CAPITOLO IX

Sguardi oltreconfine

L’educazione non cambia il mondo, cambia le persone che cambieranno il mondo.
P.Freire

Stiamo affrontando, sin dalle prime pagine di questo libro, il nodo delle criticità proprie della scuola italiana e delle possibili alternative che potrebbero migliorarne la qualità e l’efficacia. Non possiamo tuttavia immaginare né sostenere che i sistemi scolastici di tutti gli altri Paesi (occidentali e non) presentino un quadro ideale rispetto alle modalità pedagogiche che attuano.


La riflessione su una scuola diversa è all’ordine del giorno a tutte le latitudini e la comunicazione globalizzata ci permette di accedere con grande facilità a contributi significativi e fortemente trasferibili anche al contesto italiano. Avviciniamoci dunque in questo capitolo a voci che, pur necessitando dei sottotitoli in quanto a lingua veicolare, hanno contenuti familiari per il nostro sguardo sui bambini e la scuola.

SIR KEN ROBINSON

Una delle analisi più convincenti sulle falle dei sistemi scolastici convenzionali si può esaminare facilmente in rete1; porta la firma di Ken Robinson e sta diventando un manifesto, pur se con interpretazioni diverse, tra chi riflette in modo critico sulla scuola italiana e non solo.


Per qualcuno le considerazioni di Robinson, che qui e altrove sostiene la necessità di un cambiamento strutturale dei paradigmi dell’educazione attraverso processi di apprendimento che facilitino il pensiero divergente, sono la prova dell’esigenza di uscire dal circuito della scuola tradizionale facendo scelte educative e di istruzione alternative (scuole libertarie, homeschooling e unschooling); per altri invece sono lo stimolo contemporaneo a favore di un cambiamento dall’interno del sistema scolastico. Questione di fiducia o sfiducia, ma anche di scelta sui percorsi istituzionali che si intendono percorrere.


Ken Robinson ha conquistato popolarità a livello internazionale grazie alla sua partecipazione a TED; si stima che 250 milioni di persone in oltre 150 Paesi abbiano visto la sua prima brillantissima presentazione sulla creatività e le altre che ad essa sono seguite.


In Italia forse non molti conoscono il canale di divulgazione di cui stiamo parlando: TED (Technology Entertainment Design) sono conferenze che si tengono ogni anno in California e, recentemente, ogni due anni in altre città del mondo.


La sua missione è riassunta nella formula “ideas worth spreading” (idee degne di essere diffuse); in linea con questo intento, le migliori conferenze sono state pubblicate gratuitamente sul sito web del TED2. Gli interventi spaziano in una vasta gamma di argomenti che comprendono scienza, arte, politica, temi globali, architettura, musica e molto altro. I relatori stessi, tutti di alto prestigio, provengono da molte realtà e discipline diverse. In Italia Rai5 ha nel suo palinsesto il programma “TED talks” che ripropone alcune delle conferenze realizzate.


Chi è, invece, Sir Ken Robinson? Inglese di Liverpool, nato nel 1950, è un ex professore di educazione artistica presso la University of Warwick. È considerato oggi uno dei maggiori esperti in campo educativo e lavora con le principali strutture mondiali specializzate nello sviluppo della creatività. Ha scritto parecchi libri, tra cui Out of Our Minds: Learning to be Creative, ad oggi il suo maggiore successo. Nel 2003 ha ricevuto il titolo di cavaliere (Sir) dalla regina Elisabetta II per i suoi contributi al mondo dell’arte. Vive attualmente a Los Angeles con la moglie e due figli.


Nella conferenza citata, nella quale affronta la necessità di cambiare i paradigmi dell’educazione, Robinson parte da una semplice premessa: la scuola di oggi è una scuola antica, concepita “nel clima culturale e intellettuale dell’Illuminismo e nelle circostanze economiche della prima rivoluzione industriale”. La prova è che le scuole sono ancora organizzate sul modello della linea di produzione, come in una fabbrica. “Ci sono le campanelle, delle strutture separate, gli alunni si specializzano in materie diverse. Educhiamo ancora i bambini per annate: li inseriamo nel sistema raggruppandoli per età”. La scuola, quindi, è come una catena di montaggio da cui possono uscire solo due tipi di prodotti: gli studiosi e gli svogliati. Si tratta di un sistema educativo non adatto per l’epoca contemporanea, secondo Robinson, che individua invece una grande opportunità nello sviluppo del “pensiero laterale”, espressione coniata dallo psicologo maltese Edward De Bono, la quale indica una capacità di risolvere i problemi in modo creativo e da diverse prospettive. Robinson cita l’esempio della graffetta: quanti modi ti vengono in mente per usarne una? “La maggior parte di noi ne trova 10-15. Quelli più bravi ne trovano anche 200. E li trovano facendo domande del tipo: ‘La graffetta potrebbe essere alta 60 metri e fatta di gommapiuma?’”. La cosa tragica, o splendida se vogliamo, è che i bambini sono più inclini a vedere le cose lateralmente – e quindi a fare più domande e a trovare più soluzioni – di quanto lo siano gli adulti. Questo non perché la crescita porti per forza di cose a una chiusura mentale, ma perché i luoghi in cui i bambini crescono, e la scuola in particolare, invece di sviluppare e articolare il loro pensiero, lo standardizzano, qui sta la tragicità. “Il problema cruciale”, sostiene Robinson, “risiede nella cultura delle nostre istituzioni, nel clima che vi si respira e nelle abitudini che hanno consolidato”.


