Neff suggerisce che le condizioni per diventare un lavoratore “possono essere certi tipi di esperienze che devono essere fatte nella prima e nella seconda infanzia”. Questo è interessante in relazione ai periodi sensitivi di Montessori, che gli psicologi americani chiamano “periodi critici”. Tuttavia, le intuizioni di Neff non gli sono sufficienti per superare alcuni pregiudizi ormai radicati. Funziona in parte con le influenze emotive, ma non va oltre.
Riassumendo gli elementi chiave di ciò che chiama personalità lavorativa, Neff giunge a tre conclusioni. La prima afferma che la fonte generale della volontà di lavorare è la norma della società. È il fatto che la società si aspetta che un individuo svolga un ruolo produttivo a determinare il suo comportamento, e non i suggerimenti interiori durante i vari stadi dello sviluppo. La seconda sostiene che i periodi critici per la formazione della personalità lavorativa sono l’infanzia e l’adolescenza. La terza rivela che all’inizio la pulsione per il lavoro si trova al di fuori dell’organismo, ma poi viene interiorizzata a vari livelli e in diverse forme.
Arrivando a queste conclusioni, il professor Neff abbandona del tutto il suo obiettivo originale, che era quello di studiare il significato del lavoro in senso generale e concentrarsi sull’abilità di lavorare alla luce del processo di sviluppo. Parlando dei tre punti espressi finora, Neff ha in mente una speciale forma di lavoro: quella dell’adulto. Ha chiaramente cercato il primo periodo dell’infanzia in cui tale lavoro avviene, e cioè all’età di circa sei anni, quando il bambino va a scuola per ricevere un’istruzione formale. Quindi lui considera questa fase come il primo dei periodi sensitivi rilevanti per il lavoro. Tuttavia, gli schemi comportamentali dei bambini in questo stadio derivano dall’integrazione di esperienze riguardanti i periodi critici avvenuti negli stadi precedenti, durante i quali la loro abilità di lavorare si è sviluppata in modo da permettere di frequentare la scuola. Se l’impulso per il lavoro all’inizio è completamente esterno all’organismo, qual è il significato del primo periodo critico di Neff? Forse per quel momento i bambini saranno stati sufficientemente manipolati e indottrinati dagli adulti, così da conformarsi alle regole della società senza esprimere alcuna protesta! Nella sua introduzione, Neff scrive “Una delle nostre maggiori preoccupazioni sarà quello di considerare il modo in cui un bambino che non lavora diventa un adulto lavoratore”. In apparenza questa trasformazione si raggiungerà modellandola dall’esterno. Così torniamo al vecchio pregiudizio degli adulti, i quali pensano che, siccome un bambino funziona in maniera diversa, è privo delle qualità che essi possiedono. In realtà, il bambino costruisce queste qualità dentro di sé, ma a suo modo.
Il concetto di sviluppo è inconcepibile senza un obiettivo; ci deve qualche forza interiore nel bambino che guida il processo dall’interno. Ogni cosa che si manifesta come nuova in questo processo a lungo termine deve derivare da un periodo di preparazione indiretta. Se tale processo di preparazione è una forma di adattamento, che non deve essere confuso né con la regolazione né con il conformismo, allora deve esserci qualcosa che guida il bambino a modellare i propri schemi comportamentali in modo da armonizzarli con l’ambiente. Altrimenti sarebbe come un animale da circo addestrato a esibirsi in una maniera che gli è estranea. I comportamentisti possono anche credere che sia questo il caso, ma non io. Una visione di questo tipo, che è dominante nell’educazione convenzionale, esclude lo sviluppo di un comportamento lavorativo flessibile che è indispensabile per il mondo di oggi.
