Mia nonna

Fino a poco tempo fa mi è stato impossibile scrivere di mia nonna. E poi l’ho fatto solo su pressioni esterne. Capisco il bisogno del pubblico, interessato alla sua vita e al suo lavoro – o più in generale – a quel particolare fenomeno umano del ventesimo secolo che ella rappresentò, perché i testimoni raccontano delle sue imprese come se fosse vivente. Che tipo di donna era? Come si relazionava con gli altri? Non è la semplice curiosità che spinge a fare queste domande, altrimenti non mi sarei nemmeno sforzato di rispondere. Ho sempre saputo come gestirle attraverso il “no comment”.


Questa volta è diverso, ma provo ancora una forte reticenza quando cerco di assecondarlo. Le ragioni sono due:

  1. mia nonna è sempre stata una parte fondamentale della mia vita, e sono quindi troppo coinvolto a livello emotivo per prenderne le distanze. Forse alla fine anch’io ce la farò, magari quando i miei nipoti mi chiederanno di raccontare delle storie su di lei.
  2. Maria Montessori mostrava grande rispetto per l’individuo e per il diritto alla privacy… e ci teneva che anche la sua venisse rispettata.


Era molto diretta e non sarebbe mai ricorsa a sotterfugi per nascondere le conseguenze delle proprie azioni, per quanto incresciose. Ma se queste riguardavano la sua vita privata, non forniva mai alcuna spiegazione. Non importa se sarebbero bastate poche parole per chiarire la situazione. Se si trattava di una questione personale, rimaneva una questione personale e punto. Sarebbe stata franca e aperta solo con gli amici più intimi, ma ciò non riguardava affatto il pubblico. Non sentiva alcun bisogno di dare delle spiegazioni. Se il pubblico era curioso, non era affar suo.


Ora vi faccio un esempio, un piccolo incidente che capitò alla fine della sua vita. Accadde a Perugia. Teneva una serie di conferenze in città e le era stato conferito il titolo di cittadina onoraria il 31 agosto 1950, giorno del suo ottantesimo compleanno.


In quell’occasione la conferenza era stata brillante come sempre, poiché lei fu in grado di mantenere il carisma e l’energia fino alla morte. Chi ha avuto modo di partecipare a una delle sue conferenze non è mai riuscito a sfuggire al fascino del suo eloquio, indipendentemente dal fatto che capisse il suo linguaggio e le sue idee, o addirittura che si trovasse in totale disaccordo. Una conferenza pubblica tenuta dalla Montessori era un evento. A Perugia fu particolarmente ispirata, espressiva e accattivante. Non si sentiva volare una mosca. Tutti erano attenti e concentrati e l’aria era carica di tensione. Non c’erano dubbi, il pubblico era in trance. Improvvisamente, a metà di una frase, Maria Montessori smise di parlare. Guardò il pubblico con aria pensosa, si girò e lasciò il palco con la sua regale camminata (che già di per sé era meritevole di essere guardata). Il silenzio concentrato della sala continuò per qualche minuto, prima di essere spezzato da mormorii incuriositi e commenti sconcertati, che esprimevano chiaramente una sensazione di disagio e incertezza sul da farsi. Ma il tutto venne interrotto dall’improvvisa ricomparsa sul palco di Maria Montessori, che sembrava serena e a suo agio, mentre camminava con passo elegante e sicuro verso il centro della stanza e – dopo aver lanciato al pubblico un sorriso indulgente – completò la frase che aveva lasciato in sospeso e continuò con la conferenza, brillante come prima. Catturò di nuovo l’attenzione, riuscì per il momento a far dimenticare l’incidente.


Ma tutti si ricordarono dell’accaduto dopo l’ovazione e il chiasso rilassato tipico di una folla soddisfatta che si disperde dopo un bell’evento, quando la gente ritorna piano piano alla vita quotidiana, scambiandosi commenti sull’esperienza condivisa a cui ha appena assistito e soffermandosi sugli aspetti più marginali. È proprio allora che l’incidente tornò alla memoria, scatenando le congetture più sfrenate. E nemmeno gli addetti stampa accantonarono la questione; la intercettarono mentre usciva dalla sala e le chiesero subito perché aveva interrotto la conferenza. La sua reazione fu ancora più vaga del mio “no comment”. Sorrise in maniera enigmatica, guardandoli dritti negli occhi con uno sguardo quasi di sfida, e avanzò verso l’auto senza proferire parola. L’unica cosa che potevano fare era fermarla o farsi da parte. Naturalmente, accettarono la sconfitta.


