CAPITOLO XVI

Malattie del bambino

Ittero

L’ittero è il colore giallognolo della pelle e delle mucose (si nota specialmente nel bianco dell’occhio), dovuto all’accumulo di bilirubina.


La bilirubina è un derivato dell’emoglobina. I globuli rossi (eritrociti o emazie), che contengono emoglobina, hanno una vita molto breve, di solo quattro mesi. Muoiono e sono sostituiti da altri nuovi. L’emoglobina, quando non si trova all’interno del globulo rosso, è tossica, e l’organismo si affretta a distruggerla. Viene separata la parte proteica, il ferro (che viene riciclato per formare altri globuli rossi), e ciò che rimane viene trasformato in bilirubina. Tanto lavoro per nulla, perché è ancora tossica e bisogna espellerla.


La bilirubina è liposolubile (si scioglie nei grassi), e pertanto non si può eliminare né attraverso l’urina né attraverso la bile, perché entrambe sono formate da acqua con elementi disciolti. Fortunatamente il fegato è in grado di unire (coniugare) la bilirubina con altre sostanze; la bilirubina coniugata si può così sciogliere in acqua, ed essere espulsa attraverso la bile. Il colore tipico delle feci si deve alla bilirubina (per questo, in alcune malattie del fegato, i depositi sono bianchi).


La bilirubina coniugata non può essere assorbita dall’intestino. Ma all’interno dell’intestino, parte della bilirubina si separa, torna ad essere liposolubile e si può così riassorbire. Si tratta del ciclo enteroepatico della bilirubina.


Tutto questo succede nei bambini e negli adulti, ma non nei feti. Il feto non evacua nell’utero (in alcuni casi lo fa, l’ultimo giorno, durante il parto, e questo indica una sofferenza fetale), e pertanto non può eliminare la bilirubina attraverso la bile. La bilirubina del feto deve passare attraverso la placenta, ed è il fegato della madre che la elimina. E per attraversare la placenta deve essere liposolubile. Il fegato del feto non riesce a coniugare la bilirubina. Per niente, neanche in piccola parte. Perché tutta la bilirubina che verrebbe coniugata rimarrebbe lì, senza possibilità di attraversare la placenta, e si accumulerebbe fino a uccidere lo stesso feto.


Improvvisamente il bambino nasce e tutto cambia. I suoi polmoni erano pieni d’acqua e ora devono riempirsi d’aria. Riceveva tutto il suo nutrimento attraverso la placenta e ora deve mangiare, digerire e metabolizzare ciò che ha ingerito. I suoi reni non espellevano sostanze tossiche (il liquido amniotico è principalmente urina del feto…ma non contiene nulla di tossico, perché deve berlo di nuovo) e ora devono iniziare a farlo. E allo stesso tempo, il fegato deve mettersi a coniugare la bilirubina. Tutti questi cambiamenti vengono messi in atto dal neonato simultaneamente, in modo tanto rapido e perfetto che la maggioranza dei bambini non ha alcun problema.


Per un certo periodo il fegato non funziona al 100% delle sue capacità. Si mette in moto lentamente, e in quei giorni la bilirubina si accumula e i bambini diventano un po’ giallognoli. Nulla di grave. Forse questa lenta attivazione del fegato non è uno sbaglio di programmazione, ma avviene di proposito. La bilirubina è dannosa per l’adulto, ma nel neonato agisce come antiossidante. È conveniente per il neonato essere un poco giallo, ma non troppo, perché un eccesso di bilirubina può danneggiare gravemente il cervello (kernicterus).


