CAPITOLO V

Educazione interculturale:
un modello educativo oltre la prima accoglienza

Quando tornerai a scuola, guarda bene tutti i tuoi compagni e noterai che sono tutti diversi tra loro, e questa differenza è una bella cosa.
È una buona occasione per l’umanità. Quei bambini vengono da orizzonti diversi, sono capaci di darti cose che tu non hai, come tu puoi dar loro qualcosa che non conoscono.
Il miscuglio è un arricchimento reciproco. Sappi che ogni faccia è un miracolo. È unica. Non potrai mai trovare due facce assolutamente identiche. Ogni faccia è il simbolo della vita e ogni faccia merita rispetto.”
Tahar Ben Jelloun, 1998

Per più di dieci anni non mi sono occupata quasi di nient’altro.


Arrivando da alcuni anni, i primissimi, di formazione e di esperienza sulla gestione dei conflitti mi è parso ad un tratto evidente, soprattutto lavorando dentro la scuola, che il conflitto che più veniva agito, rappresentato o che, latente, aspettava un nulla per esplodere era quello determinato dalla presenza in classe di alunni migranti e dalla relazione con le loro famiglie e comunità sul territorio. Mi è parso che in questi processi di relazione e di scelte di politica scolastica si giocasse una partita importante sia per la scuola e la sua riflessione interna sia per il futuro delle comunità con cui entravo in relazione.


Una risposta alla domanda iniziale sul mio possibile contributo per orizzonti migliori ha quindi seguito per moltissimo tempo questi percorsi, soprattutto attraverso attività di formazione di insegnanti e mediatori culturali, di consulenza e progettazione con le istituzioni scolastiche di diversi territori. Un decennio che mi ha regalato incontri preziosi, esperienze cariche di umanità e a volte di fatica, abituandomi a una permeabilità culturale che, insieme a molti anni di viaggi sulle strade di Paesi remoti, ha segnato la mia vita ben oltre la sfera lavorativa.


Ma di quali percorsi e di quale contesto stiamo raccontando?


Nell’arco di pochi anni il numero di inserimenti nelle classi di alunni migranti di recente ingresso in Italia è raddoppiato (dal 4,2 % al 8,4% sul numero totale di alunni nell’arco di soli sette anni dall’anno scolastico 2004/5 al 2011/12- fonte MIUR- www.istruzione.it) richiedendo alla scuola uno sforzo a cui è di solito refrattaria, come lo sono tutti o quasi i sistemi complessi: quello di mettere in campo nell’arco di poco tempo un cambiamento di pratiche didattiche, un aggiornamento degli strumenti e dei linguaggi, un allargamento delle prospettive culturali, l’inserimento di buone prassi; un processo di ripensamento, quindi, che ha trovato più di una resistenza.


Molte realtà scolastiche hanno cercato di individuare soluzioni alternative a questa trasformazione, a volte attendendo fino all’ultimo momento per affrontare la questione, altre volte attivandosi ma per cercare risorse esterne alla scuola (i mediatori culturali, in primis) a cui delegare la cura e la prima alfabetizzazione dei bambini non italofoni, altre volte con una selezione drastica dei bambini attraverso bocciature o retrocessioni in classi inferiori a quanto previsto dalla legge.

Oggi che il fenomeno è ormai assestato in molti dei territori del nostro Paese, e ci troviamo fuori dalla fase di emergenza data da numeri e problematiche ad essi connessi1, possiamo fermarci per un bilancio.


Dal mio osservatorio penso di poter dichiarare con assoluta convinzione che abbiamo sprecato, come sistema complessivo, delle grandi occasioni: quella di riflettere sui princìpi di inclusione e di meticciato culturale, quella di ripensare i nostri saperi ricostruendone le origini e le contaminazioni, quella di imparare la relatività dei punti di vista, competenza essenziale al buon funzionamento di qualsiasi relazione, quella di sentirci tutti dentro un processo di trasformazione di cui essere consapevoli e protagonisti e non da rimuovere con preoccupazione.


Il fenomeno dell’accoglienza degli alunni stranieri, e dei relativi processi da governare, hanno mostrato nel nostro sistema scuola il volto schizofrenico che altre questioni analoghe hanno svelato; penso alla problematica e al difficoltoso cambiamento di paradigmi nelle pratiche scolastiche che coinvolgono gli alunni disabili, come primo eclatante esempio.


