capitolo5

Mente e tecnologia,
mente e Montessori

Il cervello non ha fatto in tempo a evolvere per adattarsi ai ritmi e alle esigenze del mondo tecnologico. Se teniamo presente che il primo personal computer prodotto su scala industriale – l’Apple II – è del 1977, il primo sito web viene creato nel 1991, mentre il primo iPhone viene presentato a metà 2007, è evidente che in questo lasso di tempo si evolvono solo i batteri40. Andando indietro nel tempo, non possiamo negare che anche l’invenzione della scrittura in Mesopotamia sia recente, poiché risale a poco più di cinquemila anni fa. Per imparare a leggere, come per usare uno strumento tecnologico, il cervello umano non ha evoluto nuovi circuiti, non ne ha avuto il tempo, ma ha dovuto e ancora oggi ogni volta deve – daccapo – creare sofisticati collegamenti tra strutture neuronali in origine preposte ad altri più basilari processi, come la vista e la comprensione della lingua parlata.


Come per la lettura, è indubbio che qualche tipo di mutamento, qualche cambiamento nelle connessioni neurali sia avvenuto nel cervello dei nativi digitali. Non possiamo negare, infatti, che la società digitale abbia modificato le loro capacità cognitive verso forme d’intelligenza utilitaristica, più veloce e rapida anche se meno concentrata e analitica. In un certo senso stanno “modificandosi” verso un’intelligenza fluida41 che meglio si adatta al mondo digitale; un’intelligenza capace di trovare un significato nella confusione delle informazioni che li bombardano.


Non è evoluzione certo, però è altrettanto vero che con l’esercizio il cervello cambia, come si vede chiaramente in quello di chi sta imparando a suonare uno strumento musicale. Per esempio, man mano che un pianista si esercita, le aree della corteccia cerebrale predisposte al controllo delle dita si ingrandiscono e la materia bianca si ispessisce42. È pure ovvio che il cervello umano venga modificato alla stessa maniera dall’uso di smartphone e tablet, in particolare dal rapido e frequente movimento delle dita sullo schermo43. Dacché è lo stesso tipo di modifica del cervello dovuta all’esercizio, non lo definirei un effetto legato alla tecnologia.


Un altro segno di questo cambiamento del cervello è l’effetto Flynn, l’aumento del quoziente intellettivo (QI) medio della popolazione, osservato da James Flynn nel corso degli anni, con una crescita attorno ai tre punti per ogni decennio44. L’effetto deriva molto probabilmente da una maggiore capacità di risolvere problemi logici e astratti, frequenti nell’ambiente sociale e culturale odierno. Oppure potrebbe derivare da come è via via cambiato il modo di concepire l’educazione delle nuove generazioni cui si cerca d’insegnare a “pensare con la propria testa”. Non è strano quindi che cambiamenti sociali di tale portata abbiano dato luogo a un aumento generalizzato del QI.


Dal 1990 l’effetto si sta, però, invertendo, come ha scoperto uno studio del 200845. Che cosa è accaduto? Potrebbe essere cambiato lo schema relazionale delle famiglie che, anche se i genitori desiderano per i figli un’istruzione eccellente, in media dedicano molto meno tempo per la loro educazione a casa, tempo che i piccoli passano davanti al televisore o con videogiochi che forse non insegnano a pensare. Un’ipotesi in accordo con i risultati di uno studio più recente che parte invece dai dati sulla creatività, dove si dimostra che, almeno negli Stati Uniti, le capacità creative sono cresciute fino al 1990 e poi hanno iniziato a declinare46.


Viste le ripercussioni delle tecnologie sulla mente umana, è facile per i media sparare titoli a effetto, come “La demenza digitale”47 o “Google ci sta rendendo stupidi?”48 oppure dire tutto e il contrario di tutto sulle conseguenze o sui benefici della tecnologia a scuola, mentre si ignorano le ricerche scientifiche più serie. La realtà è che gli scienziati non sanno bene quali siano gli effetti a lungo termine delle tecnologie sullo sviluppo cognitivo e socio-emotivo e sulla costruzione della propria identità. Problema complicato dal fatto che la “tecnologia” non è un’entità unica e quindi è difficile pensare che abbia un unico effetto. Consoliamoci. Non solo gli scienziati, anche i pedagogisti spesso non hanno chiara l’efficacia futura del software educativo e didattico che propongono e finiscono per offrire prove a sostegno solamente aneddotiche49.

Ora torniamo a Montessori. Alla Dottoressa non piaceva che la sua proposta fosse chiamata “metodo”, vale a dire un insieme organico di regole per svolgere un’attività. Per questo, nell’analizzare il rapporto tra il progetto educativo montessoriano e la tecnologia, è importante che ci focalizziamo sul perché nel Montessori si fanno certe cose e si fanno in una certa maniera. Harrington Emerson50 era convinto dell’importanza di un tale approccio:

Per quanto riguarda i metodi ce ne possono essere un milione e passa, ma i princìpi sono pochi. L’uomo che coglie i princìpi può scegliere con successo i suoi metodi. L’uomo che si fissa sui metodi, ignorando i princìpi, avrà sicuramente problemi.

 Se partiamo, quindi, dall’analizzare alcuni aspetti del funzionamento della mente e di come le idee di Maria Montessori siano in perfetta sintonia con tali meccanismi, non avremo problemi e acquisteremo una comprensione più profonda e solida del perché materiali “a bassa tecnologia” come quelli che troviamo in una scuola Montessori generino effetti duraturi sullo sviluppo della mente del bambino, molto più che l’ultimo gadget elettronico.

5.1 I tempi del cervello

Oggi, contrariamente al passato, si sa che il cervello umano alla nascita non è ancora del tutto sviluppato. Durante la gestazione la natura fornisce al cervello del neonato la maggioranza delle cellule di cui ha bisogno, neuroni e cellule gliali, ma è nel corso del primo anno di vita che si ha uno sviluppo cerebrale notevole. Sviluppo che avviene tramite due processi principali: 1) la mielinizzazione, vale a dire la crescita di una guaina isolante – la materia bianca – attorno ai collegamenti neuronali che ne incrementa la velocità di trasmissione; 2) la sinaptogenesi, che è la formazione di connessioni tra neuroni mediate dalle sinapsi.


La mielinizzazione si completa solo all’inizio dell’età adulta, verso i diciannove anni, ben oltre il periodo coperto dal nostro studio. È comunque interessante sapere che l’ultima area a completare la mielinizzazione è la corteccia prefrontale, fondamentale per l’inibizione di alcuni comportamenti e la scelta di altri necessari per raggiungere specifici obiettivi, mentre le aree che gestiscono le emozioni e quelle che supervisionano il circuito della ricompensa e della dipendenza sono già state ultimate da tempo. Uno sfasamento temporale che spiega molti degli atteggiamenti dell’adolescente. Per lo studio degli effetti della tecnologia è però più importante l’altro processo di maturazione del cervello, la creazione delle sinapsi.


Nei primati la nascita avviene a metà di una fase particolarmente intensa di sinaptogenesi, durante la quale si forma quasi il novanta per cento delle sinapsi, al ritmo di circa quarantamila al secondo. La durata della fase rapida di sinaptogenesi non è uniforme in tutte le aree cerebrali, ma è più breve in quelle sensoriali e molto più lunga in quelle implicate in funzioni cognitive complesse, quali la corteccia prefrontale. In seguito, il ritmo rallenta fino alla pubertà e poi si stabilizza sui valori molto più bassi tipici del cervello adulto.


Più tardi, in un momento specifico per ogni area corticale, inizia il processo di pruning sinaptico, lo sfoltimento delle sinapsi scarsamente utilizzate. Questo meccanismo porta alla ridefinizione dei circuiti cerebrali che acquistano così maggiore efficienza funzionale. In altre parole, rimangono, si strutturano e si rafforzano le connessioni realmente utilizzate in esperienze vissute o anche solo immaginate, mentre le altre vengono eliminate oppure sostituite.


Dall’analisi dei meccanismi fisiologici della sinaptogenesi e del pruning sinaptico, derivano tre conseguenze molto interessanti cui era già pervenuta Maria Montessori anche senza possedere le nostre conoscenze neuroscientifiche.


La prima è che i materiali di sviluppo favoriscono la sinaptogenesi in aree con funzioni molto diverse del cervello. La manipolazione dei materiali multi-sensoriali favorisce la costruzione di connessioni neurali tra i vari lobi del cervelletto che è coinvolto nell’apprendimento, nel controllo motorio, nel linguaggio, nell’attenzione e, forse, in alcune funzioni emotive; mentre l’utilizzo di materiali che si basano sull’autocorrezione, sulla scoperta e sull’apprendimento attivo stimola le connessioni nella corteccia prefrontale che è implicata invece nella pianificazione dei comportamenti cognitivi complessi, nell’espressione della personalità, nella presa delle decisioni e nella moderazione della condotta sociale.


La seconda è l’esistenza di periodi sensibili – Montessori li chiamava periodi sensitivi – per lo sviluppo di determinate funzioni cerebrali, come il linguaggio o il movimento. Questi periodi derivano appunto dal diverso ritmo di sviluppo delle varie aree della corteccia cerebrale e dal diverso momento in cui avvengono il picco di sinaptogenesi e l’inizio del processo di pruning per quell’area. In questi periodi le esperienze concrete si traducono in modificazioni irreversibili dei circuiti e delle funzioni di quelle aree. I periodi sensibili nell’uomo si hanno fino a sei anni d’età; dopo di che il recupero delle corrispondenti funzionalità non è più possibile, tant’è che Montessori parla di “un treno che passa a quell’ora” e ci invita a non sprecare questi periodi speciali. Noi possiamo aggiungere: non sprecarli inseguendo miraggi tecnologici troppo precoci.

La terza conseguenza riguarda l’importanza dell’ambiente per lo sviluppo cerebrale. I famosi esperimenti sui ratti di Marian Diamond, neurologa e psichiatra statunitense, iniziati negli anni sessanta e conclusi nel 1987, confermarono ciò che i neuropsichiatri avevano sempre supposto, cioè che gli ambienti e i contesti, favorevoli o sfavorevoli al vivere, determinassero anche la struttura cerebrale e fossero essenziali per lo sviluppo del cervello infantile, mentre la stimolazione dell’attività cerebrale ne migliorava sì il tono generale, ma con effetti contingenti51. Un po’ come dire che l’insalata cresce se la innaffiamo, ma non cresce più in fretta se la tiriamo per le foglie, anzi, così si finisce per strapparne le radici.