Ciò che non aveva previsto la natura è che il neonato fosse separato dalla madre, che gli venissero dati ciucci e biberon e che non avesse il permesso di poppare se non ogni quattro ore. I bambini che poppano poco evacuano poche volte al giorno, e quindi la bilirubina che era già stata coniugata ed espulsa attraverso la bile resta nell’intestino per molte ore, e viene riassorbita. Il fegato non riesce a provvedere alla quantità di bilirubina che torna dall’intestino, e il bambino diventa più itterico. Questo è ciò che si conosce come ittero dell’allattamento materno (breastfeeding jaundice), anche se qualcuno suggerisce che dovrebbe chiamarsi ittero per mancanza di allattamento materno. Il modo migliore di evitare che l’ittero aumenti è cominciare bene l’allattamento: prima poppata in sala parto, bambino nella camera della madre ventiquattro ore su ventiquattro, allattamento a richiesta, infermiere e ostetriche in grado di aiutare la madre a posizionare correttamente il bambino al seno.


Dato che un po’ di bilirubina fa bene al bambino, il latte materno contiene una sostanza che facilita la disgregazione della bilirubina nell’intestino. Mentre l’ittero sparisce completamente in circa una settimana nei bambini che prendono il biberon, i bimbi allattati al seno possono rimanere visibilmente gialli per alcune settimane, o anche per due o tre mesi. È quel che viene chiamato itterizia del latte materno (breast milk jaundice). È un pasticcio terribile, e voglio pensare che da qui a pochi anni qualche scienziato americano cambierà il nome, ma per ora è quel che è.


Alcuni pediatri, che non hanno esperienza di cos’è un bimbo allattato normalmente al seno (anni fa ce n’erano così pochi…), si spaventano di fronte all’ittero prolungato e si impegnano a fare analisi su analisi. Non serve. Quando un bimbo sembra molto giallo, si richiedono delle analisi, e se i risultati sono davvero alti (diciamo 18 mg/dl), è ragionevole ripeterle dopo un paio di giorni per assicurarsi che non salgano ulteriormente. Ma se verifichiamo che si sono parzialmente abbassati, basta. Non serve ripetere le analisi per assicurarsi che la quantità va diminuendo da 16, a 13, a 11, a 8,5, a 7… Sappiamo già che i risultati continueranno lentamente a scendere, ma che potranno impiegarci diverse settimane.


Quasi un terzo dei bambini sani che rimangono gialli per più di un mese sono affetti dalla sindrome di Gilbert. Si tratta di una variazione genetica (non è una malattia, potranno vivere cent’anni) che colpisce la coniugazione della bilirubina nel fegato. È ereditaria. Gli adulti con la sindrome di Gilbert possono avere lievi attacchi di itterizia di tanto in tanto, che si manifestano a volte in presenza di altre malattie (un’influenza o qualcosa del genere). Il problema è che ogni volta il medico si spaventa e inizia a richiedere analisi pensando che si tratti di un’epatite. È un sollievo conoscere quel che abbiamo e sapere che non ci dobbiamo preoccupare. Se nella vostra famiglia si sono manifestati casi di sindrome di Gilbert (o se ci sono casi sospetti, persone che ogni tanto sono colpite dall’ittero e non è stato riscontrato loro nulla), ditelo al vostro pediatra.


Dato che la bilirubina non si elimina attraverso l’urina, ma per mezzo del fegato, bere più acqua è inutile. Il siero glucosato non serve né a prevenire né a curare l’ittero.


Quando i livelli di bilirubina sono molto alti, si pratica la fototerapia. La luce di speciali lampade agisce sulla pelle, distruggendo la bilirubina. Non c’è alcun motivo che il bambino venga ricoverato nel reparto dei prematuri se ha solo bisogno di fototerapia; le lampade utilizzate sono provviste di ruote, e si possono portare nella camera della madre. Insistete affinché lascino il bambino nella vostra stanza. Bisogna allattarlo molto spesso, primo, perché si abbassi la bilirubina, e secondo, perché con il calore delle lampade il bambino ha bisogno di più liquidi (generalmente è sufficiente allattarlo di più, ma in alcuni casi è necessario dargli anche acqua). Decenni fa si pensava che, in caso di ittero, bisognasse smettere di allattare per uno o due giorni. Ci sono ancora medici che lo raccomandano, ma è stato dimostrato che in realtà non è necessario. Neanche quando l’ittero è causato da altre malattie, o da un’incompatibilità di Rh, bisogna interrompere l’allattamento.


