CAPITOLO II

Una fotografia senza filtri

Il punto essenziale è il problema di cosa si deve fare perché il nostro fare meriti il nome di educazione.
J. Dewey


Questo per me è il capitolo più difficile e sofferto, senza il quale però le pagine che seguono non avrebbero ragione di esistere.

Alla scuola, da insegnante e da formatrice, ho dedicato molto negli ultimi vent’anni: tempo, energie e competenze, di fatto senza mai cedere del tutto all’idea che fosse un’istituzione senza speranza di essere riformata nelle sue criticità e negli aspetti problematici che sono tali per chiunque abbia a cuore il compito prezioso che assume chi, insieme alle famiglie, accompagna i bambini verso la conoscenza e la comprensione del mondo.


Oggi con questo libro mi trovo a metterci ancora un pezzo della mia mente e del mio cuore, un altro tratto di strada dedicato ai bambini che ogni giorno vivono giorni determinanti per il loro futuro insieme ai loro insegnanti.


Io continuo a sperare che ciascuno dei miei colleghi abbia voglia di fermarsi a considerare il significato profondo del proprio ruolo, senza sottrarsi ad una riflessione critica su quanto la scuola oggi mette in campo.


Il punto di partenza da cui muove il titolo di questo libro è infatti l’ipotesi, il desiderio, la necessità di una scuola diversa: ma diversa da quale e diversa perché?


Quali sono le ombre della scuola tradizionale che negli ultimi anni hanno spinto sempre più famiglie, ma anche insegnanti, a cercare alternative radicalmente “altre”?


Quali sono le ragioni che stanno dietro a dati oggettivi1, secondo cui circa un terzo degli studenti vengono bocciati almeno una volta nel corso del loro percorso scolastico e di un quinto sul totale che inizia la scuola secondaria di secondo grado ma non la termina e finisce nel grande buco nero dei dispersi, senza istruzione e senza formazione?


I numeri sono davvero sconfortanti, soprattutto se rapportati alle medie di altri Paesi europei, rispetto ai quali, pur con variabili diverse, ci collochiamo sempre tra gli ultimi posti, sia in termini di dispersione e insuccesso scolastico, sia di investimenti e competenze.


Perché, a fronte di questi dati e di quelli che rincarano le preoccupazioni rilevando in termini negativi le competenze al termine del percorso scolastico, non ci si ferma a interrogarsi se questa scuola, questo modello organizzativo e didattico, questo approccio pedagogico è efficace per il raggiungimento delle finalità per cui la scuola stessa esiste?


Come in ogni pagina di questo testo, porto qui il mio punto di vista, da osservatrice di certo privilegiata in quanto interna alla scuola come docente, periferica ad essa come formatrice ed esterna come mamma; di certo mi sostengono nell’analisi tanti elementi che mi rassicurano sul materiale a mia disposizione su cui riflettere: significativo, eterogeneo per contesti e interlocutori nonché quantitativamente considerevole.


Desidero tuttavia sottolineare il carattere soggettivo di queste riflessioni, e diversamente non potrebbe essere se è vero, come ricorda Savater citando il poeta Josè Bergamin, che “se fossi un oggetto sarei oggettivo; poiché sono un soggetto, sono soggettivo”2.


E quindi prendo posizione e seguo percorsi, verso orizzonti a cui non so rinunciare né per me stessa né per la comunità ristretta o più ampia a cui appartengo. So bene che nella scuola esistono e lavorano parecchi insegnanti appassionati del loro compito e dei bambini che sono loro affidati, persone preparate e scrupolose che però sono ancora (o sono diventati) una minoranza che fatica ad essere riconosciuta e legittimata. Spesso costoro vengono percepiti con fastidio come un gruppo di “primi della classe”, che mettono in discussione le pratiche di una maggioranza che invece è quella parte consistente che ci fa dire – insieme a molti osservatori autorevoli, ai dati internazionali, agli umori e malumori in costante crescita – che oggi in Italia una scuola diversa è necessaria per la sopravvivenza stessa dell’istituzione pubblica.

Il peccato originale

Il primo elemento di fragilità della scuola, per come si presenta in moltissime realtà, è quello che mi trovo spesso a considerare una sorta di peccato originale da cui molti altri limiti discendono: la mancanza di domande di carattere pedagogico, di una condivisione del modello educativo, di un’esplicitazione di un’idea di bambino e di apprendimento che renda coerenti le scelte operative che vengono messe in campo.


Come imparano i bambini secondo l’insegnante a cui stiamo affidando i nostri figli o con cui stiamo iniziando a lavorare? Sappiamo come funziona la loro mente e quindi quali strumenti didattici, quali attività, quali soluzioni operative sono coerenti con la risposta che diamo a questa domanda? Qual è il modello di relazione che più favorisce lo sviluppo affettivo e psicologico di un bambino nelle diverse età in cui lo incontriamo nelle aule scolastiche? Come si sviluppano le competenze sociali per educare in questi anni cittadini capaci di vivere e convivere nel mondo che abiteranno nel prossimo futuro?