Per quanto riguarda le tecnologie, il percorso di maturazione del cervello vincola fortemente la loro introduzione. Primo, non essendoci un ipotetico “periodo sensibile del tablet”, l’uso della tecnologia è ininfluente sullo sviluppo del cervello nei bambini sotto i sei anni52. Secondo, le esperienze che il cervello non è pronto ad accogliere, perché non si riferiscono al periodo sensibile in corso, interferiscono con processi che sono invece critici per lo sviluppo cerebrale. Terzo, strumenti tecnologici che catturano completamente l’attenzione del bambino impedendogli di osservare il mondo circostante, gli tolgono una fonte importante di esperienze sull’ambiente. Quarto, gli stimoli che tante mamme si premurano di fornire al bambino non hanno effetti duraturi, come ha invece un ambiente familiare e scolastico adeguato alla sua fase di sviluppo.

5.2 Il movimento

L’aspetto che analizzeremo ora è anche il più ovvio nella scuola Montessori: il movimento. La Dottoressa affermava, infatti:

Quando si vigili un bambino, risulta evidente che lo sviluppo della sua mente avviene con l’uso del movimento53.

Prima di accettare questa lapidaria affermazione, basata come sempre sull’osservazione, ci sono voluti molti studi che hanno rivalutato la funzione e l’importanza delle aree motorie nella fisiologia del cervello. Studi che hanno dimostrato come “lo stesso rigido confine tra processi percettivi, cognitivi e motori finisce per rivelarsi in gran parte artificioso: non solo la percezione appare immersa nella dinamica dell’azione, risultando più articolata e composita di come in passato è stata pensata, ma il cervello che agisce è anche e innanzitutto un cervello che comprende54, come osserva Giacomo Rizzolatti, che col suo team ha scoperto i neuroni specchio. Assieme a lui molti scienziati hanno collegato lo sviluppo cerebrale a quello motorio: Adele Diamond55 per cui 

lo sviluppo motorio e lo sviluppo cognitivo possono essere fondamentalmente interconnessi,

Cotterill56 che dimostra come “la cognizione è inestricabilmente collegata al movimento, sia in forma visibile che nascosta”, Koziol e Budding57 per i quali “la cognizione è realmente solo un’estensione del sistema motorio”. Forse, più di tutti questi studiosi, ci fa capire la subordinazione delle funzioni cerebrali cosiddette superiori al movimento il caso emblematico dell’ascidia citato da Berthoz58. Quest’organismo marino filtratore crea il cervello, un occhio e l’apparato vestibolare solo quando deve muoversi per trovare dove ancorarsi per il resto della sua vita. Poi se li mangia.

La Dottoressa ha anticipato e sintetizzato le conclusioni di tutti questi esperti:

Il movimento va considerato da un nuovo punto di vista. A causa di errori e malintesi lo si è considerato sempre come qualcosa di meno nobile di quello che è: specialmente il movimento del bambino che è stato tristemente negletto nel campo educativo dove tutta l’importanza viene data all’apprendimento intellettuale. Soltanto l’educazione fisica ha preso in considerazione il movimento, ma senza riconoscerlo connesso all’intelligenza59.

Non stiamo, quindi, parlando di “esercizio”, “educazione motoria” o “gioco” perché nel metodo Montessori il movimento ha sì carattere autonomo, ma non è mai fine a se stesso, perché sviluppa la mente, oltre al corpo, grazie ad attività finalizzate che impegnano l’intera persona in un lavoro costruttivo.


Come insegnante mi devo quindi domandare: la tecnologia che voglio introdurre a scuola si basa e aiuta il movimento? Perché se non lo fa, toglie ai bambini il mezzo di crescita cognitiva più importante. Iniziamo pertanto ad analizzare come i bambini usano le mani, attraverso cui realizzano quel movimento essenziale per costruire le funzioni cognitive di più alto livello. Per fare un esempio concreto, usare un tablet in aula inibisce il movimento, mentre usarlo come supporto durante un’attività nel bosco è in subordine a questo e può esserne un utile complemento.

5.3 Le mani

Per Montessori l’intelligenza parte dall’agire, dall’operare e, in definitiva, dalla mano:

La mano è quell’organo fine e complicato nella sua struttura che permette all’intelligenza non solo di manifestarsi, ma di entrare in rapporti speciali coll’ambiente: l’uomo, si può dire, “prende possesso dell’ambiente con la sua mano” e lo trasforma sulla guida dell’intelligenza, compiendo così la sua missione nel gran quadro dell’universo.

Maria Montessori, Il segreto dell’infanzia, p. 108

Noi prendiamo possesso dell’ambiente con la mano e, in contemporanea, apprendiamo e sviluppiamo la nostra intelligenza per mezzo di esperienze concrete. Quando le viviamo, anche senza esserne consapevoli, ipotizziamo un certo effetto per una nostra azione, la eseguiamo e ne otteniamo un segnale di ritorno (feedback) che ci segnala se le nostre ipotesi erano corrette. Se non lo fossero, modifichiamo l’azione, osserviamo il feedback generato e ripetiamo il ciclo fino ad aver appreso il corretto modo di agire. Guardiamo, per esempio, un bambino che impara a bere dal bicchiere. All’inizio non gli arriverà niente in bocca perché con le mani lo inclina troppo poco, poi si bagnerà tutto perché lo inclina troppo, ma alla fine troverà l’inclinazione corretta. Il feedback, soprattutto quello tattile attraverso le mani, è perciò fondamentale per l’apprendimento e dunque per la crescita. Possiamo di conseguenza affermare che noi letteralmente impariamo con le mani60.


Non solo impariamo, “potremmo dire che quando l’uomo pensa, egli pensa ed agisce con le mani61. Susan Goldin-Meadow62, che studia la convergenza tra gesti, segni, pensieri e parole, ha scoperto che il gesticolare mentre si parla, anche se nessuno ci può vedere, facilita il pensiero e riflette ragionamenti non espressi a voce63. Non solo, ha dimostrato che chi gesticola apprende meglio64, soprattutto la matematica e comprende meglio un testo scritto65. Risultati corroborati dalla piacevole scoperta, per noi adulti, che si ricorda quasi il trenta per cento in più se, mentre si ascolta, si scarabocchia su un vero foglio di carta66.


Usare le mani per facilitare il pensiero può essere considerato parte di un concetto più ampio: il pensare attraverso il fare. A tal proposito Montessori ricordava che

l’educazione […] non si acquisisce ascoltando delle parole, ma per virtù di esperienze effettuate nell’ambiente67

e, sulla stessa linea, le idee costruttiviste affermano che “la conoscenza è costruita nella mente del discente68; in altri termini la conoscenza non si può trasferire, ma ognuno la deve costruire nella propria mente. Così è in una scuola Montessori, dove l’insegnante non insegna, non travasa conoscenze nelle menti degli alunni, ma è una guida che crea occasioni per acquisire esperienza. Anche nell’uso della tecnologia funziona così, i ragazzini provano e riprovano, si scambiano esperienze e condividono i successi, mica leggono le istruzioni! Marc Prensky considera questo un effetto molto positivo della tecnologia perché riscontra nei nativi digitali una “saggezza o intelligenza digitale” che nasce dal learning by doing, dall’apprendere facendo e non, aggiungo io, dalla tecnologia in se stessa.

Che cosa ne deduciamo per il nostro studio? Ne deduciamo che l’intuizione di Maria Montessori riguardo all’importanza dell’agire con le mani ha un solido fondamento scientifico e che qualsiasi tecnologia che lo limiti non aiuta lo sviluppo del sistema cognitivo del bambino. Mi si può obiettare che si interagisce con i tablet usando le dita delle mani ma, come vedremo parlando di scrittura, non è la stessa cosa. Anche digitando su una tastiera tradizionale, le aree cerebrali attivate non sono le stesse che si accendono scrivendo con la penna.


L’uso delle mani ha invece profonde implicazioni sul modo d’interagire con le tecnologie, perché abbiamo bisogno di manipolare oggetti reali per imparare a manipolare rappresentazioni mentali astratte, dacché maneggiamo queste ultime come se fossero oggetti fisici, un comportamento dimostrato dal famoso esperimento di Shepard e Metzler69. La manipolazione di rappresentazioni mentali è fondamentale sia per montare un mobile dell’IKEA, sia per studiare una molecola muovendosi attorno alla sua rappresentazione grafica in un programma di visualizzazione chimica. In entrambi i casi, la destrezza si acquisisce da piccoli maneggiando oggetti fisici come, per esempio, il materiale Montessori degli incastri geografici o quelli di legno, di metallo o geometrici.

Per giungere a questo risultato, il processo è diverso da quello comune: non è fissare il pensiero sopra un’idea: è rimaneggiare un oggetto, e perciò trattenerlo innanzi ai sensi, – farlo muovere con spostamenti continui, riprodurlo con immagini sensibili (disegni, pitture, lavori di carta, ecc.).

Maria Montessori, Psicogeometria, p. 50

Guarda caso uno studio lega le abilità matematiche a quelle spaziali70, in concreto all’abilità nel copiare e ricostruire strutture di mattoncini LEGO71. Come mai quest’influenza? Perché anche un compito semplice come questo implica la capacità di manipolare strutture nella mente e la matematica è, per usare una definizione moderna, la “scienza degli schemi e delle configurazioni”. Non solo, le aree cerebrali che comandano i movimenti fini delle mani sono molto vicine a quelle che ci fanno percepire le forme geometriche e le quantità approssimate, mentre l’area simbolico-linguistica, tradizionalmente coinvolta nella comprensione della matematica, è molto distante. È dunque necessario allenare il cervello a usare contemporaneamente quest’area e quella preposta al riconoscimento delle forme quando si ha a che fare con concetti matematici72.

Una volta che avremo acquisito la destrezza necessaria alla manipolazione di oggetti fisici con le mani, riusciremo a ruotare agevolmente gli oggetti astratti dietro il vetro dello schermo e a manipolare con facilità modelli complessi nella nostra mente, come ci richiedono le tecnologie informatiche. Non ci vuole molta fantasia a convincersi che queste capacità sono fondamentali per lavorare, come me, nel supercalcolo. Io e i miei colleghi, prima ancora di scrivere un programma per il supercalcolatore, dobbiamo immaginare le strutture dati in memoria su cui questo dovrà operare e dobbiamo capire come potrà farlo manipolando la rappresentazione di tali strutture nella mente. Quando poi uno di questi programmi viene eseguito sui supercalcolatori del CSCS, produce numeri in quantità, che analizziamo tramite strumenti di visualizzazione delle informazioni, strumenti che ci permettono di esplorare, manipolandole, rappresentazioni grafiche dei risultati ottenuti. Il poterlo fare usando le mani, anche se in maniera mediata e virtuale, ci serve per comprendere il fenomeno fisico che abbiamo simulato, che è il fine ultimo di tutto il supercalcolo.

Montessori inizia nel Metodo della pedagogia scientifica a parlare di un senso muscolare che permette di rendersi conto della posizione delle varie membra del corpo e postula l’esistenza di una “memoria muscolare”:

Io, quando provocavo sui deficienti i movimenti della scrittura facendo toccare col dito le lettere dei cartelloni, esercitavo meccanicamente le vie psicomotrici e fissavo la memoria muscolare di ciascuna lettera73.