In casi rarissimi, quando i livelli di bilirubina sono talmente alti che ci sono seri pericoli per il bambino, bisogna fare un’esanguinotrasfusione, cioè prelevargli tutto il sangue e sostituirlo con sangue nuovo. È molto raro che succeda con un’itterizia normale, dovuta semplicemente al fatto che il bambino poppi poco (ciò che chiameremo itterizia fisiologica, o parafisiologica, quasi normale). Ma esistono molte altre cause che provocano l’ittero: problemi di Rh e gruppo sanguigno, problemi al fegato, infezioni… In ospedale, a seconda dell’età del bambino e dei sintomi riscontrati, si occuperanno già di fargli analisi specifiche per assicurarsi che non abbia nulla di grave.


Oggi, in bambini sani di tre o quattro giorni, normalmente non si fa fototerapia finché la bilirubina non sale a 20, o un’esanguinotrasfusione se non è almeno a 25 o ancora più alta. In passato si faceva la fototerapia molto prima, ma è stato verificato che non è necessario. Certo, nei bambini malati, o prematuri, o più piccoli di tre giorni, l’itterizia è più pericolosa e bisogna curarla tempestivamente.


Oggi i bambini sono dimessi dall’ospedale così in fretta che non fanno in tempo neanche a diventare gialli. Fate caso al colore di vostro figlio quando uscite dall’ospedale: la testa, i piedi, gli occhi. Se a casa, dopo qualche giorno, notate chiaramente che è più giallo, rivolgetevi al centro sanitario più vicino o tornate in ospedale. È necessario osservare sempre con una buona luce naturale, perché la luce artificiale a volte è gialla e può ingannare.


Ci sono ancora molti medici e infermiere che consigliano alla madre di mettere il bambino al sole perché l’itterizia si abbassi. È un errore. In ospedale, una fototerapia dura ventiquattr’ore su ventiquattro (si toglie il bambino dalla lampada solo per dargli da mangiare). Ma un bambino non dovrebbe stare alla luce diretta del sole per più di dieci minuti senza una protezione; se lo lasciate un’ora al sole potrebbe avere gravi ustioni… e oltretutto l’itterizia non si sarà abbassata, perché un’ora di esposizione non è sufficiente. Non fateci caso; o vostro figlio ha bisogno di fototerapia (e allora dovranno fargliela in ospedale), o non ne ha bisogno (e allora non dovrà neanche prendere il sole). Quello di cui ha bisogno è di essere allattato tanto.


American Academy of Pediatrics Subcommittee on Hyperbilirubinemia, Management of hyperbilirubinemia in the newborn infant 35 or more weeks of gestation, in “Pediatrics”, num. 114, 2004, pp. 297-316.


http://pediatrics.aappublications.org/content/114/1/297

Sindrome di Down

I bambini affetti dalla sindrome di Down possono manifestare difficoltà a poppare. Hanno un’ipotonia, che li fa succhiare debolmente e cadono dal seno se non li si sorregge bene. Hanno la lingua molto grande (macro-glossia), quindi a volte il seno non riesce a entrare bene nella bocca. Molti soffrono anche di cardiopatia, e si stancano mentre poppano.


Ma nello stesso tempo, l’allattamento materno è particolarmente benefico per loro: li protegge dalle infezioni (a cui questi bambini sono predisposti) e facilita il vincolo affettivo (è molto dura avere un figlio con una malformazione, e molte madri provano una sorta di rifiuto. Non vergognatevi, è normale. Lo supererete con il contatto e tante coccole). Inoltre, i bambini cardiopatici fanno fatica a poppare, ma fanno ancora più fatica col biberon (e si danneggia la loro frequenza cardiaca, la loro saturazione di ossigeno…).


È molto importante che siano posizionati perfettamente al seno. Le poppate possono essere molto lunghe. Può darsi che vi possa risultare utile la compressione del seno (pag. 90) mentre il vostro bambino poppa. In caso di difficoltà, è possibile che dobbiate togliervi il latte e darglielo dopo la poppata con un bicchierino o con un contagocce.


