CAPITOLO IV

Don lorenzo milani
tra scuola e profezia

Spesso gli amici mi chiedono come faccio a far scuola.
Sbagliano la domanda, non dovrebbero preoccuparsi di come bisogna fare scuola,
ma solo di come bisogna essere per poter fare scuola.
D. Milani, Esperienze pastorali

Don Milani è stato il primo vero maestro che posso considerare mio mentore, il primo che ho letto e incontrato sulla mia strada, muovendo i primi passi nel pensarmi a mia volta maestra.


Stranamente, ma forse non troppo, non ricordavo i contenuti di Lettera ad una professoressa, che avevo di sicuro intercettato sui banchi di scuola, nelle antologie della scuola elementare o media; ma le sue parole, e dei suoi ragazzi, da adulta mi hanno dato la prima impalcatura, quella che più risuonava dentro di me e con le motivazioni che mi avevano portato al lavoro in aula.


Già, le sue parole: così potenti, efficaci, sintetiche che qualsiasi chiosa o traduzione risulta un impoverimento, una discesa di registro e una perdita appunto della potenza e della chiarezza che le caratterizza.


L’incontro con don Milani in queste pagine, allora, sarà guidato da quelle parole, chiavi insostituibili per chi voglia entrare a Barbiana e respirarne l’aria portandosene a casa qualche buona ispirazione.


Una premessa, però. Don Milani non è un pedagogista (almeno non nel senso accademico che diamo a questo termine) né un autore che abbia elaborato un metodo didattico dopo studi o ricerche su modelli di apprendimento, strumenti per il processo di insegnamento, riflessioni di carattere cognitivo. Don Milani ha chiari pochi ed essenziali princìpi di carattere più umano, sociale e politico che di carattere pedagogico, e la sua scuola è coerente con questa visione.


La prima citazione riportata a inizio pagina fa proprio riferimento a questo, a una vocazione personale integrale volta al superamento di disparità sociali insopportabili ai suoi occhi di uomo e di sacerdote, a un amore per i ragazzi che non necessita di teorizzazioni pedagogiche o di modelli di scuola da esportare o diffondere.


Ma cosa ci raccontano don Milani e i suoi ragazzi della scuola di Barbiana nelle pagine della Lettera ai giudici e della Lettera ad una professoressa o ancora di Esperienze pastorali?


La condizione iniziale ed essenziale su cui poggia quell’esperienza è quella di riconoscere e assumere la funzione politica e sociale della scuola: la formazione di coscienze e conoscenze per essere cittadini consapevoli, capaci di fare la propria parte collocandosi e schierandosi.


Allora si legge ogni giorno il giornale, si indaga con diversi strumenti sulla storia e l’attualità, si cerca di comprendere il mondo nei suoi meccanismi più complessi, si incontrano testimoni della società civile, si prende posizione sui fatti che riguardano la comunità più ristretta o allargata, con uno sguardo consapevole su una dimensione globale e globalizzata; uno sguardo che, purtroppo, è assai carente ancora oggi.


Il manifesto, se così vogliamo definirlo, è tutto in quel motto che ancora catalizza lo sguardo non appena si entra nei locali della scuola di Barbiana e che forse dovrebbe essere anche all’ingresso delle nostre aule, nei piani dell’offerta formativa delle nostre scuole, nel contratto professionale dei docenti, dalla scuola dell’infanzia fino all’università.

Su una parete della nostra scuola c’è scritto grande “I care”. È il motto intraducibile dei giovani americani migliori. “Me ne importa, mi sta a cuore”. È il contrario del motto fascista “Me ne frego”.

(Lettera ai giudici)

Perché essere un insegnante, per don Milani, è molto di più che fornire conoscenze sull’esistente o sul passato. Si tratta di praticare quella pedagogia dell’aderenza (termine molto efficace, coniato da Edoardo Martinelli, ex allievo di Barbiana da sempre impegnato nel mantenerne vivi lo spirito e la pratica) che fa della scuola prima di tutto una palestra di vita, il luogo che dà gli strumenti per comprendere gli alfabeti del mondo in cui ci si troverà a fare la propria parte e a trovare un proprio spazio.

