Dopo aver commentato “la grandezza” e “la dignità” che improntavano la vita nelle antiche università europee – esemplare quella di Bologna – sottolinea come gli istituti siano
“divenuti a poco a poco semplici scuole professionali, in cui il grado di cultura è superiore a quello delle altre scuole (…). Gli studenti che si propongono come unico scopo quello di ottenere un oscuro impiego personale, non possono più aver coscienza di questa missione, che creava una volta lo “spirito universitario”. Il solo desiderio di lavorare il meno possibile, di passare a qualunque costo gli esami e di afferrare quel diploma che servirà alla carriera individuale di ciascuno, è divenuto il movente essenziale, comune a tutti gli studenti. Così al progresso della cultura che ha trasformato l’esistenza, corrisponde la decadenza delle istituzioni universitarie. I veri centri del progresso si sono trasferiti nei laboratori di ricerche scientifiche che sono luoghi chiusi, estranei alla cultura.”
Scriveva dunque queste parole nel 1939, lontana dal prevedere lo stato attuale delle cose, ulteriormente deterioratosi: molti problemi delle istituzioni per la prima o la seconda infanzia sono strettamente collegati alla mancata formazione dei docenti.
In passato i maestri che uscivano dalle scuole e dagli istituti magistrali ricevevano una sia pur minima preparazione metodologica sul lavoro che li attendeva; oggi con i licei psicopedagogici e le lauree brevi la situazione è ulteriormente deteriorata. Le ore di osservazione e di tirocinio sono ridotte al minimo. In compenso sono aumentate le informazioni teoriche sulla psicologia, tecnologie moderne e così via. Il risultato è che i giovani maestri – ma si dovrebbe dire solo maestre, perché gli uomini italiani nella scuola sono rari o vi entrano di ripiego, in attesa di lavori più interessanti, meglio retribuiti – hanno idee confuse, molte incertezze e altrettanta presunzione intellettuale.
Non hanno quella preparazione professionale e metodologica cui accenna la Montessori; l’acquistano alla meglio con le riviste pedagogiche e sulla pelle dei bambini, di cui faticano a contenere le energie.
Se si chiede a qualcuno di loro perché abbia scelto di insegnare, la risposta più frequente – che dovrebbe allarmare per la sua banalità – è: “Mi piacciono tanto i bambini”.
Troppo spesso i laureati che vanno a occupare le loro sedi, dai nidi alle scuole d’infanzia, dalle scuole elementari alle secondarie, sono impreparati ad accogliere bambini e ragazzi, non conoscono le tecniche per rendere appassionanti le proprie materie d’insegnamento; soprattutto non sono minimamente allenati a lavorare insieme come gruppo docenti, mentre – secondo i programmi attuali – proprio questo dovrebbero “insegnare” ai loro allievi. E come si fa a passare ad altri un’esperienza che non si è vissuta in prima persona?
Anche corsi post-diploma organizzati dai vari istituti regionali, da associazioni, perfino dai sindacati, sono finiti, anche se poco utili perché altrettanto teorici, a ribadire un tipo di pedagogia tradizionale che non smuove minimamente le acque, non stimola a conoscere, ad approfondire, a capire bambini e ragazzi.
“Insegnare è obbligatorio, saper insegnare facoltativo” diceva già a metà Novecento Francesco De Bartolomeis, pedagogista dell’Università di Torino. A tutt’oggi le cose non sono cambiate: continua l’inganno nei confronti dei giovani, siano essi allievi bambini o futuri insegnanti.
Oggi, di fronte a questo quadro che di continuo si ripresenta, il solo percorso possibile sembra essere quello di creare percorsi di formazione continua che permettano, in primo luogo, di recuperare la propria creatività, la capacità di lettura dei comportamenti, la sensibilità ai problemi dell’altro, la concretezza dell’insegnare.
Si dovrebbe limitare l’uso delle lezioni “frontali”, proporre ai neodocenti situazioni di laboratorio e di ricerca per superare la passività degli apprendimenti cui – salvo eccezioni – sono stati abituati, per cominciare a mettersi in discussione, per imparare ad accettare l’imprevisto che viene dai bambini e dai ragazzi.