I bambini con sindrome di Down non aumentano mai normalmente, non seguono i grafici del peso. Quando sono adulti, la loro statura è inferiore alla norma. Pertanto, non spaventatevi se quando sono piccoli ingrassano poco. Questo non è un motivo per svezzarli. Troverete qui grafici di crescita speciali per bambini affetti da sindrome di Down: www.fcsd.org/21453.pdf


http://kellymom.com/ages/newborn/nb-challenges/down-syndrome/


Fundació Catalana Síndrome de Down


www.fcsd.org1

Labbro leporino

Il labbro leporino è una fenditura nel labbro superiore, sotto la narice. A volte si tratta di un foro abbastanza grande.


Non ci sono molti problemi per l’allattamento. Nella maggior parte dei casi, è il seno stesso che si adatta al difetto e lo tappa durante la poppata. Se il difetto è molto vistoso e il seno non riesce ad adattarvisi bene, può passare aria dall’orifizio, cosa che rende difficile la suzione (il bambino ingoia aria, e inoltre non riesce a esercitare una pressione sufficiente per mantenere il capezzolo al suo posto); potete risolvere il problema voi stesse tappando il foro con il pollice durante la poppata.


Il labbro leporino può essere operato durante le prime settimane, e il bambino può poppare non appena si sveglia dall’anestesia. Non è necessario né conviene tenerlo per delle ore senza latte (si veda qui sotto palatoschisi). Prima iniziano a poppare dopo l’operazione, e prima aumenteranno di peso e potranno tornare a casa.


Weatherley-White RC, Kuehn DP, Mirrett P, Gilman JI, Weatherley-White CC, Early repair and breast-feeding for infants with cleft lip, “Plast Reconstr Surg”, num. 79, 1987, pp. 879-87.


Cleft lip / palate resources


http://kellymom.com/ages/newborn/nb-challenges/bfhelp-cleft/

Palatoschisi

A volte, nel feto, le due parti che formano il palato non si uniscono bene al centro, e resta un orifizio più o meno grande che mette in comunicazione la cavità boccale con le fosse nasali. A volte si accompagna al labbro leporino. Il problema è che il cibo può passare nell’altro orifizio e arrivare ai polmoni (aspirazione), provocando polmoniti da corpo estraneo.


Si è dimostrato che i bambini con la palatoschisi che prendono il latte materno soffrono meno di otite (a cui sono molto predisposti). Inoltre, in caso di aspirazione, il latte artificiale è una sostanza estranea che si infetta con grande facilità, mentre il latte materno è carico di anticorpi e globuli bianchi, ed è più difficile che possa provocare una polmonite.


È molto importante che un neonato con la palatoschisi prenda latte materno, in qualsiasi modo.


Alcuni bambini riescono a poppare direttamente dal seno, posizionati verticalmente (seduti a cavalcioni sulla coscia della mamma). La poppata è molto più semplice se gli si tappa l’orifizio con una protesi morbida (placca di Hotz); è come un cerotto di silicone che si crea su misura e si adatta all’orifizio. Se non ve lo propongono, chiedetelo al medico; potete stampare l’articolo che citiamo più in basso (lo trovate in Internet) e portarglielo.


Altri bambini non riescono a poppare in nessun modo; bisogna dare loro il latte con una sonda, o con un biberon speciale per questi casi, o a volte con un biberon normale… Tutti i metodi hanno i loro problemi e i loro inconvenienti. Se vostro figlio riesce a inghiottire meglio con il biberon, allora dategli il biberon… ma riempito di latte materno. Potrete poi attaccarlo direttamente al seno più avanti, dopo averlo operato.


Questi bambini di solito aumentano poco di peso, perché fanno fatica a mangiare. Se lo allattate al seno ma fa fatica e ingrassa poco, toglietevi il latte e cercate di darglielo in seguito in qualsiasi modo. Vedrete che presto vi toglierete più latte di quanto ne accetti il bambino; ve ne avanzerà. Pertanto, dargli latte artificiale non è una soluzione. Anzi, a un bambino che già ha problemi di peso possono infastidire i virus, la diarrea e l’otite che sono più frequenti se lo si nutre col latte artificiale.


