CAPITOLO III

Educazione e pedagogia
per una scuola non violenta

Una vera educazione non può essere inculcata a forza dal di fuori; essa deve invece aiutare a trarre spontaneamente alla superficie i tesori di saggezza nascosti sul fondo.
R.Tagore


È iniziato tutto da qui. Settembre 1993: Sarajevo è già sotto assedio da più di un anno, la laurea in filosofia e il bisdiploma magistrale appena archiviati; ho 23 anni pieni di ideali e di una militanza che ancora cova sotto la cenere quando un incontro mi cambia la vita: è quello con don Albino Bizzotto dei Beati i Costruttori di pace.

La prima domanda di sempre la pongo anche a lui: come posso fare la mia parte? Nei suoi occhi trasparenti e nel suo abbraccio di padre accogliente e di profeta dei nostri tempi trovo immediata risposta.


Parto, con il compagno di strada di quei primi passi nel mondo, prima come semplice volontaria, poi “promossa” responsabile, di un progetto nei campi profughi in Croazia dove vengono raccolti i profughi dalle città infuocate della Bosnia, un tempo multietnica, multireligiosa e laica.


Per un anno lavoro con bambini, donne, anziani che devono convivere in spazi angusti sapendo che i loro figli, fratelli, mariti, padri si stanno sparando l’un l’altro a qualche ora di strada da lì.


Niente aiuti umanitari ma la proposta di ripensare le loro relazioni, di vedere l’altro fuori dalle categorie della guerra e della deumanizzazione del nemico. Inizia la mia scoperta del mondo nonviolento, di Gandhi, Lanza del Vasto, Danilo Dolci, Aldo Capitini… dapprima, per l’esperienza che stavo facendo, in ottica politica e sociale e poi in brevissimo tempo per i suoi risvolti educativi.


La riflessione sulla gestione nonviolenta della relazione e della comunicazione nei gruppi, e quindi anche nel gruppo classe, tra bambini, tra insegnanti e bambini e con i genitori è forse la prima che incontro e che mi porto a casa da questa esperienza che è un po’ il segno sotto cui le altre si collocheranno; il primo abito che sento calzarmi come maestra, molto inesperta di didattica, di apprendimento, di stili cognitivi, ma spinta a seminare un approccio che aiuti gli adulti che verranno a percorrere vie diverse da quelle che possono portare a una guerra fratricida.


Sembra facile! In verità l’approccio nonviolento richiede rigore e chiarezza.


Non è passività né una generica tolleranza di qualsiasi comportamento; non è nemmeno, o non solo, la terza via tra autoritarismo e lassismo: quell’autorevolezza che rassicura gli adulti sul loro ruolo di guide sollevandoli dal fardello di esserlo in modo troppo poco democratico.


La pedagogia nonviolenta attinge piuttosto alla forte consapevolezza e conoscenza dei bisogni e dei diritti di ciascuno, a partire dai nostri; una logica alternativa a quella del braccio di ferro e della dialettica vinto/vincitore.


Il segreto, ricordo bene questo primo passaggio di comprensione, sta nell’eliminare la presunzione del giudizio che confonde persona e suo comportamento, la capacità di guardare se stessi e gli altri senza dover obbligatoriamente stabilire i torti e le ragioni o una scala graduata di essi. La capacità di parlare di sé senza squalificare l’altro, se diverso, la trasparenza nell’esprimere i propri bisogni fidandosi del fatto che chi abbiamo di fronte possa accoglierli e comprenderli e che faccia lo stesso con noi.

Come scrive bene Rosenberg1:

Abbiamo interiorizzato l’abitudine al pensiero giudicante. Questo stile di pensiero ci induce alla ricerca delle colpe e dei torti, al fine di punirli, anziché a portare attenzione ai sentimenti e ai bisogni, al fine di soddisfarli. Ogni volta che attiviamo il nostro tribunale interiore, produciamo danni a noi stessi e agli altri.

Per una scuola che il giudizio lo teme ma che troppo spesso ne fa la sua sola arma di comunicazione, che per non essere attaccata si chiude in una difesa muta che esplode a tratti, che ha paura del conflitto e quindi lo reprime, lo evita, lo rimuove (“Hanno fatto un deserto e lo chiamano pace”, scriveva Tacito parlando della Pax Romana), la pratica dell’educazione nonviolenta e della comunicazione che ad essa segue è rivoluzionaria e forse per questo, purtroppo, praticamente assente, se non in percorsi formativi e in pratiche educative sempre più di nicchia.