Lo abbiamo davanti ogni giorno: la scuola in Italia oggi continua a pensarsi e proporsi per i progetti che realizza, per le attrezzature di cui dispone, per la qualità (o quantità) degli esperti che intervengono in classe, per la visibilità degli eventi che propone. Non mi è mai o quasi successo di conoscere una scuola, un dirigente scolastico, un consiglio di classe, un POF (Piano dell’Offerta Formativa, ossia la carta d’intenti e di impegni che la scuola assume come propria e con la quale si presenta alle famiglie), che definisse con chiarezza un modello pedagogico a cui far seguire con coerenza le scelte didattiche ed educative. O meglio: qualcuno lo fa, e trova spazio anche tra i capitoli di questo libro, per una scuola diversa, appunto.


I momenti collegiali (collegi docenti, consigli di istituto, programmazioni, consigli di classe e interclasse) spesso sono dedicati a gestire urgenze, scadenze, incombenze formali; si parla dei bambini o dei ragazzi solo per casi di eccezionale difficoltà – di gruppo o individuali –, ma è molto raro assistere a un momento in cui ci si fermi e ci si interroghi insieme sulla visione pedagogica che come gruppo, plesso o scuola si intende condividere.


Si parla di frequente, in documenti come il POF o nelle presentazioni che le scuole fanno di sé al momento delle iscrizioni, dei valori di riferimento (educazione alla pace, integrazione, convivenza, cittadinanza, rispetto per l’ambiente, intercultura,…) e poi di progetti, gite, organizzazione didattica, oraria… ma non si dice quasi mai perché si compiono quelle scelte e quale coerenza educativa le tiene insieme. Dichiariamo che vogliamo educare la capacità di convivenza, di rispetto, di ascolto, che intendiamo dare a tutti pari opportunità e garantire il successo scolastico per ciascuno ma non diciamo come, o meglio, quale processo intenzionale vogliamo realizzare per raggiungere quelle finalità.


Il tema dell’intenzionalità educativa mi sta molto a cuore; è la presenza a noi stessi in ogni momento del nostro essere in classe davanti ai bambini e ai ragazzi, una bussola che ci indica la rotta di una navigazione non sempre facile e piena di quelli “attesi imprevisti” di cui è ricca la letteratura pedagogica e che fanno di questo lavoro qualcosa di più di un mestiere. L’intenzionalità educativa è uno sguardo continuo su ciò che sta avvenendo a seguito delle scelte piccole e grandi che compiamo nel momento in cui siamo in relazione con i bambini, la capacità di osservare e correggere il processo con gli strumenti più adeguati. Senza di essa il processo di insegnamento/apprendimento e quello educativo sono contenitori vuoti.


Tutte le esperienze pedagogiche e didattiche di cui parleremo in questo libro, tra loro anche piuttosto diverse, di certo hanno in comune una forte consapevolezza della visione educativa che le sostiene e ad essa si aggiunge un’idea più ampia sul mondo che abitiamo; è di questo, prima di tutto, che la nostra scuola ha terribilmente bisogno, come una casa di buone fondamenta.

Scuola e famiglia: senza una lingua comune

L’altro pilastro, che tale dovrebbe essere ma che è invece molto traballante, è quello dell’alleanza scuola-famiglia, della condivisione ordinaria e quotidiana delle scelte educative.


Il copione diffuso è ormai quello di una scuola timorosa di confrontarsi con le famiglie, che ne teme il giudizio e lo previene con una chiusura che si manifesta ponendo distanze, limitando numero e durata degli incontri collegiali e individuali, privilegiando in queste occasioni i contenuti operativi o organizzativi (il progetto di teatro, il corso di nuoto o l’orario della mensa…) a quelli educativi.


La mancanza diffusa di un vero patto scuola-famiglia, che parta da una condivisione chiara e preliminare di princìpi pedagogici a cui far riferimento, è la base su cui si costruiscono interpretazioni falsate delle scelte dell’uno o dell’altro.


Così ecco il genitore che non comprende le scelte dell’insegnante e nel dubbio le critica, e l’insegnante che attribuisce alla famiglia responsabilità di carenze educative che potrebbero avere spiegazione migliore in approcci diversi, magari consapevoli, intenzionali, ma mai messi al centro di un dialogo trasparente. Questo aspetto di debolezza discende con grande evidenza dal primo: il fatto che le domande (e le risposte) pedagogiche non abbiano spazio sufficiente nella scuola impedisce che possano essere portate anche al confronto con le famiglie, le quali sono in genere poco attrezzate a individuare i nodi educativi e didattici in via preliminare.