Una volta rientrata, la casa era piena di ospiti: tutti amici di vecchia data. Anche loro avevano assistito alla conferenza ed erano curiosi di sapere cosa fosse accaduto, ma meno sfacciati della stampa. Quando infine l’atmosfera si fece più rilassata e tutti presero posto con un drink in mano, seduto sul pavimento ai suoi piedi, pensavo al momento più opportuno per formulare ad alta voce la domanda che pendeva sulle labbra di tutti: “In nome del cielo, perché mai ti sei fermata a metà di quella frase?”. Lei si accigliò per un momento, non capendo bene a cosa stessi alludendo – si era completamente dimenticata dell’incidente a cui non dava la benché minima importanza. Quando capì a cosa mi stessi riferendo, i suoi occhi si accesero di gioia “Perché non riuscivo a parlare!” e si mise a ridere, con la sua risata cordiale e contagiosa.


Ecco come andò… Anche se è morta con gran parte dei suoi denti ancora in bocca, negli ultimi anni aveva messo un ponte (che trovava fastidioso, ma che accettava come ha sempre accettato la realtà). Il ponte si era allentato, riempendole la bocca a metà. Non poteva proseguire, e non voleva armeggiare con la cosa che aveva in bocca davanti al pubblico – non era nel suo stile – così lo fece dietro le quinte. Un’interruzione inevitabile e così irrilevante. La gente avrebbe dovuto capire che, se si era fermata, era scomparsa e ricomparsa di nuovo, doveva esserci un buon motivo. Non li privò di ciò per cui erano venuti. Era una questione privata che riguardava lei soltanto, e quindi non erano necessarie ulteriori spiegazioni. Lasciava che le persone pensassero ciò che volevano, a lei non importava.


Perciò, detto questo, non sono pronto a mostrare al pubblico tutto l’album di famiglia, ma concederò qualche spaccato di vita quotidiana.


Ma quali? È difficile scegliere quando gli aneddoti riguardano una persona che è stata la figura centrale attorno cui si sono svolti tre decenni della mia vita.


E dico ciò proprio in senso letterale. Viaggiò molto per via del suo lavoro – cicli di conferenze, convegni e congressi e altri importanti incontri, ma anche corsi internazionali e lavoro di ricerca. Se quest’ultima la teneva lontano da casa per un lungo periodo, trasferiva tutta la famiglia nel paese in cui si trovava. Se invece il periodo era breve, prendeva una casa in un posto che le piaceva e la usava come pied-à-terre a cui far ritorno dopo il lavoro e in cui la famiglia veniva sistemata in maniera più o meno permanente. Tuttavia, non era mai una base molto stabile: alcuni di noi nipoti rimanevano con lei per un po’, altri venivano lasciati a casa di amici lungo il viaggio. Allora c’erano guerre o regimi politici che ci promuovevano allo status di sfollati oppure dividevano temporaneamente la famiglia. Un anziano collega ebreo proveniente dagli Stati Uniti, ascoltando questa storia, una volta mi disse “Hai avuto una vita da ebreo senza esserlo”. In un certo senso è vero, anche se non ho vissuto il carico di sventure che per secoli ha afflitto l’esistenza del suo popolo.


Nonostante tutto, non vorrei scambiare la mia vita con quella di nessun altro. È stata una vita ricca, interessante e avventurosa, piena di amore e aiuto per uscire indenne dai momenti di crisi, e c’è stato un importante fattore di stabilità che le ha dato coesione e significato, idee e calore umano: la stessa Maria Montessori.


Con lei avevo un rapporto speciale. Guardando al passato, credo che la mia nascita giunse in un momento della sua vita quando si era consolidato il suo lavoro e aveva chiarito le sue idee sufficientemente per essere in grado di utilizzare le sue nuove intuizioni nell’osservazione dello sviluppo di un bambino a cui era emotivamente attaccata, nella cornice naturale dell’ambiente domestico. Sono molti gli esempi descritti nel suo libro Il segreto dell’infanzia che riguardano il mio comportamento, persino la frase che divenne lo slogan montessoriano per eccellenza: “Aiutami a fare da solo”.