Perché solo una scuola che formi menti e cuori a sentirsi parte responsabile della comunità umana può realizzare appieno il suo compito educativo, da cui quello didattico discende.

Le parole di don Milani, ancora su questo filone, sono frustate alle coscienze di chi, insegnante, entra in aula per accompagnare lungo anni importanti i bambini e i ragazzi che dovranno vivere nel mondo, in un mondo in cui le leggi sono espressione di una visione della società e della convivenza in essa. Leggi che sono condivisibili o meno solo padroneggiando una consapevolezza profonda e matura dell’antropologia propria del contesto in cui si vive.

La scuola […] è l’arte delicata di condurre i ragazzi su un filo di rasoio: da un lato formare in loro il senso della legalità (e in questo somiglia alla vostra funzione), dall’altro la volontà di leggi migliori cioè di senso politico (e in questo si differenzia dalla vostra funzione.)

(Lettera ai giudici)

E, ancora più evocativa e potente, ecco l’immagine che dovrebbe farci vibrare di timore ed entusiasmo davanti all’orizzonte di senso del nostro lavoro.

E allora il maestro deve essere, per quanto può, profeta, scrutare i “segni dei tempi”, indovinare negli occhi dei ragazzi le cose belle che essi vedranno chiare domani e che noi vediamo solo in confuso.

(Lettera ai giudici)

Quante volte mi sono chiesta se mi stava riuscendo di guardare davvero i miei alunni, raccogliendone i desideri, le speranze, le potenzialità; o se, ingabbiata nelle classificazioni e nelle cornici di un pensiero adulto che pensa di conoscere tutte le risposte, ho voltato lo sguardo, perdendo l’occasione di intravvedere un futuro che la mia mente e il mio cuore non sanno più tratteggiare. Ma chi più di un maestro ha questo compito profetico, di “dire prima”, di anticipare il futuro avendo come ponte privilegiato gli adulti di domani, che quel tempo vivranno da protagonisti? E perché protagonisti lo siano davvero occorre

…avere il coraggio di dire ai giovani che essi sono tutti sovrani, per cui l’obbedienza non è ormai più una virtù, ma la più subdola delle tentazioni, che non credano di potersene far scudo né davanti agli uomini né davanti a Dio, che bisogna che si sentano ognuno l’unico responsabile di tutto.

(Lettera ai giudici)

Non possiamo poi dimenticare che Barbiana, come esperienza educativa e scolastica, nasce e trova continue ragioni di esistenza nella potentissima riflessione critica sulla scuola autoreferenziale, che “cura i sani e allontana i malati”, che rafforza le disuguaglianze anziché colmarle.

Negli anni dell’esperienza di Barbiana sappiamo che il riferimento era ai figli di contadini, di operai, di analfabeti di diversa collocazione e provenienza; oggi, rileggendo quelle pagine, penso in prima battuta ai tanti alunni migranti, a quello svantaggio iniziale di tipo culturale e linguistico, alla difficoltà di far passare il loro diritto a percorsi individualizzati, al rispetto di tempi e modi di apprendimento specifici, alla resistenza davanti all’evidenza di dover procedere, per equità, a modalità di valutazione che tengano conto di quelle condizioni differenti di partenza, alle bocciature predeterminate a inizio d’anno perché “non potrà certo arrivare al pari degli altri in così poco tempo”.

E per anni, come diremo meglio più avanti, osservando questi percorsi così faticosi ho sentito risuonare dentro di me il monito del priore e dei suoi ragazzi che ricordavano ai maestri e professori di allora che

Non c’è nulla che sia ingiusto quanto far parti uguali fra disuguali.

(Lettera a una professoressa)

E senza appello concludevano così

Voi dite d’aver bocciato i cretini e gli svogliati.

Allora sostenete che Dio fa nascere i cretini e gli svogliati nelle case dei poveri. È più facile che i dispettosi siate voi.

