale dell’essere umano in quanto specie, ed è una funzione adattiva, creativa e sociale per eccellenza. Sebbene nel corso dei secoli abbia assunto diversi significati, ruoli sociali e obiettivi specifici, e si sia diversificato da una comunità all’altra, il lavoro ha sempre mantenuto il proprio posto, rimanendo dunque uno degli aspetti principali del comportamento umano.


È curioso che ci siano ben poche pubblicazioni sul lavoro inteso come fenomeno umano. Anche negli studi moderni sull’argomento, l’abilità di lavorare, che si può considerare un fenomeno umano della più grande importanza, ha ricevuto ben poca attenzione. Evidentemente la si ritiene scontata. Gli psicologi si sono soffermati sul problema del lavoro, e sono diverse le pubblicazioni su questo tema, ma gran parte di esse trattano solo dei suoi aspetti secondari. Non rispondono affatto alla domanda sul perché le persone lavorano o perché non riescano a farlo. La teoria dell’apprendimento, che ha la pretesa di dare una risposta, risponde solo in termini di condizionamento. Di fatto questo è soltanto un aspetto di un fenomeno molto complesso. È anche quello meno umano, poiché ha a che fare con ciò che l’uomo ha in comune da una parte con gli animali e dall’altra con le macchine. La sua incapacità di spiegare in modo adeguato alcuni dei fenomeni umani più importanti ha dato origini a una risposta che fa ben sperare poiché si muove in direzione della riumanizzazione della psicologia.


È di speciale interesse il contributo del professor Walter S. Neff della Università di New York sulla comprensione del lavoro e del comportamento umano20 . Il suo approccio onnicomprensivo coincide, in linea di principio, con quello della Dottoressa. In quanto psicologo clinico, per molti anni ha lavorato a stretto contatto con persone che consideravano il lavoro un vero e proprio scoglio. Attingendo alla propria esperienza, ha intrapreso studi sul lavoro inteso come fenomeno umano seguendo le prospettive più rilevanti. Si è concentrato sull’abilità di lavorare, anche in rapporto ai problemi generali della personalità umana, osservandola perciò nella sua complessità. La sua definizione di lavoro corrisponde alle osservazioni di Freud, ma queste ultime riguardano il lavoro negli adulti e non l’abilità di lavorare, né tantomeno le modalità attraverso cui essa si sviluppa. Neff si cimenta nell’impresa di indagare tale processo. Considera l’abilità di lavorare come un aspetto dello sviluppo della personalità, a cui è collegata, sebbene alla fine si differenzi in una sfera comportamentale relativamente autonoma. Non la considera limitata da particolari inclinazioni e competenze, ma la vede come adattiva e perciò transazionale, e in tal modo riconosce i diversi stadi dello sviluppo.

Neff suggerisce che le condizioni per diventare un lavoratore “possono essere certi tipi di esperienze che devono essere fatte nella prima e nella seconda infanzia”. Questo è interessante in relazione ai periodi sensitivi di Montessori, che gli psicologi americani chiamano “periodi critici”. Tuttavia, le intuizioni di Neff non gli sono sufficienti per superare alcuni pregiudizi ormai radicati. Funziona in parte con le influenze emotive, ma non va oltre.


Riassumendo gli elementi chiave di ciò che chiama personalità lavorativa, Neff giunge a tre conclusioni. La prima afferma che la fonte generale della volontà di lavorare è la norma della società. È il fatto che la società si aspetta che un individuo svolga un ruolo produttivo a determinare il suo comportamento, e non i suggerimenti interiori durante i vari stadi dello sviluppo. La seconda sostiene che i periodi critici per la formazione della personalità lavorativa sono l’infanzia e l’adolescenza. La terza rivela che all’inizio la pulsione per il lavoro si trova al di fuori dell’organismo, ma poi viene interiorizzata a vari livelli e in diverse forme.