Ogni sistema educativo nel mondo, però, ci ricorda Robinson, è stato riformato o sta per essere riformato. Dovremmo esserne felici ma dobbiamo invece ammettere che non è abbastanza. Le riforme non servono più a niente. Perché si limitano a migliorare un sistema fallimentare. Non abbiamo bisogno di una evoluzione del sistema educativo, ma di una rivoluzione.


Un’affermazione così chiama ciascuno di noi a collocarsi; dove pensiamo sia il nostro posto, riformisti o rivoluzionari?

Prolusione creativa

Il cavallo di battaglia di Robinson rimane il tema della creatività e la considerazione di quanto essa sia soffocata all’interno del sistema scolastico convenzionale; come abbiamo visto, il suo esordio durante una conferenza TED affronta proprio questo nodo.


Mi sembra interessante poterlo leggere in versione sostanzialmente integrale nella traduzione di Katja Comploj3.

Buon giorno. Come state? È stato meraviglioso, no? Sono emerse tre tematiche durante la conferenza, che sono attinenti a quello di cui vorrei parlare. La prima è l’evidenza straordinaria della creatività umana in tutte le presentazioni che abbiamo visto e in tutte le persone qui. La sua diversità, la sua varietà. La seconda è che ci troviamo in una situazione nella quale non abbiamo idea di quello che succederà in futuro. Non abbiamo idea di come si svilupperà.


Ho un interesse per l’istruzione, per l’educazione. A dir il vero, mi sembra che tutti abbiamo un interesse per l’educazione. Perché è qualcosa che ci tocca profondamente, vero? Un po’ come la religione, i soldi e altre cose. Ho un grande interesse per l’educazione e credo che lo abbiamo tutti. Perché ci riguarda un sacco, in parte perché è l’educazione che dovrebbe prepararci per questo futuro incerto. Se ci pensate, i bambini che cominciano ad andare a scuola quest’anno andranno in pensione nel 2065. Nessuno ha la più pallida idea – nonostante tutte le considerazioni esperte presentate in questi quattro giorni – come sarà il mondo tra cinque anni. Eppure abbiamo il compito di preparare i nostri figli per esso. Per cui l’imprevedibilità, io credo, è straordinaria.


E la terza cosa è che siamo tutti d’accordo, nonostante tutto, sulla davvero straordinaria capacità che i bambini hanno, le loro capacità di innovazione. E sono convinto che tutti i bambini hanno enormi talenti. E noi li sprechiamo, senza pietà. Quindi voglio parlare di educazione e voglio parlare di creatività. Il mio argomento è che la creatività è tanto importante quanto l’alfabetizzazione e le dovremmo trattare alla pari.


Recentemente ho sentito una bella storia – amo raccontarla – di una ragazzina durante una lezione di disegno. Aveva 6 anni, era seduta in fondo e disegnava. L’insegnante diceva che questa ragazzina di solito non stava attenta, ma in questa lezione invece sì. L’insegnante era affascinata, andò da lei e le chiese: “Che cosa stai disegnando?”. E la ragazzina rispose: “Sto disegnando Dio”. E l’insegnante disse: “Ma nessuno sa che aspetto abbia”. E la ragazzina: “Lo sapranno tra poco”.


Quando mio figlio aveva quattro anni partecipava al teatrino della Natività. James faceva la parte di Giuseppe e noi ne eravamo entusiasti. Non doveva dire niente, ma conoscete la parte dove entrano i tre Re. Entrano portando i regali, portano oro, incenso e mirra. È successo davvero. Eravamo lì seduti e credo che si fossero scambiati i posti, perché dopo abbiamo parlato con il ragazzino e abbiamo detto “Ti va bene così?” e lui: “Sì, perché, che c’è che non va?”. Si erano semplicemente cambiati di posto, tutto qua. Comunque, i tre ragazzi entrarono, quattrenni con tovagliolini in testa, posarono queste scatole per terra e il primo ragazzino disse: “Vi porto oro”. E il secondo ragazzino disse: “Vi porto mirra”. E il terzo ragazzino disse: “Questo l’ha mandato Frank!”.


Ciò che queste cose hanno in comune è che i bambini si buttano. Se non sanno qualcosa, ci provano. Giusto? Non hanno paura di sbagliare. Ora, non voglio dire che sbagliare è uguale a essere creativi. Ciò che sappiamo è che se non sei preparato a sbagliare, non ti verrà mai in mente qualcosa di originale. Se non sei preparato a sbagliare. E quando diventano adulti la maggior parte di loro ha perso quella capacità. Sono diventati terrorizzati di sbagliare. E noi gestiamo le nostre aziende in quel modo, stigmatizziamo errori. E abbiamo sistemi nazionali d’istruzione dove gli errori sono la cosa più grave che puoi fare. E il risultato è che stiamo educando le persone escludendole dalla loro capacità creativa.


Picasso una volta disse che tutti i bambini nascono artisti. Il problema è rimanerlo anche da adulti. Io sono convinto che non diventiamo creativi, ma che disimpariamo ad esserlo. O piuttosto, ci insegnano a non esserlo. Dunque perché è così?