(Lettera a una professoressa)

Se, infine, penso ad alcune questioni poste nel primo capitolo di questo libro, riflettendo sui limiti della nostra scuola, mi sembrano utili e pertinenti le riflessioni di Edoardo Martinelli che ricorda con vividezza poco nostalgica e molto pedagogica frammenti di vita a Barbiana e ce li restituisce per uno sguardo sulla scuola di oggi:

C’era una forte relazione tra l’apprendimento cognitivo e il lavoro. La realtà, il giornale, aveva centralità nei nostri percorsi didattici. Le attività si legavano in primo luogo all’apprendimento linguistico e ci facevano riflettere al vaglio della vita. L’imprevisto era considerato una risorsa indispensabile. Non si programmava, ma si dipanavano le materie attraverso motivi occasionali. Vedi come la lettura dell’articolo dei cappellani militari, 10 righe, diventa ricerca storica. Capace di introdurre il punto di vista del perdente. Prima ancora che diventare un’autodifesa in tribunale. Un modo per apprendere con la testa e con le mani. Proprio perché esisteva l’apprendimento cooperativo che a Barbiana avevamo la stanza con i tavoli a ferro di cavallo. Dove svolgevamo le attività insieme, come la lettura della posta. Le altre stanze servivano per le attività di gruppo.

Quando mancava lo spazio o gli argomenti, c’erano i prati, gli alberi e il cielo.

Caro Priore, ma a cosa serve riflettere con la tua testa, se ancora, come cinquanta anni fa, un bambino di 11 anni, nelle nostre povere scuole medie, si ritrova ad avere 8 quando non 12 figure di riferimento. E l’assurda campanella interrompe ancora e di continuo la sua crescita. E il solito Polianski di turno, ancora si affanna a capire i termini di bullismo e disagio… Cerca i colpevoli e non considera il processo dentro il quale avvengono i danni.1

La scrittura collettiva

Per entrare a Barbiana portandocene a casa, o meglio in aula, strumenti per lavorare con i nostri bambini possiamo provare a conoscere meglio il metodo della scrittura collettiva, la tecnica che don Milani considerava un pilastro per acquisire la padronanza della lingua italiana, ossia lo strumento più potente per esercitare a pieno titolo i diritti di cittadinanza.


Per riuscirci abbiamo a disposizione materiale preziosissimo come la corrispondenza tra i ragazzi di Barbiana e gli alunni della scuola di Vho di Piadena, il cui maestro era Mario Lodi, che aveva proposto al priore di avviare questo scambio a distanza. Ecco dalle parole di don Lorenzo la spiegazione dettagliata di come è stato composto il testo poi inviato a Vho, una mappa dettagliata per esortarci senza alibi, ancora oggi, all’utilizzo di uno strumento didattico dall’incredibile valore cognitivo, relazionale, culturale.


In queste righe abbiamo anche l’occasione di leggere, dalle parole dei ragazzi, una sintesi bellissima del loro percorso scolastico, del senso più profondo, e della reale modernità di questa esperienza se pensiamo che qualcuno di loro a Barbiana imparava anche l’arabo!


Come efficace e chiarissima è anche la descrizione di quanto si praticava quella che oggi più pomposamente chiamiamo peer education, vale a dire il mutuo aiuto tra coetanei o tra ragazzi più grandi e più piccoli di età, veicolo di apprendimento a volte più efficace della relazione insegnanteallievo; ritroviamo anche qui la scelta di un’educazione alla globalizzazione, la grandissima propensione all’interdisciplinarietà, lontano dalla parcellizzazione dei saperi che affligge la nostra scuola “moderna” ormai dagli anni dell’infanzia (!); interdisciplinarietà o unitarietà dei saperi grazie alla quale ogni spunto o argomento diventava occasione per costruire una mappa di conoscenze tra loro strettamente correlate di tipo scientifico, storico, geografico, artistico, e ovviamente linguistico.


Ecco il carteggio, meno noto di altri testi, ma davvero ricco di suggestioni e contenuti2.