Del resto credo che una pedagogia nonviolenta non sia facilmente riconducibile a tecniche risolutive senza una trasformazione degli sguardi e degli atteggiamenti interiori, che un corso di formazione può solo solleticare, nella più ottimistica delle ipotesi.


Vorrei però condividere in queste pagine alcune pratiche che credo replicabili, alcune esperienze evocative, alcuni strumenti operativi, piste di lavoro e prima ancora di riflessione sui meccanismi profondi di cui è impastata la relazione educativa e quella tra pari; una relazione che, nelle sue modalità, ritengo valga davvero la pena rimettere in discussione se oltre ad un’altra scuola, desideriamo mettere il nostro mattoncino per un altro mondo possibile.

Pedagogia della lumaca

È vero maestro non quello che ti dice qual è la strada da percorrere, ma colui che ti apre gli occhi e ti fa vedere le tante strade sulle quali puoi liberamente inoltrarti.
G. Zavalloni

Una guida piuttosto recente che mi sembra ci possa accompagnare a un ripensamento in prospettiva nonviolenta sia nelle relazioni sia negli apprendimenti, ossia nel fare scuola nella quotidianità, è la lettura del testo concreto e saggiamente visionario di Gianfranco Zavalloni La pedagogia della lumaca - Per una scuola lenta e non violenta.


Sono pagine che, fuori da ogni risacca ideologica, provano a riprendere in mano uno per uno i momenti della vita scolastica, rileggendoli nella loro possibilità di essere meno segnati da logiche di produttività, efficienza, serialità ma al contrario dalla ricerca di ritmi di vita e lavoro più lenti, più dolci e più profondi; proprio come scriveva Alex Langer, ispiratore di Zavalloni in questo testo, la cui scomparsa proprio negli anni in cui muovevo i miei primi passi nei movimenti nonviolenti è rimasta impressa nel mio immaginario come capita agli incontri mancati, di poco. È un testo che esce dalla testa e dal cuore di un uomo che, prima maestro e poi dirigente scolastico, ha saputo riprogettare concretamente le scuole in cui ha lavorato, mostrando come una grande rivoluzione di atteggiamento educativo abbia poi condizioni assolutamente ordinarie e accessibili a ciascuno per essere realizzata.


Dall’uso improprio delle schede fotocopiate a quello dei voti e della possibile/necessaria alternativa ad essi, dagli arredi ergonomici alle gite scelte con consapevolezza, il senso della ricreazione, i (non) compiti a casa, il numero di quaderni, e molto altro ancora… con questo impegno a pensare una scuola che sappia rallentare per entrare di più in contatto con se stessi ed essere presenti a ciò che si sta facendo; capaci di sbocciare, non solo i bambini, vorrei pensare, ma anche noi adulti, per i quali non dobbiamo mai perdere la speranza!


In questa mappa viva che apre il libro è Zavalloni stesso, anche abile illustratore, che ci rappresenta le connessioni tra le scelte nei diversi ambiti della vita scolastica, permettendoci così di cogliere il senso unitario di un’idea di scuola dove tutto si tiene, in una coerenza educativa che dovrebbe essere sempre il primo indicatore della qualità del nostro lavoro.

Consigli di cooperazione – esperienze di democrazia e comunicazione nonviolenta

Per cinque anni ho lavorato all’interno di un progetto di cooperazione internazionale davvero formativo anche per chi, come me e altre figure di coordinamento, ne teneva la regia: si trattava di uno scambio di buone pratiche educative con alcune scuole del nordest brasiliano dove i conflitti sociali erano (sono ancora, temo) molto diffusi, con picchi di violenza preoccupanti.


Le insegnanti delle scuole di quella regione avevano individuato in percorsi di gestione dei conflitti con un approccio nonviolento una delle scommesse per tutta la loro comunità. Le scuole italiane che aderivano a questo progetto si impegnavano a realizzare percorsi analoghi e una volta all’anno una delegazione di una o altra parte si recava oltreoceano per scambiare l’esperienza, le buone pratiche, i successi e le fatiche di questo lavoro, condotto sia in classe sia con i genitori e l’intera comunità.