Arrivando a queste conclusioni, il professor Neff abbandona del tutto il suo obiettivo originale, che era quello di studiare il significato del lavoro in senso generale e concentrarsi sull’abilità di lavorare alla luce del processo di sviluppo. Parlando dei tre punti espressi finora, Neff ha in mente una speciale forma di lavoro: quella dell’adulto. Ha chiaramente cercato il primo periodo dell’infanzia in cui tale lavoro avviene, e cioè all’età di circa sei anni, quando il bambino va a scuola per ricevere un’istruzione formale. Quindi lui considera questa fase come il primo dei periodi sensitivi rilevanti per il lavoro. Tuttavia, gli schemi comportamentali dei bambini in questo stadio derivano dall’integrazione di esperienze riguardanti i periodi critici avvenuti negli stadi precedenti, durante i quali la loro abilità di lavorare si è sviluppata in modo da permettere di frequentare la scuola. Se l’impulso per il lavoro all’inizio è completamente esterno all’organismo, qual è il significato del primo periodo critico di Neff? Forse per quel momento i bambini saranno stati sufficientemente manipolati e indottrinati dagli adulti, così da conformarsi alle regole della società senza esprimere alcuna protesta! Nella sua introduzione, Neff scrive “Una delle nostre maggiori preoccupazioni sarà quello di considerare il modo in cui un bambino che non lavora diventa un adulto lavoratore”. In apparenza questa trasformazione si raggiungerà modellandola dall’esterno. Così torniamo al vecchio pregiudizio degli adulti, i quali pensano che, siccome un bambino funziona in maniera diversa, è privo delle qualità che essi possiedono. In realtà, il bambino costruisce queste qualità dentro di sé, ma a suo modo.


Il concetto di sviluppo è inconcepibile senza un obiettivo; ci deve qualche forza interiore nel bambino che guida il processo dall’interno. Ogni cosa che si manifesta come nuova in questo processo a lungo termine deve derivare da un periodo di preparazione indiretta. Se tale processo di preparazione è una forma di adattamento, che non deve essere confuso né con la regolazione né con il conformismo, allora deve esserci qualcosa che guida il bambino a modellare i propri schemi comportamentali in modo da armonizzarli con l’ambiente. Altrimenti sarebbe come un animale da circo addestrato a esibirsi in una maniera che gli è estranea. I comportamentisti possono anche credere che sia questo il caso, ma non io. Una visione di questo tipo, che è dominante nell’educazione convenzionale, esclude lo sviluppo di un comportamento lavorativo flessibile che è indispensabile per il mondo di oggi.


Prima della psicoanalisi, si credeva che, poiché la funzione sessuale nella forma adulta esordiva durante la pubertà, la sessualità non esistesse nell’infante. Neff ha adottato lo stesso atteggiamento per quanto riguarda il lavoro. In realtà le sue radici devono essere ricercate nel primo vero periodo formativo dell’embrione spirituale. Tempo fa partecipai a un ricevimento di nozze. La sorella dello sposo stava aiutando ad accogliere gli ospiti, e perciò diede al marito il compito di badare al loro bambino di un anno e mezzo. Il padre si appoggiò con la schiena a uno di quei tavoli isolati dove il cibo offerto non viene quasi mai toccato. Dato che il bambino era in quella fase in cui gli esseri umani afferrano ed esaminano tutto ciò su cui possono mettere le mani, il padre lo prese in braccio in modo da non fargli prendere gli oggetti del tavolo. Di tanto in tanto gli dava un biscotto, ma invece di mangiarlo, il bambino si divertiva a metterlo in bocca al padre. Poiché non sono un tipo che ama particolarmente i ricevimenti e anzi sono molto più affascinato dalle reazioni spontanee dei bambini piccoli, decisi di mettermi alle spalle del padre, proprio di fronte al bambino, tenendo un bastoncino di pretzel in bocca come se fosse una sigaretta. Volevo vedere se il bambino avrebbe fatto con me ciò che aveva fatto con il padre. Prima mi guardò negli occhi, con un’espressione intensa e curiosa, poi passò a osservare il bastoncino di pretzel che avevo in bocca, infine tornò di nuovo a guardarmi negli occhi. Esitò come se stesse valutando se fossi un amico o un nemico. Alla fine, la tentazione divenne irresistibile: con estrema attenzione, alzò il dito indice e, con la precisione di uno scienziato che lavora in laboratorio, portò lentamente il braccio in avanti finché la punta del suo dito proteso non toccò l’estremità del pretzel e spinse delicatamente il bastoncino dentro la mia bocca. Mi guardò con attenzione per vedere quando il pretzel sarebbe scomparso definitivamente. Poi io ne presi un altro e il piccolo ricominciò l’intera performance, ma questa volta senza esitazioni, completamente immerso nel suo lavoro. Quando i bastoncini erano praticamente finiti ne feci riapparire uno. Il bambino continuò a ripetere la sua azione spingendo il pretzel con grande concentrazione fino a quando, all’improvviso, afferrò il bastoncino togliendomelo dalla bocca e lo mangiò, raggiante. Certo, dal punto di vista igienico era biasimevole, ma in quanto manifestazione di un essere umano nell’atto di costruire dentro di sé l’abilità di lavorare era troppo preziosa per essere fermata.