Prima della psicoanalisi, si credeva che, poiché la funzione sessuale nella forma adulta esordiva durante la pubertà, la sessualità non esistesse nell’infante. Neff ha adottato lo stesso atteggiamento per quanto riguarda il lavoro. In realtà le sue radici devono essere ricercate nel primo vero periodo formativo dell’embrione spirituale. Tempo fa partecipai a un ricevimento di nozze. La sorella dello sposo stava aiutando ad accogliere gli ospiti, e perciò diede al marito il compito di badare al loro bambino di un anno e mezzo. Il padre si appoggiò con la schiena a uno di quei tavoli isolati dove il cibo offerto non viene quasi mai toccato. Dato che il bambino era in quella fase in cui gli esseri umani afferrano ed esaminano tutto ciò su cui possono mettere le mani, il padre lo prese in braccio in modo da non fargli prendere gli oggetti del tavolo. Di tanto in tanto gli dava un biscotto, ma invece di mangiarlo, il bambino si divertiva a metterlo in bocca al padre. Poiché non sono un tipo che ama particolarmente i ricevimenti e anzi sono molto più affascinato dalle reazioni spontanee dei bambini piccoli, decisi di mettermi alle spalle del padre, proprio di fronte al bambino, tenendo un bastoncino di pretzel in bocca come se fosse una sigaretta. Volevo vedere se il bambino avrebbe fatto con me ciò che aveva fatto con il padre. Prima mi guardò negli occhi, con un’espressione intensa e curiosa, poi passò a osservare il bastoncino di pretzel che avevo in bocca, infine tornò di nuovo a guardarmi negli occhi. Esitò come se stesse valutando se fossi un amico o un nemico. Alla fine, la tentazione divenne irresistibile: con estrema attenzione, alzò il dito indice e, con la precisione di uno scienziato che lavora in laboratorio, portò lentamente il braccio in avanti finché la punta del suo dito proteso non toccò l’estremità del pretzel e spinse delicatamente il bastoncino dentro la mia bocca. Mi guardò con attenzione per vedere quando il pretzel sarebbe scomparso definitivamente. Poi io ne presi un altro e il piccolo ricominciò l’intera performance, ma questa volta senza esitazioni, completamente immerso nel suo lavoro. Quando i bastoncini erano praticamente finiti ne feci riapparire uno. Il bambino continuò a ripetere la sua azione spingendo il pretzel con grande concentrazione fino a quando, all’improvviso, afferrò il bastoncino togliendomelo dalla bocca e lo mangiò, raggiante. Certo, dal punto di vista igienico era biasimevole, ma in quanto manifestazione di un essere umano nell’atto di costruire dentro di sé l’abilità di lavorare era troppo preziosa per essere fermata.
Ciò che Neff avrebbe ritenuto un semplice gioco senza senso si dimostrava invece una perfetta coordinazione di intelligenza, percezione e movimento, e un coinvolgimento davvero profondo. È vero, l’attività sembrava non avere alcuno scopo; lo faceva solo per il gusto di farlo, e quindi era gioco e lavoro al tempo stesso. Eppure uno scopo ce l’aveva, sebbene inconscio. Non era orientato a padroneggiare l’ambiente esterno, ma verso la costruzione di ciò che la Montessori chiama “gli organi della mente”. Questi organi mentali sono formati dall’interazione che intercorre tra il mondo interno ed esterno, la cui motivazione proviene dall’interno e si manifesta attraverso i periodi sensitivi. Tuttavia, anche dopo la loro conclusione, il bisogno di apprendere, di formare la propria personalità, di adattarsi sia alle potenzialità individuali sia alle condizioni dell’ambiente (e perciò all’abilità di lavorare) accompagna l’individuo in crescita durante il lungo periodo della giovinezza. I periodi sensitivi terminano quando hanno svolto la loro funzione o quando ormai sono trascorsi i limiti di maturità dentro cui possono avvenire, ma il forte interesse nei confronti dell’ambiente, l’amore per esso, rimane l’atteggiamento di base dell’individuo in crescita. Sempreché non sia inibito o represso da ansie interiori, da misure restrittive o da tabù imposti dagli adulti. L’educazione dovrebbe prendere in considerazione tale atteggiamento e usarlo come guida nel processo di strutturazione della situazione pedagogica. Abbiamo parlato del fatto che il compito degli educatori è quello di aiutare gli esseri umani in crescita a svilupparsi. Possono farlo offrendo ai bambini un ambiente che stimoli le loro potenzialità interiori in fasi diverse dello sviluppo. Il valore psicologico del lavoro a scuola dipende dalla riuscita a creare queste condizioni, quando decidiamo di organizzare una scuola: cosa includere nel programma di studi e quale metodo d’istruzione seguire. Gli stessi bambini dovrebbero fungere da guide; il nostro successo è determinato dalle loro risposte. Se lavorano con piacere e concentrazione, allora siamo riusciti a trovare il collegamento con quella forza interiore che guida il loro sviluppo. Se il loro spirito (parola proibita in psicologia!) non viene toccato, forse potrebbero anche conformarsi alle nostre richieste ma il valore psicologico del loro lavoro si limiterà a un apprendimento più o meno meccanico di tecniche. Questo processo non coinvolge l’intera personalità e di conseguenza ha ben poco valore formativo.