Corrispondenza tra il priore e Mario Lodi
Barbiana, 2 novembre 1963

Caro maestro, le accludo la lettera. La ringrazio d’averci proposto quest’idea perché me ne sono trovato molto bene. Non avevo mai avuto in tanti anni di scuola una così completa e profonda occasione per studiare coi ragazzi l’arte dello scrivere. Per noi dunque tutto bene anzi sono entusiasta della cosa.


Per voi invece temo che la lettera non vada. Lanciati a studiare il massimo di capacità di esattezza d’espressione di questi ragazzi ci siamo un po’ dimenticati dell’età dei lettori. Non che non ci si pensasse, ma è successo un fenomeno curioso che non avevo previsto, ma che dopo il fatto mi spiego molto bene: la collaborazione e il lungo ripensamento hanno prodotto una lettera che pur essendo assolutamente opera di questi ragazzi e nemmeno più dei maggiori che dei minori è risultata alla fine d’una maturità che è molto superiore a quella di ognuno dei singoli autori.


Spiego la cosa così: ogni ragazzo ha un numero molto limitato di vocaboli che usa e un numero molto vasto di vocaboli che intende molto bene e di cui sa valutare i pregi ma che non gli verrebbero alla bocca facilmente.


Quando si leggono ad alta voce le 25 proposte dei singoli ragazzi accade sempre che l’uno o l’altro (e non è detto che sia dei più grandi) ha per caso azzeccato un vocabolo o un giro di frase particolarmente preciso o felice. Tutti i presenti (che pure non l’avevano saputo trovare nel momento in cui scrivevano) capiscono a colpo che il vocabolo è il migliore e vogliono che sia adottato nel testo unificato.


Ecco perché il testo ha acquistato quell’andatura e quel rigore di adulto (direi, anche di adulto che misura le parole! animale purtroppo molto raro). Il testo è cioè al livello culturale dell’orecchio di questi ragazzi, non al livello della loro penna o della loro bocca.


Le descrivo come abbiamo proceduto.


Primo giorno: un intero pomeriggio (5 ore) a disposizione per comporre liberamente una lettera a voi sul tema: “Perché vengo a scuola”.


Secondo giorno: un altro pomeriggio a leggere a alta voce i lavori appuntando via via su dei foglietti tutte le idee, le frasi, le espressioni particolarmente felici.


Terzo giorno: una mattinata a riordinare questi foglietti su un grande tavolo per dar loro un ordine logico. Dopo di che si stabilisce che lo schema del lavoro sarà il seguente:


sul principio: noi - i nostri genitori


ora: scoperta degli ideali di questa scuola.


Nostra risposta parziale per: debolezza nostra - pressione: dei genitori - del mondo


Quarto giorno: un intero pomeriggio (5 ore) per rifare ognuno da sé la lettera seguendo però obbligatoriamente lo schema fissato in comune.


Quinto giorno: mattina e sera. Tutti insieme. Ognuno legge a alta voce la sua soluzione per il primo punto dello schema. Dopo di che si stabilisce il testo comune composto sulle migliori espressioni d’ognuno. E così per gli altri punti dello schema. Questo testo risulta di 1128 vocaboli. Sesto giorno: si detta il testo accettato perché ognuno ne abbia una copia davanti. Un intero pomeriggio (5 ore) in cui ognuno annota in margine (s’è scritto su mezza pagina) le proposte di correzioni, tagli, esemplificazioni, aggiunte di concetti trascurati ecc.


Settimo giorno: mattina e sera Ottavo giorno: mattina e sera Nono giorno: mattina


Proposizione per proposizione ognuno dice a alta voce le correzioni che propone.


Si discutono e accettano o meno a alta voce mentre uno scrive il testo definitivo che qui vi accludiamo.


Il testo che risulta da questo lavoro è composto da 823 parole. Il testo è perciò diminuito di ben 305 parole pur essendo arricchito di molti concetti nuovi.


Il lavoro di questi ultimi tre giorni è stato entusiasmante per me e per i ragazzi. Straordinaria la possibilità, in questa fase, dei più piccoli di trovare qualche volta soluzioni migliori dei grandi. Pochissima incertezza: in genere la soluzione migliore s’impone molto evidentemente alla preferenza di tutti.