Per chi è alla prima esperienza come genitore di un bambino che si avvia ad entrare in un’aula scolastica non è facile avere chiari gli aspetti su cui ricercare un confronto e meglio ancora una condivisione; non è facile farsi e porre domande che vadano a far emergere queste visioni, onere invece che spetterebbe a insegnanti e dirigenti, nel loro ruolo di professionisti in grado di compiere e presentare scelte di fondo, traducendole in strumenti operativi.


Come vedremo in un capitolo specifico, questo aspetto risulta fortemente critico nella relazione con le famiglie straniere, che provengono da sistemi scolastici diversamente organizzati e con differenti approcci educativi: la piena consapevolezza dell’orientamento che come scuola si persegue faciliterebbe molto la comprensione con questi genitori, con grande beneficio per il processo di inserimento dei loro figli.

Non solo arredi

Un altro aspetto della quotidianità scolastica in cui il riferimento a un modello pedagogico (o l’assenza di esso) si rende evidente sono le questioni, secondarie solo in apparenza, relative all’ambiente classe, alla disposizione dei banchi, della cattedra e degli arredi. Come sono disposti i banchi e gli arredi nella gran parte delle aule della scuola convenzionale?


Ecco un paio di immagini di locali decisamente piacevoli come luminosità e metratura disponibile. Sono immagini messe in rete per far conoscere una scuola del nord Italia, immagini del tutto consuete che non suscitano alcuna perplessità.


Anche quella che segue è un’aula di una scuola italiana, della rete “Senza Zaino” a cui dedichiamo un capitolo più avanti


o di una scuola di ispirazione montessoriana.

Cosa possiamo provare a considerare confrontando queste immagini?


Prima di tutto che dobbiamo sapere dove punta la nostra bussola.


Io da ormai 15 anni considero essenziale per la conduzione delle attività in aula una disposizione dei banchi a ferro di cavallo o a piccoli gruppi per attività specifiche.


Mi è capitato di confrontarmi con colleghi e genitori che ponevano il problema della visibilità della lavagna per i bambini seduti in alcune posizioni, quello della disciplina, quello dell’attenzione/distrazione rispetto alle spiegazioni dell’insegnante, del rischio di copiatura durante le verifiche.


Argomenti fondati se si dà per scontata una modalità di conduzione del gruppo, di gestione delle lezioni e delle verifiche di tipo tradizionale, o se preferiamo in prevalenza frontale, con l’insegnante al centro, attore protagonista su un palco immaginario (fino a pochi decenni fa, ricordiamolo, la cattedra veniva collocata addirittura su una pedana rialzata, scelta anche fortemente simbolica), con un uso frequente della lavagna, un’idea di valutazione legata a specifiche prestazioni come le verifiche, soprattutto scritte, e con la convinzione di fondo che il processo di apprendimento avvenga meglio in una sfera individuale.


Sovente, durante queste conversazioni, mi sono trovata senza i “sottotitoli” per condurre un confronto su basi condivise. Perché, ancora prima di lezioni, verifiche, lavagne e banchi, viene, o dovrebbe venire, un’idea di come i bambini imparano.


La mia, di idea, per maturata persuasione nei confronti della pedagogia attiva, della didattica esperienziale e dell’apprendimento cooperativo, dice che, soprattutto nella scuola dell’infanzia e primaria, i bambini imparano attraverso la concretezza delle esperienze che gli proponiamo, che compito dell’insegnante è selezionare queste esperienze o i materiali più adeguati per realizzarle, che lo spazio e l’ambiente in cui si muovono i bambini devono essere al loro servizio e non il contrario (i bambini adattarsi a stare fermi, ad esempio, su banchi e sedie tutt’altro che ergonomici per molte ore al giorno); che una parte importante dell’apprendimento avviene attraverso i compagni la cui struttura mentale affine permette di tradurre alcuni concetti in parole e processi a volte non riproducibili da alcun adulto e che quindi si può imparare anche… copiando! E che, senza relazione autentica tra compagni e con gli adulti, non c’è apprendimento significativo. Allora dovremmo poter guardare negli occhi, uno per uno, i bambini a cui stiamo leggendo una storia o proponendo un’attività e loro dovrebbero poter fare altrettanto, senza passar ore a contemplare la schiena di un compagno, sporgendosi un po’ di lato per vedere il viso di quell’attore protagonista, la maestra.

Così la cattedra può sparire o almeno cambiare collocazione, i banchi possono disporsi a ferro di cavallo o essere organizzati a gruppi, si può anche lavorare a terra con o senza tappeti; e la lavagna essere chiamata in causa il minimo indispensabile! E ancora: si possono pensare e realizzare esperienze di aule decentrate, usare creativamente gli spazi interni ed esterni della scuola o quelli del territorio. Perché i diversi contenuti necessitano di diversi ambienti, coerenti con l’esperienza che si sta proponendo, e la predisposizione dell’ambiente di apprendimento è proprio la prima scelta intenzionale che l’insegnante fa o dovrebbe fare.