Ciò che Neff avrebbe ritenuto un semplice gioco senza senso si dimostrava invece una perfetta coordinazione di intelligenza, percezione e movimento, e un coinvolgimento davvero profondo. È vero, l’attività sembrava non avere alcuno scopo; lo faceva solo per il gusto di farlo, e quindi era gioco e lavoro al tempo stesso. Eppure uno scopo ce l’aveva, sebbene inconscio. Non era orientato a padroneggiare l’ambiente esterno, ma verso la costruzione di ciò che la Montessori chiama “gli organi della mente”. Questi organi mentali sono formati dall’interazione che intercorre tra il mondo interno ed esterno, la cui motivazione proviene dall’interno e si manifesta attraverso i periodi sensitivi. Tuttavia, anche dopo la loro conclusione, il bisogno di apprendere, di formare la propria personalità, di adattarsi sia alle potenzialità individuali sia alle condizioni dell’ambiente (e perciò all’abilità di lavorare) accompagna l’individuo in crescita durante il lungo periodo della giovinezza. I periodi sensitivi terminano quando hanno svolto la loro funzione o quando ormai sono trascorsi i limiti di maturità dentro cui possono avvenire, ma il forte interesse nei confronti dell’ambiente, l’amore per esso, rimane l’atteggiamento di base dell’individuo in crescita. Sempreché non sia inibito o represso da ansie interiori, da misure restrittive o da tabù imposti dagli adulti. L’educazione dovrebbe prendere in considerazione tale atteggiamento e usarlo come guida nel processo di strutturazione della situazione pedagogica. Abbiamo parlato del fatto che il compito degli educatori è quello di aiutare gli esseri umani in crescita a svilupparsi. Possono farlo offrendo ai bambini un ambiente che stimoli le loro potenzialità interiori in fasi diverse dello sviluppo. Il valore psicologico del lavoro a scuola dipende dalla riuscita a creare queste condizioni, quando decidiamo di organizzare una scuola: cosa includere nel programma di studi e quale metodo d’istruzione seguire. Gli stessi bambini dovrebbero fungere da guide; il nostro successo è determinato dalle loro risposte. Se lavorano con piacere e concentrazione, allora siamo riusciti a trovare il collegamento con quella forza interiore che guida il loro sviluppo. Se il loro spirito (parola proibita in psicologia!) non viene toccato, forse potrebbero anche conformarsi alle nostre richieste ma il valore psicologico del loro lavoro si limiterà a un apprendimento più o meno meccanico di tecniche. Questo processo non coinvolge l’intera personalità e di conseguenza ha ben poco valore formativo.


Per illustrare questo punto a volte uso il caso di un paziente maschio, ventottenne, che mi contattò per una terapia psicoanalitica. Accusava ansia, attacchi di pianto, depressione e si sentiva incapace di lavorare. Non aveva mai lavorato da quando aveva terminato le scuole superiori. La sua prima crisi avvenne all’università. Ad essa seguirono episodi simili ogni volta che cercava di trovare un nuovo posto di lavoro. Alla fine rinunciò del tutto e incominciò a vivere da solo in una mansarda, conducendo una vita solitaria e inattiva. All’età di tre anni aveva perso il padre, a cui era molto affezionato. Dopo la sua morte, erano accaduti diversi episodi traumatici, tra cui un trasloco in un altro paese e un cambiamento nello status sociale della famiglia che aveva completamente stravolto il suo mondo paradisiaco. Aveva cercato di salvare se stesso da un naufragio emotivo respingendo la realtà e rifugiandosi in un mondo di fantasia. Il suo atteggiamento verso il mondo esterno era di passivo conformismo, che però celava sentimenti di profondo rancore e superiorità.