Uno studio molto recente74 conferma questa intuizione, anche se è limitato al disegno:

Abbiamo confrontato il disegnare con un certo numero di altre strategie di codifica, ma il disegno ne è uscito sempre vincente. I partecipanti hanno ricordato spesso più del doppio quando hanno disegnato rispetto a quando hanno usato parole scritte.

I ricercatori suggeriscono che questo potrebbe essere causato da come il disegno costringa il cervello a integrare diversi tipi d’informazioni, tra cui la sensazione fisica di spostare la mano, la definizione della parola che si sta disegnando, così come l’immagine mentale dello schizzo su cui si sta lavorando. Questa scoperta spiega anche perché le mappe mentali siano così efficaci per pensare e per sintetizzare un testo. Lo sono perché scrivere a mano aiuta potentemente l’apprendimento e la memoria muscolare collabora alla ritenzione dei concetti e delle relazioni che disegniamo sulla mappa.


Non da ultimo, ricerche in campo informatico mi hanno convinto una volta di più che l’intuizione di Montessori riguardo alla manipolazione di oggetti reali fosse in anticipo sui tempi. Mi riferisco alle ricerche sull’interazione uomo-macchina, dove si studiano tra l’altro le cosiddette interfacce tangibili, quelle in cui, per interagire con il computer, si spostano degli oggetti fisici invece di muovere indirettamente delle rappresentazioni astratte nascoste dietro a uno schermo:

Se ci pensate, sembra molto logico che l’uso di oggetti fisici possa favorire un utilizzo più semplice di un’interfaccia. Le nostre mani e la nostra mente sono ottimizzate per pensare e interagire con oggetti tangibili. Pensate a cosa trovate più facile da usare: una tastiera fisica o una tastiera virtuale come quella dei cellulari?

James Patten, TED 201375

Esempi molto recenti di questa tendenza sono il già citato Project Bloks, che mira a creare una serie di oggetti fisici, dotati d’intelligenza e collegabili fra loro, che possano diventare la base per l’insegnamento della programmazione ai bambini e Block Magic76, che aggiunge sensori ai classici blocchi da costruzione per integrarli con un computer. Come controprova, un’interfaccia indubbiamente avanzata come Leap Motion77, in cui si fanno dei gesti nell’aria per manipolare oggetti sullo schermo, ha deluso molti utilizzatori che l’hanno trovata divertente, ma non naturale, perché non controllavano nulla di solido con le mani78.

Una sentenza inappellabile sulle tecnologie touch viene da Bret Victor, progettista di interfacce innovative e studioso del futuro della tecnologia, che le definisce “Immagini Sotto Vetro” che offrono 

un paradigma di interazione da intorpidimento permanente. Si tratta di una flebo di novocaina al polso. Esso nega alle nostre mani quello che sanno fare meglio. Che cosa si può fare con queste «Immagini Sotto Vetro»? È possibile farle scorrere. Questo è il gesto fondamentale in tale tecnologia. Scorrere un dito lungo una superficie piatta. Non c’è quasi nulla nel mondo naturale che manipoliamo in questo modo.

Bret continua citando il neuroscienziato Matti Bergström:

La densità di terminazioni nervose sulla punta delle dita è enorme. La loro capacità di discriminazione è quasi buona quanto quella dei nostri occhi. Se non usiamo le dita, se durante l’infanzia e la gioventù si diventa ciechi-sulle-dita (finger-blind), questa ricca rete di nervi si impoverisce, il che rappresenta una perdita enorme per il cervello e ostacola lo sviluppo a tutto tondo dell’individuo. Tale danno può essere paragonato alla cecità vera e propria. Forse peggio, perché un cieco potrebbe semplicemente non essere in grado di trovare questo o quell’oggetto, mentre il cieco-sulle-dita non può capire il suo significato e valore intrinseco79.

Ancora una volta la scienza riecheggia quanto ha sempre sostenuto Maria Montessori.

5.4 La voce delle cose

Su cosa agiscono le mani? Le mani hanno bisogno di oggetti fisici da manipolare e in una scuola Montessori non mancano i materiali per farlo. L’impegno dei bambini nell’utilizzo dei materiali li porta, fissando l’attenzione sugli oggetti, toccandoli, lavorando con essi, ad apprendere e, soprattutto, a sviluppare la loro mente. Sappiamo che questa “educazione periferica” non si rivolge direttamente all’intelletto del bambino, ma vi arriva indirettamente attraverso i sensi. Come conseguenza, i materiali sensoriali rendono possibile sostituire la manipolazione di oggetti concreti e il movimento fisico alle astrazioni, perché

i bambini non possono concentrare l’attenzione sulle parole, mentre è loro molto facile concentrarla su un oggetto. […] Il problema dell’insegnamento non consiste nell’avere un bravo maestro capace di illustrare oggetti che non si vedono, o nel possedere buoni libri di testo, ma nel disporre di un ambiente di vita, in cui siano gli oggetti che rappresentino concretamente le cose da apprendere80.

Queste particolari caratteristiche dei materiali Montessori catturano l’interesse del bambino e lo spingono all’azione. 

Così i motivi per l’attività razionale che tende a raggiungere uno scopo determinato, non solo circondano tutto intorno il bambino; ma ne nasce quasi una voce delle cose invitanti la sua attenzione.

Più avanti continua: 

Voci che chiamano a sé l’attenzione del bambino e lo stimolano ad agire. E l’azione compiuta in accordo con l’invito delle cose dà al bambino quella gaia soddisfazione, quel risveglio di energia che lo predispongono ai lavori più difficili dello sviluppo intellettuale81.

La “voce delle cose” non è però una voce che parla all’intelletto. È una voce che parla di una comprensione pragmatica degli oggetti che non può essere acquisita se non attraverso l’azione. Per questo motivo non importa tanto il risultato raggiunto in un’attività quanto l’azione e l’attività stessa. Non il “fare qualcosa” ma il semplice “fare” che il bambino porta a livelli insospettati come mezzo di sviluppo interiore.

Lo psicologo statunitense James Gibson arriva a una definizione molto simile di questa “voce delle cose” anche se la chiama con un altro nome: affordance82. Questo termine identifica la qualità fisica di un oggetto che suggerisce a un essere umano le azioni appropriate per manipolarlo. Insomma, le affordance sono una sorta di “invito ad agire”. Un invito che ha una base neuronale, perché vedere un oggetto evoca automaticamente che cosa potremmo fare con esso attraverso l’attivazione dei cosiddetti neuroni canonici, che rispondono alla semplice osservazione di un oggetto indipendentemente che ci sia o no l’intenzione di agire, per esempio per afferrarlo. L’esempio più eloquente è dato dalla brocca che è ovvio si debba afferrare dal manico senza bisogno di consultare un manuale.
In una scuola Montessori la “voce delle cose” potrebbe quindi essere identificata con l’insieme delle affordance fornite dai materiali di sviluppo. Una voce la cui efficacia si misura col significato che questi acquistano per il bambino. Per lui capire come interagire con un oggetto o con un materiale di sviluppo, significa conoscerlo, significa capirlo senza tante spiegazioni a parole. Prendiamo per esempio gli incastri solidi. Le affordance che offrono sono i pomelli e gli incavi in cui inserire i cilindretti e non ci sono altre affordance che possano distrarre. Il prendere i cilindretti non dal pomello, ma circondandoli con la mano viene eliminata come modalità di afferramento appena il bambino si rende conto che così non riesce a infilare il cilindretto nella fessura.

Invece c’è poco da dire, il tablet come oggetto non parla. Don Norman, designer ed esperto di interazione uomo-macchina, si lamenta, appunto, che 

oggi facciamo gran parte del nostro design sugli schermi dei computer, dove la gamma di azioni possibili è limitata a digitare su una tastiera, puntare con un mouse e cliccare su mouse e tastiera. Presto si aggiungeranno comandi verbali e gesti visivi alla lista delle interazioni. Tutte queste azioni sono astratte e arbitrarie rispetto alla reale manipolazione fisica degli oggetti, che è dove si trova il potere delle affordance reali e percepite83.

In altre parole, molti dei modi con cui interagiamo con la tecnologia informatica non sono affordance, sono convenzioni apprese. Il tablet o lo schermo del computer non ci invitano ad agire, semmai ci invitano a considerare una delle convenzioni, come per esempio il cursore che cambia forma quando si è su qualcosa che si può cliccare o l’icona della lente d’ingrandimento che ci suggerisce di cercare. Pensate invece al vecchio telefono. La sua cornetta era un chiarissimo invito a sollevarla. Rispondere a una chiamata sullo smartphone, specialmente le prime volte, non è comparabile in quanto a immediatezza: appaiono dei cerchi rossi e verdi e bisogna ricordarsi se per rispondere sono da premere o trascinare.


Attraverso l’uso dei materiali, i bambini creano occasioni per imitarsi l’un l’altro. Gli oggetti forniscono un contesto alle loro azioni specificandone più chiaramente lo scopo e facilitandone così l’imitazione84. Imitazione che non è frenata da barriere culturali o dovute all’età, perché capire e usare i materiali non richiede una comprensione solo intellettuale, mentre le astrazioni vivono nella mente e come tali non si possono imitare. Questo è un motivo in più per cui i materiali sensoriali sostituiscono i concetti astratti con il movimento e l’azione. Per esempio, c’è un materiale che trasforma il concetto di numero, inteso come qualcosa composto da unità legate, nel vero e proprio legare con un nastro delle asticine – chiamate fuselli – che rappresentano le unità per formare il numero stesso. Usando un materiale del genere, il movimento fisico può essere rispecchiato e imitato, mentre l’astrazione, soprattutto quella mediata dalla tecnologia, no.

5.5 La scrittura manuale

In un mondo popolato da tastiere e interfacce touch, ha ancora senso parlare di scrittura a mano? Sì e per una lunga lista di motivi.


Il primo motivo, secondo una ricerca condotta da neurofisiologi norvegesi e francesi85, è che la scrittura a mano attiva molte più aree cerebrali rispetto alla digitazione su tastiera, perché gli occhi e la mano partecipano al processo di creazione della lettera, cosa che invece non accade quando si preme semplicemente un tasto. È sorprendente scoprire che nel semplice comporre una lettera sul foglio si attivano aree che a un primo sguardo non c’entrano nulla con la scrittura. Uno studio di Karin James dell’Università dell’Indiana a Bloomington, mostra appunto come nei bambini di cinque anni si attivino i circuiti cerebrali dedicati alla lettura quando provano a scrivere lettere a mano, ma non quando premono i corrispondenti tasti su una tastiera86. Sorprendentemente lo studio ha scoperto che avviene anche il contrario: quando una persona legge una scritta in corsivo, il cervello si comporta come se stesse scrivendo.