Io mi occupavo della formazione degli insegnanti e, per un periodo, anche degli incontri di riflessione con le famiglie.


All’interno di questa esperienza abbiamo lavorato molto con gli insegnanti per promuovere l’attivazione dei Consigli di cooperazione, una pratica che, se svolta con regolarità, permette di sperimentare una buona sintesi delle tecniche comunicative e di relazione nonviolenta in un contesto classe.


Di cosa si tratta? Il consiglio di cooperazione è la riunione, di solito settimanale e della durata di poco meno di un’ora, di tutti i bambini/ragazzi della classe con l’insegnante; è un luogo di gestione della vita comunitaria in cui si impara ad analizzare, a comprendere, a decidere, a pianificare, a prevedere, a proporre soluzioni, a valutare gli effetti di decisioni pregresse; questo per diversi aspetti relativi alla vita della classe, dai conflitti interpersonali all’uso dello spazio o dei tempi scolastici.


Può svolgersi in qualsiasi luogo sia possibile sedersi in cerchio in modo da potersi guardare tutti negli occhi, integrando il canale verbale con quello corporeo e visuale; spesso ho trovato più efficace che il setting (scelta e disposizione dell’ambiente, posizione mia e dei bambini) e lo spazio fossero diversi da quelli dell’ordinaria attività scolastica.


È un luogo e un momento in cui ogni bambino ha garantito il suo posto e il suo spazio, in cui viene riconosciuto con le sue forze e le sue debolezze e accettato con la sua personalità e la sua cultura.


Serve a sviluppare capacità sociali di cooperazione, a imparare i diritti collettivi e individuali con la consapevolezza delle responsabilità che essi implicano. Non è un tribunale, ma un luogo di risoluzione di problemi in cui si garantisce il rispetto reciproco attraverso l’ascolto attivo e l’esercizio di una comunicazione nonviolenta.


Quando si mette in pratica il consiglio di cooperazione la risoluzione dei problemi non appartiene più solo all’insegnante. Appartiene al consiglio. Si spezza così la relazione duale per farne una relazione a tre. L’insegnante non viene più schiacciato dal peso della relazione d’aiuto da dare contemporaneamente a più di una ventina di alunni, ma si rompe anche la relazione di dualità che esiste tra un insegnante e un singolo bambino e si permette di creare una terza persona, simbolica o morale.


Il consiglio di cooperazione presuppone e realizza valori di cooperazione, uguaglianza, libertà, rispetto di sé e degli altri, autonomia, senso della responsabilità. Attraverso il voto e/o modalità decisionali condivise si sperimentano le regole delle democrazia, i bambini le capiscono, le imparano e le integrano.


I racconti degli insegnanti e dei bambini che hanno introdotto questa pratica in classe mi hanno spesso emozionato e commosso, convincendomi che uno strumento come questo può essere un tassello importante per una scuola che sia davvero un luogo dove ciascun bambino possa sentirsi accolto nella sua interezza, e così esprimere il meglio di sé.

Danilo Dolci: maieutica e nonviolenza

Non è possibile presentare una riflessione educativa che abbia come filo conduttore la pedagogia nonviolenta senza parlare di Danilo Dolci, uomo poliedrico (poeta, militante, operatore sociale, educatore) o forse semplicemente generoso nello spendere la sua vita su più fronti per promuovere una riflessione profonda sulle relazioni e la loro trasformazione da una logica di dominio a una autenticamente nonviolenta.


Dai confini nordorientali dell’Italia – è nativo di Trieste – il suo percorso lo porta, dopo una tappa significativa in centro Italia nella comunità di Nomadelfia con don Zeno Saltini, a trascorrere il resto della sua esistenza (ricca peraltro di moltissimi viaggi in tutto il mondo) nella Sicilia occidentale, territorio non solo estremamente povero e arretrato dal punto di vista materiale, ma anche svantaggiato da quello culturale: una comunità di uomini e donne con davvero pochi strumenti per essere protagonisti della loro stessa storia.


Danilo Dolci sceglie di mettersi interamente a disposizione di queste comunità per promuovere un percorso di consapevolezza ed emancipazione; lo fa senza intellettualismi ma con la chiarezza delle strategie e dei processi di cambiamento che passano attraverso la nonviolenza attiva, di stampo fortemente gandhiano. Dal digiuno allo sciopero (inteso anche al contrario, come lavoro offerto gratuitamente), dall’interposizione pacifica alla disobbedienza civile, alla creazione di spazi e occasioni di confronto aperti a tutti.