Reagiva con gioia e spontaneità di fronte a questa nuova situazione, che le offriva l’opportunità di vivere, con la seconda generazione, alcune delle cose che le erano state negate dalle circostanze con la prima.


Ci adoravamo, ma non si pensi a un quadretto idilliaco, poiché avevamo entrambi un caratterino ed eravamo per natura impetuosi, risoluti e coerenti. Tutto quello che abbiamo passato insieme è però stato autentico. Ci accettavamo incondizionatamente, anche quando non eravamo d’accordo o eravamo arrabbiati – a volte pure furiosi – o dispiaciuti per ciò che l’altro faceva o pensava. Potevamo avere aspre discussioni di ogni genere, negli ultimi anni alcune erano relative alla teoria, ma riuscivamo sempre a trovare un’implicita accettazione e rispetto per l’altro in quanto essere umano.


Forse può sembrare presuntuoso, ma non saprei come altro spiegarlo in poche parole: c’era un fattore fondamentale nel legame tra di noi da cui ho ricavato quella sicurezza di base che ho cercato di descrivere prima. Quel sentimento non solo ha influenzato il mio mondo interiore ma anche quello esterno; mi ha permesso di raggiungere un senso interiore di coesione, di essere una persona indipendente, dotata di una propria identità, che sarebbe stata in grado di affrontare, come infatti è successo, qualunque situazione della vita, anche la più inaspettata, difficile o stressante (e sono state serie le crisi esistenziali che ho dovuto gestire).


D’altro canto, mia nonna era una persona estremamente affidabile. Ci si poteva fidare di lei senza riserve. Alcune persone la tradirono, nel vero senso della parola, e lei non esitò ad abbandonarle, certo. Ma in tutti gli altri casi, per quanto si spazientisse o si arrabbiasse con qualcuno, rimaneva sempre una persona leale su cui poter contare senza riserve. Ciò mi permise di avere durante la gioventù un sostegno che credo ogni bambino dovrebbe esser capace di reperire dalla figura genitoriale interiorizzata. Il che rende possibile affrontare situazioni di vita reale molto complicate con maggiore coraggio o con la fiducia che l’aiuto arriva se ci si impegna al massimo tenendo conto dei propri limiti.


Mia nonna non è sempre rimasta con me (durante la guerra siamo stati separati per sette anni, cinque dei quali senza che potessimo comunicare), ma per tutta la mia vita ho avuto la certezza che in caso di bisogno sarebbe arrivata a soccorrermi, ove possibile o, in caso negativo, avrebbe fatto l’impossibile per farmi aiutare dagli altri. Se non accadeva, sapevo che forze al di là del suo potere le avevano impedito di agire o che le sue azioni non avevano avuto il successo sperato. Così era più semplice accettare la situazione che avevo di fronte, anche se era davvero brutta, e tirarne fuori il meglio.


Questo atteggiamento era evidente anche nella vita quotidiana… Non sono mai entrato in una stanza dove lei stava lavorando, trascorrendo il suo tempo libero, discutendo gli affari di lavoro o chiacchierando con un ospite importante, riposando, scrivendo, o facendo qualsiasi altra cosa, sentendomi rifiutato o fuori luogo. Le appartenevo, ero parte della sua vita, così come lei della mia. Le persone che venivano a parlare con lei dovevano accettare tutte le relazioni interpersonali dentro la cerchia degli amici più stretti, o non venivano affatto (ovviamente, a meno che tutti noi conoscessimo e rispettassimo la persona in questione). D’altra parte, lei stessa avrebbe accettato i miei amici subito e senza condizioni. Una volta presentati, le sarebbero appartenuti così come io le appartenevo. Li avrebbe fatti sentire a loro agio anche se non parlavano la stessa lingua, poiché lei era così espressiva e naturale in queste cose che il messaggio sarebbe stato ricevuto forte e chiaro, per così dire. La sincerità è sempre riconoscibile.