Gli organismi che, soprattutto negli scorsi anni, sono stati chiamati a fornire linee di indirizzo alla scuola sulle trasformazioni che la interrogavano hanno spesso espresso documenti e indicato pratiche molto condivisibili e culturalmente avanzate anche rispetto a molti altri Paesi europei: dal 1989 ad oggi abbiamo avuto circolari ministeriali, documenti di indirizzo, decreti e normative che hanno tracciato con chiarezza la rotta per una scuola che scegliesse la via interculturale e che da essa si lasciasse permeare e trasformare.


Per anni la scuola, gli enti pubblici locali, le associazioni e le cooperative di settore hanno potuto contare su risorse economiche straordinarie per sviluppare competenze e strumenti, sperimentare strategie e metterle a sistema.


Dobbiamo però registrare come sia le indicazioni ministeriali sia la disponibilità di risorse non abbiano nella gran parte dei casi inciso e determinato una trasformazione sostanziale e diffusa del fare scuola in contesti mediamente multiculturali, ossia la gran parte di quelli in cui gli insegnanti si trovano oggi a svolgere il loro compito.


Un cambiamento strutturale, anche se con luci e ombre, è stato invece quello delle scuole collocate in quartieri di alcune grandi città con tassi molto alti di immigrazione e di presenza di alunni stranieri in classe, superiori anche al 50% rispetto al numero complessivo di alunni. Questi istituti hanno dovuto cambiare abito, o almeno lo hanno fatto gli insegnanti e i genitori che hanno scelto di continuare a lavorare e frequentare quelle classi senza lasciarsi scoraggiare o intimorire.


Proviamo in queste pagine a leggere insieme alcuni spunti che questi documenti e i loro autori, gruppi di lavoro non sempre costituiti da puri teorici ma anche da operatori sul campo, hanno provato a fornire agli insegnanti; questa lettura spero possa dare ancora un’occasione di riflessione, meglio ancora se svincolata da emergenze impellenti legate a flussi consistenti di nuovi inserimenti in classe.


I documenti che ad oggi presentano la migliore sintesi delle normative precedenti e soprattutto delle riflessioni pedagogiche sul tema sono quelli elaborati da un gruppo di esperti e diffusi con una Circolare Ministeriale nel marzo 2006 e in seguito con una recentissima del febbraio 2014; sono le Linee guida per l’accoglienza e l’integrazione degli alunni stranieri.


I due documenti, che portano la stessa denominazione, sono in realtà piuttosto differenti come contenuti: di carattere molto più pedagogico ed educativo il primo, a segnalare una maggior attenzione verso il processo globale che la presenza di alunni stranieri può mettere in moto nel sistema scolastico; di carattere più tecnico ed attento ad aspetti didattici ed organizzativi il secondo, che fa occasionale riferimento alla dimensione interculturale, insistendo molto di più sugli aspetti legati all’orientamento, alla distribuzione territoriale degli alunni migranti, alle strategie per il successo scolastico e il superamento delle difficoltà linguistiche. Questa attenzione intercetta un aspetto senz’altro esistente ed appartenente alla sfera dei diritti degli alunni migranti e delle loro famiglie ma mette pericolosamente in secondo piano una riflessione che permetta un ripensamento più complessivo sui modelli pedagogici ed educativi troppo spesso espressi, inconsapevolmente, dalla scuola pubblica. Nelle righe iniziali della prima versione, riprese testualmente anche nella seconda, si trova ben espresso un principio, anzi il principio che qualifica, o dovrebbe qualificare, lo sguardo della scuola italiana davanti alle domande poste dalla presenza di famiglie e bambini di diversa provenienza culturale all’interno del mondo scolastico.

Ma proviamo a leggerne alcune parti :

L’educazione interculturale costituisce lo sfondo da cui prende avvio la specificità di percorsi formativi rivolti ad alunni stranieri, nel contesto di attività che devono connotare l’azione educativa nei confronti di tutti. La scuola infatti è un luogo centrale per la costruzione e condivisione di regole comuni, in quanto può agire attivando una pratica di vita quotidiana che si richiami al rispetto delle forme democratiche di convivenza e, soprattutto, può trasmettere le conoscenze storiche, sociali, giuridiche ed economiche che sono saperi indispensabili nella formazione della cittadinanza societaria. L’educazione interculturale rifiuta sia la logica dell’assimilazione, sia la costruzione ed il rafforzamento di comunità etniche chiuse ed è orientata a favorire il confronto, il dialogo, il reciproco arricchimento entro la convivenza delle differenze.

Nel documento diffuso nel 2006 molto interessante è il riferimento al nodo della relazione scuola-famiglia, aspetto che a mio parere rimane ad oggi, come detto sin dal primo capitolo, una delle questioni di maggior criticità della nostra scuola, anche per classi monoculturali.