Il secondo motivo per preferire la scrittura manuale a quella su tastiera è che migliora l’identificazione di singole lettere87 e la memorizzazione di parole intere88 poiché le fini attività motorie che la compongono contribuiscono al riconoscimento delle lettere stesse e di conseguenza delle parole. Lo stesso risultato si ottiene scrivendo sul tablet con uno stilo, ma non quando si scrive sullo schermo usando le dita89. Questo effetto si spiega considerando che le strutture cerebrali coinvolte nell’esecuzione dell’attività grafica vengono utilizzate anche nell’analisi del segno grafico. È chiara quindi la necessità di allenare la motricità fine della mano prima d’insegnare a scrivere, come avviene in una scuola Montessori. Anche Vygotskij è dello stesso parere:

Per il bambino la difficoltà dello scrivere non sta nel riconoscimento delle lettere, ma nell’insufficiente sviluppo della piccola muscolatura della mano90.

I benefici della scrittura a mano non sono solo a livello neurale, perché scrivere così aiuta a sviluppare capacità in apparenza slegate tra loro. Lo ha mostrato un progetto sperimentale che ha coinvolto per quattro mesi quasi quattrocento studenti di due scuole elementari della periferia romana che dovevano scrivere ogni giorno una frase di alcune righe in corsivo91. Il risultato è stato un netto miglioramento dell’uso della sintassi, dell’ortografia e dei contenuti della scrittura in sé.


Tali miglioramenti non sono l’unico motivo per preferire la scrittura manuale. Una scrittura più lenta è, infatti, una forma di allenamento non solo alla motricità fine ma anche alla pazienza, perché stimola la concentrazione e l’autocontrollo motorio ed emotivo e di conseguenza permette una più accurata elaborazione del pensiero che si intende esprimere. Se vogliamo incrementare le capacità di riflessione e di approfondimento dei nostri futuri adulti, dobbiamo concedere al cervello infantile i tempi necessari per abituarsi a funzionare così92. In fin dei conti il bambino deve crescere, non lavorare a cottimo!

Gli studi scientifici citati convalidano il percorso di preparazione alla scrittura usato nelle scuole Montessori, perché mostrano come l’approccio proposto sia esattamente ciò che serve al cervello e alla mano del bambino. Parlo di approccio e non di metodo di apprendimento della scrittura perché, a ben vedere, l’avvicinamento alla scrittura inizia molto prima della scrittura vera e propria:

Il mio sistema per la scrittura si fonda sulla preparazione diretta dei movimenti che fisiologicamente vi concorrono: cioè, il maneggio dell’istrumento di scrittura, e il tracciato della lettera dell’alfabeto. I bambini, empiendo i contorni degli incastri con tanti segni paralleli in un caso, e toccando le lettere smerigliate nell’altro, fissano i due meccanismi muscolari in modo sì perfetto, che ne risulta infine l’esplosione di una «scrittura spontanea» calligrafica, e meravigliosamente uniforme in tutti i bambini – poiché essi, quasi plasmati da uno stesso stampo, hanno fissato i movimenti toccando lo stesso alfabeto, e quindi vengono a riprodurne fedelmente la forma. Perché ciò avvenga, ossia perché un vero meccanismo motore sia fissato, occorre la prolungata ripetizione dell’esercizio.

Maria Montessori, L’autoeducazione, p. 72

Se non ne fossimo già convinti, dovremmo con molta attenzione considerare la proposta Montessori come una proposta unitaria e integrata, in cui ogni parte è legata a tutte le altre nel compito di far crescere il bambino. Nel nostro caso specifico:

La mano dei nostri bambini è stata preparata da molto tempo per la scrittura. Attraverso tutti gli esercizi sensoriali, la mano, mentre cooperava con la mente nei suoi conseguimenti e nel suo lavoro di formazione, era preparata per il futuro93.
Ugualmente le proposte della vita pratica, purché variate, interessanti, preparate come si deve e con tanti materiali diversi, concorrono alla conquista della scrittura, anche se in apparenza ne sono ben lontane.


Lo ripeto perché è importante: i bambini non devono essere produttivi, non devono scrivere in maniera efficiente e rapida, devono formarsi. L’approccio a “bassa tecnologia” di una scuola Montessori è appunto quello che serve loro per appropriarsi della scrittura e per sviluppare le forme di pensiero necessarie al loro vivere nel futuro.

5.6 La lettura

La lettura è strettamente imparentata con la scrittura e nel bambino di solito appare dopo quest’ultima. Come per la scrittura, la lettura arruola aree del cervello con funzioni molto diverse. Quando s’impara a leggere, il cervello crea connessioni tra le aree visive, linguistiche e concettuali che fanno parte del nostro patrimonio genetico, ma che in precedenza non erano mai state intessute insieme per questo scopo. Lo sviluppo linguistico e visivo del bambino, prima ancora che cominci a imparare a leggere, ha quindi un ruolo essenziale nella buona preparazione del cervello alla lettura94. È da notare che questa dinamica ha sostanzialmente accelerato dagli anni Sessanta portando frequentemente allo svelarsi della lettura prima della scrittura, a differenza di quello che era la norma ai tempi di Maria Montessori. Osserva Grazia Honegger Fresco:

Questo [cambiamento] lo ascrivo al fatto della sempre maggiore diffusione di parole scritte intorno ai bambini: confezioni alimentari, insegne, libri infantili, giornali. Tutte scritte «inesistenti» quando io ero piccola e così fu fino agli anni del boom.

Un tale cambiamento nelle capacità di lettura però non influenza la nostra analisi.


A causa delle sue origini, sostiene Maryanne Wolf della Tufts University, la lettura ha una dimensione fisica perché, sebbene lettere e parole siano simboli che rappresentano suoni e idee, il nostro cervello le considera anche alla stregua di oggetti tangibili95. Per questo motivo nella lettura vengono coinvolte, tra le altre, le regioni cerebrali specializzate nel riconoscimento degli oggetti. Così, quando il bambino impara a leggere e scrivere, inizia col riconoscere le lettere basandosi su linee, curve e spazi vuoti: un processo di apprendimento che richiede l’uso sia degli occhi, sia delle mani. La lettura ricorre, quindi, a meccanismi neuronali che non sono minimamente cambiati nel corso della nostra storia ma che maturano attraverso l’esercizio. Nella scuola Montessori gli esercizi di manipolazione degli incastri solidi o di ferro, di tracciamento con le dita delle forme delle lettere smerigliate e, alla fine, la scrittura a mano, fanno sì che i neuroni, riconoscendo forme e profili ripetuti, creino un alfabeto di giunzioni e bordi che verrà usato, appunto, nella lettura per il riconoscimento delle lettere.


Altre ricerche indicano che l’osservazione di una pennellata o di una lettera evoca una simulazione motoria interna che si basa sull’attivazione degli stessi centri motori necessari per produrre quel segno grafico96. Di conseguenza il bambino deve aver già memorizzato il movimento necessario per tracciarlo, ovvero deve saperlo scrivere prima di poterlo facilmente riconoscere e quindi leggere. Va da sé che l’efficacia di un metodo “antiquato” per imparare le lettere come quello basato sulle lettere smerigliate ha dimostrato di avere solide basi neurofisiologiche97.


L’abbandono della carta e la conseguente trasformazione radicale delle abitudini di lettura e scrittura sembra perciò minare abilità cerebrali fondamentali per la nostra capacità di comprensione. Lo confermano le ricerche di Anne Mangen, dell’Università di Stavanger, in Norvegia98. In uno dei suoi studi Anne ha chiesto a un gruppo di volontari di leggere lo stesso testo su un e-reader o su carta. Chi aveva letto il libro cartaceo ricordava meglio la trama e riusciva con meno sforzo a mettere gli eventi nella giusta sequenza. L’effetto potrebbe essere correlato alla necessità di “tenere il filo” di ciò che leggiamo. Su carta abbiamo molti indizi fisici ad aiutarci, per esempio, possiamo ricordare che un fatto si è compiuto quando eravamo quasi all’inizio o a circa metà del volume. Il testo elettronico invece non ci aiuta a percepire quanto manca alla fine del libro o a che punto siamo, perché il testo appare sempre uguale.


Gli amanti della tecnologia controbattono che un testo su supporto digitale può trasmettere molte più informazioni tramite contenuti multimediali rispetto a pagine cartacee statiche. In realtà questo e altri studi99 suggeriscono che i nativi digitali ricordino con più facilità il senso generale di una storia quando viene letto loro un libro tradizionale, perché i filmati, le immagini e quant’altro presente negli e-book arricchiti e addirittura i lettori stessi, li distraggono. Insomma, il punto di forza della carta potrebbe essere proprio la sua semplicità.

Per me leggere un romanzo su e-reader è un’esperienza piacevole, soprattutto perché mi posso portare appresso una biblioteca ben fornita. Invece, quando ho provato a leggere così libri di studio o manuali di lavoro, ho subito avuto serie difficoltà di comprensione perché l’interfaccia impedisce di navigare e mappare in modo intuitivo testi eminentemente non sequenziali. A questa difficoltà si aggiunge, come ricorda Maryanne Wolf, la mancanza di una dimensione fisica, una forma e un peso che rendano immediatamente riconoscibile un libro sullo schermo. Queste differenze creano una dissonanza sensoriale sufficiente a dissuadermi dal leggere e-book di questo tipo.


Da ultimo ci sono due problemi che influiscono sull’efficacia della lettura su un e-reader. Il primo è che, anche se non ce ne rendiamo conto, sovente ci poniamo di fronte a uno schermo con un’impostazione mentale meno aperta all’apprendimento rispetto a un libro tradizionale, riducendo così l’efficacia dello studio. L’altro problema è che gli schermi sono più faticosi della carta, oltre che dal punto di vista cognitivo, anche da quello fisico. Scorrere un testo digitale richiede uno sforzo costante, aggravato dagli schermi luminosi di tablet e computer portatili che affaticano gli occhi. Il problema è stato peraltro superato con l’adozione di schermi e-ink electronic paper che si presentano leggibili e riposanti quasi quanto un foglio stampato, un vantaggio che però non toglie che gli e-reader abbiano altri problemi di usabilità100.


L’elemento più interessante scaturito dagli studi citati è la conferma dell’ipotesi che sostituire la carta con uno schermo già in tenera età comporti svantaggi difficili da recuperare e che la lettura su cartaceo favorisca l’apprendimento molto più di quella su schermo101.


