CAPITOLO XI

I fattori della salute:
alimentazione e ambiente

Nutrire l’intelligenza

Vorrei dedicare questa sezione al rapporto tra alimentazione e salute. Ciò che mi preme chiarire, tuttavia, non è semplicemente il concetto, di per sé davvero molto scontato, che mangiare cibi sani fa bene alla salute, quanto il fatto che alimentazione, ambiente e stile di vita dovrebbero costituire i caposaldi su cui si fonda la politica sanitaria di un Paese, in particolare quella parte della politica sanitaria che riguarda la prevenzione, attirando l’attenzione e le risorse che, all’opposto, più forti interessi economici calamitano verso altre direzioni (vaccini e farmaci), con aggravi spaventosi dei bilanci nel settore sanitario, cui non corrispondono proporzionati benefici per i pazienti (che, come ho già notato altrove, sono a un tempo anche contribuenti). Ciò richiede la diffusione di una visione olistica, ossia complessiva, dell’uomo nel suo rapporto con la civiltà attuale.


Quest’ultima rappresenta una delle epoche più straordinarie della storia umana grazie, principalmente, al progresso della conoscenza e della tecnologia in tutti i campi. Abbiamo raggiunto traguardi inimmaginabili soltanto pochi decenni fa nel settore della medicina, delle telecomunicazioni, delle biotecnologie, della robotica. Cosa ancora più rilevante, buona parte di questi progressi non ha impiegato intere generazioni per essere disponibile all’intera società, senza distinzioni di fasce di reddito, ma si sta diffondendo in modo sempre più generalizzato e relativamente democratico. Un sistema produttivo avanzato serve per l’appunto a mettere i risultati più recenti della tecnica alla portata del numero più vasto possibile di persone. Vivere circondati da prodotti derivati dall’industria e dalla tecnologia è dunque tutt’altro che un male. Ma sostituire, per condizionamento culturale o economico, un prodotto frutto di tecnologia a uno ottenibile naturalmente non è un bene per principio. Come dimostrano infiniti esempi nel nostro modo di vivere, a un uso razionale e assennato di ciò che scaturisce da un artificio tecnologico, è subentrato un uso che definirei caricaturale, compulsivo e ossessivo di ciò che è artificiale, complice la tendenza dell’industria stessa e dei suoi apparati pubblicitari a creare negli individui la sensazione che un qualsiasi bisogno di vita venga soddisfatto in modo più appagante con metodi artificiali anziché con metodi naturali. È caricaturale, ad esempio, che si preferisca abbronzarsi tramite lampade artificiali, piuttosto che sforzandosi di trascorrere più tempo all’aria aperta. È altrettanto assurdo demandare sistematicamente agli impianti di condizionamento il problema delle alte temperature estive nelle abitazioni private, anziché imporre nelle politiche abitative modalità di costruzione e materiali edilizi tali da garantire agli edifici quelle caratteristiche qualitative che le case di qualche secolo fa già avevano, ossia di essere vivibili anche d’estate.


Ugualmente grottesco è che tanta gente si iscriva a piscine e palestre e poi inforchi il motorino per coprire distanze tranquillamente percorribili in bicicletta o a piedi e senza vie trafficate: ma andare in palestra crea l’illusione di condurre uno stile di vita al passo con i tempi, e il motorino è, soprattutto per i più giovani, l’oggetto del desiderio artificialmente creato da note industrie.


Di questo diverso modo di guardare al rapporto tra dimensione naturale e dimensione artificiale fa parte anche l’uso dei farmaci antinfluenzali, frutto di un concetto altrettanto artefatto di buona salute: la buona salute non consiste, infatti, nel non ammalarsi di influenza, ma nell’avere un sistema immunitario capace di superarla nei tempi che madre natura richiede, pur coadiuvata da semplici rimedi per alleviarne il disagio. Altrettanto dicasi, dunque, per l’alimentazione: nessun fanatismo per il biologico, come spiegherò più oltre, ma nemmeno un acquisto acritico di prodotti cui affidiamo il compito di nutrirci e che, invece, originano da luoghi così remoti, hanno subìto trattamenti così aggressivi e processi di produzione così artificiali da costituire semplici simulacri di alimenti.


Non si tratta, dunque, di proporre il ritorno ad un sistema di vita arcaico e di fatto impraticabile nella realtà odierna. Si tratta di apprezzare la civiltà industriale avanzata per tutto quello che sa darci di buono, rifiutando di prenderne il cattivo, o riducendolo al minimo. L’industria alimentare, in particolare, deve necessariamente porre al centro il benessere reale del consumatore. Il compito di controllare che questo avvenga è delle autorità sanitarie, ma solo entro un certo limite. Le nostre scelte come consumatori determinano inevitabilmente gli orientamenti della produzione: consumatori disattenti, o fortemente condizionati da messaggi pubblicitari, creano un sistema produttivo consapevole della propria forza di manipolazione, e viceversa. Identico discorso si può fare per la salute: essere consapevoli della distanza esistente tra ciò che il nostro benessere reale richiede e i bisogni indotti dall’industria farmaceutica è indispensabile per garantire non solo la salute nostra, ma anche quella dell’intero sistema sanitario, troppo spesso colonizzato da generi di affari che con la salute dell’individuo hanno ben poco a che fare.