All’età di quattro anni venne mandato in una scuola Montessori dell’infanzia, dove si sentì completamente smarrito. Era la libertà che lo spaventava più di qualunque cosa. Dandogli l’indipendenza e rendendolo responsabile delle proprie azioni, la scuola lo mise alla prova facendogli abbandonare la sicurezza della prigione che si era creato da solo; il suo modo di esistere era messo a rischio e lui si sentiva paralizzato. Poi venne spostato in una scuola Dalton dove gli vennero assegnati dei compiti specifici e gli venne detto più o meno per quanto tempo svolgerli. Il resto del tempo poteva lavorare da solo, a meno che desiderasse chiedere qualcosa. Riuscì a evitare di farlo perché era intelligente e non aveva bisogno di assistenza. Non si mischiava con gli altri alunni ma sembrava felice di essere lasciato in pace. Si dimostrò uno studente brillante durante le scuole elementari e superiori, e i voti elevati erano il segno evidente che avrebbe avuto vita facile all’università. E invece fu proprio a quel punto che crollò.


Certo, aveva sempre avuto una vita difficile a casa conducendo una vita solitaria nella sua camera. Considerava i compiti scolastici come un impegno noioso che doveva fare solo per poter essere lasciato in pace da adulti esigenti e potersi ritirare in un mondo immaginario, dove trovava conforto per il suo ego ferito in fantasie di grandezza. Tuttavia, finché il lavoro a scuola era soddisfacente, le cose andavano piuttosto bene. Passava per un ragazzo normale, anche se in realtà non lo era. Ci vollero sette anni di analisi per ristabilire il suo contatto con la realtà e aiutarlo a ridare un significato alla propria vita.


Il caso di questo paziente non era affatto raro. Molti studenti che mi furono mandati per una consulenza dal dipartimento di assistenza sanitaria della loro università avevano storie molto simili. Avevano raggiunto un apparente adeguamento sociale conformandosi ai requisiti del programma scolastico, senza però prendere attivamente parte alla vita scolastica, e avevano profondi problemi emotivi che erano passati inosservati. In questi casi qual è il valore psicologico del lavoro a scuola? Senza dubbio, è un tipo di difesa. Lo sviluppo normale si era bloccato in qualche stadio, inibendo in parte il processo di adattamento. La nevrosi però non ha inciso sull’abilità di lavorare, per via della relativa autonomia di questa sfera del comportamento. Il lavoro richiesto dalla scuola è unilaterale, concentrato solo su certi aspetti del funzionamento intellettuale. La società assegna al successo in questo ambiente un valore talmente grande che permette a questi individui di costruirsi un falso stato di normalità attraverso la conformità. Eppure, quando lasciano l’ambiente protetto e artificiale della scuola, essi possono appassire come piante da serra esposte per la prima volta alle durezze del clima naturale.


A questo proposito è interessante notare che l’importanza psicologica dell’educazione per la formazione dell’uomo nei vari stadi di sviluppo, a scuola o al di fuori del contesto scolastico, è esattamente opposta al valore che la società di solito le riconosce. Questo si riflette manifestamente nel progressivo livello di formazione, status sociale e remunerazione degli educatori coinvolti: il personale domestico che si prende cura dei neonati a casa, chi lavora nei centri per l’infanzia, gli insegnanti negli asili, nelle scuole primarie e secondarie e, infine, i professori universitari che si trovano ai vertici dell’ambito accademico. A causa della crescente specializzazione e meccanizzazione dell’insegnamento, essi contribuiscono molto poco alla formazione della personalità dello studente e il loro ruolo in questo contesto è minimo.

Consideriamo ora come il processo educativo che deriva dall’approccio montessoriano coincida con la psicologia pedagogica. Nella sua storica indagine sullo sviluppo della psicologia pedagogica, il professor Max Hillebrand sottolinea la necessità di un orientamento antropologico sia nella pedagogia sia nella psicologia, per raggiungere una piena comprensione dell’essere umano. Questo è un riconoscimento della tesi di base per cui “l’uomo in quanto animal educandum è un essere che, senza apprendimento e istruzione, non può diventare uomo”21 . Evidenzia che l’educazione non può funzionare senza il concetto di disposizioni (le potenzialità di Montessori), a cui mira come suo risultato ed effetto. Gli educatori devono trovare modi per raggiungere gli strati più profondi della personalità, permettendo alle disposizioni di entrare in gioco. Il professor Heinrich Roth, alla fine di una esposizione sui problemi di educabilità, osserva che l’educazione deve appellarsi alla crescente autoconsapevolezza e all’autoeducazione del bambino. L’aspetto più importante è il rafforzamento della crescente abilità del bambino di agire in maniera indipendente e responsabile22 .