Una parte importante del suo lavoro e del suo impegno non poteva che vederlo schierato in ambito educativo.


È proprio qui che quella trasformazione profonda delle relazioni può realizzarsi e diventare prospettiva per il futuro; come del resto può accadere il contrario, ossia che la scuola e l’educazione in generale possano essere l’imprinting originario di dinamiche di potere e della loro reiterazione.


A favore dei più piccoli Danilo Dolci agisce molto presto con grande determinazione. Negli anni ’70 fonda, a Mirto di Partinico, il Centro Educativo per l’Infanzia che inizia le sue attività con bambini di 4-5 anni e che dopo circa dieci anni viene riconosciuto come scuola statale sperimentale; a fine anni Ottanta la scelta in direzione fortemente educativa si materializza con la costituzione del “Centro per lo sviluppo educativo” che diventa subito un luogo importante di formazione, dibattito e sperimentazione.


Il confronto intenso e frequente con educatori, pedagogisti, psicologi di tutto il mondo lo porta a verificare e teorizzare i forti nessi esistenti tra il processo educativo, la creatività e la crescita personale.


Passa gli ultimi anni della sua vita, interrotta bruscamente da imprevedibili complicazioni di salute, a incontrare ragazzi e bambini nelle scuole di tutta Italia, a condividere pensieri ed esperienze pedagogiche in diversi contesti, anche molto prestigiosi, con cittadinanze onorarie, lauree honoris causa e inviti su palcoscenici internazionali; un moltiplicarsi di pubblicazioni e interventi pubblici che rendono merito alle sue intuizioni e alle pratiche educative che le traducono.


Per presentare la tecnica più squisitamente dolciana, che lui stesso definì maieutica, con esplicito riferimento socratico liberamente reinterpretato, ho scelto di riportare un contributo di Daniele Novara, pedagogista che con Danilo Dolci condivise percorsi e riflessioni educative nell’ultimo periodo della sua vita.


Negli anni della mia presenza in ex Jugoslavia e delle esperienze immediatamente successive Daniele è stato uno degli incontri più significativi. Sia da un punto di vista professionale che umano, dalla raccolta dei disegni di alcuni bambini dei campi profughi, presentati poi in un testo e in un convegno, ai corsi sulla gestione dei conflitti, il confronto e l’amicizia con lui è stato un privilegio di cui ancora sono grata alle circostanze che l’hanno determinato.


In Daniele Novara è profondamente radicata la persuasione che la maieutica dolciana sia uno strumento efficace, e persino risolutivo, nella gestione dei conflitti e in tutte le situazioni educative nonché nella relazione d’aiuto; oggi possiamo affermare con certezza che il “Centro Psicopedagogico per la risoluzione e la gestione dei conflitti”, da lui fondato a Piacenza, sia il maggior erede di questa tecnica e del complessivo approccio educativo dolciano; pur interpretati in contesti e tempi storici differenti da quelli della Sicilia di Dolci, essi risultano essere una strada di profondo senso educativo anche per chi si muove in contesti scolastici ordinari.


Il Centro Psicopedagogico di Piacenza è uno dei protagonisti sulla scena nazionale nel proporre una riflessione pedagogica che vada alle radici della gestione dei conflitti, e delle emozioni che essi comportano, attraverso percorsi che, partendo da un approccio maieutico, permettono di ripensare educazione, processi di apprendimento e gestione del gruppo classe con vera attenzione ai processi individuali e collettivi.


Questa pagina di Daniele Novara ci accompagna, con passione autobiografica ma allo stesso tempo con sguardo attento agli aspetti pedagogici, a fianco di Danilo Dolci nelle sue esperienze maieutiche proprio nelle aule scolastiche.