Dopo l’intervento chirurgico, era abitudine alimentare questi bambini col cucchiaino o tramite una sonda, evitando il seno e il biberon per timore che con il movimento cedessero i punti. Ma questi saranno molto meno stabili se il bambino piange. Quindi la cosa migliore è attaccarlo al seno non appena si sveglia dall’anestesia, perché non pianga. È stato dimostrato che i neonati possono venire allattati subito dopo l’intervento e che in questo modo ingrassano meglio e non hanno problemi con i punti.


Roberts J, Hawk K, Cleft Lip and Palate New Beginnings, num 19, 2002, p. 88.


www.lalecheleague.org/NB/NBMayJun02p88.html


Kogo M, Okada G, Ishii S, Shikata M, Iida S, Matsuya T., Breast feeding for cleft lip and palate patients, using the Hotz-type plate, in “Cleft Palate Craniofac J”, num. 34, 1997, pp. 351-3.


https://goo.gl/bKHyny


Darzi MA, Chowdri NA, Bhat AN, Breast feeding or spoon feeding after cleft lip repair: a prospective, randomised study, in “Br J Plast Surg”, num. 49, 1996, pp. 24-6.


www.jprasurg.com/article/S0007-1226(96)90182-4/pdf


Burca ND, Gephart SM, Miller C, Cote C, Promoting breast milk nutrition in infants with cleft lip and/or palate, in “Adv Neonatal Care”, num. 16, 2016, pp. 337-344.


https://goo.gl/xQKHUu

Fenilchetonuria

È una rarissima malattia del metabolismo. I bambini che ne soffrono devono prendere un latte speciale senza fenilalanina (un amminoacido), ma devono anche avere una certa quantità di latte normale, perché una quantità di base di fenilalanina è imprescindibile per vivere. Il latte materno ha meno fenilalanina rispetto a quello vaccino; pertanto, questi bambini hanno bisogno di una minor quantità di latte speciale quando poppano dal seno che non quando prendono un biberon.


Cornejo V, Manríquez V, Colombo M, Mabe P, Jiménez M, De la Parra A, Valiente A, Raimann E, Fenilquetonuria de diagnóstico neonatal y lactancia materna, in “Rev Med Chil”, num. 131, 2003, pp. 1280-7.


www.scielo.cl/pdf/rmc/v131n11/art08.pdf


Banta-Wright SA, Press N, Knafl KA, Steiner RD, Houck GM, Breastfeeding infants with phenylketonuria in the United States and Canada, in “Breastfeed Med”, num. 9, 2014, pp. 142-148.


www.ncbi.nlm.nih.gov/pmc/PMC3993072

Mandibola piccola

Alcuni bambini nascono con la mandibola inferiore troppo piccola (retrognatismo o micrognatismo), come nella sindrome di Pierre Robin. Fanno fatica a poppare perché non riescono a contenere una sufficiente porzione di seno per posizionare la lingua correttamente. A volte bisogna togliersi il latte e darglielo con un bicchiere. In altri casi si può aiutare il bambino collocandolo in posizione verticale durante la poppata e sorreggendogli la mandibola con il pollice e l’indice, mentre il palmo della mano tiene il petto e lo comprime durante la suzione.


Landis J, Pierre Robin Sequence, in “Leaven”, 2001, pp. 111-112


www.lalecheleague.org/llleaderweb/LV/LVOctNov01p111.html

Problemi neurologici

L’ipotonia, l’ipertonia o la mancanza di coordinamento possono creare difficoltà per l’allattamento.


I bambini ipotonici normalmente poppano meglio se stanno in posizione orizzontale su un cuscino, con la testa e il sederino quasi allo stesso livello. Può essere utile sorreggere loro la mandibola con il pollice e l’indice, mentre il palmo della mano tiene il petto e lo comprime durante la suzione.


