Non è però cambiata la convinzione che la vita di una casa ruoti soprattutto attorno ai fornelli e ai suoi profumi. Anzi, più ce ne allontaniamo con cibi congelati e spuntini plastificati, più si rafforza la convinzione che il fare insieme in cucina sia un’esperienza di valore. In cucina, mentre sente le voci dei genitori, della sorella e del fratello, il neonato annusa i profumi dei cibi che ha già assaggiato nel ventre materno, assaporando i diversi aromi che il liquido amniotico assume a seconda di ciò che mangia la mamma. In cucina assaggia i primi bocconi, sperimenta il piacere di infilarseli in bocca e, aggrappandosi alle maniglie dei mobili, si solleva per le prime vertiginose esperienze su due gambe. A un anno usa mestoli e pentole per innovative esperienze sonore e qualche mese dopo apre e chiude gli sportelli, tirando fuori e mettendo dentro, quasi volesse darsi una prima immagine di come funziona la realtà. Se è abbastanza fortunato da avere genitori che non hanno come unico obiettivo ambienti lucidi e asettici, come un piccolo dio o una dea creatrice inizia a mescolare acqua e farina, a imitare il suono delle cascate versando da un contenitore all’altro mais e riso, a ritagliare pasta in forma di mamma o di gatto, ad affettare una vera zucchina, a giocare con acqua e sapone. E magari, issato come un re su una sedia davanti al lavabo, a lavare davvero, come i grandi. Una pentolina, un cucchiaio, una tazza e un pezzetto di spugna insaponata: cosa desiderano di più un bambino, una bambina di due, tre anni?
Non è cambiata neanche la convinzione che proprio in cucina molte scelte etiche possano essere trasmesse senza tante chiacchiere, solo con il fare. È qui (e in bagno!) che si impara ad usare con accortezza l’acqua e i detersivi, a differenziare con cura i rifiuti, a parlare ma anche ad ascoltare gli altri intorno alla tavola, a mangiare quanto basta e possibilmente cibi coltivati nel rispetto dell’ambiente e dell’altrui vita.
Tuttavia, quando ho iniziato a pensare a un nuovo Piccoli Golosi mi sono accorta che nel corso del tempo il mio approccio al mondo dell’alimentazione era cambiato: a fronte di alcuni princìpi costanti nel tempo, grazie anche alla presenza nel nostro paese di persone provenienti dalle più svariate parti del mondo, le domande che ruotano attorno agli alimenti sono oggi più articolate e complesse. Quando possiamo definire un cibo buono? Perché è biologico? Perché è saporito? Perché è macrobiotico? Buono perché così lo faceva la mia mamma e così si fa ancora nel mio paese? Buono perché ce n’è per tutti?
Le risposte sono tante quante le teste e questo accade perché il cibo è innanzitutto una questione culturale attorno alla quale si muovono e vivono emozioni forti, prepotenze arcaiche. Ho sentito così il desiderio di confrontarmi con altre donne, con altre mamme per integrare i princìpi di una buona alimentazione con le diverse pratiche: come si comportano o si erano comportate, cosa danno o hanno dato da mangiare ai loro figli, come vivono o hanno vissuto la gravidanza, l’allattamento e le fasi successive della vita.
Sono sorti così incontri che hanno visto discutere insieme donne provenienti da differenti aree geografiche, culturali, economiche: uno scambio appassionante, spesso divertente, dal quale sono scaturite ricette, consigli, esperienze, ma anche ricordi, narrazioni. Attorno al tavolo di una possibile cucina ideale si è creato quel clima di reciprocità che spesso consente a noi donne di sottrarci alla pressione delle regole stabilite dagli esperti secondo tabelle che nulla hanno a che fare con noi e i nostri figli, restituendoci la fiducia necessaria ad ascoltare i loro (e nostri) bisogni e iniziare così la reciproca conoscenza.