Lo scopo, allora, diviene quello di creare, fin da quando si è piccoli, una cultura dell’intelligenza critica applicata a qualsiasi campo della vita per avere, un giorno, una società di adulti che aspiri davvero al meglio sotto il profilo qualitativo, e non solo quantitativo; che non si lasci rendere schiava, e ridicolizzare, dai condizionamenti culturali, senza al tempo stesso cadere nell’anticonformismo di maniera, né acconsenta a farsi docile strumento di interessi economici, a scapito della salute propria e della collettività, né affidi queste ultime alla sola politica sanitaria dei governi, ma la tuteli quotidianamente, facendo sentire la propria voce anche quando deve semplicemente scegliere un cibo da uno scaffale di supermercato.

Vi racconto il GAS

Da quasi venti anni la mia famiglia usa alimenti biologici. Prima saltuariamente, quando capitava, perché trovarli era difficoltoso. La consegna della frutta e della verdura avveniva con le modalità più complicate, quasi per scoraggiare i pochi che si avventuravano in questa pratica. Oggi è molto più semplice. Anche la grande distribuzione ha scoperto il biologico. Non amo questi prodotti; la vera dimensione del biologico è a livello locale, nella vendita dal produttore al consumatore: quando si esce da questa logica, spesso prevale la speculazione. Nelle scuole d’infanzia di cui curo l’alimentazione mi sono preoccupato di cercare produttori locali certificati per la fornitura delle materie prime per la mensa scolastica. È sorta così a Pisa la prima mensa biologica certificata della Toscana. Da qualche anno utilizzo la verdura prodotta da un coltivatore che ha un campo poco lontano da casa. Abbiamo una specie di GAS1 di strada, una decina di famiglie che ritirano la busta con le verdure di stagione direttamente dal bagagliaio della mia auto, dove avviene fisicamente la consegna.


Ne vale la pena? Ce lo chiediamo soprattutto in inverno, quando la busta con le verdure di stagione non contiene altro che tante varietà di cavoli, mentre sui banchi del supermercato fanno bella mostra ogni tipo di ortaggi, lucidi e accattivanti. Qualcuno nega persino la superiorità dei prodotti cosiddetti “biologici” rispetto ai prodotti convenzionali, sostenendo che le informazioni riportate dalla letteratura scientifica, quindi basate su prove concrete, sono scarse, frammentarie e contraddittore. Non esisterebbero confronti rigorosi con i prodotti convenzionali (anche per la difficoltà ad effettuarli), e anche questa non è una novità. I comportamenti dell’industria della nutrizione ricalcano quelli dell’industria del farmaco. Gli studi favorevoli si pubblicano facilmente su riviste prestigiose, quelli sfavorevoli semplicemente non si rendono noti, quindi non esistono. Se poi tutto ciò determina implicazioni potenzialmente significative per la salute pubblica, pazienza. È sempre il pifferaio che sceglie la musica, mai il pubblico, anche se pagante. Ad oggi recenti studi scientifici e clinici hanno dimostrato che la frutta biologica contiene in genere più vitamina C, che il latte è più ricco di omega 3 (che giocano un ruolo fondamentale nel corretto sviluppo del cervello e della retina nei bambini), che nei pomodori coltivati senza fertilizzanti chimici la quantità di minerali e licopene (sostanza anticancro) è maggiore, e che seguire una dieta equilibrata con alimenti biologici determina un aumento della capacità totale antiossidante plasmatica e della quantità di acido folico, e una diminuzione dei livelli di omocisteina e di citochine infiammatorie, correlabili alla riduzione del rischio di malattie cardiovascolari e cronico-degenerative. Studi comparativi condotti su mele biologiche e convenzionali, compresi nel progetto Mipaf-Inn, negli anni 1995-96 avevano già evidenziato differenze statisticamente significative, a favore delle mele biologiche, nel contenuto di sostanze ad azione antiossidante. Partendo da questa indicazione, l’INRAN ha preso in esame altre tipologie di frutta (pesche, pere, susine e arance) riscontrando, nei prodotti biologici, un contenuto più alto in polifenoli totali, in composti dotati di attività antiossidante, in alcuni carotenoidi. Un altro elemento di differenza generalmente costante in tutti i prodotti è rappresentato dal maggior contenuto di ceneri nei prodotti biologici, indice di un maggior assorbimento di sali minerali dal terreno. Anche dal secondo rapporto State of Science Review, a cura dell’americano The Organic Center for Education and Promotion, emerge come il sistema colturale biologico permetta ai prodotti agricoli di possedere dei livelli di sostanze antiossidanti superiori a quelli derivanti dai metodi convenzionali. Il rapporto prende in considerazione una serie di studi in cui vengono paragonati i contenuti in sostanze antiossidanti di prodotti biologici e convenzionali, coltivati a parità di condizioni agronomiche e climatiche. Tra i dati presentati, si legge che i prodotti biologici possiedono livelli di antiossidanti superiori in media del 30% rispetto agli analoghi convenzionali, in 13 casi su 15. Le principali motivazioni risiederebbero nella maggiore risposta immunitaria da parte della pianta in assenza di somministrazione di pesticidi. Le sostanze attive per le piante sarebbero proprio gli antiossidanti presenti nel prodotto fresco, che risultano importanti per il loro effetto benefico su chi ne consuma. I prodotti così coltivati sono liberi dalle neurotossine, presenti nei pesticidi organofosfati, ancora adoperati in molti Paesi.