Certo, la tecnologia degli e-reader evolverà verso una maggiore facilità d’uso, ma sono convinto che i progressi si vedranno principalmente nell’istruzione superiore, più che nella fascia d’età che stiamo considerando. Un altro stile di lettura, invece, non dà segni di voler evolvere. Parlo della lettura online in cui la gente non legge le pagine web, ma le scansiona, becchettando parole e frasi che trova pertinenti. Di conseguenza il navigatore medio spende solo pochi secondi su una pagina web, leggendo al massimo il 20% del testo102. Non a caso Chrome, Safari e Firefox sono chiamati web browser (strumenti per sfogliare) invece di web reader (strumenti per leggere). Per questo stile di lettura le innovazioni tecnologiche non sembrano aiutare, come invece aiuta il fare propria l’abitudine alla concentrazione. Ne riparleremo nella sezione 5.10.

5.7 Il significato delle azioni altrui

I neuroni specchio sono neuroni motori che si attivano non solo quando il soggetto compie un’azione diretta a un obiettivo, ma anche quando osserva la stessa azione eseguita da altri. Sono essenziali perché “i neuroni specchio consentono al nostro cervello di correlare i movimenti osservati a quelli propri e di riconoscerne così il significato103. È importante sottolineare che la capacità di comprendere il significato delle azioni che vediamo eseguire non è un’attività intellettuale, ma è un meccanismo automatico.


L’esistenza dei neuroni specchio ha implicazioni interessantissime nel mondo Montessori perché fornisce una base scientifica a molte delle idee che ne ispirano la prassi e le attività104. Per esempio, un bambino che guarda un altro spostare i cubi della torre rosa ha i percorsi neurali rafforzati, anche se non muove i cubi stessi, perché i suoi neuroni specchio simulano internamente i movimenti che vede compiere. Anche la maestra che presenta con calma e lentezza un nuovo materiale si muove in maniera tale che il bambino può far suoi i gesti che le vede compiere: i loro cervelli in un certo senso entrano in “risonanza”. Il significato della presentazione della maestra o del lavoro dei compagni è compreso quindi non in virtù di una spiegazione o di un ragionamento ma grazie a una comprensione diretta, per così dire, dall’interno.


Quali effetti ha l’introduzione della tecnologia nella scuola su questo meccanismo cerebrale? Vari e non molto positivi. Per incominciare ricordiamo, se ce ne fosse ancora bisogno, che gli studi che hanno portato alla scoperta dei neuroni specchio hanno messo in luce la funzione cognitiva delle aree motorie e quindi del movimento in generale. Di conseguenza, se un bambino esplora il mondo in gran parte attraverso un tablet, quanti movimenti compirà? La risposta è due: swipe e tap (scorri e tocca). Ragione per cui, quanti modi di pensiero, creatività e inventiva potrà sviluppare? Presumo molto pochi.


Il bambino si muove in un contesto sociale dove l’imitazione è la base dell’apprendimento. È ovvio che i neuroni specchio rivestono un ruolo centrale nel far sì che il bambino possa assimilare ciò che vede fare ai suoi compagni. Invece la tecnologia, sotto forma di tablet o computer, da questo punto di vista isola, non per altro si parla di “personal computer”. Ammesso di poter superare questa limitazione, che gesti e che movimenti finalizzati un bambino può imitare da un suo compagno immerso in un tablet? Pochissimi, come abbiamo visto e comunque insufficienti per creare quella “risonanza” tra cervelli diversi che si innesca nel vedere i movimenti altrui. C’è di più, i neuroni specchio non si attivano con un qualsiasi movimento, ma solamente quando guardiamo un atto motorio finalizzato e il tap sullo schermo non ha una finalità che si possa discernere con chiarezza, contrariamente al gesto di ordinare le aste numeriche su un tappetino, per esempio. Che cosa accade se ciò che il bambino vede attorno a sé non attiva i neuroni specchio? In questo caso il suo cervello è obbligato a utilizzare i meccanismi di riconoscimento delle immagini e il ragionamento al posto della simulazione interna. Riconosce in tal modo il gesto, ma perde la comprensione profonda dell’atto che vede compiere. Vale la pena privarsi di tutto questo solo per inserire un tablet a scuola?


Alcuni neuroni specchio hanno un’altra importantissima funzione cognitiva, quella di aiutarci a definire un riferimento spaziale ancorato al nostro corpo. Molte azioni o atti che vediamo compiere hanno su di noi un effetto differente a seconda se avvengono vicino o lontano dal corpo. Lo spazio “peripersonale”, quello vicino al corpo, non è però qualcosa di assoluto, ma si costruisce tramite l’azione.

Che cos’è, infatti, lo spazio peripersonale se non l’insieme dei «luoghi» che possiamo raggiungere allungando la mano? […] Scriveva Ernst Mach: «I punti dello spazio fisiologico altro non sono che scopi di vari movimenti: movimenti prensili, dello sguardo, di locomozione». È a partire da questi movimenti che il nostro corpo mappa lo spazio che ci circonda ed è in virtù dei loro scopi che lo spazio assume forma per noi.105

Di conseguenza non si fa del bene al bambino limitando la portata dei suoi movimenti, perché è come se gli restringessimo la stanza attorno.

5.8 Vedere, guardare, riconoscere

Dietro agli occhi abbiamo un supercomputer addestrato da milioni di anni di sopravvivenza difficile quando era vitale, per arrivare all’ora di cena, individuare i predatori distinguendo a colpo d’occhio le ombre degli arbusti dalle macchie del manto di un felino. Oggi non dobbiamo più sfuggire ai predatori, ma riusciamo come allora a cogliere istantaneamente strutture, schemi e regolarità attorno a noi senza sforzo e soprattutto senza doverci pensare consciamente, perché non sono cambiate le due funzioni essenziali del nostro sistema visivo: la capacità di riconoscimento di schemi, detta anche pattern matching e la cosiddetta percezione preattentiva.


I meccanismi di pattern matching riconoscono strutture comuni a più forme visibili diverse, mentre i processi preattentivi estraggono le caratteristiche elementari di uno stimolo – come la forma, il colore, la profondità e il movimento – dagli eventi del mondo esterno, indipendentemente dal numero di stimoli simili presenti nel campo percettivo. Questi due meccanismi operano prima del ragionamento logico in una maniera che sembra situarsi al di fuori della consapevolezza; per questo motivo sono più rapidi, più efficaci e meno faticosi di quest’ultimo.

Queste caratteristiche del nostro sistema visivo fanno sì che le immagini aiutino a trasmettere rapidamente informazioni, eliminando il lavoro intellettuale necessario alla decodifica di un testo e alla sua successiva rappresentazione mentale, superando così le barriere linguistiche e i problemi di comprensione dovuti all’età. Per lo stesso motivo le immagini vengono regolarmente utilizzate negli oggetti tecnologici per trasformare il lavoro mnemonico di ricordarsi un comando o il nome di un’applicazione, in quello di riconoscere la corrispondente icona o immagine grafica. Per Marc Prensky la conseguenza naturale di tutto ciò è che

nelle generazioni precedenti, la grafica si limitava generalmente alle illustrazioni che accompagnano il testo e forniscono chiarimenti. Per la Games Generation, il rapporto è quasi completamente invertito: il ruolo del testo è quello di chiarire qualcosa che prima è stato sperimentato come un’immagine”. Questi ragazzi “pensano che sia molto più naturale rispetto ai loro predecessori iniziare con immagini e mescolare testo e grafica in un modo ricco di significato.106

Nel supercalcolo sono fondamentali le tecniche di visualizzazione delle informazioni che trasformano i risultati delle simulazioni in immagini, rendendo così possibile utilizzare le capacità del nostro sistema visivo per comprenderli e analizzarli. Tecniche importanti perché “scopo del calcolo è la comprensione, non i numeri”.107 Scopo del calcolo, come quello che impegna i supercomputer del CSCS, è riuscire a capire un fenomeno fisico simulato e non solo produrre più dati numerici. Possiamo riassumere dicendo che, tramite la visualizzazione, gli scienziati utilizzano la vista per pensare.


Nell’approccio Montessori l’applicazione dei meccanismi di riconoscimento di schemi è dappertutto: nei materiali, nelle loro forme, nei colori. Sono questi che rendono concrete le astrazioni, non solo matematiche, trasformandole in oggetti che si possono vedere e toccare. Funzioni che spingono il bambino a crearsi un’immagine mentale di un processo, come per esempio l’estrazione della radice quadrata, per poi rieseguire l’operazione a mente con una velocità direi sbalorditiva.


Il metodo Montessori è importante anche per un altro motivo. Nei bambini esiste un periodo critico, che dura fino agli otto anni, per lo sviluppo delle capacità visive innate e soprattutto per l’acquisizione della visione stereoscopica108. È chiaro che basare il lavoro scolastico su movimento e uso delle mani fornisce moltissime occasioni per esercitare questo meccanismo spostando lo sguardo fra oggetti vicini e lontani, cosa che invece non avviene guardando uno schermo piatto, come quello del computer o del televisore.

Poi c’è il lato oscuro delle immagini.


Le immagini attirano e polarizzano l’attenzione, ma spesso mentono. Lo sappiamo, ma ci caschiamo lo stesso perché a livello inconscio tendiamo a credere sempre e comunque alle immagini: “L’immagine è bella, perciò è vera”. Più che demonizzarle, però, dovremmo domandarci perché non educhiamo i nostri giovani a guardare, non solo i quadri di grandi artisti, ma anche la pubblicità, insegnando loro a essere consapevoli dei sottili meccanismi di persuasione veicolati dalle immagini. Volevo iniziare a farlo con mio figlio e lui invece mi ha spiazzato: “Ma papà, perché nelle pubblicità non c’è mai nessuno triste o arrabbiato?” Si vede che la scuola Montessori è riuscita a trasmettergli l’importanza dell’osservazione, senza bisogno di ricorrere a lezioni dedicate.


L’aspetto più inquietante di una cultura visiva si annida però nella passività che alcuni metodi di fruizione delle immagini impongono, in primis la televisione. Winterstein e Jungwirth, due pediatri, hanno condotto uno studio109 sugli effetti del consumo televisivo sui più piccoli sottoponendo un campione di circa 1.800 bambini di età compresa tra i cinque e i sei anni al test dell’Omino di Goodenough, un esame che valuta lo sviluppo mentale dei giovanissimi. Si fa disegnare loro un omino e si quantifica la completezza della figura. In sintesi, il risultato di questo esperimento è che i bambini che guardavano la televisione meno di un’ora al giorno, ottenevano una media di dieci punti, quanto previsto per la loro fascia d’età, mentre i loro coetanei che ne consumavano più di tre ore, raggiungevano a stento i sei punti, che è un buon punteggio, ma per un bambino di quattro anni! Non solo, colpisce venire a sapere che la stessa regressione si ha nei figli di genitori forti fumatori, il che equivale a dire che sedere passivi davanti al televisore è dannoso al pari del fumo di seconda mano.


Questi problemi non toccano direttamente la scuola, ma toccano il lavoro educativo che la scuola dovrebbe fare con i genitori. Un lavoro che non deve limitarsi a presentare i pericoli della televisione, ma che dovrebbe educare gli adulti al corretto uso, anche da parte loro, di tutte le tecnologie. Infatti, che messaggio trasmette ai figli un genitore che ogni minuto controlla la posta sullo smartphone? E uno perso in Facebook?