Il gusto della domanda2

Se c’è una metafora che può caratterizzare l’esperienza pedagogica di Danilo Dolci è senz’altro la metafora della domanda. Possiamo definire Dolci come l’educatore della domanda, ossia l’educatore che innesta tutta la sua azione formativa sul chiedere, sull’esplorare, sul creare, sull’interrogazione, ovviamente non in senso scolastico, ma nel senso dello scavo, dell’andare oltre l’apparente, cercando di scoprire il “nonnoto”, ciò che è velato dalle tradizioni, dalla consuetudine, dagli stereotipi. In questo sta il richiamo al metodo maieutico, per cui Danilo Dolci è famoso, il metodo del tirar fuori, del porre gli educati, i soggetti in crescita nella condizione di allargare la propria sfera di apprendimento a partire dalla capacità di utilizzare in maniera costruttiva le domande. E qui vorrei partire da ricordi personali. Nell’ultima parte della sua vita Danilo girava le scuole d’Italia incontrando i giovani. Una volta acquisita la disponibilità di alcune classi, chiedeva ai ragazzi di mettersi in cerchio, come faceva sempre.


Anche questa disposizione delle sedie era qualcosa di assolutamente innovativo, di profetico. Oggi tutti riconosciamo la necessità di una disposizione del gruppo in una maniera diversa da quella scolastica, oppure riconosciamo la tecnica del circle time per mettere gli alunni a proprio agio o per favorire la ricerca collettiva, la discussione, il dibattito, l’approfondimento. Fin dai primi tempi in Sicilia Danilo adottò questa disposizione del gruppo. È indubbio che lasciò intendere la sua incredibile comprensione dei processi educativi.


Dunque, nelle classi Danilo faceva mettere i bambini o i ragazzi in cerchio, talvolta proponeva una delle sue poesie, e infine chiedeva ad ognuno “Qual è il tuo sogno?”. Questa domanda innescava nei ragazzi un’autoriflessione, un confronto interno. Venivano fuori stati d’animo, sentimenti, scoperte enormi. Il seminario che Danilo conduceva in fondo non era altro che questo: porre una provocatoria domanda.

A dire il vero, appare più provocatoria una scuola che non chiede mai ai suoi alunni che scopi, che desideri hanno. Però in un contesto spesso così rigido e formale come quello scolastico indubbiamente risultava un coup de théâtre che andava a rompere schemi consolidati. I ragazzi mostravano di aderire in maniera entusiasta, una volta superato il primo momento di stupore, alla proposta di Danilo, e si creava un intenso clima emotivo e affettivo di ricerca, che gettava le basi per una rigenerazione anche personale. In questo Danilo era indubbiamente maestro, nella capacità di suscitare un senso profondo delle proprie capacità, nell’aiutare i soggetti a liberarsi delle proprie insufficienze, a volare oltre gli stereotipi in cui il soggetto era calato.


Danilo Dolci concepiva la domanda come suscitatrice di un nuovo modo di collocarsi e di vedersi. La domanda funge in Danilo da mezzo di riconoscimento e di autoriconoscimento. Essa ha valore fondante. È quella che oggi, con altri termini, potremmo definire una pedagogia dell’ascolto, che è ancora una pedagogia maieutica, che ha la sua caratteristica fondamentale nell’idea che l’apprendimento non sia un’acquisizione esterna, ma piuttosto il ricongiungimento interno fra quanto il soggetto è in grado di elaborare e quanto la realtà esterna gli offre da rielaborare. In questo incontro si genera l’apprendimento.


Purtroppo la cultura scolastica tradizionale tende sempre a ripresentarsi sulla scena epistemologica con nuove interpretazioni del modello meccanicistico, e senz’altro quella delle teorie curricolari è stata una delle ultime e forse più ingegnose, basata sulla risposta esatta, sul già noto, su una visione dell’apprendimento come assecondamento di processi precostituiti dall’insegnante.


In Danilo Dolci, al contrario, c’è il gusto della scoperta, dell’imprevedibile. In questo la sua modernità è straordinaria, basti pensare alle teorie della complessità, e alle teorie che da questa complessità hanno portato alla valorizzazione delle domande legittime di contro alle scolastiche domande illegittime basate sul già noto. Chiedere agli alunni dov’è nato Leopardi, oppure qual è l’isola dell’Oceano Atlantico dove morì Napoleone: sono domande che consegnano all’alunno il puro e semplice compito della ripetizione, lo scontato compito di confermare ciò che l’insegnante già sa. Danilo Dolci, come i grandi pedagogisti critici del ’900 (che sono, fortunatamente, gli unici che ricordiamo) come Dewey, come la Montessori, come Freinet, come Freire, ci dà la possibilità di riflettere ancora una volta sulla funzione generativa dell’apprendimento che hanno le strategie educative centrate sulla domanda piuttosto che sulla risposta esatta. In Esperienze e riflessioni, ricordando la genesi del suo Centro Educativo di Mirto, dice:


Presupposto essenziale del nuovo Centro Educativo è che i bambini hanno interessi vitali: questi vanno scoperti e sviluppati da loro in collaborazione con persone che abbiano il gusto e la capacità di scoprire, di realizzare, di proporre attorno a sé validi interessi.