Questo può essere sufficiente per dimostrare che l’approccio montessoriano nei confronti del lavoro a scuola corrisponde a ciò che viene considerato primario quando l’educazione è guidata verso la formazione dell’uomo. Invece, l’educazione convenzionale secondo l’impostazione classica si occupa esclusivamente di trasferire le conoscenze, ignorando la propria responsabilità nello sviluppo interiore della personalità.


La Montessori considerava la capacità di lavorare un aspetto importante dell’indipendenza dell’individuo nel corso della sua vita. Reputava che già nell’adolescenza l’indipendenza economica basata sull’iniziativa personale fosse essenziale per raggiungere un senso di benessere. Non solo riteneva che gli sforzi individuali potenziassero la personalità, ma che potesse farlo anche l’essere in contatto con la realtà della vita che il lavoro rappresenta; e ciò vale sia per la vita adulta sia per la vecchiaia. Quel che conta non è il tipo di lavoro a cui ci si dedica, ma il principio del lavoro in sé. “Qualsiasi lavoro è nobile” scrisse, “La sola cosa indegna è vivere senza lavorare”. Il lavoro intellettuale e quello manuale sono complementari e “sono ugualmente essenziali in un’esistenza civilizzata”23 .

Una società costruita senza una consapevolezza del bisogno dell’uomo di lavorare sarebbe rischiosa per la sua salute futura. Non è probabile però che tale società un giorno possa esistere. L’uomo viene dispensato solo dal lavoro che può essere fatto dalle macchine. Avrà comunque l’abilità di lavorare e lo stimolo interiore per farlo, se questo non viene stroncato sul nascere quando è un bambino.


Montessori offrì un nuovo orientamento nei confronti del lavoro a scuola perché ne comprese il valore psicologico. È da sperare che in futuro un numero sufficiente di educatori condivideranno la sua visione e la responsabilità che da essa deriva, così da generare dei profondi cambiamenti nell’approccio educativo.

L'educazione come aiuto alla vita
L'educazione come aiuto alla vita
Mario M. Montessori Jr.
Comprendere Maria Montessori.Un affascinante sguardo sulla personalità di Maria Montessori, sulla sua filosofia educativa e sul ruolo dell’educazione nella formazione della personalità. L’educazione come aiuto alla vita offre un affascinante sguardo sulla personalità di Maria Montessori e sulla sua filosofia educativa relativa alle tematiche della crescita e dello sviluppo del bambino.  Un’opera indispensabile per chiunque desideri comprendere appieno la visione che la pedagogista aveva del bambino e la portata delle sue idee in un mondo in continua trasformazione. Mario M. Montessori Jr. esamina le idee di Maria Montessori sul lavoro a scuola e, allo stesso tempo, espone il significato profondo e il corretto uso dei materiali di sviluppo; espone le idee sul ruolo dell’educazione nella formazione della personalità e la relazione degli uomini con il cosmo. Di particolare rilievanza, infine, è l’accostamento del metodo Montessori con la psicanalisi e, più in generale, con la psicologia moderna. Forse il risultato più straordinario del suo approccio [di Maria Montessori] è stata l’intensità con cui i bambini partecipavano alle attività. Veniva coinvolta tutta la loro personalità, ed era evidente che provavano quel genere di piacere e soddisfazione che si prova solo quando vengono appagati i bisogni primari. L’obiettivo delle attività non poteva trovarsi nel mondo esterno, ma nei bambini stessi. Stavano formando la loro personalità, costruendo gli uomini e le donne che un giorno sarebbero diventati…Mario M. Montessori Jr. Conosci l’autore Mario M. Montessori Jr., figlio di Mario M. Montessori Sr., è uno dei quattro nipoti di Maria Montessori.Psicoanalista, visse in Olanda e ricoprì la carica di Vicepresidente dell’Associazione Psicoanalitica Internazionale. Fin dalla nascita assorbì le idee educative di sua nonna, fungendo spesso lui stesso da oggetto delle sue osservazioni.Una volta laureato in Psicologia, lavorò non solo con gli adulti, ma anche con i bambini e gli adolescenti; queste esperienze lo convinsero che la filosofia sull’educazione alla pace propugnata da sua nonna avrebbe potuto contribuire in maniera significativa alla costruzione di un mondo più pacifico, in cui l’uomo avrebbe vissuto in armonia con il suo ambiente.