I genitori sono la risorsa fondamentale per il raggiungimento del successo scolastico: pertanto le diverse culture di appartenenza richiedono alla scuola di individuare gli strumenti migliori di dialogo. Di particolare importanza risulta la capacità della scuola di facilitare la comunicazione con la famiglia dell’alunno, prestando attenzione anche agli aspetti non verbali, facendo ricorso, ove possibile a mediatori culturali o ad interpreti, per superare le difficoltà linguistiche ed anche per facilitare la comprensione delle scelte educative della scuola.

I genitori risorsa fondamentale per il successo scolastico, l’impegno della scuola a spiegare le proprie scelte educative… quanto ci parlano affermazioni come queste di un’ombra lunga che ormai accettiamo rassegnati, da entrambe le parti, che connoti la relazione scuola famiglia?

E sulla mediazione culturale, ben descritta nelle sue funzioni nel primo documento ma meno nel secondo in cui i mediatori assumono spesso una funzione di sostanziale interpretariato, si richiama come questo profilo non sia sovrapponibile con quello proprio dei docenti, con una puntualizzazione finale chiarissima:

Resta fermo che la funzione di mediazione, nel suo insieme, è compito generale e prioritario della scuola stessa, quale istituzione preposta alla formazione culturale della totalità degli allievi nel contesto di territorio.

Così come sulla formazione dei docenti, di cui mi sono occupata per tanti anni, mi sembra interessante la definizione che ne viene data nel 2006: non di una formazione strumentale (il solo insegnamento dell’italiano come lingua seconda ai fini del successo scolastico, che prevale nell’attenzione del gruppo di lavoro che ha prodotto le linee guida più recenti) e per questo riservata ai docenti di settore, ma una rilettura pedagogica, e direi antropologica e sociologica, che diventa per ciascun docente condizione essenziale per poter ricoprire con professionalità il proprio compito nel contesto scuola attuale:

L’educazione interculturale non è una disciplina aggiuntiva, ma una dimensione trasversale, uno sfondo che accomuna tutti gli insegnanti e gli operatori scolastici. Il pluralismo culturale e la complessità del nostro tempo richiedono necessariamente una continua crescita professionale di tutto il personale della scuola. Diventa, quindi, prioritario il tema della formazione, iniziale e in servizio, e della formazione universitaria dei docenti. La gestione dell’accoglienza implica all’interno dell’istituto un lavoro costante di formazione del personale, attraverso gli strumenti che la scuola nella sua autonomia riterrà di adottare.

Per riflettere sul tema della valutazione c’è poi un passaggio che andrebbe incorniciato per tutti gli alunni, migranti e non migranti.

Per il consiglio di classe che deve valutare alunni stranieri inseriti nel corso dell’anno scolastico – per i quali i piani individualizzati prevedono interventi di educazione linguistica e di messa a punto curricolare – diventa fondamentale conoscere, per quanto possibile, la storia scolastica precedente, gli esiti raggiunti, le caratteristiche delle scuole frequentate, le abilità e le competenze essenziali acquisite. In questo contesto, che privilegia la valutazione formativa rispetto a quella “certificativa” si prendono in considerazione il percorso dell’alunno, i passi realizzati, gli obiettivi possibili, la motivazione e l’impegno e, soprattutto, le potenzialità di apprendimento dimostrate. In particolare, nel momento in cui si decide il passaggio o meno da una classe all’altra o da un grado scolastico al successivo, occorre far riferimento a una pluralità di elementi fra cui non può mancare una previsione di sviluppo dell’alunno. Emerge chiaramente come nell’attuale contesto normativo vengono rafforzati il ruolo e la responsabilità delle istituzioni scolastiche autonome e dei docenti nella valutazione degli alunni.

Documenti come questi sono arrivati sulle cattedre dei docenti, i corsi di formazione sono stati proposti ma in genere frequentati sempre dai soliti insegnanti, già sensibili, attenti e capaci di vedere nei bambini e nel lavoro con essi opportunità di cambiamento, anche personale.


Molti, troppi insegnanti, la maggioranza di coloro che i nostri bambini incontrano in aula, sono rimasti invece impermeabili a questi stimoli: alcuni hanno subìto la presenza degli alunni stranieri come la parte buia della classe con cui stavano lavorando, cercando di sopravvivere alla loro presenza; altri, in modo più determinato, hanno messo dei paletti alla tolleranza e agli adeguamenti concessi, in termini didattici e culturali; altri ancora hanno scelto la via buonista della “pedagogia del couscous” con qualche intermezzo folcloristico (culinario, appunto, o musicale, o narrativo…) senza però cogliere la portata pedagogica insita in questo processo di trasformazione.