Infine, in coerenza con questo approccio, sarebbe importante lasciare a disposizione dei bambini i materiali didattici su cui possano esercitarsi, ritornare per libera scelta e riempire i momenti vuoti, con arredi fruibili di cui ciascuno sia responsabile, scommettendo su un’idea di scuola che sia prima di tutto un ambiente pensato per “imparare a imparare” e di cui venga spontaneo prendersi cura, come di ogni luogo dove ci sentiamo accolti e guardati con i nostri bisogni più autentici.

Educazione o addestramento?Il pensiero unico (e inconsapevole) comportamentista

Negli ultimi anni mi sono spesso soffermata a considerare come, in modo però di solito inconsapevole, nella scuola italiana un filo rosso di carattere educativo in realtà esista e sia di chiaro stampo comportamentista, tanto da far assomigliare le nostre scuole spesso più a luoghi di addestramento (il termine può suonare forte ma credo sia del tutto calzante) che di sviluppo di consapevolezze sul proprio comportamento.


Magari qualcuno ricorda la canzone di Edoardo Bennato In fila per tre3 che ironizzava


Presto vieni qui, ma su, non fare così, ma non li vedi quanti altri bambiniche sono tutti come te, che stanno in fila per tre,

che sono bravi e che non piangono mai

è il primo giorno però domani ti abituerai e ti sembrerà una cosa normalefare la fila per tre, risponder sempre di sì e comportarti da persona civile


L’uso diffuso di un sistema di premi e punizioni, per rinforzare i comportamenti apprezzabili ed estinguere quelli ritenuti disturbanti o scorretti, è raro che venga messo in discussione. Peccato che poi emerga sempre come l’adesione forzata a comportamenti “adeguati” risulti assolutamente illusoria: non appena l’insegnante si allontana, la gran parte dei bambini e dei ragazzi ripropone atteggiamenti e modi di fare che in presenza dell’autorità verrebbero sanzionati. Quel che è peggio è osservare che questo approccio determina anche in età adulta un’adesione alle regole solo in presenza reale o virtuale di un’autorità di controllo, senza l’abitudine a riflettere e interiorizzare il valore e il senso di quelle regole per un bene superiore, collettivo o individuale. Ricordo una delle frasi di Maria Montessori che più amo e su cui credo dovremmo davvero riflettere, osservando i processi sociali in corso:

…il bambino che non ha mai imparato a fare da solo, a guidare le proprie azioni, a dirigere la propria volontà, si riconosce poi nell’individuo adulto che si fa guidare e che ha bisogno dell’appoggio degli altri.4

Ecco, credo che tra i compiti principali degli adulti educanti ci sia proprio quello di promuovere nei bambini un’adeguata consapevolezza, una presenza a se stessi, una coscienza delle interrelazioni in cui ciascuno è collocato e che fanno di ogni individuo non un’isola ma un frammento importante di un sistema più grande di cui essere responsabili, con le azioni quotidiane, ordinarie e straordinarie.


Quanto questo sia in contraddizione con qualsiasi modalità che abbia come scopo il solo controllo mi sembra ben espresso da Alfie Kohn:

È assai improbabile che chi si sente costretto a fare ciò che gli viene ordinato sviluppi una riflessione personale sui tanti interrogativi etici, innescando così un circolo vizioso: minore è la possibilità di decidere quale sia il modo giusto di comportarsi, maggiore sarà il rischio di comportarsi in modo tale da indurre il genitore [o l’insegnante, N.d.A.] a riconoscere nell’irresponsabilità del figlio [o dell’alunno, N.d.A.] il motivo per cui negargli il diritto di scegliere.5

Il modello educativo che adotta premi e punizioni presenta inoltre spesso un’incoerenza di fondo: quella, a mio parere particolarmente grave in ambito educativo, di voler promuovere comportamenti sociali positivi, di ascolto, collaborazione e rispetto, ma di farlo esercitando il potere in modo gerarchico, vanificando con le azioni quello che viene proposto a livello verbale.

A questo proposito una vignetta di carattere ambientale mi sembra descrivere bene quell’incoerenza e i suoi effetti a lungo termine.

Ma i bambini imparano? Compiti e altre strategie

Il processo di insegnamento/apprendimento è ciò su cui dovrebbe misurarsi la qualità specifica di insegnanti e scuola come sistema; trovo quantomeno curioso come siano davvero pochi i docenti che si interrogano sulla sua efficacia, soprattutto a fronte di riscontri tanto oggettivi come quelli relativi alle competenze raggiunte dai nostri alunni.


Si trascorrono anni interi a osservare come da moltissimi bambini i contenuti non vengano trattenuti per più tempo della durata di una verifica; così davanti a questo rapido evaporare delle conoscenze la risposta è spesso un aumento dei compiti di rinforzo, di esercizio, senza mai chiedersi se non sia invece il modo in cui sono presentati quei contenuti ad essere poco efficace al fine di un’acquisizione duratura e solida.