Uno studio del 19992 evidenziava nelle urine di tutti i bambini “valori di residui significativamente più elevati” rispetto agli adulti, residui che scomparivano quando fosse stato consumato in mensa biologica anche un solo pasto al giorno. Nel 2003 il Dipartimento di Salute Ambientale della School of Public Health and Community Medicine dell’Università di Washington concludeva lo studio Esposizione a pesticidi organofosforati da parte di bambini in età prescolare con alimentazione convenzionale e biologica con le parole: “Lo studio ha rilevato che i bambini con dieta prevalentemente biologica presentano livelli di esposizione ai pesticidi organofosforati significativamente inferiori a quelli che consumano prevalentemente alimenti convenzionali […]. Il consumo di prodotti biologici costituisce un mezzo relativamente semplice a disposizione dei genitori per ridurre l’esposizione dei loro bambini ai pesticidi”. Nel 2005 una ricerca della Emory University ha rivelato che nell’urina di chi consuma prodotti alimentari da agricoltura industriale si individuano residui degli antiparassitari organofosforati, che possono comportare disordini neurologici negli animali e nell’uomo e che scompaiono dopo pochi giorni con un’alimentazione a base di cibi biologici.


L’organismo in via di sviluppo dei bambini è più sensibile alle tossine di quello degli adulti; e il rischio è più alto dato che il loro organismo è ancora in fase di rapido sviluppo. Si tenga poi presente che la dose ritenuta tossica per una sostanza chimica non fa mai riferimento ai bambini ma a un adulto del peso medio. Un corpo di 70 chili reagisce molto diversamente da uno di 10. L’OMS ha pubblicato, nel luglio 2007, il suo primo rapporto riguardante la particolare vulnerabilità dei bambini all’esposizione a sostanze chimiche nocive, secondo le diverse fasi della crescita. Esso evidenzia che la fase di sviluppo, durante la quale i bambini sono esposti a sostanze chimiche nocive, potrebbe essere un fattore ugualmente importante come l’intensità dell’esposizione. Credo sia opportuno alimentare i bambini senza esporli ai pesticidi e agli organismi geneticamente modificati, che hanno una breve storia di utilizzo e quindi scarse informazioni sulla loro sicurezza. La carne proveniente da allevamenti biologici annulla il rischio di assunzione di antibiotici, ormoni sintetici e altri farmaci molto utilizzati negli allevamenti intensivi. E poi, a dire il vero, la maggior parte del cibo biologico ha un sapore migliore rispetto all’equivalente ottenuto con concimi chimici e pesticidi. Certo non sempre, conta moltissimo che la frutta e la verdura venga raccolta quando è matura e non prima, e per questo è bene diffidare della grande distribuzione e affidarsi a produttori piccoli e locali.


Esistono produttori che, in base alla loro etica, forniscono alimenti di qualità, nel rispetto dell’ambiente e della salute loro e dei consumatori, anche se non biologici. Così come esistono produttori che cercano solo il guadagno, e sfruttano i vuoti legislativi e la buona fede dei consumatori per spacciare per biologici prodotti che non lo sono affatto. Bisogna essere molto accorti, richiedere le certificazioni o conoscere bene i produttori. Posso comprare, e mangiare con piacere anche prodotti non bio, se la bontà di un prodotto mi appare evidente. Se assaggio un formaggio, mi informo come è prodotto, se è a base di latte crudo o pastorizzato, se proviene da uno o più allevamenti, di quanto tempo è la stagionatura: se il latte è biologico sono più contento, ma se non è buono poco mi importa se è biologico o meno: non lo compro.


Per migliaia di anni i contadini hanno ottenuto i loro prodotti senza impiegare erbicidi, pesticidi, fungicidi e fertilizzanti: l’agricoltura biologica è la vera agricoltura tradizionale. Sono le pratiche moderne, che dovrebbero essere chiamate agricoltura chimica, a essere distruttive per l’ambiente e non sostenibili per il futuro del pianeta. L’EPA, l’agenzia statunitense per la protezione dell’ambiente, stima che i pesticidi inquinano la fonte idrica primaria di metà della popolazione americana, e considera il 60% degli erbicidi, il 90% dei fungicidi e il 30% degli insetticidi come potenzialmente cancerogeni.


Le tecniche dell’agricoltura biologica rispettano l’ambiente e i suoi equilibri; limitano l’inquinamento atmosferico e delle acque, evitano lo sfruttamento eccessivo delle risorse naturali e l’erosione del suolo, scongiurano l’estinzione di organismi utili, preservano la biodiversità nell’ambiente. Gli animali vengono allevati garantendo loro cicli di vita più naturali.

Chi me lo fa fare di mangiare biologico?