C’è una cosa che ti colpisce quando ti trasferisci in America e se viaggi per il mondo: ogni sistema di istruzione ha la stessa gerarchia di materie. Ognuno. Non importa dove vai. Credi che sia diverso, ma non lo è. In cima ci sono le scienze matematiche e le lingue, poi le discipline umanistiche e in fondo l’arte. Ovunque nel mondo. E, più o meno, anche all’interno di ogni sistema. Esiste una gerarchia nelle arti. L’arte e la musica occupano una posizione più alta nelle scuole rispetto a recitazione e danza. Non esiste sistema educativo sul pianeta che insegni danza ai bambini ogni giorno, così come insegniamo la matematica. Perché? Perché no? Credo che sia importante. Credo che la matematica sia molto importante, ma altrettanto la danza. I bambini ballano tutto il tempo se possono, noi tutti lo facciamo. Abbiamo tutti un corpo, o no? In verità, ciò che succede è che, quando i bambini crescono, noi iniziamo a educarli progressivamente dalla pancia in su. E poi ci focalizziamo sulle loro teste. E leggermente verso una parte.


Dobbiamo ripensare radicalmente la nostra idea di intelligenza.


Sappiamo tre cose sull’intelligenza. Anzitutto, che è varia. Pensiamo il mondo in tutti i modi nei quali lo percepiamo. Riflettiamo visualmente, uditivamente, cinesteticamente. Pensiamo in modo astratto, in movimenti. Secondo, l’intelligenza è dinamica. Se guardiamo le interazioni di un cervello umano, l’intelligenza è meravigliosamente interattiva. Il cervello non è suddiviso in compartimenti. Infatti, la creatività – che io definisco come il processo che porta ad idee originali di valore – si manifesta spesso tramite l’interazione di modi differenti di vedere le cose. Il cervello stesso lo fa intenzionalmente – c’è un fascio di nervi che connette le due parti del cervello chiamato corpo calloso. È più ampio nelle donne. Riagganciandomi al discorso di Helen di ieri, credo che sia per questo che le donne sono migliori nel multitasking. Perché lo siete. Ci sono un sacco di ricerche, ma lo so anche dalla mia esperienza personale. E la terza cosa sull’intelligenza è che è distinta. Sto scrivendo un nuovo libro chiamato “Epiphany”, che si basa su una serie di interviste di persone su come hanno scoperto il loro talento. Mi affascina come le persone ci sono arrivate. Nasce da una conversazione che ho avuto con una donna meravigliosa, che tante persone non conoscono, si chiama Gillian Lynne, ne avete sentito parlare? Alcuni sì. È una coreografa e tutti conoscono i suoi lavori. Ha fatto “Cats” e “Phantom of the Opera”. Lei è meravigliosa. Sono stato tra i dirigenti del Royal Ballet; abbiamo pranzato insieme un giorno e ho detto “Gillian, come sei diventata ballerina?”. E lei disse, era interessante, quando lei era a scuola era davvero senza speranza. E la sua scuola, negli anni 30, scrisse ai genitori e disse, “Crediamo che Gillian abbia problemi di apprendimento”. Non era capace di concentrarsi, diventava nervosa. Oggi direbbero che ha l’ADHD [Sindrome da Deficit di Attenzione e Iperattività]. Non credete? Ma siamo attorno al 1930 e l’ADHD non l’avevano ancora inventata.


Comunque, andò a farsi vedere da questo specialista. Stanza in legno di rovere … Ed era là con sua madre, era stata accompagnata e fatta accomodare su una sedia e alla fine stette seduta sulle sue mani per 20 minuti, mentre quell’uomo parlò con la madre di tutti i problemi che Gillian aveva a scuola. E alla fine – perché disturbava la gente, portava il compito in ritardo e così via, era una bambina di appena 8 anni – alla fine, il medico si sedette vicino a Gillian e disse: “Gillian, ho ascoltato tutte quelle cose che tua madre mi ha detto e le devo parlare a quattr’occhi”. Le disse: “Aspettaci qua, non ci metteremo molto”. E se ne andarono. Ma quando lasciarono la stanza egli accese la radio appoggiata sulla scrivania. E quando erano fuori dalla stanza disse alla madre, “Ora la guardi”. E appena se n’erano andati, lei disse, lei era in piedi e si muoveva con la musica. E la guardarono per qualche minuto ed egli disse a sua madre, “Signora Lynne, Gilian non è malata, è una danzatrice. La porti a una scuola di danza”.


Io chiesi “E poi?” e lei mi disse: “Lo fece. Non ti puoi immaginare quanto era bello. Entravamo in quella stanza ed era piena di gente come me. Gente incapace di stare ferma. Gente che si doveva muovere per pensare”. Facevano balletto, tap, jazz danza moderna e contemporanea. Alla fine fece un’audizione per il Royal Ballet School, diventò una solista ed ebbe una splendida carriera al Royal Ballet. E infine si diplomò alla Royal Ballet School, fondò una sua compagnia, la Gillian Lynne Dance Company, e conobbe Andrew Lloyd Weber. Lei è stata responsabile di alcune tra le più famose produzioni del teatro musicale della storia, ha portato diletto a milioni di persone ed è multi-milionaria. Un altro le avrebbe somministrato qualche farmaco e detto di calmarsi. Ora credo che la nostra unica speranza per il futuro sia di adottare una nuova concezione di ecologia umana, nella quale cominciare a ricostruire la nostra concezione della ricchezza delle capacità umane. Il nostro sistema educativo ha sfruttato le nostre teste come noi abbiamo sfruttato la terra: per strapparle una particolare risorsa. E per il futuro non ci servirà. Dobbiamo ripensare i principi fondamentali sui quali educhiamo i nostri figli. C’è una magnifica citazione di Jonas Salk, disse: “Se tutti gli insetti scomparissero dalla Terra, entro 50 anni tutta la vita sulla Terra finirebbe. Se tutti gli esseri umani scomparissero dalla Terra, entro 50 anni tutte le forme di vita fiorirebbero”. E ha ragione.