(…) Danilo Dolci non è inquadrabile in un’ideologia particolare: il suo lavoro ha sempre uno scopo maieutico, di liberazione, di creazione, il che si ricollega in qualche modo alla sua vena poetica e creativa. In lui possiamo dire che l’educazione si libera definitivamente da ogni sfumatura semantica di controllo, di regolazione. Educare diventa sinonimo di creare, promuovere, liberare. Purtroppo questa è un’accezione del termine che ancora oggi stenta a decollare.


Ancora oggi, quando dobbiamo usare parole come ‘educato’ o ‘maleducato’ ci riferiamo sempre a categorie di giudizio, di controllo, e mai di crescita, di liberazione, di creatività. Forse il contributo maggiore che Danilo Dolci ha dato sul piano della ricerca pedagogica è questo, che educare è offrire all’altro o all’altra la possibilità di rendere la propria vita più creativa e quindi di concepire la propria esistenza come creazione.


Infine, per rendere omaggio a questo grande del ’900, peraltro uno dei pochi educatori italiani noti, assieme a Maria Montessori, in tutto il mondo, appare utile rileggere una delle sue poesie, una splendida composizione che ci dà l’idea di quello che era il background, l’epistemologia educativa di Danilo Dolci:


C’è chi insegna guidando gli altri come cavalli passo per passo.

Forse c’è chi si sente soddisfatto, così guidato.

C’è chi insegna lodando quanto trova di buono e divertendo.

C’è pure chi si sente soddisfatto, essendo incoraggiato.

C’è pure chi educa senza nascondere l’assurdo che è nel mondo, aperto a ogni sviluppo,

cercando di essere franco all’altro come a sé,

sognando gli altri come ora non sono.

Ciascuno cresce solo se sognato.



Date fiducia all’amore…

Dal punto di vista dell’educazione nonviolenta la centralità è dunque data alla relazione. Per questo motivo accennavo in apertura di capitolo a un atteggiamento interiore che permetta a noi adulti di svestirci dei panni delle guide che orientano al bene, sia in senso etico che operativo, e di indossare piuttosto quelli di facilitatori delle scoperte e delle esperienze che permettono a ciascun bambino di diventare l’adulto che in forma ancora abbozzata già è.


Non è possibile, poi, promuovere atteggiamenti nonviolenti nei bambini senza ripensare ai rapporti di forza che determinano la relazione adultobambino in un contesto educativo, familiare o scolastico. Più ancora che per altri approcci pedagogici qui l’incoerenza strutturale rischia di azzerare l’efficacia delle finalità educative che possiamo scegliere e perseguire come orizzonte ideale.


C’è una canzone che Giorgio Gaber ha scritto e cantato poco prima della sua morte e che è stata suonata al suo funerale, assegnandole così il valore che si dà a un testamento umano, culturale e artistico. È Non insegnate ai bambini3. Eccone i versi conclusivi, contributo finale poetico e allo stesso tempo penetrante, capace di porci domande su ciò che per noi significa educare e insegnare e su ciò che invece potrebbe essere, se provassimo a sederci alla stessa altezza dei nostri bambini e a coltivare nel profondo una grande fiducia nelle loro capacità di scelta e di autoregolazione. Dando fiducia anche alla relazione tra noi e loro e lavorando un po’ su noi stessi.


Non insegnate ai bambini
ma coltivate voi stessi il cuore e la mente stategli sempre vicini
date fiducia all’amore il resto è niente.
Giro giro tondo cambia il mondo.
Giro giro tondo cambia il mondo.
Giorgio Gaber

Navigando in rete

Per ascoltare la canzone di Gaber http://www.youtube.com/watch?v=IVnPotcVkFQ


Nella versione cantata da Alice http://www.youtube.com/watch?v=NCBYPu_CV1w


http://www.pedagogiadellalumaca.org/


http://www.scuolacreativa.it/home.html


http://danilodolci.org/


http://educazionedemocratica.org/?p=658


http://www.cppp.it/

Qualche buona lettura

Zavalloni G., La pedagogia della lumaca, EMI 2008.