I docenti più volenterosi si sono prodigati in un supporto di carattere linguistico, passaggio certo necessario per garantire a ciascun alunno le condizioni di base per raggiungere il successo scolastico: dovere di ciascun insegnante e diritto inalienabile di ogni alunno; molti insegnanti hanno speso tempo ed energie anche per garantire un’accoglienza attenta anche da un punto di vista relazionale.


La gran parte degli sforzi, tuttavia, si è concentrata sulla fase di “primo soccorso”, sull’urgenza di far uscire questi alunni dalla condizione di sordità e mutismo con cui giungevano in aula. Una volta raggiunto il traguardo di una sufficiente autonomia linguistica e di un accettabile grado di integrazione (e su questo termine torneremo) l’attenzione si spostava naturalmente ad altre urgenze e complessità, mai assenti nelle classi in cui ciascun insegnante opera.


Di fatto questo approccio ha quasi ovunque impedito una rilettura più complessiva del fare scuola e non ha saputo leggere i bisogni a lungo termine che bambini e ragazzi, pure attrezzati da un punto di vista linguistico, portavano con sé sul piano delle relazioni, dell’identità culturale, psicologica ed affettiva.


Mi sembra efficacissima, a proposito del tempo, della pazienza e della fiducia che occorrono per completare davvero questo processo, la risposta di un adolescente di origine marocchina a chi gli chiedeva di immaginare, per gioco, a cosa si sentisse di assomigliare: “se dovessi paragonarmi ad un animale sceglierei il ragno. Hai presente la sua tela? La sua tela certe volte viene distrutta, ma lui riesce a costruirne un’altra…”. Siamo riusciti a sostenere i ragazzi migranti in questa paziente ritessitura e intrecciare qualche filo con loro?

Ma si può ancora fare…

Vorrei, come ho fatto per molti anni, provare a delineare qui dei percorsi di ripensamento che l’approccio interculturale ci serve su un piatto d’argento, piste operative che prendono forma, come sempre, da un cambiamento di paradigma o, se preferiamo, di sguardo educativo.


Possono aiutarci, per iniziare, alcuni princìpi essenziali:

  • Intercultura è relazione, scambio, avvio di un percorso che non ha un termine né una destinazione precisa. Intercultura è altro da integrazione, concetto che spesso riconduce più a una logica di assimilazione che di contaminazione reciproca. Intercultura è interazione, un processo a tempo indeterminato con sfumature ed esiti sempre diversi.

  • La cultura non è un totem, un monolite fisso e immutabile. Ciascuno di noi e la comunità tutta è dentro una continua trasformazione data dall’intreccio di molti soggetti e delle varie appartenenze di ciascuno. Ogni esperienza, ogni incontro o scontro, ogni scoperta ci trasformano come individui e come comunità.

  • L’identità è plurima e processuale: ciascuno di noi può definirsi in tanti modi e per ciascuno di essi trovarsi in gruppo con altri sempre diversi. Per questo la definizione di noi e di loro è relativa al punto di osservazione da cui definiamo, sempre parzialmente, l’identità stessa: il genere, la professione, la religione, la nazionalità, la fede sportiva o quella politica, l’essere genitori o meno,…

  • Il sapere e le conoscenze che noi riteniamo appartenere alla nostra cultura sono frutto di incroci, scambi dati dalla natura nomade dell’uomo (certo non assistiamo oggi al primo fenomeno di migrazione nella storia dell’umanità!), dagli incontri e scontri tra gruppi umani; esplorare e far emergere questo intreccio ha un valore educativo prezioso.

  • La lingua e il suo uso hanno un valore simbolico, relazionale e strumentale altissimo. La parola “infante”, etimologicamente, significa “colui che non parla”. Dobbiamo trovare gli strumenti perché “la parola che fa uguali” (Don Milani) diventi mezzo di relazione e strumento di cittadinanza per i bambini e i ragazzi che ci sono affidati. Facciamo poi attenzione a non costringere adolescenti e adulti nel ruolo di “infanti”, penso in particolare a molte donne e mamme migranti che senza lo strumento della lingua rischiano di perdere di valore e autorevolezza anche davanti ai loro figli più piccoli.

  • Rispettiamo la lingua materna, quella con cui i nostri alunni non italofoni hanno appreso, nei primissimi anni di vita, a nominare le cose più care. Il solo aggettivo che la accompagna dovrebbe essere a monito della sua sacralità.