Ciò che TED celebra è il dono dell’immaginazione umana. Dobbiamo fare attenzione ad usare questo dono saggiamente ed evitare alcuni degli scenari dei quali abbiamo parlato. E lo faremo solo se sapremo vedere le nostre capacità creative per la ricchezza che sono e se sapremo vedere i nostri figli per la speranza che sono. Il nostro compito è di educarli nella loro interezza affinché possano affrontare il loro futuro. Forse noi non vedremo questo futuro, ma loro sì. E il nostro compito è di aiutarli a farne qualcosa. Grazie mille.

Leggendo ed ascoltando questo contributo di Ken Robinson mi risuonavano nelle orecchie le parole di Eugenio Finardi in una canzone degli anni ’70, che amaramente potremmo dire fotografa una realtà non troppo diversa da quella che con altro linguaggio e argomentazioni denuncia Robinson quaranta anni dopo: l’incapacità della scuola di promuovere il talento e di uscire da percorsi standardizzati e poco impregnati di vita ed emozione.

La scuola4


Ci dicevano, insistevano, di studiare

che da grandi ci sarebbe stato utile sapere

le cose che a scuola andavamo a imparare

che un giorno avremmo dovuto anche lavorare.

E c’è chi è stato promosso, c’è chi è stato bocciato,

chi non ha retto la commedia ed è uscito dal gioco

ma quelli che han studiato e si son laureati

dopo tanti anni adesso sono disoccupati.

Infatti mi ricordo mi sembrava un po’ strano

passare quelle ore a studiare latino

perché allena la mente a metter tutto in prospettiva

ma io adesso non so calcolare l’iva.

Io volevo sapere la vera storia della gente

come si fa a vivere e cosa serve veramente

perché l’unica cosa che la scuola dovrebbe fare:

è insegnare a imparare.

Io per mia fortuna me ne son sempre fregato

non facevo i compiti, non ho quasi mai studiato.

Ascoltavo dischi, mi tenevo informato.

Cercavo di capire ed adesso me la so cavare.

Perciò va pure a scuola per non far scoppiar casino,

studia matematica ma comprati un violino, impara a lavorare il legno,

ad aggiustar ciò che si rompe, che non si sa mai nella vita

un talento serve sempre.

L’EDUCACIÓN PROHIBIDA

L’ho visto tutto d’un fiato (due ore e mezza in lingua originale, una lingua che però amo molto, lo spagnolo) e ho pensato subito che lì dentro ci fosse tutto, in una sintesi completa come sanno esserla le opere a più voci, in cui ciascuno porta un punto di vista, un’esperienza, una competenza, armonizzati però da una visione comune dell’orizzonte verso cui si procede e dei presupposti da cui parte. Si tratta di un film documentario nato come progetto “para aprender, compartir y accionar colectivamente”, partendo da una lettura critica dell’istruzione tradizionale che continua, anche nei paesi ispanofoni, a non considerare la natura vera dell’apprendimento, la libertà di scelta o l’importanza delle relazioni nello sviluppo individuale e collettivo.

La educación prohibida è prima di tutto uno strumento formidabile per ragionare intorno all’idea di apprendimento attivo, comunitario, creativo, inclusivo, transdisciplinare, legato all’ambiente naturale. Da diversi mesi questo video rimbalza tra insegnanti ed educatori di tutto il mondo, fa discutere, pensare, sperimentare. Guardatelo, anche a puntate, ma non perdetevelo.


Il film è nato grazie alla rete di educazione alternativa REEVO per documentare, promuovere e diffondere le migliaia di esperienze trasformatrici dell’educazione. Una rete virtuale e reale di persone impegnate in azioni di documentazione, incontri, formazione e scambi, a cominciare dalla Spagna e dai Paesi latinoamericani, attraverso la costituzione di una comunità organizzata e l’uso di una piattaforma web.


Il documentario raccoglie più di novanta interviste a educatori, insegnanti, ricercatori, artisti, genitori e scrittori sul tema dell’educazione.


Dopo diversi mesi dal suo lancio, La educación prohibida oggi è davvero più di film, è una rete di relazione, un fenomeno a suo modo unico, un progetto indipendente senza precedenti per il numero di persone che sta coinvolgendo, direttamente e indirettamente, e per la capacità di mostrare finalmente l’emersione di nuove forme di apprendimento, di modi diversi di trasformare la società. Anna Molinari ha recentemente proposto ai lettori del sito di Unimondo (ONG italiana che offre materiale di riflessione su diversi temi, compresi quelli educativi) una lettura capitolo per capitolo dell’intero documentario; ne presentiamo qui un estratto della prima parte5, i cui contenuti riprendono molti dei temi e delle considerazioni che stiamo affrontando in questo libro.

Questo articolo credo possa permettere anche ai nostri lettori di avvicinare i contenuti di questo documento davvero prezioso, per poi completare il viaggio con la visione completa facilmente scaricabile dal sito indicato a fine capitolo.