Come mai dopo ogni breve vacanza, all’inizio di ogni anno scolastico o ancora ad ogni passaggio di ordine di scuola, abbiamo la sensazione che i bambini e i ragazzi non abbiano fatto e soprattutto imparato nulla?


Forse è davvero così, anche se noi abbiamo spiegato e rispiegato, assegnato decine di schede e di compiti a casa, perché in realtà per i bambini non è accaduto nulla di significativo rispetto ai loro processi mentali, nessuna esperienza di apprendimento che determini una vera acquisizione di nuove conoscenze.


Certo questo non accade in modo identico per tutti, ma di sicuro è vero per molti, anzi troppi. Se la cavano coloro che hanno una capacità adattiva, non so quanto auspicabile, che sconfina talvolta nella passività o nell’esercizio mnemonico o meccanico, un processo che spesso non coincide con una reale e solida competenza; oppure coloro che hanno la possibilità di fare esperienze extrascolastiche che fissino le conoscenze in modo diverso.


O ancora quelli che hanno la fortuna di incontrare insegnanti che invece su questo processo si pongono domande e adottano strategie più efficaci, anche se meno consuete. Sono convinta che un percorso di apprendimento aderente al funzionamento della mente di un bambino non avrebbe bisogno di compiti a casa, né di troppe ri-presentazioni dei contenuti. Per meglio comprendere cosa si intenda parlando di apprendimento autentico, credo basti pensare a come impariamo in modo definitivo qualcosa di cui facciamo esperienza diretta e come da quell’esperienza siamo poi capaci di dedurre la regola teorica e di non dimenticarla più.


Qualsiasi bambino, dopo avere imparato ad andare in bicicletta, conosce i termini dei componenti e saprebbe spiegare a un coetaneo meno esperto come funziona la meccanica del mezzo, la frenata, l’equilibrio,… possibile che lo stesso bambino non sia in grado di trattenere per più di 15 giorni le informazioni di una paginetta di geografia? O il problema è in quella “paginetta”, mandata astrattamente a memoria?


Senza trascurare, se è vero che occorre prima di tutto “imparare a imparare”, quanto conta la specificità dei diversi stili cognitivi: non tutti bambini imparano nello stesso modo, con identiche procedure mentali.


Perché allora a scuola si utilizzano strumenti sempre identici e standardizzati? Di certo una maggiore attenzione e formazione rispetto a questo tema potrebbe determinare una capacità da parte dei docenti di diversificare i percorsi e le attività didattiche non tanto e non solo attraverso l’individualizzazione (che molto spaventa chi ha davanti a sé 25 o più bambini), ma costruendosi come docenti una valigia degli attrezzi che utilizzi con creatività diverse strategie. O ancora meglio attraverso una flessibilità organizzativa e didattica che permetta a ciascun bambino di seguire tempi e modalità propri.


A cosa servono, allora, i compiti a casa? La risposta comune ci porta all’idea dell’utilità di un esercizio che attraverso la ripetizione di alcune attività permetta di acquisire meglio alcune abilità o conoscenze: il calcolo, l’analisi logica o grammaticale, l’uso delle regole ortografiche… questa convinzione parte dalla considerazione empirica, secondo me corretta, che quanto si fa a scuola in aula non permetta l’acquisizione di queste conoscenze in modo consolidato e che il lavoro a casa serva appunto a questo.


L’osservazione del fenomeno rileva però che anche dopo l’assegnazione di molti esercizi a casa le conoscenze non si modificano di molto, ma rimangono spesso superficiali e labili, soprattutto sul medio o lungo periodo.


Il nodo critico, mi pare evidente, non sta nel quanto faccio per imparare ma del cosa o del come lo faccio; sta nel tipo di approccio ai contenuti che la scuola offre, nei processi che attiva, nei materiali che utilizza, in quanto essi siano calzanti con ciò di cui i bambini hanno bisogno per imparare e non dimenticare più.


Come quando imparano, appunto, ad andare in bicicletta o a nuotare.

Dovremmo sentire risuonare costantemente nelle nostre menti e nei nostri cuori le parole che Harry Chasty immagina ci rivolgano i bambini: “Se non riesco a imparare nel modo in cui insegni, potresti insegnare nel modo in cui imparo?” Fermarci a rispondere a questa domanda e di conseguenza agire come insegnanti cambierebbe radicalmente la quotidianità scolastica e il percorso dei nostri figli e alunni.


Sarebbe davvero importante che ci si interrogasse su questo anziché cercare nella quantità di esercizi assegnati a casa la soluzione di una criticità ben più profonda. Sembra poi curioso che la soluzione per il mancato apprendimento a scuola debba essere collocata fuori dalla scuola stessa, ma con i medesimi strumenti, oltretutto affidati a maestri “surrogati”, cioè i genitori, tra loro tutti diversi come profilo di competenze ma messi di fronte ai medesimi “problemi”.