  • Le domande che ci pongono adulti provenienti da culture e sistemi scolastici differenti ci obbligano a interrogarci, dare spiegazioni, riformulare le ragioni delle azioni educative e didattiche che mettiamo in campo. Dovremmo esserne lieti, anche se a volte prevale l’imbarazzo davanti a domande a cui non sappiamo dare risposta; ma la responsabilità è nostra, non di chi cerca di capire.

E allora, come l’approccio interculturale può trasformare la quotidianità delle nostre classi proprio nella direzione di una scuola di maggiore qualità, per tutti e per ciascuno?

L’alterità linguistica e scolastica

Insegnare considerando gli stili cognitivi (come si impara) e culturali come plurali allena a porsi domande e a osservare aspetti legati all’apprendimento che troppo spesso vengono dati per scontati. Il confronto con sistemi scolastici differenti dal nostro può essere occasione di ripensamento oppure di rinnovata e consapevole convinzione per le scelte didattiche che compiamo come scuola e come singoli insegnanti.


Penso ad esempio a quanto è stato utile confrontarsi, durante le formazioni, con insegnanti italiani che scoprivano che nell’Europa orientale è consuetudine articolare l’orario scolastico in attività di lezione della durata di 45 minuti, seguite da 15 minuti di pausa, modalità che di certo recepisce meglio della nostra la curva di attenzione fisiologica che caratterizza la mente di un bambino o di un adolescente alle prese con l’apprendimento di nuovi concetti o con l’esercizio per il loro consolidamento.


Ma anche le strategie diverse dei bambini cinesi di fronte alle abilità matematiche, nelle quali sono veramente capaci di eccellere rispetto ai coetanei italiani, hanno aperto per molti insegnanti domande e risposte davvero arricchenti sui diversi processi di apprendimento.


Dal punto di vista dei processi cognitivi legati all’apprendimento linguistico, entrare nella logica di come si impara una lingua partendo dalla conoscenza di un’altra può essere una grande occasione di riflessione e di ampliamento degli strumenti didattici. Molti insegnanti, ad esempio, ritengono che il mantenimento in famiglia dell’uso della lingua d’origine sia di impedimento ad un buon apprendimento dell’italiano. Basta una più attenta osservazione per notare invece che una seconda lingua può essere acquisita con più efficacia partendo da una conoscenza corretta e consapevole di una lingua d’origine di cui ci possono essere più chiare le strutture linguistiche.


Non a caso i primi insegnanti in grado di connettersi con le modalità di apprendimento specifiche di un madrelingua non italofono sono proprio i docenti di lingua straniera, già allenati all’insegnamento/apprendimento di una seconda lingua, mentre gli insegnanti di lingua italiana troppo spesso finiscono per utilizzare gli strumenti efficaci (o meglio “solitamente utilizzati”) per i bambini italiani che si avviano alla lettoscrittura, dimenticando però di avere a che fare con alunni non madrelingua. Trovo che questa considerazione, a prima vista piuttosto tecnica, riveli in realtà la difficoltà ad assumere punti di vista differenti dal proprio, e non solo da un punto di vista culturale ma anche cognitivo.


Consiglio spesso, a chi ne ha la possibilità, di fare un’esperienza di spaesamento con un viaggio in cui potersi mettere in gioco e in cui sperimentare la difficoltà di collocarsi in codici linguistici e culturali del tutto estranei. La capacità di decentramento e di empatia ne verrebbe di molto arricchita, insieme a quella di cogliere la complessità dei diversi codici con cui occorre confrontarsi, per interpretare i quali non basta un buon dizionario bilingue.

Le contaminazioni culturali


La ricerca dei percorsi che i saperi delle diverse discipline hanno fatto per arrivare ad essere i contenuti che noi oggi proponiamo ai nostri alunni come patrimonio della “nostra” cultura potrà permetterci di svelare non solo l’aspetto relazionale che gli scambi tra popoli e individui determinano, ma anche l’arricchimento cognitivo e di sviluppo delle diverse civiltà, dei gruppi umani che evolvono proprio grazie alla loro permeabilità e non alla chiusura illusoria e difensiva che qualcuno propone.


Dal 1997 al 2004 la casa editrice EMI ha pubblicato la collana Quaderni dell’interculturalità, una serie di libri operativi di dimensioni contenute e con il contributo di diversi autori; buona parte di questi volumetti presenta la rilettura delle materie curricolari in chiave interculturale. Vengono presentati solo alcuni contenuti e in maniera volutamente non esaustiva, ma tuttavia sufficientemente completa per poter proporre un modello di lavoro applicabile anche ad altre parti del programma scolastico.