In un ironico e divertente episodio dei Simpson, la buona Marge organizza a casa propria una festa per mamme e bambini e al momento di offrire la merenda viene investita da una raffica di critiche dalle madri scandalizzate dalla sua scarsa cultura sui cibi biologici. Decide allora di seguire regole dietetiche più sane quando somministra il cibo ai suoi piccoli ospiti durante una festa successiva, ma questa volta viene rimproverata per il materiale delle pentole da forno in cui ha cotto gli alimenti. Determinata ad abbracciare una nuova cultura di vita, porta suo marito Homer a fare la spesa presso un mercato che vende esclusivamente cibo biologico, ma al momento di pagare il conto è altissimo. Alla fine dell’episodio, lei e Homer decideranno di abbuffarsi di schifezze, come compensazione per i continui sacrifici che mandare avanti una famiglia richiede, e di comprare cibi sani solo per i figli.


Come spesso accade nella nota serie televisiva, il tono sorridente del racconto mette a nudo una verità amara, ossia che anche le scelte ideali bisogna potersele permettere economicamente.


È vero che il GAS di cui ho parlato costituisce, in realtà, anche un modo per risparmiare, in quanto le verdure che acquistiamo costano solo 2,5 euro al chilo. Tuttavia non si può negare che chi, in mancanza di iniziative del genere già avviate, volesse comprare cibi biologici presso negozi o supermercati si troverebbe quasi sempre a dover sostenere un costo aggiuntivo, talora non piccolo.


Una prima soluzione al problema potrebbe essere quella di privilegiare quei supermercati che hanno inserito in modo sistematico nella propria catena distributiva prodotti biologici con proprio marchio, e quindi certificati, a prezzi quasi uguali, e talvolta perfino inferiori, a quelli dei prodotti non bio.


In secondo luogo, se non proprio una regola sistematica di vita, la scelta di prodotti biologici dovrebbe diventare una sistematica tendenza quando possa venire effettuata a parità di costo, o a costo solo lievemente superiore. In economia esiste il concetto di “utilità marginale della spesa”: esso esprime quanta utilità aggiuntiva (in termini materiali o di soddisfazione personale) un individuo ottiene spendendo un’unità in più del proprio reddito in un determinato bene di consumo. L’utilità marginale di ogni euro, o frazione di euro, speso in più per un cibo biologico è senza dubbio più elevata di quella ottenibile, a parità di spesa, da un cibo che non risponda a determinati requisiti qualitativi. Comprando un cibo a basso costo e di qualità scadente, avrò infatti una percentuale maggiore del mio reddito disponibile per altri beni di consumo (vestiario, cinema, benzina…). Tuttavia, il costo che non pago al momento di acquistare un certo cibo, lo pagherò sotto altra forma dopo poco tempo, in termini di minore benessere fisico, ossia in termini di costi aggiuntivi per la salute. Ciò significa affermare un primo, fondamentale principio su cui dovrebbe basarsi l’educazione delle nuove generazioni: provvedere alla salute è più importante che possedere un paio di scarpe alla moda o disporre di più soldi per dare benzina al motorino con cui scorrazzare in città. Questo per quanto attiene le conseguenze sul singolo individuo. Se poi dall’ambito individuale passiamo a quello collettivo, nell’utilità marginale delle nostre scelte in fatto di cibo dobbiamo includere anche l’inquinamento ambientale. Un dato per tutti: metà delle acque di laghi e fiumi italiani è contaminata da pesticidi. Il numero di sostanze pericolose trovate nelle acque, superficiali e sotterranee, è addirittura aumentato negli ultimi anni: nel 2010 sono stati individuati ben 166 tipi diversi di pesticidi, a fronte dei 118 del biennio 2007-2008. L’aumento è certamente determinato, in parte, dai controlli più accurati rispetto a qualche anno fa. Ciò non toglie, tuttavia, che si rimanga ugualmente allibiti dai dati forniti dall’ISPRA (Istituto Superiore per la Ricerca e la Protezione Ambientale) nel Rapporto nazionale pesticidi nelle acque 2013. Si tratta di uno studio realizzato sulla base dei monitoraggi delle acque comunicati all’ISPRA dalle Regioni e dalle Agenzie regionali e provinciali per la protezione ambientale: il 55% delle acque superficiali (fiumi, laghi e paludi) e quasi il 30% di quelle sotterranee sono contaminati. A rischio sono sia gli organismi acquatici che l’uomo, esposto ai contaminanti attraverso il cibo e l’acqua. Le “acque utilizzate per scopo potabile – fa infatti sapere l’ISPRA – spesso attingono agli stessi corpi idrici” degli ecosistemi acquatici. Inoltre il 34,4% delle acque superficiali analizzate, e il 12,3% di quelle sotterranee, superano i livelli massimi di pesticidi consentiti.