Infatti, ormai che s’era stabilito cosa volevamo dire, non restava che trovare il modo migliore di dirlo e su questo in genere non c’era molto da discutere. Esiste oggettivamente una soluzione che è migliore delle altre. In questa fase si possono studiare insieme tutti i problemi dell’arte dello scrivere: completare e semplificare. Finir di cercare quel che non si è ancor detto, cercare di dire col minimo di mezzi. Cercare di indovinare la reazione del lettore, eliminare le ripetizioni, le cacofonie, gli attributi e le relative non restrittivi, i periodi troppo lunghi ridomandandosi all’infinito se un dato concetto è vero, se è nel suo giusto valore gerarchico, se è essenziale, se il destinatario avrà gli elementi per comprenderlo, se provocherà malintesi.


A questo punto c’è venuto fatto di cercare di eliminare anche le frasi che suonavano troppo vanitose. Ma ci siamo imposti di non farlo. L’arte dello scrivere consiste nel riuscire a esprimere compiutamente quello che siamo e che pensiamo, non nel mascherarci in migliori di noi stessi. Del resto l’orgoglio di questi ragazzi l’ho coltivato io volutamente per anni. Quando ho davanti uno studente o un cittadino faccio di tutto per umiliarlo, levargli un po’ di sicurezza di sé. Quando ho un contadino o un operaio cerco proprio il contrario: di dargli un po’ di sicurezza di sé. Tutto quel che ho detto in questa lettera si riferisce alla parte scritta dai più grandi, cioè i capitoli 3, 4, 5. Gli autori hanno da 12 a 16 anni (i due più grandi non hanno potuto collaborare per mancanza di tempo).


I primi due capitoli sono stati scritti più alla svelta e non sono perfettamente genuini. In questi sono stato coautore mentre negli altri son stato quasi solo presidente. La prossima volta comunque non potremo rifare un lavoro così complesso e soprattutto così lungo. Ci limiteremo a argomenti meno impegnativi. Per es. a quel che lei ci chiederà di chiarire su questa lettera.

Un saluto affettuoso e a presto, suo Lorenzo Milani


Ecco il testo originale inviato il 1 novembre 1963. Cinque sono i capitoli. I ragazzi di prima media hanno preparato i primi due. I più grandi gli altri.


Barbiana


Barbiana è sul fianco nord del monte Giovi, 470 metri sul mare.


Di qui vediamo sotto di noi tutto il Mugello che è la valle della Sieve affluente dell’Arno. Dall’altra parte del Mugello vediamo la catena dell’Appennino.


Barbiana non è nemmeno un villaggio, è una chiesa e le case sono sparse tra i boschi e i campi. I posti di montagna come questo sono rimasti disabitati. Se non ci fosse la nostra scuola a tener fermi i nostri genitori anche Barbiana sarebbe un deserto. In tutto ci sono rimaste 39 anime.


I nostri babbi sono contadini o operai.


La terra è molto povera perché le piogge la portano via scoprendo il sasso. L’acqua scorre via e va in pianura. Così i contadini mangiano tutti i loro raccolti e non possono vendere nulla.


Anche la vita degli operai è dura. Si levano la mattina alle cinque, fanno sette chilometri per arrivare al treno e un’ora e mezza di treno per arrivare a Firenze dove lavorano da manovali. Tornano a casa alle otto e mezzo di sera.


In molte case e anche qui a scuola manca la luce elettrica e l’acqua. La strada non c’era. L’abbiamo adattata un po’ noi perché ci passi una macchina.


La nostra scuola


La nostra scuola è privata.


È in due stanze della canonica più due che ci servono da officina.


D’inverno ci stiamo un po’ stretti. Ma da aprile a ottobre facciamo scuola all’aperto e allora il posto non ci manca!


Ora siamo 29. Tre bambine e 26 ragazzi.


Soltanto nove hanno la famiglia nella parrocchia di Barbiana.


Altri cinque vivono ospiti di famiglie di qui perché le loro case sono troppo lontane.