5.9 L’immaginazione

L’immaginazione è la capacità di formare immagini mentali, sensazioni e concetti in un momento in cui non sono percepiti attraverso la vista e gli altri sensi. Per farlo non partiamo quindi da ciò che esiste attorno a noi, ma da ciò che abbiamo immagazzinato in memoria, eventualmente elaborato e ricombinato. Negli anni Novanta, Stephen Kosslyn dimostrò che l’immaginazione non era una realtà soltanto psicologica ma anche fisiologica, e come tale si serviva di almeno alcune delle stesse vie neurali usate dalla percezione visiva110. A ragione possiamo quindi asserire che “l’immaginazione è la visione che scorre al contrario”111


L’immaginazione è fondamentale per pensare, tant’è che il fisico Ludwig Boltzmann arrivava a sostenere che “tutte le nostre idee e concetti sono solo immagini interne” e per Einstein “il vero segno dell’intelligenza non è la conoscenza, ma l’immaginazione”. L’immaginazione gioca un ruolo vitale anche nella percezione umana che, in un certo senso, non è una conseguenza diretta della realtà, ma un atto d’immaginazione112. Lo so che suona assurdo, ma non può essere altrimenti perché i dati che incontriamo nella vita reale non sono mai completi, sono spesso ambigui e il nostro apparato sensoriale non è così perfetto come tendiamo a credere. Se fossimo consapevoli della bassa qualità delle immagini proiettate sulla retina e dell’incredibile riduzione delle informazioni che dall’occhio raggiungono la corteccia visiva113, sarebbe inevitabile dedurre che è il cervello che deve “immaginare” come si presenta il mondo attorno a noi.


Non ci deve quindi stupire che si possa apprendere anche solo immaginando. Lo ha mostrato un esperimento di Pascual-Leone114 che riguardava l’apprendimento con la sola mano destra di un passaggio al pianoforte. Il risultato strabiliante è stato che anche al gruppo che ha solo immaginato di farlo si è sviluppata l’area cerebrale che controlla le dita, quasi quanto quella di chi si è esercitato davvero.


Di solito consideriamo l’immaginazione come sinonimo di fantasia o creatività, ma non è così. Bruno Munari ha scritto un intero libro per chiarire la differenza tra fantasia, invenzione, creatività e immaginazione115. Per lui

l’immaginazione è il mezzo per rendere visibile ciò che fantasia, invenzione, creatività pensano

ed è cosa ben distinta dalla fantasia. È intesa allo stesso modo anche da Maria Montessori: non come “fantasticheria” che porta ad astrarsi dalla realtà per soddisfare desideri e spinte affettive in maniera irreale, ma piuttosto come immaginazione “creativa” che permette di generalizzare i concetti, di progettare soluzioni e di afferrare la struttura invisibile delle cose creando e manipolando modelli nella mente. Non a caso Geometry and the Imagination116 è stato scritto dal grande matematico David Hilbert che vi afferma:

La tendenza alla comprensione intuitiva favorisce una comprensione più immediata degli oggetti che uno studia, un rapporto vivo con loro, per così dire, che sottolinea il significato concreto delle loro relazioni.

L’immaginazione così intesa è fondamentale per i bambini perché “avendo così poca esperienza, i bambini devono affidarsi all’immaginazione”117 che è anche uno dei loro più grandi poteri:

L’immaginazione è la grande potenza di quest’età; e, dal momento che noi non possiamo offrirgli il tutto, tocca al bambino immaginarlo. L’istruzione dei bambini dai sette ai dodici anni deve richiamare la loro immaginazione, dalla quale deve scaturire la rappresentazione della realtà. È necessario quindi essere rigorosamente esatti e precisi: l’esattezza, come il numero e come tutto ciò che è matematico, servirà a costruire questa rappresentazione della realtà. Ora, cos’è che colpisce l’immaginazione? Prima di tutto, la grandiosità, e poi il mistero. L’immaginazione è capace di ricostruire l’insieme, quando conosce il dettaglio reale.

Maria Montessori, Dall’infanzia all’adolescenza, pp. 56-57

Il problema principale che limita o inibisce l’utilizzo di una facoltà così importante è la carenza di “materiali da costruzione”. Perché nulla si crea dal niente e, anche con tutta la buona volontà, se non ci sono materiali da assemblare in immagini e modelli sarà difficile costruire qualcosa di nuovo e non si riuscirà a produrre fantasia, creatività e invenzione. Il motivo è che queste ultime non fanno altro che “creare relazioni” fra ciò che già conosciamo, dacché non è possibile stabilire relazioni con ciò che ci è sconosciuto. Per spiegarlo Munari fa l’esempio di un pastore che vive nei boschi con le sue pecore e che probabilmente riuscirà a immaginare solo una pecora coperta di foglie invece che di pelo. Per fare in modo che tutto questo non accada, è necessario che le persone – e in particolare i bambini, la cui mente è affamata di novità – possano acquisire questi materiali per combinarli e modificarli tramite la cultura e le incursioni in svariati campi del sapere, anche quelli che non sembrano utili a breve termine. Proprio come avviene in una scuola Montessori:

Se ciò che si chiama immaginazione infantile è il prodotto dell’“immaturità” della mente, in rapporto con la povertà in cui lasciamo il bambino e l’ignoranza in cui egli si trova, occorre prima arricchire la sua vita di un ambiente ove egli diventi il possessore di qualche cosa, e arricchire la sua mente di conoscenza e di esperienza fatta sulla realtà. E avendogli dato ciò, lasciarlo maturare nella libertà. È dalla libertà dello sviluppo, che noi possiamo attendere le manifestazioni della sua immaginazione.

Maria Montessori, L’autoeducazione, p. 231

In questo compito di arricchimento culturale, ci possiamo far aiutare dalla tecnologia? Se la vediamo come un mezzo per accedere a più informazioni possibili, sì. Non dimentichiamo però che è un mezzo, che come tale non ci aiuta a porre le domande giuste e a essere ricettivi agli stimoli e alle idee, ma fornisce solo l’accesso a un’enorme messe di dati che potrebbe alla fine travolgerci. Un problema che Picasso sintetizzava affermando: “I computer sono inutili. Possono solo darti risposte”. Ecco che un ambiente Montessori, dove il bambino è libero di porre domande senza essere giudicato, aiuta anche prima del contributo della tecnologia.


Invece sul lato dell’esperienza, della grandiosità e del mistero, la tecnologia mostra i suoi limiti. La tecnologia fa quello che le diciamo di fare. Non c’è ambiguità: faccio una domanda, ottengo una risposta. Se non sono allenato a vedere ciò che si nasconde dietro le parole o ad allargare la vista più in là di quello che avviene sullo schermo di un computer, non riuscirò mai a immaginare nulla di nuovo, come invece accade quando ci perdiamo nel rosso di un tramonto o nel mondo del romanzo che stiamo leggendo. Parlando di mistero poi, sembra che oggi non sia rimasta nessuna “magia”. Invece, quando iniziai a usare le prime, goffe tecnologie informatiche – il C64, lo Spectrum, e altri, per chi se li ricorda – il PC era un mondo fatato tutto da scoprire. Oggi questi momenti magici sono spariti e, ancor peggio, le nuove generazioni danno tutto per scontato, perdendo così la capacità di meravigliarsi e di stupirsi, due potenti propulsori della curiosità e della creatività.

Allora che si fa? Nell’Autoeducazione Maria Montessori ci dà una traccia:

Occorre preparare i bambini a saper esattamente percepire le cose dell’ambiente per poter assicurare loro il materiale dell’immaginazione118

Poi suscitarne la curiosità, magari seguendo il consiglio che troviamo nel libro Dall’Infanzia all’Adolescenza:

Ciò che [il bambino] apprende deve essere interessante, deve affascinarlo. Bisogna offrirgli cose grandiose: per cominciare, offriamogli il Mondo119.

Anzi, diamogli l’universo intero, come fa il vasto progetto dell’Educazione Cosmica, perché è qui che si svolge la sua vita ed è l’universo stesso che può fornire tutto il materiale da costruzione di cui i bambini hanno bisogno per capire la realtà e se stessi:

Offrendo invece al bambino la storia dell’universo, noi gli diamo da ricostruire con la fantasia qualche cosa che è mille volte più stimolante e misterioso di qualsiasi fiaba120.

Anche Einstein espresse un concetto simile:

L’immaginazione è più importante della conoscenza. Perché la conoscenza è limitata, mentre l’immaginazione abbraccia il mondo intero, stimolando il progresso, dando vita all’evoluzione.

5.10 Attenzione e concentrazione

La concentrazione è la prima cosa che notiamo entrando in una scuola Montessori. Quello che ci colpisce non è solo vedere ordine e silenzio, è cogliere una motivazione molto più profonda:

La prima premessa per lo sviluppo del bambino è la concentrazione. Il bambino che si concentra è immensamente felice.

Maria Montessori, La mente del bambino, p. 271

Quest’affermazione non è stata buttata lì a caso dalla Dottoressa, ma come sempre è il risultato delle sue osservazioni sui bambini. Osservazioni che anticipano quello che ha scoperto negli anni Settanta lo psicologo Mihály Csíkszentmihályi121 studiando gli stati di profonda concentrazione da lui chiamati collettivamente Flow122. Più tardi questi definì il Flow, in un parallelo inaspettato con Montessori, “[Quello stato] che si avvicina più di qualsiasi altra cosa che possiamo concepire a ciò che di solito intendiamo per felicità”.123


Recentemente un suo allievo, Kevin Rathunde, ha cominciato a studiare il Flow nelle scuole Montessori124.


Nei suoi studi Csíkszentmihályi ha scoperto che ci sono delle condizioni ben precise affinché si instauri il Flow125.