È facile intuire che, per refluire in dosi così massicce nelle acque potabili, i pesticidi hanno prima impregnato i terreni in cui sono stati coltivati i cibi che arrivano sulla nostra tavola. L’agricoltura italiana detiene, infatti, il record europeo di impiego di fitosanitari: 5,6 chili per ettaro (dati Istat), 350 sostanze tossiche diverse, 140mila tonnellate all’anno, che da sole fanno il 33% del totale usato in tutta l’Unione Europea. Si noti poi che i dati sono parziali, perché in molti casi le stesse Regioni e le Agenzie per la protezione ambientale non comunicano all’ISPRA i dati sulle contaminazioni oppure lo fanno in modo parziale. Nelle mappe ISPRA infatti mancano i dati di Liguria e Calabria, e sono troppo pochi per essere utili quelli di Campania, Sardegna, Basilicata, Lazio, Molise e più o meno di tutte le Regioni a esclusione di quelle della pianura padano-veneta, in cui di conseguenza l’inquinamento appare maggiore.


Le politiche agroalimentari della Comunità Europea hanno da tempo stabilito l’importanza della reale riduzione dei pesticidi finanziando con miliardi di euro progetti di riconversione, di agricoltura integrata, di transizione al biologico. Questi progetti in Italia hanno poca fortuna, soffocati da sussidi inutilizzati, piccole e grandi truffe, incapacità e disinteresse. Così, nel nostro Paese, negli ultimi venti anni, le vendite di pesticidi chimici di sintesi, acquistati spesso a scontrino, da agricoltori che hanno percepito e continuano a percepire pagamenti agroambientali sono in costante e progressivo aumento, mentre l’agricoltura biologica ha visto ridurre i terreni a fine conversione (certificati) di oltre il 20% negli ultimi 10 anni.


Immaginiamo per un attimo quale messaggio riceverebbe l’industria agro-alimentare se nei supermercati andassero a ruba i prodotti biologici e giacessero per lo più invendute le scorte dei corrispettivi prodotti trattati chimicamente: ogni euro speso equivarrebbe a un voto in favore di un sistema diverso di produzione; non più arcaico, o meno rigido nei controlli qualitativi. Garantire una produzione agricola su vasta scala senza devastare l’ambiente con l’abuso di pesticidi richiede senza dubbio un’agricoltura culturalmente più avanzata, e non più arcaica, ma non necessariamente più costosa se la catena distributiva si basasse sulla produzione locale, e non su quella che richiede il trasporto dei prodotti su distanze lunghissime o addirittura enormi; se si educassero i consumatori ai prodotti stagionali, e non alla artificiosa bizzarria dei prodotti simil-naturali e disponibili tutto l’anno.


Senza fanatismo, ripeto, ma con l’intelligenza critica che sempre raccomando, pensiamo a questi dati quando eseguiamo quell’operazione apparentemente banale che è il fare la spesa, e che invece dovrebbe richiedere l’attenzione che merita un investimento sul nostro futuro e su quello dei nostri figli. L’affermazione non deve suonare retorica in quanto una nuova branca della ricerca genetica, l’epigenetica, sta dimostrando come l’esposizione nell’età dello sviluppo a squilibri nutrizionali o a inquinanti ambientali – inclusi metalli, pesticidi, prodotti chimici nell’acqua potabile, inquinanti non degradabili – possono determinare mutamenti epigenetici, diventando così responsabili dell’insorgenza di determinate malattie in età adulta. Un mutamento epigenetico non modifica il corredo genetico di un individuo (ossia non modifica la sequenza dei nucleotidi), ma il modo in cui uno o più geni, per così dire, si manifestano e funzionano.


La cosa più interessante è che, pur non modificando tali cambiamenti il gene in sé, essi entrano a far parte del patrimonio dei caratteri trasmissibili di generazione in generazione. In altre parole, talune modificazioni che il nostro organismo subisce a causa delle condizioni ambientali in cui vive non coinvolgono un singolo soggetto, ma vengono ereditate dai suoi discendenti. Alcuni processi indotti da stimoli esterni, infatti, alterano la possibilità per determinati enzimi e proteine, deputati all’espressione di un determinato gene, di raggiungere le regioni del genoma dove essi dovrebbero esplicare la propria funzione.

È stato osservato, ad esempio, come i nipoti dei nonni paterni (ma non materni) degli uomini svedesi che avevano sperimentato un periodo di grave carestia durante il XIX secolo incontrassero minore probabilità di morire di malattie cardio-vascolari. Invece, i discendenti di coloro che avevano goduto di cibo abbondante avevano maggiori probabilità di morire di diabete. L’effetto opposto è stato registrato per la popolazione femminile: le nipoti dei nonni paterni (non materni) che avevano subito la carestia vivevano di meno3.


La somministrazione di integratori alimentari a un gruppo di topi si è mostrata capace di indurre modificazioni epigenetiche sul cosiddetto “gene Agouti”, che presiede al colore della pelliccia, alla regolazione del peso e alla propensione a sviluppare cancro4.


Ciò apre naturalmente uno scenario affatto nuovo quando si cerchi di valutare le reali conseguenze di un ambiente di vita inquinato sugli esseri viventi, incluso l’uomo. In precedenza potevamo credere che la scarsa cura per la salute dell’ambiente avesse ricadute negative solo fin tanto che gli individui continuavano a interagire con agenti inquinanti, ma che, una volta trovato il modo di eliminare o almeno diminuire drasticamente questi ultimi dall’aria, da cibi e bevande, le generazioni successive non potessero più risentire delle conseguenze negative sulla salute che avevano sperimentato i loro predecessori. Viceversa, i risultati dell’epigenetica pongono sulle nostre spalle ben altra responsabilità nei confronti delle future generazioni, dal momento che l’emergere di determinate patologie legate a eventuali cambiamenti epigenetici si potrebbe trasformare in carattere ereditario: un dato che una volta di più dovrebbe far percepire lo sforzo per preservare la salute dell’ambiente come frutto di semplice istinto egoistico a favore della propria discendenza.