(…) L’analisi che propone non vuole essere esaustiva né universale, ma centra senza dubbio alcune insoddisfazioni della scuola attuale. Un film con centinaia di “coproduttori”, che inizia citando Platone e il noto mito della caverna, ricordandoci quanto sia facile vivere come ombre illuse di vita vera. Nonostante la modernità, nonostante la tecnologia, nonostante i mezzi di comunicazione lusinghino l’educazione e ne facilitino il miglioramento fornendo strumenti sempre più avanzati… E nonostante l’elevato e differenziato numero di istituti scolastici, aventi però un’ideale comune: lo sviluppo individuale e sociale del singolo, un paradigma educativo che punta a raggiungere una buona qualità di vita e a far sì che gli studenti aspirino a ottenere un lavoro all’interno della comunità. Ma esistono altre scuole con obiettivi diversi? Come vengono raggiunti? Queste le domande che anticipano il viaggio di German Doin e dei suoi collaboratori e che aprono più di una porta su luoghi ancora poco conosciuti da chi si occupa di scuola di oggi. Un documentario che spinge a fare un bilancio su una scuola dove – a detta degli studenti intervistati – si impara poco, si insegna la competizione, genitori e insegnanti non ascoltano e l’educazione è, appunto, proibita.


Il capitolo primo si apre su un augurio di einsteiniana memoria: “Se vuoi ottenere risultati diversi, non ripetere sempre le stesse cose”. È proprio così? A scuola si impara poco? Le risposte non sono valide per ogni realtà che conosciamo, ma certo l’alto numero di alunni che “falliscono” a scuola (anche in Paesi dove il presupposto di una scuola “che funziona” sembra scontato) e l’elevato tasso di drop out non possono non indicare una falla del sistema, del modo paradigmatico in cui la scuola viene concepita. Prendiamo ad esempio le scuole dell’America Latina che, interviene Carlos Alberto Jiménez Yélez, neuropedagogista colombiano, “non sono che spazi di noia e tedio”. “Materie statiche, senza dinamismo, che ripetono solo parole”, rincara Marisa Do Campo, educatrice e logosofista argentina. La scuola si basa su un rapporto chiaro tra l’adulto che fornisce le informazioni e i ragazzi che “devono apprenderle”.


La concentrazione è focalizzata non tanto sullo sviluppo della persona ma sul compimento del curriculum: se non si apprende a leggere, scrivere e far di conto non si supera l’esame del “bien educado”. Ci si concentra solo su alcune aree specifiche per ottenere dei risultati, che si riducono per lo più a “conocimientos formales”. Una conoscenza parcellizzata, frutto di uno sguardo parziale. La scuola segue ancora un paradigma troppo frammentato, basato su un “apprendimento preventivo”, nella convinzione che “un giorno tutto questo potrebbe essere utile”. I concetti si acquisiscono con uno sforzo sproporzionato di memoria, calcolo e concentrazione e l’aspetto sconcertante è che, sfortunatamente, questi concetti hanno una durata limitata. I metodi di apprendimento cambiano velocissimamente, ed è chiaro che i metodi educativi non stanno al passo con i tempi. È interessante osservare come nel film si parli di metodi [le domande pedagogiche del nostro primo capitolo… N.d.A.], non di strumenti educativi, che invece spesso sono di ultima generazione [tablet e lavagne multimediali in prima fila, N.d.A.].


A scuola impariamo che ciò che è buono è misurabile, quantificabile e osservabile. Ecco perché la scuola ha avuto sempre bisogno di regole chiamate voti: un modo per segnalare o meno il raggiungimento dell’obiettivo. E tutto ciò con l’intento di comparare: comparare il soggetto e il suo apprendimento con una scala standard che misura… Cosa misura realmente di un individuo unico e irripetibile? La persona è un 5, un 6 ½, un 10? In questo modo la separazione tra vincenti e perdenti è immediata, e le conseguenze non si srotolano solo sul piano psicologico, ma anche su quello professionale: solo i migliori vanno avanti.


“Tutto il mondo parla di pace ma chi educa alla pace? La scuola educa alla competizione e la competizione è il primo passo verso qualsiasi guerra”. Una considerazione che non può lasciare indifferenti quella che fa Pablo Lipnizky, insegnante colombiano presso una scuola montessoriana. Si parla di solidarietà, comunità, uguaglianza, cooperazione, libertà, felicità, si rendono protagonisti valori umani profondi, ma il sistema scolastico attuale promuove esattamente i valori opposti: la competizione, l’individualismo, la discriminazione, il condizionamento, la violenza emotiva, il materialismo. Gli ideali coccolati si riducono a meri contenuti e non possono che collidere, in maniera del tutto incoerente, con i risultati ottenuti dalla “struttura scolastica”. Il paradigma è frammentato, basti pensare agli insegnamenti non integrati, né tra loro, né con le vite dei singoli. L’insegnamento rischia quindi di convertirsi in un processo di riproduzione simbolica, dove concetti e frasi ripetute imbrigliano le individualità.


Carlos Wernicke, della Fundación Holismo, ci ricorda che in Argentina, oggi, la gran parte dei bambini si sveglia il lunedì pensando “Uffa, devo tornare a scuola!”. Non solo: la gran parte degli insegnanti pensa lo stesso! Uno dei tanti risultati inattesi del sistema è che spesso annovera tra gli insoddisfatti della scuola anche gli stessi professori, perché non hanno a disposizione quegli elementi basilari di riflessione sulle emozioni, proprie e degli studenti assieme ai quali poi andranno a lavorare. Per educare è imprescindibile un processo di autoconoscenza e di auto sviluppo, un percorso di lavoro e di armonia… di allegria. Un processo delicato che spesso è ostacolato, quando non impedito, dalla condizione di precariato lavorativo ed economico degli insegnanti, che certo non contribuisce a nutrire la motivazione, la partecipazione, la fiducia nel proprio operato e nelle proprie capacità. Come può infatti il maestro trasmettere autostima e sicurezza personale se il sistema stesso lo considera un numero, impigliato in valutazioni, burocrazia, vincoli?