Non è raro che qualche amico, pur di cultura medio alta, mi interpelli sul corretto svolgimento di esercizi, magari svolti in modo analogo in classe ma riportati in modo confuso dai bambini, soprattutto i più piccoli. Immagino la difficoltà di genitori meno “attrezzati” e l’imbarazzo davanti ai propri figli. Senza considerare gli impatti negativi che spesso questa discrepanza di ruoli determina: sono piuttosto convinta che un genitore possa essere un buon insegnante, ma questo vale se penso all’homeschooling, scelta nella quale la famiglia assume però consapevolmente la responsabilità dell’istruzione e i percorsi per gestirla in autonomia; nello svolgimento di compiti a casa assegnati dagli insegnanti è piuttosto comune invece vedere all’opera genitori che non vengono riconosciuti dai bambini come autorevoli in quel contesto, con relativo malessere reciproco; quando poi pensiamo a serate o fini settimana in cui il clima familiare viene alterato dalla necessità sociale (che tale è, per molti genitori) di mandare il figlio a scuola con i compiti terminati a qualunque costo, ecco che tocchiamo con mano la schizofrenia di questa prassi; la possiamo pure considerare ordinaria perché appartiene ai ricordi scolastici di ciascuno di noi, ma sul cui senso non possiamo che sollevare più di una perplessità.


Un pensiero su questo tema, molto più articolato di queste mie righe, ce lo offre un dirigente scolastico, Maurizio Parodi, che dell’eliminazione dei compiti a casa ha fatto uno dei temi emblematici per ripensare la scuola nel suo complesso: il suo libro Basta compiti! Non è così che si impara, ci permette una riflessione completa sulle ragioni che dovrebbero portarci, anche in questo caso, a valutazioni consapevoli, alla ricerca di una scuola di qualità le cui scelte vengono operate non per consuetudine pluridecennale ma per il senso pedagogico e didattico che esse hanno.

Quanto vali? Una riflessione su voti e valutazione

La riflessione sul processo di apprendimento non può poi prescindere da quella sulla valutazione. Un articolo di Daniele Novara6, in riferimento alle molto discusse e discutibili prove INVALSI, riporta bene l’attenzione al tema della valutazione dei processi e non dei prodotti dell’apprendimento e ci aiuta a rimanere sulle domande di senso pedagogico che dovrebbero essere la nostra bussola. Come, quando, quanto e con che strumenti valutare sono scelte che dovrebbero discendere da una preliminare risposta a quella domanda originaria: come imparano i bambini?, e poi: imparano tutti nello stesso modo e con gli stessi tempi?


Secondo un approccio montessoriano, ad esempio, nella scuola dell’infanzia e primaria, fino circa a 11 anni, l’apprendimento avviene prevalentemente attraverso l’esperienza, l’uso dei sensi, il “fare” mediato da un ambiente adeguato e da materiali didattici pensati per l’acquisizione dei diversi concetti. L’utilizzo di materiale didattico autocorrettivo è lo strumento principe per gli insegnanti e soprattutto per i bambini per tenere monitorata la comprensione e acquisizione dei vari concetti.


Inoltre, secondo la lettura montessoriana (che però direi evidenzia un aspetto piuttosto evidente e condivisibile per qualsiasi insegnante anche della scuola tradizionale) i tempi di apprendimento non sono uniformi da bambino a bambino; immaginare quindi in una sezione Montessori di sottoporre tutta la classe, nello stesso momento, a una prova di verifica astratta come la compilazione di una scheda o la risposta a domande scritte o orali più o meno standardizzate risulterebbe a chiunque piuttosto contraddittorio.


Tuttavia nella scuola tradizionale questa è la norma e pochi hanno di che obiettare, nonostante venga contestualmente proposta una riflessione sull’individualizzazione del percorso di apprendimento, sui bisogni educativi speciali, sulle specificità portate dagli alunni migranti, sulle intelligenze multiple e sulla valorizzazione dei diversi stili cognitivi.


Allora mi piacerebbe che diventasse consuetudine, per insegnanti e genitori, ripensare alla valutazione recuperandone il senso che le appartiene: non quello di essere da monito o da premio per i nostri figli e alunni, ma di riuscire a fotografare la tappe di un percorso che abbiamo tracciato e ogni giorno approntiamo al meglio per loro; percorso che ciascuno sta percorrendo con i mezzi che possiede, con il passo che può tenere.


Mi piace ricordare che su tutti i documenti di valutazione il maestro Manzi, al posto dei voti, aveva scelto di scrivere: “Ha fatto quel che può, quel che non può non fa”.


Ci troviamo spesso a ripetere ai bambini che l’apprendimento non è una gara ma poi, livellando le differenze nel momento sensibile della valutazione, rischiamo di cadere in contraddizione e, come avrebbe detto magistralmente don Milani, di commettere il più grave degli errori e delle ingiustizie, ossia quello di “fare parti uguali tra diseguali”.