L’ambiente sono io

Ricordate il volto d’uomo di Giuseppe Arcimboldo? Da lontano vedete un volto umano, ma se vi accostate al quadro vi accorgete che il pittore ha sostituito a ogni singolo dettaglio del volto e della capigliatura un frutto o un ortaggio. Poiché un’opera d’arte è tale in quanto comunica sempre nuovi significati al succedersi delle varie generazioni, inviterei ad adottare il quadro del famoso pittore del ’500 come strumento didattico per i bambini, per far loro capire l’essenza del concetto “l’uomo è ciò che mangia”. Di conseguenza, l’uomo è anche ciò che è attorno a lui, perché ciò che si mangia è il prodotto della terra, dell’acqua e dell’aria. In sintesi: io sono l’ambiente che mi circonda. Se l’ambiente in cui vivo è intossicato, tutto ciò che compone il mio corpo sarà altrettanto intossicato e produrrà in me la malattia. Potrò assumere farmaci in quantità, ma ciò non aumenterà il mio grado di salute fino a quando non provvederò a rendere più sani il cibo e l’acqua che nutrono il mio sangue e l’aria che entra nei miei polmoni.


Recentemente il dipartimento di “Salute pubblica e ambiente” dell’Organizzazione Mondiale di Sanità (OMS), ha presentato un rapporto, Preventing Desease Through Healthy Environments, che definisce i modi possibili per prevenire le malattie realizzando ambienti più sani, offrendo un’analisi statistica dettagliata dell’incidenza che hanno i fattori ambientali, sui quali è possibile intervenire, sulla morbilità e sulla mortalità nel mondo.


Si tratta di un’analisi significativa in quanto fino ad ora era stata esaminata l’incidenza dei fattori ambientali sulla salute nei luoghi di lavoro o, piuttosto, il rapporto tra una singola causa – per esempio l’amianto – e una singola malattia, il mesotelioma. Di rado si è misurata l’incidenza globale di tutte le cause ambientali – ovvero dell’ambiente nel suo complesso – sull’intera salute umana.


I risultati ottenuti con il lavoro di oltre 100 esperti sono, in estrema sintesi, questi: il 24% di tutte le malattie che colpiscono gli uomini e il 23% di tutte le morti hanno una causa ambientale. Il che significa che l’ambiente gioca un ruolo decisivo nella nostra salute. Il dato però che più ci interessa, ai fini del nostro discorso, è che i fattori ambientali non incidono in maniera uniforme: la loro impronta è maggiore proprio nelle fasce inferiori d’età. Tra i bambini e i ragazzi di età compresa tra 0 e 14 anni l’incidenza è del 50% maggiore rispetto alla media generale. E infatti la percentuale di morte per cause ambientali in questa fascia d’età è del 36%.


Inoltre, come c’era da aspettarsi, ci sono marcate differenze regionali che nascondono differenze tra classi di reddito. I fattori ambientali sono responsabili del 17% delle morti nei Paesi sviluppati, ma del 25% delle morti in quelli in via di sviluppo e superano il 30% in Africa. Variano, di conseguenza, in base al sistema economico e all’organizzazione sociale anche le patologie legate ai fattori ambientali: la diarrea colpisce le aree dove più carenti sono le strutture igienico-sanitarie (ben il 94% dei casi di tale patologia dipende dalle condizioni ambientali in cui vive il soggetto che ne è colpito), mentre nei Paesi in via sviluppo il 42% delle malattie respiratorie sono connesse a fattori esterni. Questa stessa percentuale cala al 20% nei Paesi economicamente sviluppati, ma il dato non è tranquilizzante in quanto un vasto studio condotto in Europa, il progetto ESCAPE (European Study of Cohortes for Air Pollution Effects), ha dimostrato come il rapporto di causa-effetto tra presenza di inquinanti nell’aria e sviluppo di cancro al polmone si determini anche in presenza di percentuali di agenti tossici ben inferiori a quelli prescritti dalla legislazione dell’UE. Le attuali normative dell’Unione Europea in vigore dal 2010 stabiliscono infatti che il particolato presente nell’aria debba mantenersi al di sotto dei 40 microgrammi per metro cubo per i PM 10 e al di sotto dei 20 microgrammi per i PM 2.5. Tuttavia, anche rimanendo al di sotto di questi limiti, non si esclude il rischio di tumore al polmone per cause legate alla qualità dell’aria.


Nello specifico, lo studio ha permesso di concludere che per ogni incremento di 10 microgrammi di PM 10 per metro cubo presenti nell’aria aumenta il rischio di tumore al polmone di circa il 22%. Tale percentuale sale al 51% per una particolare tipologia di tumore, l’adenocarcinoma. Questo è l’unico tumore che si sviluppa in un significativo numero di non fumatori lasciando quindi più spazio a cause non legate al fumo da sigaretta di espletare il loro effetto cancerogeno.