Dalle classiche crociate narrate da cronisti diversi al viaggio incredibile della geometria e dell’aritmetica, dalle contaminazioni dei generi musicali al significato delle convenzioni geografiche, dai mille alfabeti e significati delle “nostre” parole alla decostruzione dei paradigmi delle scienze, fino alla filosofia, all’arte e, ovviamente, alla religione… la lettura di questi libretti ci conduce in un continuo gioco di ricerca degli intrecci e di svelamento della parzialità e della relatività culturale che sta dietro a tanti pilastri di quello che consideriamo il “nostro” sapere.


Un testo spesso proposto durante le formazioni, e che è stato una vera mappa del tesoro per gli insegnanti che hanno voluto cogliere la sfida di un suo utilizzo didattico, è la parodia dell’antropologo Ralph Linton. Si tratta di un testo che, come altri, nella sua datazione quasi centenaria ci riporta amaramente alle considerazioni sulla difficoltà di recepire alcuni messaggi quando vengono messi in circolo, per poi considerarli sorpassati quando non sono più contemporanei. Quante buone occasioni perdute!


Rileggiamo dunque Linton magari arricchendolo con altri passi di quotidiana attualità, ma cogliendo le tante piste di ricerca e riflessione che ci offre.


La parodia di Ralph Linton2

Il cittadino americano medio si sveglia in un letto costruito secondo un modello che ebbe origine nel vicino Oriente. Egli scosta le lenzuola e le coperte che possono essere di cotone, pianta originaria dell’India; o di lino, pianta originaria del vicino Oriente; o di lana di pecora, animale originariamente addomesticato nel vicino Oriente; o di seta, il cui uso fu scoperto in Cina. Tutti questi materiali sono stati filati e tessuti secondo procedimenti inventati nel vicino Oriente. Si infila i mocassini inventati dagli indiani delle contrade boscose dell’Est, e va nel bagno, i cui accessori sono un misto di invenzioni europee e americane, entrambe di data recente. Si leva il pigiama, indumento inventato in India, e si lava con il sapone, inventato dalle antiche popolazioni galliche. Poi si fa la barba, rito masochistico che sembra sia derivato dai sumeri o dagli antichi egiziani. Tornato in camera da letto, prende i suoi vestiti da una sedia il cui modello è stato elaborato nell’Europa meridionale e si veste. Indossa indumenti la cui forma derivò in origine dai vestiti di pelle dei nomadi delle steppe dell’Asia, si infila le scarpe fatte di pelle tinta secondo un procedimento inventato nell’antico Egitto, tagliate secondo un modello derivato dalle Civiltà classiche del Mediterraneo; si mette intorno al collo una striscia dai colori brillanti che è un vestigio sopravvissuto degli scialli che tenevano sulle spalle i croati del XVII secolo. Andando a fare colazione si ferma a comprare un giornale, pagando con delle monete che sono un’antica invenzione della Lidia. Al ristorante viene a contatto con tutta una nuova serie di elementi presi da altre culture: il suo piatto è fatto di un tipo di terraglia inventato in Cina; il suo coltello è di acciaio, lega fatta per la prima volta nell’India del Sud, la forchetta ha origini medievali italiane, il cucchiaio è un derivato dell’originale romano. Prende il caffè, pianta abissina, con panna e zucchero. Sia l’idea di allevare mucche che quella di mungerle ha avuto origine nel vicino Oriente, mentre lo zucchero fu estratto in India per la prima volta. Dopo la frutta e il caffè, mangerà le cialde, dolci fatti, secondo una tecnica scandinava, con il frumento, originario dell’Asia minore. Quando il nostro amico ha finito di mangiare, si appoggia alla spalliera delle sedie e fuma, secondo un’abitudine degli indiani d’America, consumando la pianta addomesticata in Brasile o fumando la pipa, derivata dagli indiani della Virginia o la sigaretta, derivata dal Messico. Può anche fumare un sigaro, trasmessoci dalle Antille, attraverso la Spagna. Mentre fuma legge le notizie del giorno, stampate in un carattere inventato dagli antichi semiti, su di un materiale inventato in Cina e secondo un procedimento inventato in Germania. Mentre legge i resoconti dei problemi che si agitano all’estero, se è un buon cittadino conservatore, con un linguaggio indo- europeo, ringrazierà una divinità ebraica di averlo fatto al cento per cento americano…”


Relazione e narrazione

La peer education, il tutoraggio, la risorsa rappresentata dai pari sono un altro importante passaggio che talora viene attivato in modo obbligato e non intenzionale quando si percorrono le strade dell’intercultura e dell’accoglienza. Si aprono così orizzonti molto interessanti anche per la gestione dell’apprendimento di gruppo, una volta superata l’emergenza linguistica ovvero in contesti classe monoculturali. Non a caso l’apprendimento cooperativo, proposto ed elaborato a livello teorico al di fuori di contesti multiculturali3, ha poi trovato terreno di sviluppo e di massiccia applicazione in classi che vedevano la presenza di alunni con differenti profili e competenze dati dalle diverse provenienze e dell’esperienza della migrazione.