Non era una questione di forma. Lo diceva sul serio, voleva conoscerli come persone, li avrebbe presi in considerazione o avrebbe tenuto conto di ciò che pensavano, se al momento non erano presenti, e avrebbe chiacchierato con loro, anche se io non c’ero. Se sorgevano problemi di comprensione, avrebbe chiesto a qualcuno di tradurre. Nessuno dei miei amici si è mai sentito escluso per questo. Notavano che erano ben accolti e che venivano trattati come il resto della famiglia.


Quando mia nonna non doveva svolgere del lavoro che richiedeva solitudine, come ad esempio scrivere o studiare, amava stare con gli altri. Ciò che ho detto sui miei amici valeva naturalmente anche per gli altri membri della famiglia; inoltre c’erano sempre in giro i suoi collaboratori più fidati.


Gli ospiti ufficiali venivano ricevuti in un salotto destinato soltanto per queste visite. Altrimenti si poteva usare tutta la casa. Se rimaneva a letto, era lì che potevamo andarla a trovare. Se non voleva essere disturbata, lo diceva, ma per il resto non c’erano limiti. Per la maggior parte del tempo ce ne stavamo nella sala da pranzo o nel salotto accanto. Amava i giochi di ogni genere, specialmente quelli con le carte e le fiches (ma in genere preferiva quelli più semplici rispetto al bridge). Chi desiderava giocare con lei era il benvenuto. Oppure mia nonna faceva un solitario, e noi facevamo lo stesso. Nel frattempo chiacchieravamo, scambiandoci esperienze quotidiane o raccontandoci cose che ci avevano colpito, incuriosito o divertito.


A volte mia nonna si rifugiava in una delle sue escursioni immaginarie attraverso l’universo o indietro nel tempo, nelle epoche in cui si era formata o evoluta la terra. In altre occasioni ci raccontava delle storie… Quando eravamo piccoli, ci raccontava persino le favole! Tuonava contro di esse nei suoi scritti, ma solo perché le persone a quel tempo credevano che i bambini fossero troppo piccoli, stupidi o immaturi per capire la realtà. Pensavano che i bambini vivessero in un mondo di fantasia e che gli adulti dovessero trovare degli strumenti per comunicare con loro. Il problema non stava nel raccontare delle storie, reali o immaginarie, ma ingannarli facendo credere loro ciò che non era vero. Era questo ciò che combatteva.


Una volta le chiesi (a quel tempo ero già uno psicologo): “Perché biasimi così tanto le favole? Ti criticano tutti. A che serve?”. Lei mi rispose: “Non c’è niente di più difficile che rimuovere o aiutare a rimuovere un pregiudizio una volta che si è radicato nella mente umana e ha attecchito in una comunità. Se vuoi portare alla luce una nuova verità, devi martellarlo nella mente, altrimenti verrà semplicemente ignorato. Così sarò pure criticata, ma almeno la gente presterà attenzione a cosa li ha colpiti”. Ad ogni modo, amava le buone storie di qualsiasi tipo e da bambini noi pendevamo dalle sue labbra. Ci diceva sempre se era una storia per finta oppure no. Amavamo tutte le storie che ci raccontava.


Le piaceva anche andare al cinema e ci portava con lei, come faceva con qualunque altra attività. Aspettava in un taxi fuori da scuola, insieme agli altri membri della famiglia che volevano venire con noi, fino a quando non uscivo; poi andavamo al cinema. Ho visto più film con lei che senza di lei, ma con lei riuscivamo a realizzare anche dei film tutti nostri. Non erano solamente delle “sciarade”, che erano popolari negli anni ’20 e con cui abbiamo annoiato i nostri parenti fino allo sfinimento. Ci divertivamo ed era questo ciò che lei vedeva e amava, perciò vi partecipava con grande piacere. E non erano nemmeno degli spettacoli teatrali veri e propri – quando eravamo ragazzini, io, mia sorella e un mio amico spagnolo recitavamo in italiano parti della Divina Commedia (con un pubblico che non capiva la lingua, ma che era interessato all’esibizione). Ciò era frutto degli accurati insegnamenti di mia nonna su quel capolavoro che decise di spiegarci durante un inverno trascorso a Barcellona. Lo faceva nel tempo libero, ogni volta che ne avevamo voglia. Analizzava con noi le strutture di quell’opera d’arte così geniale, a cui si attribuisce il merito di essere la base dell’italiano moderno. Ci insegnava i dettagli tecnici, formali e descrittivi racchiusi nella storia e cultura italiana, e noi ci divertivamo a memorizzare capitoli interi e ad apprendere come recitarli con la giusta intonazione ed espressione dei movimenti. Ecco perché la pronuncia del mio italiano ancora oggi è perfetta, anche se di rado ho usato la lingua dopo la Seconda Guerra Mondiale.