E questo accade con la standardizzazione delle prove di verifica e con l’utilizzo di formule di valutazione semplificatrici. Perché un voto come quelli numerici a cui siamo vincolati (ma davvero lo siamo?) da alcuni anni è davvero la peggiore delle trappole in cui possiamo cadere.


Lo diceva bene una maestra che, in occasione della fine di un quadrimestre, ha scritto alcune righe molto condivise su internet; potrebbe anche trattarsi di un falso letterario, ma trovo che il contenuto sia assai condivisibile, anche nella sua emotività, aspetto che non guasta quando si ha a che fare con i bimbi che di questa ne hanno da vendere…

Non sono stata capace di dire no. No ai voti. Alla separazione dei bambini in base a quello che riescono a fare. A chiudere i bambini in un numero. Ad insegnare loro una matematica dell’essere, secondo la quale più il voto è alto più un bambino vale.

Il voto corrompe. Il voto divide. Il voto classifica. Il voto separa. Il voto è il più subdolo disintegratore di una comunità. Il voto cancella le storie, il cammino, lo sforzo e l’impegno del fare insieme. Il voto è brutale, premia e punisce, esalta ed umilia. Il voto sbaglia, nel momento che sancisce, inciampa nel variabile umano. Il voto dimentica da dove si viene. Il voto non è il volto.

I voti creano ansia, confronti, successi e fallimenti. I voti distruggono il piacere di scoprire e di imparare, ognuno con i propri tempi facendo quel che può. I voti disturbano la crescita, l’autostima e la considerazione degli altri. I voti mietono vittime e creano presunzioni.

I voti non si danno ai bambini. In particolare a quelli che non ce la fanno. La maestra lo sa bene, perciò è colpevole. Per non aver fatto obiezione di coscienza.7

Siamo una scuola moderna?

Ma qual è allora il modello che la nostra scuola propone come prassi ordinaria? Nella gran parte dei casi è un modello ottocentesco, una scuola cioè che nasce come appendice delle fabbriche e che di esse conserva la campanella a orari fissi, quella che una volta era la sirena per gli operai, ora sparita dai capannoni ma conservata nelle aule di scuola; quasi sempre troviamo una cattedra da cui parla un insegnante a cui tutti gli alunni sono rivolti, seduti su banchi disposti ordinatamente in fila e spesso anche senza un compagno vicino (almeno i banchi in legno erano quasi sempre progettati per due posti a sedere). E poi i voti numerici a misurare, standardizzati e uniformi, il raggiungimento di traguardi prefissati, in tempi prefissati, con prove prefissate…


E non basta che al posto di quella in ardesia ci sia una Lavagna Interattiva Multimediale perché si possa dire di aver superato quel modello educativo e didattico.


Rileggevo di recente il materiale messo a disposizione da alcune scuole primarie e secondarie ai cui bambini era stata offerta la possibilità di vivere una giornata come un alunno dell’epoca dei nonni e dei bisnonni, trascorrendola in una scuola ricostruita in tutti dettagli, come ad inizio novecento.


Ebbene, le differenze osservate dai bambini, ma anche riportate dagli anziani testimoni, erano tutte relative ad aspetti pratici e agli strumenti: l’abbigliamento, le distanze da percorrere a piedi, la penna e il calamaio, i quaderni e i libri; parlando degli insegnanti mi ha fatto sorridere come i bambini rilevassero con sollievo l’assenza nei tempi odierni di punizioni corporali, spettro che ridicolizza la minaccia di una “nota sul diario” come deterrente contro comportamenti sanzionabili. Ma l’impalcatura rimane quella, una fotografia quasi identica a cui aggiungiamo i colori al posto di un bianco e nero molto vintage.


Questo documento mi faceva pensare anche ad una delle risposte più frequenti quando, soprattutto in veste di formatrice, chiedo ragione di alcune scelte educative o didattiche. Spessissimo la risposta più onesta è “si è sempre fatto così” e in un contesto, direi in una cultura, che fa della conservazione dello status quo un valore o un istinto scritto nel DNA collettivo, forse questa non è una risposta troppo sconcertante.


Ma lo è se pensiamo ai bambini. Se pensiamo che ciascuno di loro pone questioni nuove, che ciascun gruppo presenta dinamiche e profili diversi, che non c’è nulla di davvero replicabile in quanto ad efficacia.


Per questo possiamo legittimamente ipotizzare che la reiterazione di scelte organizzative e didattiche sempre identiche sia una risposta al bisogno degli insegnanti di avere un copione prestabilito rassicurante, che permetta una programmazione ed eviti una navigazione a vista; quest’ultima è di certo più faticosa e richiede di avere interiorizzato quella cassetta degli attrezzi ricca e flessibile per le diverse condizioni che è invece bagaglio di pochi.


La scuola italiana è da sempre intasata di procedure complesse e antiquate di documentazione, di registri da compilare, relazioni da redigere (spesso con accurati “copia e incolla”), programmazioni da riformulare… una montagna di incombenze inutili che bene funzionano da pesante palandrana che impedisce di vedere chi si nasconda lì sotto, un barocchismo procedurale che toglie tempo e linearità all’essenziale, ossia al lavoro educativo e didattico e alla qualità con cui dovrebbe essere svolto.