Gli altri quindici sono di altre parrocchie e tornano a casa ogni giorno: chi a piedi, chi in bicicletta, chi in motorino. Qualcuno viene molto da lontano, per es. Luciano cammina nel bosco quasi due ore per venire e altrettanto per tornare.


Il più piccolo di noi ha 11 anni, il più grande 18.


I più piccoli fanno la prima media. Poi c’è una seconda e una terza industriali.


Quelli che hanno finito le industriali studiano altre lingue straniere e disegno meccanico. Le lingue sono: il francese, l’inglese, lo spagnolo e il tedesco. Francuccio che vuol fare il missionario comincia ora anche l’arabo.


L’orario è dalle otto di mattina alle sette e mezzo di sera. C’è solo una breve interruzione per mangiare. La mattina prima delle otto quelli più vicini in genere lavorano in casa loro nella stalla o a spezzare legna.


Non facciamo mai ricreazione e mai nessun gioco.


Quando c’è la neve sciamo un’ora dopo mangiato e d’estate nuotiamo un’ora in una piccola piscina che abbiamo costruito noi.


Queste non le chiamiamo ricreazioni ma materie scolastiche particolarmente appassionanti! Il priore ce le fa imparare solo perché potranno esserci utili nella vita.


I giorni di scuola sono 365 l’anno. 366 negli anni bisestili.


La domenica si distingue dagli altri giorni solo perché prendiamo la messa.


Abbiamo due stanze che chiamiamo officina. Lì impariamo a lavorare il legno e il ferro e


costruiamo tutti gli oggetti che servono per la scuola.


Abbiamo 23 maestri! Perché, esclusi i sette più piccoli, tutti gli altri insegnano a quelli che sono minori di loro. Il priore insegna solo ai più grandi. Per prendere i diplomi andiamo a fare gli esami come privatisti nelle scuole di stato.


Perché venivamo a scuola sul principio


Prima di venirci né noi né i nostri genitori sapevamo cosa fosse la scuola di Barbiana.


Quel che pensavamo noi


Non siamo venuti tutti per lo stesso motivo.


Per noi barbianesi la cosa era semplice: La mattina andavamo alle elementari e la sera ci toccava andare nei campi. Invidiavamo i nostri fratelli più grandi che passavano la giornata a scuola dispensati da quasi tutti i lavori. Noi sempre soli, loro sempre in compagnia. A noi ragazzi ci piace fare quel che fanno gli altri. Se tutti sono a giocare, giocare, qui dove tutti sono a studiare, studiare. Per quelli delle altre parrocchie i motivi sono stati diversi:


Cinque siamo venuti controvoglia (Arnaldo addirittura per castigo).


All’estremo opposto due abbiamo dovuto convincere i nostri genitori che non volevano mandarci (eravamo rimasti disgustati dalle nostre scuole).


La maggioranza invece siamo venuti d’accordo coi genitori. Cinque attratti da materie scolastiche insignificanti: lo sci o il nuoto oppure solo per imitare un amico che ci veniva.


Gli altri otto perché eravamo davanti a una scelta obbligata: o scuola o lavoro. Abbiamo scelto la scuola per lavorare meno.


Comunque nessuno aveva fatto il calcolo di prendere un diploma per guadagnare domani più soldi o fare meno fatica. Un pensiero simile non ci veniva spontaneo. Se in qualcuno c’era, era per influenza dei genitori.


Quel che pensavano i nostri genitori


Pare invece che questi calcoli siano normali nei genitori, almeno a giudicare dai nostri.


Non ci siamo sentiti dire che: “Bada di passare! Se passi ti fo un regalo! Se bocci ne buschi! Vuoi zappare come to pa’? Guarda quello col diploma che posto s’è fatto!”.


A sentir loro sembrerebbe che al mondo non ci fosse che il problema di noi stessi, del denaro, di farsi strada.


Cioè sembrerebbe che ci educhino all’egoismo. Mentre invece per tante altre cose ci danno esempio di generosità: aiutano volentieri il prossimo e anche la loro cura per noi è un continuo dimenticarsi di se stessi. Spesso le loro parole non riflettono il loro vero pensiero, ripetono soltanto quel che il mondo usa dire.