No, ciò che avevo in mente erano quei “giochi di ruolo” così popolari tra i bambini nel periodo di latenza: identificarsi con i ruoli sociali degli adulti giocando per esempio al padrone di casa che riceve gli ospiti. Quando iniziavamo a fare quel gioco, mia nonna si metteva in ordine, come se si preparasse per una “vera” visita (e venisse un adulto a trovarla) e diventava nostra ospite.


A questo proposito, mi viene in mente un episodio particolare. Mia nonna prendeva il sole seduta in giardino a Barcellona. Io e mia sorella maggiore (lei aveva circa 9 anni e io 7) volevamo giocare alla parrucchiera ed eravamo alla ricerca di un cliente. Quando vedemmo la nonna, pensammo che poteva essere una facile preda. E di certo lo era… con piacere.


Ci teneva al suo aspetto, ed era sempre ben curata e con i capelli pettinati in modo ordinato (con l’avanzare degli anni, spesso ero io a farlo, se mi capitava di trovarmi in sua compagnia e se lei aveva bisogno di aiuto). Quel giorno non fece eccezione. Mettemmo una salvietta attorno al suo collo, le sciogliemmo i capelli, glieli pettinammo per togliere tutti i nodi, prendemmo un secchio d’acqua, le matite colorate e gli elastici e ci mettemmo al lavoro. Prendevamo una ciocca di capelli, la pettinavamo, la bagnavamo, la attorcigliavamo con una delle matite, e la fissavamo con l’elastico. Ripetemmo i vari passaggi con il resto dei capelli. Infine, venne il momento di asciugarli.


Ci trovavamo però in un giardino infossato, e il sole era già sceso, perciò ci volle un bel po’ per asciugarli. Allora tutte le matite vennero rimosse e i capelli pettinati con cura (ovviamente aveva un’aria ridicola), dopodiché la lasciammo libera. Se ne andò, dopo aver pagato con dei soldi veri. Ci avevamo messo più di due ore per completare la faccenda. Io e mia sorella eravamo molto felici, soddisfatti e piacevolmente stanchi, che è poi quello che succede dopo avere svolto con successo un compito interessante. Ma il giorno successivo la nonna si prese il raffreddore. La famiglia la rimproverò dicendole: “Perché hai permesso ai bambini di bagnarti i capelli e lasciarti così a lungo all’ombra?”. Lei si mise a ridere (amava farlo ed era liberatorio guardarla mentre rideva) e rispose: “Perché si stavano divertendo ed erano così concentrati. Che importa se ora ho il raffreddore? Me la caverò”. Si era messa a ridere per via degli adulti che si preoccupavano troppo di sciocchezze come un raffreddore, ignorando quanto fosse stato importante quell’episodio nello sviluppo dei bambini che amava.


Ovviamente l’ho capito solo più avanti, ma quell’episodio è rimasto impresso nella mia memoria come un’esperienza molto positiva. Perciò aveva ragione.


Ha reso la mia vita interessante grazie a esperienze di questo tipo, a partire dalle visite che le facevo la mattina presto, che iniziarono da quando ne ho memoria fino ai sei anni circa. Mi intrufolavo nel letto con lei. Aveva sempre un biscotto o un dolce nel cassetto del comodino pronto per me, sapendo che l’avrei cercato. Ma più importante del dolce in sé era il fatto che si fosse ricordata di nasconderlo (e che non si fosse mai dimenticata, nemmeno una volta). Ricordo l’atmosfera di calore umano, rifugio e intima fiducia che mi portavano a farle piccole confidenze e altre cose che per me erano importanti. Mi sentivo amato e benvoluto, e in qualche modo rafforzato. Non rimanevo a lungo – soltanto quanto volevo, lei non mi tratteneva mai. Poi volevo giocare, far visita agli altri membri della famiglia, o quello che sia, ma quei momenti erano qualcosa di speciale che condividevo solo con lei.