Sconcertante è anche il fatto che, come fa notare Carlos González, pediatra e scrittore spagnolo, un bambino di 8 anni trascorre a scuola più tempo di quanto ne trascorra all’università un ragazzo di 20 anni. Ha senso? Esistono veramente così tante cose da imparare? La scuola è ancora un luogo di formazione o piuttosto un gran “parcheggio per bambini”, si chiede William Rodríguez, dell’Instituto Popular de Cultura Cali in Colombia? In effetti per alcuni, come ad esempio per Elinor Barentin, ricercatrice cilena presso il Centro Studi Montessori, è inconcepibile pensare che sia necessario, perché un bambino apprenda, che resti composto e controllato dietro a un banco (…)

La visione di questo documento così completo e radicale nelle sue considerazioni ci porta curiosamente a considerare come il sistema scolastico che, su base nazionale, si trova più affine a queste riflessioni raccolte e diffuse nel mondo ispanofono sia quello di un piccolo Paese dell’estremo nord Europa. Ma vediamo meglio di cosa si tratta.

IL SISTEMA SCOLASTICO FINLANDESE

Secondo i dati dello studio Pisa (Programme for international study assessment), condotto su 400.000 quindicenni di 57 Paesi, i ragazzi finlandesi sono i meglio preparati in lingua, matematica e scienze. Gli italiani decisamente meno: uno su quattro non capisce ciò che legge e uno su due manca delle nozioni di base in matematica.


Negli ultimi anni si parla e si legge molto del sistema scolastico voluto da Helsinky, spesso attraverso un passaparola che aggiunge a elementi reali quelli fantastici e semplici proiezioni della scuola ideale che molti di noi hanno in mente. Vorrei quindi dedicare un po’ di spazio a questa esperienza di scuola pubblica e ai suoi elementi educativi e didattici che inevitabilmente ci interrogano sul processo che sta alle spalle di questi risultati e sulla sua trasferibilità anche nei nostri confini.

Un articolo di Norberto Bottani6 analizza il fenomeno e ci aiuta a individuare con chiarezza i punti cardinali per orientarci in una riforma (o rivoluzione? chissà come la definirebbe Ken Robinson…) contemporanea della scuola pubblica sul modello di quanto avvenuto in Finlandia.


Questo Paese ha saputo traghettare un sistema scolastico mediocre verso eccellenze mondiali, non solo in termini di risultati misurabili ma soprattutto di buone pratiche e di processi di qualità educativa che appartengono oramai all’ordinarietà di quelle aule, tutte. Vediamo come.

(…) Välijärvi e il suo gruppo di ricerca hanno sostenuto che “il successo finlandese in PISA va attribuito ad una “ragnatela” di fattori o di variabili interconnesse tra loro come le attività e gli interessi degli studenti sia a scuola che nel tempo libero, le opportunità d’apprendimento offerte dalle scuole, il sostegno e il coinvolgimento delle famiglie, come pure il contesto sociale e culturale nel quale è innestato l’intero sistema scolastico”. Secondo Sahlberg le caratteristiche principali del sistema scolastico finlandese che concorrono a spiegare l’esito brillante dell’istruzione scolastica in Finlandia (media elevata del punteggio globale nei test internazionali, poche ore di scuola all’anno, pochi anni di scuola, costi modesti, pochi studenti con punteggi bassi nei test, divario ridottissimo tra i punteggi dei migliori studenti e quelli dei più deboli, quindi equità del sistema, diversità ridotta tra scuole su tutto il territorio nazionale) sono le seguenti:

Una stessa scuola unica di base per tutti

La scuola dell’obbligo inizia a sette anni e non a sei, non ci sono primine, tutti i bambini che compiono 7 anni nell’anno iniziano ad andare a scuola in agosto, anche i nati in dicembre. La scuola primaria è di sei anni, seguita da tre anni di scuola media unica. Il blocco di 6 anni +3 anni costituisce la scuola di base. Non si cambia scuola. La mensa è gratuita, le cure mediche pure, i trasporti anche come pure tutto il materiale scolastico. Questa è la scuola pubblica, universale: le famiglie non spendono nulla per l’istruzione e l’unicità implica che tutti siano trattati alla stessa stregua. Molti osservatori ritengono che la base del successo risieda proprio qui e vada attribuita anche alla qualità del corpo insegnante di cui parleremo tra poco. L’infanzia è rispettata al massimo e non si parla nemmeno di una scuola materna obbligatoria di due o tre anni trasformata in prescuola. La migliore preparazione alla scuola risiede nel rispetto dell’infanzia e non nell’imposizione di un programma educativo stereotipato, con valutazioni a tre, quattro o cinque anni. I bambini finlandesi imparano molto e meglio con un anno in meno di scuola. Il finlandese per altro non è una lingua facile, tutt’altro. Eppure la scommessa è vincente.