Credo allora che una scuola possa davvero dire di essere adeguata al suo tempo nella misura in cui è disposta a ripensarsi, iniziando a definire la propria mappa pedagogica, lasciandosi permeare dalle domande che pongono i bambini, anche quelle mute che sta a noi cogliere, senza la fretta di trovare risposte che non siano maturate attraverso un percorso individuale e condiviso di qualità. Solo così sarà possibile riformulare le scelte quotidiane degli arredi e degli strumenti didattici, della valutazione e della gestione del gruppo, in una condivisione autentica con le mamme e i papà di quei bimbi di fronte ai quali non possiamo più permetterci di replicare il già fatto, il già visto, senza sapere che così stiamo sottraendo loro un tassello fondamentale per il loro futuro.

Navigando in rete

Dispersione scolastica: http://hubmiur.pubblica.istruzione.it/alfresco/d/d/workspace/SpacesStore/9b568f0d-8823-40ff-9263-faab1ae4f5a3/Focus_dispersione_scolastica_5.pdf


http://www.orizzontescuola.it/news/dispersione


Intervento di Maurizio Parodi a Rimini: http://www.youtube.com/watch?v=R1S4TBik_c8


http://www.ilfattoquotidiano.it/2013/11/19/pedagogia-fuori-i-bambini-dallaula/782386/


http://www.giuntiscuola.it/lavitascolastica/magazine/articoli/a-proposito-di-voti/


http://corrieredelveneto.corriere.it/veneto/notizie/cronaca/la-mia-scuola/notizie/scuola-io-maestro-elementare-vi-spiego-perche-dico-no-voti-2224192371576.shtml.


http://www.retescuole.net/senza-categoria/non-entro-nel-merito


Questo sito riporta moltissimi materiali, contributi, profili pedagogici di riflessione critica sulla scuola tradizionale: http://www.educareallaliberta.org/indice/

Qualche buona lettura

Maurizio Parodi, Gli adulti sono bambini andati a male, ed. Sonda 2013.


Maurizio Parodi, Basta compiti! Non è così che si impara, ed. Sonda 2012.


D. Pennac, Diario di scuola, Feltrinelli 2008.


T. Armstrong, A modo loro - valorizzare le intelligenze multiple nel bambino, La meridiana 1999.


A. Oliviero, L’arte di imparare, BUR 2001.


F. Savater, A mia madre mia prima maestra - il valore di educare, Laterza 1997.


A. Kohn, Amarli senza se e senza ma, Il leone verde 2010.

Un'altra scuola è possibile?
Un'altra scuola è possibile?
Sonia Coluccelli
Autori, esperienze e prospettive educative verso percorsi scolastici in ascolto dei bambini.Un panorama delle alternative alla scuola tradizionale e dei diversi modi di approciarsi all’istruzione, tra visione pedagogica e traduzione pratica. Il sistema educativo odierno non sembra incoraggiare il pensiero olistico, intuitivo e immaginativo, ma predilige di gran lunga quello fondato sulla verbalizzazione. Il clima che si respira nella scuola provoca forte stress agli alunni, a causa di pressioni e attese didattiche che non si conformano alla loro natura. Nelle scuole si formano perlopiù conoscitori, non pensatori.Un’altra scuola è possibile mette in evidenza la necessità di promuovere all’interno della scuola una riflessione per “vedere” sempre meglio i bambini, attraverso la possibilità di vivere esperienze didattiche fuori dall’edificio scolastico; il tutto visto non come una fuga da un’esperienza avvilente, ma come la messa in atto di progetti educativi con una loro specificità e diritto di espressione.Sulla base di una critica alla scuola convenzionale, l’autrice Sonia Coluccelli intende offrire un ventaglio di proposte alternative, prospettando per ciascuna sia gli assunti teorici sia le effettive realizzazioni. Da Rudolf Steiner a Don Lorenzo Milani, da Maria Montessori a Mario Lodi, fino all’educazione parentale, ogni capitolo prende in esame una visione pedagogica e ne presenta la relativa traduzione pratica.È così offerto un panorama di scelte possibili a chi stenta a riconoscere nei sistemi scolastici convenzionali una risposta adeguata ai reali bisogni di apprendimento, crescita e sviluppo di ciascun bambino. Conosci l’autore Sonia Coluccelli è insegnante, formatrice e mamma di quattro figli. Da vent’anni coltiva una riflessione pedagogica in ambito scolastico, approfondendo la conoscenza dei diversi approcci educativi, ricercando sguardi attenti nei bambini e attenzione alle loro domande.Dal 2012 si occupa di promuovere esperienze montessoriane nella scuola pubblica collaborando con Fondazione Montessori Italia.Vive a Omegna, sulle rive del lago d’Orta.