Allo stesso modo una via privilegiata all’educazione interculturale, dal valore altissimo per tutti i soggetti coinvolti, è quella dell’autobiografia, che è strumento ideale per sviluppare meccanismi di empatia e riconoscimento dell’altro, così essenziali per la relazione.


Poter conoscere e comprendere la storia che ha portato una famiglia alla scelta, spesso dolorosa, della migrazione, sentirne e respirarne le fatiche e le scoperte, i progetti e le delusioni è condizione primaria per dare un nome e un volto a ciascuno e non ridurre la persona che abbiamo di fronte alla sola appartenenza nazionale, concetto che fa di un gruppo una massa indistinta.


Uno strumento davvero coinvolgente e trasversale in questo senso è il Gioco dell’oca interculturale o il Gioco della vita.


È un’attività che permette a tutti i partecipanti di ripercorrere momenti significativi della propria storia passata o presente: dalla propria nascita, alla scelta e significato del proprio nome, alle relazioni con i diversi membri della famiglia, alle pratiche quotidiane come l’alimentazione, i giochi, fino alle emozioni, i desideri, le fantasie che aprono una finestra immediata sulla comune umanità che attraversa luoghi e culture. Un gioco che permette di passare continuamente dalla consapevolezza della specificità culturale, non solo propria dei contesti multietnici, al riconoscimento degli universali che accomunano la famiglia umana.


Analoga funzione possono ricoprirla le fiabe che, attraverso un lavoro di comparazione, permettono di raccontare luoghi, situazioni, contesti sociali specifici restituendo allo stesso tempo immaginari universali, domande di senso e bisogni primari. Un percorso tutto diverso dall’uso folcloristico di fiabe tradizionali che finisce spesso per stigmatizzare differenze e rinforzare stereotipi.


Concludo queste pagine, solo esemplificative rispetto alle infinite modalità di ripensamento educativo e di innovazione didattica offerte dall’approccio interculturale, ritornando al mio percorso personale. Negli ultimi anni mi sono occupata sempre meno di formazione in campo interculturale, e non solo per la trasformazione del contesto intorno a me o per nuove urgenze ed interessi professionali.


Cinque anni fa è nata la mia prima bimba: con lei, con sua sorella arrivata tre anni dopo, con i piccoli nati lo scorso autunno e con il loro papà ho aperto le porte alla contaminazione culturale che diventa, da parole e spunti teorici, il pane che quotidianamente entra a casa nostra. Siamo una famiglia che tiene insieme due religioni differenti, storie, immaginari, appartenenze e simbologie che a tratti si incontrano e a tratti hanno bisogno di essere spiegate, comprese e mediate.


Era molto più facile parlarne a corsi e conferenze, non posso negarlo.


Ma l’emozione di poter dire ai miei figli che, pur avendo loro due genitori che per certi aspetti hanno convinzioni e pratiche di vita differenti, non perderanno la libertà di autodeterminarsi e di scegliere la loro strada, arricchiti, ce lo auguriamo, da un orizzonte più ampio rispetto a chi questa dialettica la conosce molto meno, ecco questa emozione mi pare il compimento dei tanti anni passati a leggere, riflettere, proporre strumenti di dialogo e accoglienza.


La mia storia interculturale, insomma, non è conclusa ma al contrario è appena incominciata.