Per illustrare questo punto a volte uso il caso di un paziente maschio, ventottenne, che mi contattò per una terapia psicoanalitica. Accusava ansia, attacchi di pianto, depressione e si sentiva incapace di lavorare. Non aveva mai lavorato da quando aveva terminato le scuole superiori. La sua prima crisi avvenne all’università. Ad essa seguirono episodi simili ogni volta che cercava di trovare un nuovo posto di lavoro. Alla fine rinunciò del tutto e incominciò a vivere da solo in una mansarda, conducendo una vita solitaria e inattiva. All’età di tre anni aveva perso il padre, a cui era molto affezionato. Dopo la sua morte, erano accaduti diversi episodi traumatici, tra cui un trasloco in un altro paese e un cambiamento nello status sociale della famiglia che aveva completamente stravolto il suo mondo paradisiaco. Aveva cercato di salvare se stesso da un naufragio emotivo respingendo la realtà e rifugiandosi in un mondo di fantasia. Il suo atteggiamento verso il mondo esterno era di passivo conformismo, che però celava sentimenti di profondo rancore e superiorità.
All’età di quattro anni venne mandato in una scuola Montessori dell’infanzia, dove si sentì completamente smarrito. Era la libertà che lo spaventava più di qualunque cosa. Dandogli l’indipendenza e rendendolo responsabile delle proprie azioni, la scuola lo mise alla prova facendogli abbandonare la sicurezza della prigione che si era creato da solo; il suo modo di esistere era messo a rischio e lui si sentiva paralizzato. Poi venne spostato in una scuola Dalton dove gli vennero assegnati dei compiti specifici e gli venne detto più o meno per quanto tempo svolgerli. Il resto del tempo poteva lavorare da solo, a meno che desiderasse chiedere qualcosa. Riuscì a evitare di farlo perché era intelligente e non aveva bisogno di assistenza. Non si mischiava con gli altri alunni ma sembrava felice di essere lasciato in pace. Si dimostrò uno studente brillante durante le scuole elementari e superiori, e i voti elevati erano il segno evidente che avrebbe avuto vita facile all’università. E invece fu proprio a quel punto che crollò.
Certo, aveva sempre avuto una vita difficile a casa conducendo una vita solitaria nella sua camera. Considerava i compiti scolastici come un impegno noioso che doveva fare solo per poter essere lasciato in pace da adulti esigenti e potersi ritirare in un mondo immaginario, dove trovava conforto per il suo ego ferito in fantasie di grandezza. Tuttavia, finché il lavoro a scuola era soddisfacente, le cose andavano piuttosto bene. Passava per un ragazzo normale, anche se in realtà non lo era. Ci vollero sette anni di analisi per ristabilire il suo contatto con la realtà e aiutarlo a ridare un significato alla propria vita.
Il caso di questo paziente non era affatto raro. Molti studenti che mi furono mandati per una consulenza dal dipartimento di assistenza sanitaria della loro università avevano storie molto simili. Avevano raggiunto un apparente adeguamento sociale conformandosi ai requisiti del programma scolastico, senza però prendere attivamente parte alla vita scolastica, e avevano profondi problemi emotivi che erano passati inosservati. In questi casi qual è il valore psicologico del lavoro a scuola? Senza dubbio, è un tipo di difesa. Lo sviluppo normale si era bloccato in qualche stadio, inibendo in parte il processo di adattamento. La nevrosi però non ha inciso sull’abilità di lavorare, per via della relativa autonomia di questa sfera del comportamento. Il lavoro richiesto dalla scuola è unilaterale, concentrato solo su certi aspetti del funzionamento intellettuale. La società assegna al successo in questo ambiente un valore talmente grande che permette a questi individui di costruirsi un falso stato di normalità attraverso la conformità. Eppure, quando lasciano l’ambiente protetto e artificiale della scuola, essi possono appassire come piante da serra esposte per la prima volta alle durezze del clima naturale.
A questo proposito è interessante notare che l’importanza psicologica dell’educazione per la formazione dell’uomo nei vari stadi di sviluppo, a scuola o al di fuori del contesto scolastico, è esattamente opposta al valore che la società di solito le riconosce. Questo si riflette manifestamente nel progressivo livello di formazione, status sociale e remunerazione degli educatori coinvolti: il personale domestico che si prende cura dei neonati a casa, chi lavora nei centri per l’infanzia, gli insegnanti negli asili, nelle scuole primarie e secondarie e, infine, i professori universitari che si trovano ai vertici dell’ambito accademico. A causa della crescente specializzazione e meccanizzazione dell’insegnamento, essi contribuiscono molto poco alla formazione della personalità dello studente e il loro ruolo in questo contesto è minimo.