Ecco le principali:

  1. Devono esistere regole chiare e condivise. Il tipo di regole che troviamo in una scuola Montessori.
  2. Il compito non deve essere open ended, senza chiari limiti e obiettivi. Per questo nelle scuole Montessori i limiti sono materializzati in tanti dettagli, come per esempio quel tappetino su cui il bambino lavora, non solo per comodità e cura dei materiali, ma soprattutto perché lo spazio limitato crea confini ben precisi al suo lavoro.
  3. Il compito deve fornire un feedback immediato su quanto lavoro si è fatto e quanto ne manca. Una rapida osservazione mostra che i materiali Montessori offrono esattamente questo. Per esempio, il filo su cui si infilano le perline è della lunghezza necessaria per contenerle, non di più, in modo che il bambino veda subito il punto in cui è arrivato nel lavoro, oppure gli incastri geografici dove i buchi non ancora completati danno un’idea di quanto c’è ancora da fare per terminare la mappa.
  4. Deve esistere un bilanciamento fra la difficoltà del compito e le capacità di chi lo esegue, perché, se il lavoro è troppo facile, questi si annoia, se troppo difficile si sente frustrato ed entra in ansia. Invece quando la difficoltà è ben bilanciata, il lavoro può innescare la concentrazione del Flow. Al riguardo, che cosa avviene in una scuola Montessori? La maestra propone un lavoro, osserva il bambino e vede che è troppo semplice per lui per cui si annoia; se ne propone uno troppo difficile, il bambino è poco tranquillo e facilmente distratto. Se invece il lavoro proposto è adatto alle capacità e agli interessi del bambino – una maestra attenta sa qual è fin dall’inizio – questi può concentrarsi ed entrare in Flow. Anche Vygotskij parlava di porre il bambino nella sua Zona di Sviluppo Prossimale, quella zona in cui una “frustrazione ottimale” gli permette di concentrarsi e apprendere. Non è strano un simile accordo tra le conclusioni di Vygotskij e Montessori perché, quando si affrontano compiti che sono appena al di sopra delle capacità della persona, entra in funzione un meccanismo neuronale ben preciso: il rilascio di dopamina che segnala sia una ricompensa imprevista, sia un nuovo apprendimento126.
  5. La gratificazione deve derivante dall’esperienza stessa. Non devono esserci premi o ricompense, come è normale in una scuola Montessori dove il bambino lavora in risposta a un’esigenza interiore.
  6. Si deve essere liberi dalla tirannia del tempo. Rigidi limiti temporali possono distruggere la concentrazione del Flow per l’ansia di finire in tempo il lavoro. In una scuola Montessori questa condizione si traduce nel rispetto dei tempi del bambino. È ovvio, infatti, che la scansione oraria di una scuola tradizionale renda impossibile rimanere nel Flow quando suona la campanella.


I dispositivi tecnologici possono aiutare a instaurare il Flow? Non molto, anzi, forse per niente, se si escludono alcuni videogiochi d’azione che impiegano varie tecniche per mantenere il giocatore concentrato sull’azione. Piuttosto possiamo dire che la tecnologia è fenomenale per attirare l’attenzione dei bambini, mentre in generale non fa molto per mantenerla. Lo dimostra uno studio, citatissimo ma introvabile127, dove veniamo a sapere che nel 2000 le persone avevano una soglia di attenzione media di 12 secondi, soglia che nel 2013 era scesa a soli 8 secondi. In confronto un pesce rosso è in grado di rimanere attento per ben 9 secondi!


Anche qui è facile generalizzare, ma così facendo si evita di approfondire il fenomeno. Quando parliamo di adolescenti e adulti consumatori voraci d’informazioni o appassionati di social media, infatti, vediamo che faticano a concentrarsi in ambienti in cui è richiesta un’attenzione prolungata, ma hanno delle esplosioni intermittenti di grande concentrazione. Queste persone sono migliori nell’individuare quello su cui vogliono focalizzarsi e sanno ignorare con più efficacia le informazioni non rilevanti128, però sono pure convinte che allocare la propria attenzione a più compiti contemporanei (il cosiddetto multitasking) sia un bene e permetta loro di essere più produttivi. Non è vero129. Il cervello non è predisposto per il multitasking e quello che chiamiamo multitasking in realtà è scambio rapido tra attività. Un meccanismo che ha dei limiti fisiologici sulla velocità cui può avvenire – si parla di almeno 700 millisecondi per ogni scambio130 – e che funziona solo tra attività diventate di routine e attività coerenti tra di loro, non in generale. La situazione è ancora peggiore se ci si sposta tra compiti che richiedono risorse mentali e la creazione di un contesto specifico, come sono quelli collegati alla programmazione dei computer; in questo caso il tempo di scambio viene stimato attorno ai venti minuti!131 Ecco un motivo in più perché la regola che impone di usare un materiale alla volta nella scuola Montessori sia così importante: se non diamo al bambino l’opportunità di sperimentare l’attesa, non possiamo lamentarci che da adolescente non sappia aspettare.

Russell Poldrack, professore di psicologia dell’Università della California a Los Angeles, in uno studio recente ha rilevato che

il multitasking influisce negativamente su come si apprende. Anche se si impara mentre si fa multitasking, questo apprendimento è meno flessibile e più specializzato, di conseguenza non è possibile recuperare facilmente queste informazioni.

La sua ricerca132 dimostra che le persone utilizzano aree del cervello diverse per l’acquisizione e la memorizzazione di nuove informazioni quando sono distratte. In particolare persone distratte o in multitasking mostrano attività nello striato, una regione del cervello coinvolta nell’apprendimento di nuove competenze, mentre persone che non sono distratte attivano l’ippocampo, coinvolto invece nella memorizzazione e nel richiamo delle informazioni. Un’altra conferma di questo diverso modo di utilizzare il cervello viene da uno studio che documenta come la lettura su piattaforme digitali – tablet e smartphone – invece che su libri cartacei cambi il modo di pensare, rendendo le persone più propense a concentrarsi su dettagli specifici, piuttosto che a interpretare le informazioni in maniera più astratta e globale133.


Un fenomeno simile, ma con motivazioni differenti, è quello dell’“attenzione parziale continua” studiata da Linda Stone e altri134. Quando le persone fanno multitasking, è perché vogliono essere più produttive e più efficienti, mentre nell’“attenzione parziale continua” ciò che le spinge è il desiderio di non perdersi nulla di ciò che accade in rete, perché essere collegati significa per loro essere vivi. Non vediamo qui proprio ciò che sovente vivono i nostri adolescenti?


Come si può affrontare una simile mancanza di attenzione? Il terrorismo contro le distrazioni non è mai servito: se ora sono gli smartphone a catturare l’attenzione dei ragazzi, ieri erano i giornaletti. Potremmo pensare d’insegnare loro i trucchi suggeriti nel libro di Soojung e Pang135, ma questi vanno bene per gli adulti. Possiamo invece aiutare i bambini fin da molto piccoli a prestare attenzione e a concentrarsi; sono convinto che così qualcosa filtrerà fino al loro cervello da adolescente. In altre parole dobbiamo aiutarli a raggiungere e mantenere, quando è il momento, quella “normalizzazione” di cui parla Maria Montessori.

5.11 La memoria

In quest’epoca di transizione verso una cultura digitale, la critica del re Thamus all’invenzione della scrittura, riportata da Platone nel Fedro, ha un suo fondamento se la analizziamo con attenzione. Con la scrittura il re teme che le persone

si abitueranno a ricordare dal di fuori mediante segni estranei, e non dal di dentro e da se medesimi.

Socrate, che personalmente non scrisse nulla, più che idolatrare la memoria, temeva che

i libri potessero mettere in corto circuito il lavoro di comprensione critico e attivo, producendo un discepolo con «un concetto fallace di sapienza»136.

Questo è il punto importante. Dobbiamo insegnare ai ragazzi a far proprio il sapere, non a imparare a memoria, a pensare più che ad accumulare nozioni. Un modo di fare naturale in Einstein, che rispose a chi gli chiedeva se conoscesse la velocità del suono:

Non porto tale informazione nella mia mente dal momento che è facilmente reperibile nei libri”. Per lui, infatti, “il valore dell’educazione universitaria non è l’apprendimento di molti fatti, ma la formazione della mente a pensare.

Spesso e volentieri si citano i tassisti londinesi come esempio dell’importanza dell’imparare a memoria, nel loro caso venticinquemila strade cittadine, ma alcuni test hanno dimostrato che queste persone hanno meno capacità di elaborazione delle informazioni visive rispetto alla media, quindi sembra ci sia un prezzo da pagare per la memorizzazione di un simile volume di dati geografici. Ne vale la pena?


Di solito consideriamo la nostra memoria come l’equivalente di uno schedario. Non funziona così. La nostra è una memoria associativa, che viene attivata da stimoli sensoriali come, per esempio, un profumo che ci rimanda a un ricordo d’infanzia o il trovarsi in un determinato luogo che ci fa letteralmente rivivere qualcosa accaduto proprio lì. Montessori parla di mneme, la memoria inconscia che registra le tracce (engrammi) di tutte le nostre esperienze. Questi engrammi si associano, spontaneamente e in maniera inconscia, in configurazioni uniche per risolvere quasi senza sforzo i problemi che nascono nell’esperienza della persona e per estrarre ricordi a lungo sepolti137. Una memoria che trae beneficio dal creare collegamenti fra esperienze sensoriali e nozioni e fra le nozioni stesse. In un certo senso, la struttura della nostra memoria è simile a quella del web: pagine associate tra loro da collegamenti ipertestuali che rimandano da un argomento all’altro. Purtroppo nel trarre vantaggio dai sensi gli scienziati sono molto indietro rispetto ai bambini della scuola Montessori, perché regolarmente negli articoli e nei lavori scientifici mettono in gioco solo la testa e utilizzano pochissimo ciò che può colpire i sensi, come ha documentato uno studio138. Non era così per gli scienziati antichi, basti pensare al Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo di Galileo o alle illustrazioni dei libri scientifici dei suoi contemporanei.

Un suggerimento simile ci viene dal considerare le antiche culture orali, in cui avevamo imparato a memorizzare le informazioni come epigrammi, piccole storie che si chiudevano con un proverbio ricco di significato. La ripetizione costante dei racconti epigrammatici ci forniva un’ampia gamma di riferimenti da utilizzare al momento opportuno. Nella nostra attuale cultura, invece, non abbiamo sviluppato un simile modo di apprendere e siamo bombardati da milioni di storie frammentarie, indigeste e insignificanti. Non riuscendo a trasformarle in epigrammi diventano così un frullato di frammenti che in realtà inibiscono la nostra capacità di costruire una comprensione coerente, e quindi di memorizzarle. Pensiamo invece ai professionisti che utilizzano questo processo nel loro lavoro e possono così raccontare storie appropriate – per un avvocato sono, ad esempio, i casi che ha difeso in tribunale – basate sulla considerazione, filtraggio e risistemazione di una parte dei loro ricordi.


A dispetto delle lamentele di noi adulti, non è vero che i nostri giovani non usano la memoria. È una generazione che può memorizzare molte centinaia di Pokémon diversi, ognuno con determinate regole, abilità, poteri e caratteristiche. Allora dov’è la difficoltà ad apprendere i nomi e le capitali di tutte le nazioni nel mondo? In fondo sono meno di duecento. Forse la difficoltà nasce da come vengono presentate. I Pokémon stimolano il cosiddetto interest-driven learning, il buon vecchio “mi interessa, perciò imparo”. D’altro canto, il problema di come suscitare l’interesse ci porta in un’area alquanto scivolosa di cui qui vediamo solo un aspetto, peraltro negativo. È vero che la tecnologia rende possibile un apprendimento giocoso, soprattutto nei videogiochi cosiddetti “educativi”, ma a mio avviso questi trasmettono il messaggio che se non s’indora la pillola certe cose da imparare non s’imparano. Nel Montessori invece tutti i materiali non hanno lo scopo di insegnare, ma quello di rispondere ai bisogni del bambino e, aggiungo, di far amare la materia e non di inculcarla a forza nelle loro giovani menti.