Eccellenza della formazione degli insegnanti della scuola primaria

La professione d’insegnante in Finlandia è ritenuta una professione prestigiosa, la formazione dura cinque anni dopo la maturità (fino al master o laurea di secondo livello) ed è imperniata sulla ricerca scientifica. L’idea centrale della formazione degli insegnanti è proprio questa: farne una professione che si regola sulla ricerca scientifica, come succede per i medici o i farmacisti. Il cambiamento radicale del modello di formazione degli insegnanti è stato fatto già nel corso degli anni ’70 quando si sono chiusi gli istituti magistrali e si è trasferita la formazione degli insegnanti all’università. Per questa ragione oggigiorno nelle scuole primarie finlandesi tutti gli insegnanti hanno una laurea di secondo livello. La vecchia guardia, con una formazione artigianale, è ormai sparita, è andata in pensione. Nelle scuole operano professionisti che lavorano come professionisti. Gli stipendi di queste persone non sono affatto eccelsi. Non c’è bisogno di aumentare gli stipendi per ritenere gli insegnanti o di distribuire premi per gratificare i migliori. Queste soluzioni non attecchiscono nel sistema scolastico finlandese. Gli insegnanti fruiscono di un’ampia autonomia didattica perché padroneggiano i problemi dell’insegnamento e dell’apprendimento, sono aggiornati, sono consapevoli di quel che fanno, evolvono nella pratica, non ripetono per anni le stesse lezioni.


La popolazione ha fiducia negli insegnanti che sono specialisti in grado di riconoscere ciò di cui ha bisogno un bambino per apprendere e progredire. Non si boccia nella scuola finlandese e nei licei gli studenti si presentano agli esami e alla maturità quando si sentono preparati dopo averne discusso con i loro insegnanti. I migliori studenti aspirano a diventare insegnanti. Ogni anno in media le matricole che vorrebbero specializzarsi come insegnanti sono circa 6.000, ma le università ne selezionano solo il 10%, i 600 migliori.


La laurea di secondo livello in educazione apre tutte le porte, quelle del pubblico impiego e quelle del settore privato, e non solo quelle della scuola.

Rendicontazione intelligente

Anche in Finlandia la rendicontazione (“accountability”) è stata adottata nella politica scolastica. Scuole e insegnanti devono rendere conto di quel che fanno e ottengono, sono responsabili dei soldi che spendono per l’istruzione e soprattutto dell’avvenire degli studenti. Non ci sono valutazioni esterne. Il solo esame nazionale è la maturità. I voti sono proibiti per legge nella scuola primaria. La scuola primaria è una “zona libera” da test. Le valutazioni degli insegnanti sono descrittive.

Cultura della fiducia

Il sistema finlandese funziona solo sulla base della fiducia reciproca tra insegnanti, studenti, famiglie e autorità. In mancanza della fiducia e del rispetto tutto va a monte. Il sistema scolastico finlandese era fortemente centralizzato fino alla riforma del 1972. Tanto per avere un termine di confronto, la Svezia ha decentralizzato il proprio sistema scolastico adottando lo schema finlandese solo nel 1991 ed è stata una maggioranza di centro sinistra ad imporre questa svolta. La decentralizzazione in Finlandia è stata decisa nel 1972 ma è diventata operante ovunque solo nel 1985. Tredici anni per attuarla. Non si è decentralizzato dal mattino alla sera. Questa è un’altra bella lezione. Si è tenuto conto delle resistenze all’interno e all’esterno della scuola, si è negoziato, ma nessuna maggioranza politica ha sgarrato. Si è tenuto duro e si è seguito l’indirizzo del ’72 con costanza. Questo si chiama condividere un obiettivo.


Per Sahlberg, la cultura della fiducia significa che le autorità e i responsabili politici credono che gli insegnanti, i dirigenti scolastici, le famiglie e i comuni sono competenti per gestire la scuola e l’istruzione, non hanno bisogno di essere imboccati ad ogni momento. Non occorre ficcare il becco in affari che non si conoscono. Questa cultura della fiducia e del rispetto secondo Sahlberg attecchisce e prospera soltanto in un ambiente non afflitto dalla corruzione e con un sistema amministrativo efficace che pilota con bravura il sistema scolastico. Purtroppo queste condizioni non esistono in Italia, tranne forse in alcune province autonome o in alcune regioni.

Leadership morale diffusa

Il sistema scolastico finlandese non è il frutto di una riforma scolastica monumentale e unica. In Finlandia si è proceduto per ritocchi successivi ma con perseveranza, per anni, tenendo conto delle trasformazioni sociali e tecnologiche, con uno sguardo sempre orientato al futuro, con la preoccupazione di fornire un’offerta formativa all’altezza dei tempi, di non perdere il treno, di provvedere un’istruzione che corrisponda al fabbisogno della gente e della società, senza discorsi pomposi e retoriche insulse. Questo non vuol dire che i Finlandesi siano ignoranti perché non studiano il latino a scuola oppure perché non studiano i filosofi presocratici o Platone o Aristotele. I Finlandesi leggono, leggono molto, hanno tempo per leggere, si istruiscono anche quando sono adulti. Non sono beceri, ma sono soprattutto creativi, in un paese povero, non benedetto certamente dalla natura. È sicuramente più piacevole vivere a Marsala che non a Lahti, almeno dal punto di vista climatologico, anche se Lahti immersa nelle foreste, in riva a un lago, è una cittadina deliziosa. Poi l’essere umano si adatta e riesce a stare bene anche in ambienti duri, difficili.