Quando non c’era, mi scriveva. Almeno una volta alla settimana, ma spesso anche due o tre. Seguiva con interesse la mia vita, le mie imprese, seppur insignificanti, le mie gioie e i miei dolori. Sapeva come reagire al momento opportuno, così, in caso di bisogno, potevo contare sulla sua presenza e il suo sostegno. In quel modo non importava se c’era o meno, anche se ovviamente avrei preferito che ci fosse. Ero davvero emozionato quando si avvicinava una riunione di famiglia, quando veniva a trovarci o quando andavo io da lei durante le vacanze scolastiche – come poteva essere diversamente?


Oltre a questo aspetto così intimo, c’era anche quello entusiasmante: la vita sarebbe stata senz’altro più noiosa se non ci fosse stata lei. Vivere vicino a una persona famosa in tutto il mondo è un’esperienza unica, specialmente se si gode dei privilegi senza dover portare il fardello che accompagna la notorietà.


Quando avevo sei anni vivevo a Londra. Maria Montessori stava per essere presentata al re Giorgio V e alla regina Maria, un onore che tradizionalmente si svolgeva una volta l’anno e seguiva un protocollo preciso. Si dovevano ordinare degli abiti speciali, bisognava comprare una tiara con tre piume bianche e un velo, e imparare una speciale riverenza. Un insegnante veniva a casa ogni giorno per far esercitare mia nonna fino a che non riuscì a farla in maniera naturale, senza inciampare. Come sempre ci veniva concesso di assistere e ci divertivamo molto, perché anche noi imparavamo come fare l’inchino e tutti gli altri movimenti che accompagnavano il gesto. Nella grande occasione ci venne pure concesso di salire sull’auto che la portava a Buckingham Palace. Furono ordinati abiti speciali anche per noi: il mio era un vestito di velluto blu con un colletto di pizzo e bottoni di filigrana d’argento. Non ci fu permesso di uscire dall’auto, ma a noi non importava, perché fuori c’era una lunga coda. Le luci e gli abiti splendidi, i lacchè nelle loro curiose uniformi, l’atmosfera festosa e pomposa, l’impressionante palazzo – per noi bambini era più che sufficiente. Una fiaba che diventa realtà e che non scorderò mai!


Quando avevo nove o dieci anni si tenne un corso sul metodo Montessori a Roma. Tutti i partecipanti furono invitati a far visita a Mussolini a Palazzo Venezia (nella gigantesca stanza con il famoso balconcino da cui parlava al popolo). Mia nonna, con un piccolo gruppo di autorità, fu la prima. Io ero stato incaricato di porgere un bouquet di rose a Mussolini il quale, prendendolo, mi trattò in maniera gentile: tolse una rosa dal mazzo, tenendola poi in bocca e mi permise di stare al suo fianco (accarezzandomi ogni tanto la testa) mentre il gruppo più grande si avvicinava dal lato opposto di quell’immensa stanza semivuota. Dopo i vari discorsi, ce ne stavamo lì tutti in piedi e il gruppo uscì dalla stanza camminando all’indietro. Che impressione! Un’assurdità secondo i protocolli moderni, ma, per un bambino di quell’età, un’esperienza indimenticabile. Non ho mai avuto tendenze fasciste, e qualche anno dopo, quando Mussolini incominciò con la sua politica imperialistica e mia nonna venne considerata una persona non gradita, la nostra famiglia fu costretta a unirsi alle file di profughi.


Un’altra esperienza indimenticabile fu la partecipazione alla 5° Conferenza Generale dell’Unesco, tenutasi a Firenze nel 1950. Mia nonna era stata invitata come membro della delegazione italiana e io ero il suo segretario; per un mese fui coinvolto in tutte le sue attività, sociali o di altro genere. L’organizzazione a quel tempo aveva ancora uno spirito idealistico e non era così ben strutturata come lo è oggi, così che erano presenti molte persone illustri in tutti i principali settori operativi. In quanto giovane psicologo, assorbii tutto – un’essenza ricca, effervescente, fragrante ed energetica che proveniva da un enorme mescolanza di culture differenti, spinti verso l’ideale di un mondo unito e in pace che avrebbe rispettato i diritti dell’uomo e di conseguenza del bambino. Maria Montessori era l’ambasciatrice di quest’ultimo e in quanto tale veniva riverita e accolta dovunque appariva per via di quelle future speranze che concretizzò nella sua persona e nel suo lavoro.