Perché veniamo a scuola ora


A poco a poco abbiamo scoperto che questa è una scuola particolare: non c’è né voti, né pagelle, né rischio di bocciare o di ripetere. Con le molte ore e i molti giorni di scuola che facciamo, gli esami ci restano piuttosto facili, per cui possiamo permetterci di passare quasi tutto l’anno senza pensarci. Però non li trascuriamo del tutto perché vogliamo contentare i nostri genitori con quel pezzo di carta che stimano tanto, altrimenti non ci manderebbero più a scuola.


Comunque ci avanza una tale abbondanza di ore che possiamo utilizzarle per approfondire le materie del programma o per studiarne di nuove più appassionanti.


Questa scuola dunque, senza paure, più profonda e più ricca, dopo pochi giorni ha appassionato ognuno di noi venirci. Non solo: dopo pochi mesi ognuno di noi si è affezionato anche al sapere in sé.


Ma ci restava da fare ancora una scoperta: anche amare il sapere può essere egoismo.


Il priore ci propone un ideale più alto: cercare il sapere solo per usarlo al servizio del prossimo, per es. dedicarci da grandi all’insegnamento, alla politica, al sindacato, all’apostolato o simili.


Per questo qui si rammentano spesso e ci si schiera sempre dalla parte dei più deboli: africani, asiatici, meridionali italiani, operai, contadini, montanari.


Ma il priore dice che non potremo far nulla per il prossimo, in nessun campo, finché non sapremo comunicare.


Perciò qui le lingue sono, come numero di ore, la materia principale.


Prima l’italiano perché sennò non si riesce a imparar nemmeno le lingue straniere. Poi più lingue possibile, perché al mondo non ci siamo soltanto noi.


Vorremmo che tutti i poveri del mondo studiassero lingue per potersi intendere e organizzare fra loro. Così non ci sarebbero più oppressori, né patrie, né guerre.


Tra il dire e il fare c’è di mezzo il mare


A tutti noi piacerebbe vivere oggi e per tutta la vita all’altezza di questi ideali. Però, sotto la pressione dei genitori, del mondo borghese e di un po’ di egoismo nostro, siamo continuamente tentati a ricascare nella cura di noi stessi.


Nostra debolezza


Per es. uno dei più grandi, già bravissimo in matematica, passava le nottate a studiarsene dell’altra. Un altro, dopo sette anni di scuola qui, s’è voluto iscrivere a elettrotecnica.


Alcuni di noi ogni tanto son capaci di trascurare una discussione per mettersi a contemplare un motorino come ragazzi di città.


E se oltre al motorino avessimo a disposizione anche cose più stupide (come il televisore o un pallone) non possiamo garantirvi che qualcuno non avrebbe la debolezza di perderci qualche mezz’ora.


Pressione dei nostri genitori e del mondo


A nostra difesa però c’è che ognuno di noi è libero di lasciare la scuola in qualsiasi momento, andare a lavorare e spendere, come usa nel mondo.


Se non lo facciamo non crediate che sia per pressione dei genitori. Tutt’altro! Specialmente quelli che abbiamo già preso la licenza siamo continuamente in contrasto con la famiglia che ci spingerebbe al lavoro e a far carriera. Se diciamo in casa che vogliamo dedicare la nostra vita al servizio del prossimo, arricciano il naso, anche se magari dicono di essere comunisti.


La colpa non è loro, ma del mondo borghese in cui sono immersi anche i poveri. Quel mondo preme su di loro come loro premono su di noi.


Ma noi siamo difesi da questa scuola che abbiamo avuto, mentre loro poveretti non hanno avuto né questa né altra scuola.


Concludiamo questo capitolo, in cui ci siamo fatti guidare dalle parole del priore e dei suoi ragazzi, con un’ultima citazione di un altro profeta dei nostri tempi, Ernesto Balducci, che molto ha amato don Milani, non rassegnandosi ad un suo confino nei limiti dell’esperienza di Barbiana. Così sento anch’io e non saprei dirlo meglio di lui.

