A distanza di pochi mesi, a giugno, una settimana dopo la discussione della mia tesi, ero in un’aula di istituto magistrale a sostenere da privatista la maturità che mi serviva per accedere in futuro ad un concorso come insegnante di scuola elementare; intanto in ex Jugoslavia, e in Bosnia in particolare, si consumava la fase più feroce di una guerra incomprensibile.
Pochi mesi dopo la laurea e la maturità partii come volontaria per un anno per un progetto di educazione nonviolenta e di tutela dei diritti umani nei campi profughi bosniaci di Split, e fu il tempo di altre domande sul futuro.
Con lo zaino pieno di interrogativi dopo un anno tornai a casa e il mese successivo fu bandito il concorso per insegnanti di scuola elementare, quasi mi stesse attendendo.
Nel giro di qualche mese incassai la mia nomina a ruolo in una scuola della città dove vivevo. Tutto facile. Incastri perfetti per indicare un percorso di vita, e insieme lavorativo, che dal primo momento si è presentato molto variegato nei contenuti ma tenuto insieme da un filo rosso che dopo vent’anni ancora ritrovo nell’attenzione alla sorte di chi è più fragile, e come orizzonte un cambiamento delle logiche di indifferenza o violenza.
Fare la mia parte per l’umanità e per un futuro migliore nel presente che abito ogni giorno. E farla partendo dai bambini e dalla loro formazione, umana e cognitiva.
In questi vent’anni ho lavorato come insegnante ma anche, quasi subito, come formatrice, con la convinzione che nella scuola andasse promossa una riflessione per “vedere” sempre meglio i bambini; l’ho fatto concentrandomi su alcuni temi specifici, dalla gestione delle relazioni e dei conflitti all’accoglienza degli alunni stranieri.
In questa frequentazione con scuole, insegnanti, bambini visti o solo raccontati, sono sempre (o quasi) finita a verificare come alcuni cambiamenti auspicati e per certi versi inderogabili si scontrassero con approcci strutturali che dentro il “sistema scuola” funzionano da freno.
Oggi, dopo la nascita delle mie bambine e a pochissimo dall’arrivo di due gemellini, desidero davvero pensare che sia possibile una scuola differente, che diventi realtà grazie al contributo di genitori consapevoli, di insegnanti meglio formati e più appassionati e di dirigenti scolastici che sappiano dove dirigere la rotta; oppure che ci sia modo di vivere esperienze didattiche fuori dalla scuola pubblica, non però come una fuga da un’esperienza avvilente ma piuttosto come la messa in atto di progetti educativi con una loro specificità e diritto di espressione.
Una scuola diversa è possibile anche grazie a chi negli anni ha riflettuto e fatto proposte sull’istruzione, a chi ha guardato i bambini cogliendone l’essenza (o le essenze).
Questo libro vuole essere un viaggio intrapreso con fiducia per togliere il punto di domanda dal titolo, per raccontare come una scuola diversa già esiste e può diventare modello diffuso, senza temere mescolanze tra visioni pedagogiche che, pur diverse, hanno in comune quella domanda e ad essa tentano di dare una risposta.
È anche, lo ammetto, il viaggio che io per prima ho percorso in questi vent’anni per poter descrivere quale scuola oggi vorrei per i miei figli e per i bimbi che incontro sulla mia strada. Non è certo un testo enciclopedico, ma è fortemente influenzato dalla mia storia di donna, insegnante, mamma; non compaiono tutte le teorie pedagogiche alternative alla scuola convenzionale ma solo quelle che hanno parlato – almeno un po’ – alla mia testa e al mio cuore, e di cui ho fatto una minima significativa esperienza, magari grazie agli incontri nel mio continuo vagabondare. Un nomadismo irrequieto e mai pago di soluzioni definitive che però mi porta oggi ad avere il grande privilegio di poter condividere, con chi leggerà queste pagine, anni di domande e di risposte, fatiche e speranze, disillusioni e ripartenze.
Ho scelto di aprire queste finestre su orizzonti pedagogici che meriterebbero ciascuno almeno una pubblicazione a sé: quelli che offro in questo libro sono solo scorci, quelli che mi paiono i più rappresentativi e suggestivi per trasferire le intuizioni più profonde che queste visioni offrono; i riferimenti bibliografici, sitografici ed esperienziali al termine di ogni capitolo permettono di ampliare lo sguardo ed entrare nei dettagli.
Per scrivere queste pagine mi sono confrontata con amici di lunga data e persone incontrate per l’occasione, volti e nomi che hanno arricchito le mie conoscenze su alcuni autori o esperienze pedagogiche con la loro competenza specifica. Sono piuttosto nomade, come ho già detto, e mi piace unire i puntini per mostrare un’immagine di senso; forse non riuscirò mai a sposare un’appartenenza in modo assoluto, ma il filo rosso che collega questi sguardi ne mostra a mio parere la complementarietà.
La mia scommessa allora, e non solo per questo libro, è quella di far dialogare Montessori, Rodari, Don Milani, Mario Lodi, Danilo Dolci, Steiner… per avere la migliore delle scuole possibili, fuori da ogni esclusivismo ma con gli occhi fissi in quelli dei bambini che ciascuno di questi grandi ha ascoltato, difeso e portato in primo piano con gli strumenti che il tempo, il luogo e la cultura di ciascuno porta in dote.