Per di più, ci divertimmo molto insieme. Aveva uno spiccato senso dell’umorismo e riusciva sempre a trovare il lato divertente della situazione, anche della più seria o importante. Quando eravamo da soli parlava delle esperienze vissute durante il giorno, scegliendo i momenti più piacevoli, un’abitudine che mi ha rivelato la parte più umana e animata di tutta quella burocrazia.


È interessante sapere che la sua fama non ha mai alterato la sua personalità. Rimase se stessa, in tutte le situazioni che le toccò affrontare, tanto positive quanto negative. Perse tutto il denaro che aveva due volte, a causa di circostanze più grandi di lei; con lo scoppio della Guerra Civile spagnola venne allontanata dalla sua casa di Barcellona; quando si recò in India nel 1939 per tenere una serie di conferenze che erano state programmate per durare un semestre o al massimo nove mesi, le vennero imposte restrizioni alle libertà durante tutta la Seconda Guerra Mondiale. Molto spesso gli istituti che fondò vennero distrutti dai tumulti politici dell’Europa.


Ma lei rimase la stessa, energica e lucida fino all’ultimo minuto della sua vita, sostenuta dal coraggio delle sue convinzioni, lottando per la causa del bambino, dei diritti dell’uomo (e della donna!) e a favore della pace. Per me, rimase fino all’ultimo la mia cara nonna e la mia migliore amica.

L'educazione come aiuto alla vita
L'educazione come aiuto alla vita
Mario M. Montessori Jr.
Comprendere Maria Montessori.Un affascinante sguardo sulla personalità di Maria Montessori, sulla sua filosofia educativa e sul ruolo dell’educazione nella formazione della personalità. L’educazione come aiuto alla vita offre un affascinante sguardo sulla personalità di Maria Montessori e sulla sua filosofia educativa relativa alle tematiche della crescita e dello sviluppo del bambino.  Un’opera indispensabile per chiunque desideri comprendere appieno la visione che la pedagogista aveva del bambino e la portata delle sue idee in un mondo in continua trasformazione. Mario M. Montessori Jr. esamina le idee di Maria Montessori sul lavoro a scuola e, allo stesso tempo, espone il significato profondo e il corretto uso dei materiali di sviluppo; espone le idee sul ruolo dell’educazione nella formazione della personalità e la relazione degli uomini con il cosmo. Di particolare rilievanza, infine, è l’accostamento del metodo Montessori con la psicanalisi e, più in generale, con la psicologia moderna. Forse il risultato più straordinario del suo approccio [di Maria Montessori] è stata l’intensità con cui i bambini partecipavano alle attività. Veniva coinvolta tutta la loro personalità, ed era evidente che provavano quel genere di piacere e soddisfazione che si prova solo quando vengono appagati i bisogni primari. L’obiettivo delle attività non poteva trovarsi nel mondo esterno, ma nei bambini stessi. Stavano formando la loro personalità, costruendo gli uomini e le donne che un giorno sarebbero diventati…Mario M. Montessori Jr. Conosci l’autore Mario M. Montessori Jr., figlio di Mario M. Montessori Sr., è uno dei quattro nipoti di Maria Montessori.Psicoanalista, visse in Olanda e ricoprì la carica di Vicepresidente dell’Associazione Psicoanalitica Internazionale. Fin dalla nascita assorbì le idee educative di sua nonna, fungendo spesso lui stesso da oggetto delle sue osservazioni.Una volta laureato in Psicologia, lavorò non solo con gli adulti, ma anche con i bambini e gli adolescenti; queste esperienze lo convinsero che la filosofia sull’educazione alla pace propugnata da sua nonna avrebbe potuto contribuire in maniera significativa alla costruzione di un mondo più pacifico, in cui l’uomo avrebbe vissuto in armonia con il suo ambiente.