Riguardo all’apprendimento mnemonico, la risposta più comune che arriva dai nostri futuri adulti è: “Se Google ricorda, perché dovrei farlo io?”. Non scandalizziamoci, perché tutti noi in qualche misura deleghiamo ad altri alcuni compiti mentali. Quando riceviamo informazioni nuove, infatti, distribuiamo automaticamente tra i membri del nostro gruppo sociale o dividiamo con il nostro partner la responsabilità di memorizzare fatti e concetti: ricordiamo qualcosa da soli e per il resto ci affidiamo ad altri. Sappiamo qualcosa e sappiamo chi sa, liberando così risorse mentali per saperne di più. Ora l’unica differenza è che piuttosto che alle persone, oggi ci affidiamo ai motori di ricerca o al web. Lo faccio anch’io. Quando non so come risolvere una questione tecnica, vado su uno dei forum in rete, dove molto probabilmente qualcuno saprà darmi una soluzione. In un certo senso attingo a una super-memoria. Ciò nonostante so che, prima di chiedere aiuto, devo aver analizzato a fondo il problema e non limitarmi a un vago “non funziona”, so che non devo dimenticarmi le buone maniere e so che se prendo devo dare, devo contribuire alla super-mente con quel briciolo di conoscenza che posso aver prodotto. Questo per i nativi digitali è quasi automatico: “Più dài, più prendi in cambio. Più condividi, più verrà condiviso con te”. Una filosofia che va ben oltre un generico miglioramento della memoria.

Certo, emerge un paradosso: l’era dell’informazione sembra aver prodotto una generazione di persone convinte di saperne più che mai, mentre la loro dipendenza dai motori di ricerca e dal web indica che forse conoscono il mondo sempre meno. Credo, però, che se uniamo la creatività della mente singola con la vastità della conoscenza in rete nascerà – o meglio, è già nata – una super-mente che ci darà enormi benefici, a patto di preparare bene i nostri futuri adulti, non solo fornendo loro una migliore competenza tecnologica. È un compito arduo ma necessario, perché, come riporta uno studio del Pew Research Center, mentre i bambini hanno maggior accesso alle informazioni, non sono migliorati molto nelle loro capacità di ricerca in quanto tali. Un partecipante allo studio lo sintetizzava così:

Non sanno come filtrare le cattive informazioni e sono così abituati a ottenerle rapidamente che quando non riescono a trovare ciò che stanno cercando immediatamente, smettono139.

In concreto, quindi, penso che possiamo introdurre a scuola la tecnologia per accedere alle informazioni globali, ma prima dobbiamo insegnare ai ragazzi non tanto a cercare, ma a fare ricerca. Non solo, dovremmo educarli a guardare con occhio critico le fonti, invece di limitarsi a mostrare loro come si usa Google o a vietargli l’accesso a Wikipedia per paura che ne copino passivamente i contenuti.


Se come insegnante metto in pratica queste idee, mi ritrovo fra le mani un altro problema: come valuto ciò che sanno gli studenti? Che cosa significa conoscere un argomento? A chi do il voto, a Wikipedia o al mio studente? Ancor prima di tutto questo, qual è il mio ruolo come insegnante? Devo convincermi, quindi, che farsi aiutare dalla tecnologia non è solo introdurre il web o un motore di ricerca nelle lezioni, ma è ripensare tutta l’architettura del percorso scolastico. Mi sembra quasi ovvio far notare che l’approccio Montessori, evitando ogni giudizio basato sui voti e definendo il ruolo dell’insegnante come guida, in questo è più al passo con i tempi di tante altre scuole.

5.12 Gestire situazioni nuove

Le funzioni esecutive sono una complessa rete di moduli funzionali della mente, che regolano i processi di pianificazione, controllo e coordinamento del sistema cognitivo e governano l’attivazione e la modulazione di schemi e meccanismi mentali140. Queste funzioni sono coinvolte nell’acquisizione di nuove informazioni e competenze, ma soprattutto nella gestione di situazioni che non rientrano nel dominio dei nostri meccanismi psicologici “automatici” perché mai incontrate in precedenza. Lo sviluppo delle funzioni esecutive è un predittore affidabile del futuro successo scolastico del bambino ma, ancor prima, è un fattore importante per la crescita armoniosa della sua personalità. Le principali funzioni esecutive sono:

  1. La memoria di lavoro, che rende possibile il ragionamento e la comprensione delle relazioni causa-effetto.
  2. L’inibizione di risposte non adeguate, in altre parole autocontrollo e disciplina.
  3. La flessibilità cognitiva, definita come lo spostamento flessibile dell’attenzione sulle informazioni rilevate per decidere la reazione appropriata tenendo conto del contesto corrente, degli obiettivi personali, ecc.


Uno studio di Adele Diamond mostra come lo sviluppo delle funzioni esecutive tragga pochi benefici da programmi informatici specifici141, mentre il metodo Montessori è particolarmente adatto a rafforzarle perché queste vengono sviluppate dall’imparare attivamente per mezzo della concentrazione e della libera ripetizione. Ancora una volta recenti scoperte suggeriscono, infatti, che le funzioni esecutive non possano essere isolate dai sistemi percettivi e motori e che, anzi, si strutturano al di sopra di questi142. Ci sono poi alcuni fenomeni, raccolti sotto il nome di “normalizzazione” montessoriana, che puntano direttamente allo sviluppo della funzione esecutiva dell’autocontrollo.


L’autocontrollo è legato anche a un altro fenomeno ben noto nell’utilizzo delle tecnologie informatiche: quello della mancanza di misura nel loro uso dovuto a un’immatura percezione del tempo e della durata da parte dei bambini. In famiglia normalmente si supplisce a ciò con strategie restrittive che risolvono il problema, ma non fanno maturare le corrispondenti funzioni esecutive. Al contrario, in una scuola Montessori l’obiettivo è la crescita dell’autocontrollo e della concentrazione, che sono una delle funzioni esecutive. Un esempio interessante lo troverete nella sezione 13.4, dove sono stati i bambini stessi a proporre una soluzione alle difficoltà che avevano incontrato nel porre dei limiti al tempo di utilizzo di uno strumento tecnologico.


In maniera indiretta la flessibilità cognitiva potrebbe essere migliorata dall’imparare a usare uno strumento tecnologico mai provato, come un tablet o uno smartphone. Per riuscire a sfruttarli al meglio, infatti, dobbiamo ristrutturare gli schemi cognitivi e imparare a pensare in modo diverso, allenando perciò la mente a essere flessibile. Quando parleremo di materiali, vedremo che questo effetto non è dovuto tanto all’uso della tecnologia, ma all’impegnare la mente su qualcosa di nuovo e differente. Lo stesso effetto si riscontra nei bambini piccoli che mostrano un miglioramento dell’apprendimento quando ascoltano storie di tema fantastico, come ha scoperto uno studio.143 I ricercatori ipotizzano che in questo caso la storia fantastica possa aver incoraggiato i bambini a pensare in modo meno rigido e di conseguenza far sì che avessero più probabilità di successo nei compiti collegati.

5.13 Ricapitolando

  1. Il cervello non ha fatto a tempo a evolversi per gestire i nuovi compiti del mondo tecnologico, ma ha potuto solo collegare le sue varie parti e svilupparle in maniera differente.
  2. Non conosciamo ancora bene gli effetti a lungo termine dell’uso della tecnologia, soprattutto a scuola. Non pensiamo quindi di avere una risposta univoca alla domanda se le tecnologie a scuola portino o no dei benefici allo sviluppo cerebrale.
  3. Quello che si fa in una scuola Montessori è perfettamente in linea con i meccanismi di funzionamento del cervello. Un esperto nel campo mi disse: “Montessori funziona perché è così che funziona il cervello”. Il movimento, l’imitazione, l’uso delle mani, la normalizzazione, eccetera, attivano o utilizzano meccanismi cerebrali che portano benefici a lungo termine. Non sempre le tecnologie riescono a migliorare questi risultati.
  4. I vari materiali, l’ambiente e le attività che ritroviamo in una scuola Montessori hanno un’integrazione reciproca cui bisogna tener conto per non snaturare il metodo stesso ignorando i meccanismi cerebrali su cui si basa o, ancor di più, ignorando i poteri del bambino.

La pedagogia Montessori e le nuove tecnologie
La pedagogia Montessori e le nuove tecnologie
Mario Valle
Un’integrazione possibile?Un’analisi fresca e attuale dell’impatto delle nuove tecnologie (PC, tablet, videogiochi) nell’ambiente scolastico, da una prospettiva montessoriana. Il pensiero comune sostiene che il mondo Montessori disdegni le nuove tecnologie e che non ne ammetta l’uso nelle scuole o in famiglia. Ma non è così: Montessori stessa credeva che l’introduzione di “ausili meccanici” sarebbe diventata una necessità nelle scuole del futuro.Come comportarsi allora?Mario Valle nel suo libro La pedagogia Montessori e le nuove tecnologie affronta la questione da un punto di vista particolare: esperto di super computer (è impiegato al Centro Svizzero di Calcolo Scientifico di Lugano) e affascinato dall’approccio Montessori, mostra come le tecnologie possano essere utilizzate nelle scuole.Il risultato è un libro interessantissimo, che è insieme un’ottima esposizione del pensiero di Maria Montessori e un’utile guida pratica per insegnanti curiosi e desiderosi di introdurre in classe (con “spirito montessoriano”) le nuove tecnologie. Credo […] che l’introduzione di ausili meccanici diventerà una necessità generale nelle scuole del futuro. […] Vorrei, però, sottolineare che questi ausili meccanici non sono sufficienti per realizzare la totalità dell’educazione.Maria Montessori, Introduction on the Use of Mechanical Aids L’ebook di questo libro è certificato dalla Fondazione Libri Italiani Accessibili (LIA) come accessibili da parte di persone cieche e ipovedenti. Conosci l’autore Mario Valle lavora da oltre trent’anni nei campi più disparati della scienza e dal 2003 è al Centro Svizzero di Calcolo Scientifico (CSCS) di Lugano, a stretto contatto con scienziati e ricercatori, utilizzando quotidianamente supercomputer e tecnologie di punta.Tramite suo figlio, che ha frequentato una scuola Montessori, si è avvicinato a questo mondo e si è appassionato alla concreta scientificità delle idee della Dottoressa Montessori. Ora studia e approfondisce questi temi e condivide le sue riflessioni in pubblicazioni, corsi e presentazioni pubbliche.