La leadership sostenibile implica continuità di vedute, “turnover” limitato del personale. Solo a questa condizione gli insegnanti e i dirigenti possono concentrarsi sul loro lavoro e non esser distratti da intrighi, combinazioni, pseudo-novità, valutazioni di ogni genere. Inoltre la leadership sostenibile implica la condivisione e la condivisione a sua volta implica la stabilità del personale. Il cerchio virtuoso si chiude. La responsabilità della scuola è condivisa tra tutti gli attori scolastici, sistematicamente. Le scuole sono davvero autonome, le indicazioni nazionali sono ridotte al minimo, un quadro teorico essenzialissimo. Le scuole sanno per principio quel che devono fare, il personale scolastico ne discute, i dirigenti consultano le autorità comunali, le famiglie intervengono nei dibattiti. Le scuole sono tutte diverse l’una dall’altra. Ciò crea qualche problema, è innegabile, soprattutto per chi trasloca, ma i vantaggi sono incommensurabili.


Il sistema scolastico finlandese non è un sistema all’avanguardia. È solo un sistema basato sul buon senso, sulla qualità, sull’alta professionalità del personale che vi lavora. Non è neppure un sistema alternativo. La sua originalità consiste nell’avere adottato su larga scala le teorie scientifiche dell’apprendimento elaborate nel corso del XX secolo (pedagogia attiva, Steiner e Montessori, in particolare, N.d.A.) e di avere puntato sull’istruzione come investimento di base in un paese privo di risorse naturali, la cui unica ricchezza sono le foreste e la pesca. Non ci sono materie prime in Finlandia. Il sistema scolastico finlandese è semplicemente un buon sistema scolastico, un sistema scolastico onesto, che non segue le mode, che dà fiducia alla gente. Vi opera gente modesta ma competente, che non si dà grande arie, che stimola, incoraggia, promuove la creatività, il rischio. Poche cose, ma senza prezzo.

Navigando in rete

Ken Robinson: cambiare i paradigmi dell’educazione https://www.youtube.com/watch?v=SVeNeN4MoNU


Ken Robinson: la scuola uccide la creatività http://www.youtube.com/watch?v=K3uXSYQWAwA


Ken Robinson: come sfuggire alla “valle della morte” dell’istruzione http://www.youtube.com/watch?v=GCvKF8QhQqA


Il documentario e il sito dell’Educacion Prohibida in versione originale e con le versioni diversamente sottotitolate, italiano compreso http://www.educacionprohibida.com/


L’articolo di Norberto Bottani in versione integrale http://www.oxydiane.net/politiche-scolastiche-politiques/evolution-des-systemes-d/article/a-quarant-annidalla-riforma

Esperienze, nomi e volti

Per chi ha l’opportunità di viaggiare in Spagna o in America Latina credo che una visita presso le strutture scolastiche che hanno contribuito a costruire il puzzle dell’Educacion Prohibida possa essere un’esperienza interessante ed un’occasione di approfondimento importante.


Utilizzando i canali della mobilità europea come Comenius (http://www.programmallp.it/home.php?id_cnt=11) suggerisco agli insegnanti di avviare una progettualità con scuole finlandesi che permetta momenti di scambio con la visita alle loro strutture scolastiche e una conoscenza diretta della pratica didattica ordinaria.

Un'altra scuola è possibile?
Un'altra scuola è possibile?
Sonia Coluccelli
Autori, esperienze e prospettive educative verso percorsi scolastici in ascolto dei bambini.Un panorama delle alternative alla scuola tradizionale e dei diversi modi di approciarsi all’istruzione, tra visione pedagogica e traduzione pratica. Il sistema educativo odierno non sembra incoraggiare il pensiero olistico, intuitivo e immaginativo, ma predilige di gran lunga quello fondato sulla verbalizzazione. Il clima che si respira nella scuola provoca forte stress agli alunni, a causa di pressioni e attese didattiche che non si conformano alla loro natura. Nelle scuole si formano perlopiù conoscitori, non pensatori.Un’altra scuola è possibile mette in evidenza la necessità di promuovere all’interno della scuola una riflessione per “vedere” sempre meglio i bambini, attraverso la possibilità di vivere esperienze didattiche fuori dall’edificio scolastico; il tutto visto non come una fuga da un’esperienza avvilente, ma come la messa in atto di progetti educativi con una loro specificità e diritto di espressione.Sulla base di una critica alla scuola convenzionale, l’autrice Sonia Coluccelli intende offrire un ventaglio di proposte alternative, prospettando per ciascuna sia gli assunti teorici sia le effettive realizzazioni. Da Rudolf Steiner a Don Lorenzo Milani, da Maria Montessori a Mario Lodi, fino all’educazione parentale, ogni capitolo prende in esame una visione pedagogica e ne presenta la relativa traduzione pratica.È così offerto un panorama di scelte possibili a chi stenta a riconoscere nei sistemi scolastici convenzionali una risposta adeguata ai reali bisogni di apprendimento, crescita e sviluppo di ciascun bambino. Conosci l’autore Sonia Coluccelli è insegnante, formatrice e mamma di quattro figli. Da vent’anni coltiva una riflessione pedagogica in ambito scolastico, approfondendo la conoscenza dei diversi approcci educativi, ricercando sguardi attenti nei bambini e attenzione alle loro domande.Dal 2012 si occupa di promuovere esperienze montessoriane nella scuola pubblica collaborando con Fondazione Montessori Italia.Vive a Omegna, sulle rive del lago d’Orta.