L’educazione è risvegliare nelle coscienze la verità che è dentro le coscienze, in modo che esse diventino capaci di ragionare da sé, di giudicare da sé, di farsi libere in un mondo in cui la libertà è un rischio, una conquista e mai un dato di fatto o un dono radicato.

Questa visione del processo educativo vale in qualsiasi ambiente, in qualsiasi spazio dell’educazione. Ecco perché, senza nessuna indulgenza alla retorica celebrativa, Milani non è una figura del passato, ma una figura che abita ancora il nostro futuro.3

Navigando in rete

http://www.donlorenzomilani.it/


http://www.istituzionedonmilani.org/


http://www.barbiana.it/

Qualche buona lettura

Esperienze Pastorali, Libreria Editrice Fiorentina (L.E.F.), Firenze 1958 (I ed.).


L’obbedienza non è più una virtù - Documenti del processo a Don Milani,


L.E.F., Firenze 1965 (l’opera raccoglie, con altri documenti, la Lettera ai cappellani militari, Firenze 1965 Lettera ai Giudici, Firenze 1965).


Scuola di Barbiana, Lettera a una professoressa, L.E.F., Firenze 1967.


F. Gesualdi- J.L. Corzo Toral, Don Milani nella scrittura collettiva, Ed. Gruppo Abele 1992.


M. Gesualdi (a cura di), Il ponte di Luciano a Barbiana, L.E.F. 2008.


M. Gesualdi (a cura di), Don Lorenzo Milani- la parola fa eguali, L.E.F. 2005.


E. Balducci, Educare alla mondialità- conversazioni su don Lorenzo Milani, Giunti 2007

Esperienze, nomi e volti

Sicuramente una visita a Barbiana e un incontro con qualche ex allievo.


Per organizzare contattare http://www.donlorenzomilani.it/visite-a-barbiana/

Un'altra scuola è possibile?
Un'altra scuola è possibile?
Sonia Coluccelli
Autori, esperienze e prospettive educative verso percorsi scolastici in ascolto dei bambini.Un panorama delle alternative alla scuola tradizionale e dei diversi modi di approciarsi all’istruzione, tra visione pedagogica e traduzione pratica. Il sistema educativo odierno non sembra incoraggiare il pensiero olistico, intuitivo e immaginativo, ma predilige di gran lunga quello fondato sulla verbalizzazione. Il clima che si respira nella scuola provoca forte stress agli alunni, a causa di pressioni e attese didattiche che non si conformano alla loro natura. Nelle scuole si formano perlopiù conoscitori, non pensatori.Un’altra scuola è possibile mette in evidenza la necessità di promuovere all’interno della scuola una riflessione per “vedere” sempre meglio i bambini, attraverso la possibilità di vivere esperienze didattiche fuori dall’edificio scolastico; il tutto visto non come una fuga da un’esperienza avvilente, ma come la messa in atto di progetti educativi con una loro specificità e diritto di espressione.Sulla base di una critica alla scuola convenzionale, l’autrice Sonia Coluccelli intende offrire un ventaglio di proposte alternative, prospettando per ciascuna sia gli assunti teorici sia le effettive realizzazioni. Da Rudolf Steiner a Don Lorenzo Milani, da Maria Montessori a Mario Lodi, fino all’educazione parentale, ogni capitolo prende in esame una visione pedagogica e ne presenta la relativa traduzione pratica.È così offerto un panorama di scelte possibili a chi stenta a riconoscere nei sistemi scolastici convenzionali una risposta adeguata ai reali bisogni di apprendimento, crescita e sviluppo di ciascun bambino. Conosci l’autore Sonia Coluccelli è insegnante, formatrice e mamma di quattro figli. Da vent’anni coltiva una riflessione pedagogica in ambito scolastico, approfondendo la conoscenza dei diversi approcci educativi, ricercando sguardi attenti nei bambini e attenzione alle loro domande.Dal 2012 si occupa di promuovere esperienze montessoriane nella scuola pubblica collaborando con Fondazione Montessori Italia.Vive a Omegna, sulle rive del lago d’Orta.