Inoltre si è visto che se nell’arco del periodo di osservazione un individuo non si è mai spostato dal luogo di residenza iniziale, dove si è registrato l’elevato tasso di inquinamento, il rischio di tumore al polmone raddoppia e triplica quello di adenocarcinoma.


Come se ciò non bastasse, la ricerca europea – alla quale ha dato il suo contributo anche un gruppo dell’Istituto Nazionale dei Tumori di Milano guidato da Vittorio Krogh, responsabile della Struttura complessa di epidemiologia e prevenzione – ha evidenziato come i centri italiani monitorati abbiano la più alta presenza di inquinanti, con concentrazioni medie molto più alte che in altre nazioni.


Ha senso, di fronte a questi dati, tenere separata la politica sanitaria da quella ambientale? Ha senso promuovere la vendita di farmaci – dagli sciroppi agli spray nasali – senza iscrivere il miglioramento della qualità dell’aria al primo posto per la prevenzione (vera) delle varie patologie a essa legate?

La dieta mediterranea

Una sana alimentazione associata a uno stile di vita salutare servono a mantenerci in buona salute, a prevenire le malattie cronico-degenerative che concorrono alla riduzione della qualità di vita in tarda età. L’aspettativa di vita è in aumento, ma l’aspettativa di vita sana è in diminuzione. Sono poco incisive le “campagne di prevenzione” indirizzate agli adulti. Non è prevenzione individuare una malattia quando è già presente, ma è soltanto la formulazione di una diagnosi precoce. Per prevenire alcune malattie croniche bisogna intervenire quando la salute non è compromessa, piuttosto che spendere ingenti risorse per individuarle quando sono già presenti, o, peggio, per curarle quando si sono ormai manifestate. Per far ciò, sono necessarie scelte responsabili sin dai primi anni di vita ed è ancora meglio se si inizia prima della nascita quando il bambino è ancora nella pancia della mamma. Una sana alimentazione servirà a ottenere un corretto sviluppo fetale, un accrescimento armonico in età evolutiva, contribuirà al benessere psicofisico, alla prevenzione delle patologie croniche per garantire una migliore qualità di vita in età avanzata.


L’alimentazione equilibrata, variata, sicura per l’organismo e per l’ambiente, etica e sostenibile è qualcosa di più e di diverso del nutrirsi per vivere. Si ricollega a una scelta etica che preserva le tradizioni, gli usi e i costumi dei popoli di qualsiasi origine. È sostenibile nel rispetto dell’ambiente, del suolo, degli animali, degli operatori del settore e delle generazioni future. Il tipo di dieta che seguo, e che propongo, è quella definita “mediterranea”, basata sul consumo molto frequente di frutta e verdura fresche, di cereali (pane, pasta) e patate, sull’uso regolare di legumi, di olio extravergine d’oliva sia per condire che per cucinare. Pesce 2-3 volte alla settimana, poca carne e formaggio.


Non voglio in queste pagine dilungarmi troppo sull’alimentazione. Sono stati scritti tanti libri su questo argomento, e alcuni molto belli. Desidero solo sottolineare alcuni princìpi, che possono servire ad aiutare a prevenire le più comuni malattie o, ancora più semplicemente, a sentirsi meglio. È importante abituare sin da piccoli i bambini al sapore naturale degli alimenti, senza aggiungere salse o sale. Usare le erbe aromatiche, ad esempio, permette di correggere il sapore degli alimenti senza conseguenze negative sulla salute. Maggiorana, aneto, finocchietto selvatico, pimpinella, borragine, tarassaco, ortica, salvia, origano, rosmarino, alloro sono solo alcune delle piante che hanno questa funzione e che, essendo ricche di fitosteroli, posseggono numerose proprietà benefiche. Bisogna, anche se è complicato, passare più tempo in cucina, magari insieme ai bambini. Vanno evitati i prodotti in scatola o precucinati: nessuno può essere certo della reale composizione e dei metodi di preparazione. Quelli surgelati non dovrebbero causare enormi problemi, se si tratta di cibi semplici come gli spinaci e non di ricette precucinate e surgelate. In ogni caso il prodotto fresco è di certo migliore, e cucinare in compagnia (anziché riscaldare nel microonde) è sempre un’ottima scusa per favorire l’aggregazione e per divertirsi con gli altri.

I carboidrati

Devono rappresentare il 50-60% dell’energia totale introdotta quotidianamente: le diete a basso contenuto di carboidrati sono concettualmente sbagliate. In particolare, gli zuccheri semplici (zucchero, dolciumi) vanno limitati a favore di quelli complessi. Fra gli alimenti che contengono carboidrati semplici è meglio privilegiare la frutta fresca e di stagione, fra quelli che invece contengono carboidrati complessi, favorire cereali integrali e legumi. L’associazione di cereali e legumi rappresenta una sana alternativa ai prodotti di origine animale, perché fornisce tutti gli aminoacidi di cui l’organismo necessita. È opportuno sperimentare altresì cereali poco conosciuti come il bulgur, il miglio o l’amaranto: le differenze dei micronutrienti, delle vitamine, dei sali minerali sono importanti e significative. Per ridurre le calorie senza influenzare la sazietà è utile “gonfiare” le portate con la verdura (riso e zucchine, pasta e melanzane, ecc.). Questo permette di ridurre i quantitativi degli altri alimenti più calorici (pasta, carne, ecc.). Lo zucchero (anche quello di canna) e i dolcificanti artificiali (aspartame, saccarina, ecc.) andrebbero evitati; limitati quelli naturali (fruttosio).