Navigando in rete

Chi si accinge ad una ricerca sul web in tema di educazione interculturale si trova davanti una sitografia sterminata, non selezionabile a priori, un rimando da sito a sito. Per tutti indico quello del centro risorse più ricco di materiali e di riferimenti, su più livelli di attenzione al problema: www.centrocome.it


La sitografia più che esautiva offerta dal Centro Come: http://www.centrocome.it/index.php?page=7+IT+gph


Alcuni dati per comprendere il trend del fenomeno migratorio nelle aule scolastiche http://www.stranieriinitalia.it/statistiche-istruzione._crescono_gli_alunni_stranieri_in_italia_sono_quasi_un_milione_16873.html


Le Linee guida del 2006 e quelle del 2014, in versione integrale


http://archivio.pubblica.istruzione.it/normativa/2006/allegati/cm24_06all.pdf


http://www.istruzione.it/allegati/2014/linee_guida_integrazione_alunni_stranieri.pdf

Qualche buona lettura

Anche la bibliografia sulla tematica interculturale è sconfinata. Esistono librerie che si occupano solo di questo. Negli ultimi anni però l’editoria sull’argomento è cambiata con il modificarsi del fenomeno e le pubblicazioni si sono ridotte di numero e si sono fatte più specifiche come contenuti.


Segnalo qui solo alcuni titoli lasciando all’esplorazione individuale, anche on line, l’incontro con le opere di maggior interesse per ciascuno.


Venturini A., La scuola nei paesi d’origine dei bambini e dei ragazzi immigrati in Italia, Cespi/Mursia 2003.


Lamberti S., Apprendimento cooperativo e educazione interculturale, Erickson 2010. Maalouf A., L’identità, Bompiani 1999.


Aime M., Eccessi di culture, Einaudi 2004.


Vinciguerra M., Famiglie migranti – Genitorialità e nuove sfide educative, Il Pozzo di Giacobbe 2013.


A cura di Favaro G., Alfabeti interculturali, Guerini 2000 (questo testo contiene i materiali per il gioco dell’oca interculturale).


Nanni A.-Curci S., Buone pratiche per fare intercultura, EMI 2005.


Mantegazza R., Se mio figlio gioca con Mohamed, Fabbri 2005.


Fucecchi A.-Nanni A., Identità plurali, EMI 2004.

Esperienze, nomi, volti

Trovo sempre interessante provare a incontrare gli insegnanti che lavorano nei quartieri a più alta densità di immigrazione: Porta Palazzo e san Salvario a Torino, per esempio, o la zona 2 di Milano (area della Stazione Centrale e limitrofe) o Tor Pignattara a Roma. Ma ciascuno leggendo avrà in mente scuole e quartieri che corrispondono a queste caratteristiche.


Di significativo interesse è anche il convegno organizzato da CEM-Mondialità ogni anno a fine estate, un’occasione non solo per addetti ai lavori per ricevere suggestioni e scambiare esperienze http://www.cem.coop/

Un'altra scuola è possibile?
Un'altra scuola è possibile?
Sonia Coluccelli
Autori, esperienze e prospettive educative verso percorsi scolastici in ascolto dei bambini.Un panorama delle alternative alla scuola tradizionale e dei diversi modi di approciarsi all’istruzione, tra visione pedagogica e traduzione pratica. Il sistema educativo odierno non sembra incoraggiare il pensiero olistico, intuitivo e immaginativo, ma predilige di gran lunga quello fondato sulla verbalizzazione. Il clima che si respira nella scuola provoca forte stress agli alunni, a causa di pressioni e attese didattiche che non si conformano alla loro natura. Nelle scuole si formano perlopiù conoscitori, non pensatori.Un’altra scuola è possibile mette in evidenza la necessità di promuovere all’interno della scuola una riflessione per “vedere” sempre meglio i bambini, attraverso la possibilità di vivere esperienze didattiche fuori dall’edificio scolastico; il tutto visto non come una fuga da un’esperienza avvilente, ma come la messa in atto di progetti educativi con una loro specificità e diritto di espressione.Sulla base di una critica alla scuola convenzionale, l’autrice Sonia Coluccelli intende offrire un ventaglio di proposte alternative, prospettando per ciascuna sia gli assunti teorici sia le effettive realizzazioni. Da Rudolf Steiner a Don Lorenzo Milani, da Maria Montessori a Mario Lodi, fino all’educazione parentale, ogni capitolo prende in esame una visione pedagogica e ne presenta la relativa traduzione pratica.È così offerto un panorama di scelte possibili a chi stenta a riconoscere nei sistemi scolastici convenzionali una risposta adeguata ai reali bisogni di apprendimento, crescita e sviluppo di ciascun bambino. Conosci l’autore Sonia Coluccelli è insegnante, formatrice e mamma di quattro figli. Da vent’anni coltiva una riflessione pedagogica in ambito scolastico, approfondendo la conoscenza dei diversi approcci educativi, ricercando sguardi attenti nei bambini e attenzione alle loro domande.Dal 2012 si occupa di promuovere esperienze montessoriane nella scuola pubblica collaborando con Fondazione Montessori Italia.Vive a Omegna, sulle rive del lago d’Orta.