Per una descrizione sintetica ma completa della tecnica del consiglio di cooperazione: http://www.cppp.it/files/consiglio_cooperazione_in_i_bulli.pdf


Jasmin D., Consigli di cooperazione in classe, la meridiana 2003.


Orsi M., Orsi M.B. (a cura di), Diventare grandi - Percorsi di educazione alla responsabilità, EMI 2006.


Freire P., La pedagogia degli oppressi, EGA 2004.


Johnson/Johnson/Holubec, Apprendimento cooperativo in classe, Erickson 1996.


La bibliografia di e su Danilo Dolci con breve descrizione di ogni opera http://danilodolci.org/libri/


Novara D., Di Chio C., Litigare con metodo - Gestire i litigi dei bambini a scuola, Erickson 2013.


Dolci D., Dal trasmettere al comunicare, Sonda 2011 con ampia prefazione di Daniele Novara sul metodo pedagogico dolciano.


Rosenberg M., Le parole sono finestre (oppure muri), Esserci Edizioni 2003.

Esperienze, nomi e volti

Credo che la pratica della nonviolenza autentica non possa mettere radici senza esperienze dirette e occasioni di confronto e scambio “sul campo”: per questo suggerisco, per chi può, di avvicinarsi alle proposte dei campi di lavoro tematici proposti dal MIR-MN http://nonviolenti.org/cms/Movimento-nonviolento/iniziative/campi-estivi/


oppure di fare esperienze di nonviolenza attiva con Beati i Costruttori di Pace http://www.beati.org/


o con i campi di azione e condivisione dei percorsi di LIBERA, percorsi autenticamente nonviolenti nei confini nazionali http://www.libera.it/flex/cm/pages/Serve-BLOB.php/L/IT/IDPagina/7635


In termini formativi i corsi brevi o residenziali proposti dal Centro Psicopedagogico di Piacenza sono un’opportunità importante e del tutto originale sul territorio nazionale http://www.cppp.it/calendario_2014.html

Un'altra scuola è possibile?
Un'altra scuola è possibile?
Sonia Coluccelli
Autori, esperienze e prospettive educative verso percorsi scolastici in ascolto dei bambini.Un panorama delle alternative alla scuola tradizionale e dei diversi modi di approciarsi all’istruzione, tra visione pedagogica e traduzione pratica. Il sistema educativo odierno non sembra incoraggiare il pensiero olistico, intuitivo e immaginativo, ma predilige di gran lunga quello fondato sulla verbalizzazione. Il clima che si respira nella scuola provoca forte stress agli alunni, a causa di pressioni e attese didattiche che non si conformano alla loro natura. Nelle scuole si formano perlopiù conoscitori, non pensatori.Un’altra scuola è possibile mette in evidenza la necessità di promuovere all’interno della scuola una riflessione per “vedere” sempre meglio i bambini, attraverso la possibilità di vivere esperienze didattiche fuori dall’edificio scolastico; il tutto visto non come una fuga da un’esperienza avvilente, ma come la messa in atto di progetti educativi con una loro specificità e diritto di espressione.Sulla base di una critica alla scuola convenzionale, l’autrice Sonia Coluccelli intende offrire un ventaglio di proposte alternative, prospettando per ciascuna sia gli assunti teorici sia le effettive realizzazioni. Da Rudolf Steiner a Don Lorenzo Milani, da Maria Montessori a Mario Lodi, fino all’educazione parentale, ogni capitolo prende in esame una visione pedagogica e ne presenta la relativa traduzione pratica.È così offerto un panorama di scelte possibili a chi stenta a riconoscere nei sistemi scolastici convenzionali una risposta adeguata ai reali bisogni di apprendimento, crescita e sviluppo di ciascun bambino. Conosci l’autore Sonia Coluccelli è insegnante, formatrice e mamma di quattro figli. Da vent’anni coltiva una riflessione pedagogica in ambito scolastico, approfondendo la conoscenza dei diversi approcci educativi, ricercando sguardi attenti nei bambini e attenzione alle loro domande.Dal 2012 si occupa di promuovere esperienze montessoriane nella scuola pubblica collaborando con Fondazione Montessori Italia.Vive a Omegna, sulle rive del lago d’Orta.