I grassi

Sono stati accusati a sproposito di ogni male, e difatti si ribadisce sempre la necessità di ridurre il contenuto di grassi nella dieta. Sembra invece che non vi siano grossi motivi per ridurre in modo eccessivo il contributo dei lipidi alla composizione della dieta. Semmai, anche in questo caso, è opportuno migliorarne la qualità. I grassi possono contribuire fino al 30% dell’energia totale. È opportuno ridurre (senza eliminarli) i grassi saturi, che provengono in prevalenza dai prodotti di origine animale, come la carne e i latticini, a favore dei grassi insaturi contenuti nel pesce, nell’olio extravergine di oliva e nella frutta secca oleosa (noci, mandorle, anacardi). L’olio di oliva extravergine, inoltre, non ha controindicazioni e può essere pertanto utilizzato senza particolari restrizioni per cucinare e per condire, magari riducendo le porzioni dei piatti in cui viene utilizzato, in modo da controbilanciare le sue calorie. Il pesce azzurro andrebbe privilegiato, perché più ricco di omega-3. Infine, l’avocado ha un elevato contenuto di grassi monoinsaturi, gli stessi dell’olio di oliva.

Le proteine

Non ci sono prove che aumentando i consumi di alimenti ricchi di proteine si ottenga una perdita di peso e si prevengano le malattie cardiovascolari. In realtà, anche in questo caso non serve stravolgere la propria alimentazione, dal momento che il consumo di alimenti proteici di origine animale (come la carne e i latticini) andrebbe ridotto perché si associa a un maggiore rischio di malattie croniche e a una minore longevità. È importante invece favorire il consumo di alimenti proteici di origine vegetale, come i legumi (alimenti ricchi di sostanze antiossidanti), soprattutto in associazione con i cereali (pasta e ceci, riso e piselli, ecc.). Sarebbe opportuno che la quantità di proteine animali e vegetali fosse uguale, comunque non superiore al 13-15% dell’energia introdotta quotidianamente.

Quanto mi muovo

Non basta seguire una dieta corretta se non si segue uno stile di vita salutare. Bisogna camminare, muoversi molto più di quanto si faccia comunemente. Non sono sufficienti le 2-3 ore alla settimana di attività fisica “istituzionalizzata”. Le ore in piscina, o in palestra, non servono se i bambini trascorrono il resto del loro tempo seduti davanti alla televisione o a giocare al computer. La televisione può essere anche esclusa completamente, soprattutto nei primi anni di vita; per i videogiochi bisogna limitarne l’uso e cercare di insegnare ai bambini che esistono altri modi per divertirsi. Bisogna imparare a sfruttare sin da piccoli tutte le possibilità per muoversi, evitando di prendere l’ascensore ma usando le scale, usando la bicicletta invece dell’auto (anche d’inverno) o andare a piedi da un posto all’altro tutte le volte che è possibile. In generale, è opportuno fare almeno 30 minuti al giorno di attività aerobica moderata (camminare, andare in bicicletta, nuotare, pattinare, ecc.).

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Tognon G., La regola delle 4Q per un’alimentazione sana ed equilibrata.

Vaccinazioni: alla ricerca del rischio minore - 2ª edizione
Vaccinazioni: alla ricerca del rischio minore - 2ª edizione
Eugenio Serravalle
Immunizzarsi dalla paura, scegliere in libertà.A seguito dell’introduzione dell’obbligatorietà vaccinale, l’autore cerca di fare chiarezza su tale questione, analizzando i dati con chiarezza e linearità. I vaccini sono tutti uguali?Qual è la durata?Quale l’efficienza?Cosa si intende per immunità di gregge?È la stessa per tutte le malattie?A seguito dell’introduzione dell’obbligatorietà vaccinale, il dottor Eugenio Serravalle cerca di fare chiarezza, accompagnando il lettore nel labirinto di dati e termini tecnici con linearità.Vaccinazioni: alla ricerca del rischio minore è una lettura indispensabile per imparare ad applicare il senso critico ad argomenti sui quali ci troviamo spesso indifesi, come l’informazione medico-sanitaria diffusa da stampa e televisione. Conosci l’autore Eugenio Serravalle è medico specialista in Pediatria Preventiva, Puericultura e Patologia Neonatale.Da anni è consulente e responsabile di progetti di educazione alimentare di scuole d’infanzia di Pisa e comuni limitrofi.Già membro della Commissione Provinciale Vaccini della Provincia Autonoma di Trento e relatore in convegni e conferenze sul tema delle vaccinazioni, della salute dei bambini e dell’alimentazione pediatrica in tutta Italia.