Childrens Hospitals and Clinics. Breastfeeding an infant with neurological problems.


https://goo.gl/AjYpAs

Cardiopatia congenita

I bambini con una cardiopatia congenita mantengono una miglior saturazione di ossigeno se vengono allattati al seno piuttosto che essere nutriti con un biberon. Cioè, si affaticano di più col biberon che non col seno. Può essere utile comprimere il petto durante la suzione.


Marino BL, O’Brien P, LoRe H, Oxygen saturations during breast and bottle feedings in infants with congenital heart disease, in “J Pediatr Nurs”, num. 10, 1995, 360-4.

Diarrea

Quando ero piccolo, la diarrea, qualsiasi diarrea, si curava con gli antibiotici. Ricordo ancora quello che mi dava mio padre, la Sulfadiazina, che aveva un sapore tremendo. Non era neanche necessario andare dal dottore; i miei genitori non avrebbero mai osato darmi un antibiotico per l’angina senza consultare il medico, ma per quanto riguardava la diarrea tutti conoscevano il rimedio. Nonostante questo, non ricordo di qualche dieta particolare per la diarrea nella mia infanzia. Prendevi una pastiglia e basta.


Quando, anni dopo, i medici vollero convincere la popolazione (e alcuni colleghi più reticenti) del fatto che gli antibiotici per la diarrea erano inutili e a volte dannosi, sembrò che dovessero proporre un’alternativa in cambio: la dieta astringente. Quella benedetta dieta era già un’invenzione antica, ma senza dubbio i pediatri degli anni Settanta e Ottanta contribuirono moltissimo alla sua diffusione. “E non gli prescrive l’antibiotico per la diarrea?” “No, signora, quel che bisogna fare è una bella dieta e vedrà come guarisce dalla diarrea”. Suona meglio di “No, signora, la diarrea guarisce da sola e non bisogna fare niente”, vero? Senza una dieta, la metà delle mamme sarebbero andate in farmacia molto arrabbiate a comprare per conto loro un antibiotico. Con l’andar del tempo, molti medici arrivarono a convincersi di questa storia della dieta.


Di base (esistono variazioni) la dieta consisteva nello stare ventiquattro ore senza mangiare cibi solidi (solo acqua di riso e acqua di carote), e poi continuare con riso e carote bollite, pollo lesso o alla piastra, pesce al vapore, mele cotte, banane mature e pane tostato. Niente latte, e ancor meno latte materno (che è tossico, come tutti sanno). Non ho mai capito perché il pollo non poteva essere arrosto o fritto, perché la mela non poteva essere cruda o perché bisognasse tostare il pane, ma le cose stavano così. Se la diarrea si prolungava, si ricorreva a una dieta ancora più ristretta, togliendo pollo e pesce e a volte il pane tostato.


Risultato: il povero bambino moriva di fame, perché gli veniva dato poco cibo, e quel poco che mangiava era povero di grassi e di proteine, e aveva un sapore così cattivo che se era già uno sforzo mangiarlo da sani, figuriamoci quando si stava male con la pancia sottosopra. Il bambino perdeva peso (conseguenza inevitabile di quando non si mangia) e, paradossalmente, la diarrea peggiorava. Perché la dieta si basava sul famoso principio: “Dove non c’è niente, non può uscire niente”; o “se non mangi non fai la cacca”, ma le cose non sono così semplici. Durante la diarrea vengono distrutte le cellule della mucosa intestinale, e viene a mancare la materia prima (proteine ed elementi nutrizionali) per rigenerarle.


Oggi, la giusta cura per la diarrea è:

  • Se è allattato, continuare ad allattarlo. Quanto più lo fate meglio è. Senza alcuna attesa e alcuna interruzione. Cercate di far sì che poppi più del solito, offritegli il seno anche se non lo chiede di sua iniziativa.
  • Se prende il biberon, continuare con il biberon, preparato come sempre (non bisogna diluirlo con più acqua e meno polvere, e mai prepararlo con acqua di riso e altri liquidi invece dell’acqua normale). In alcuni casi il medico vi raccomanderà di utilizzare un latte senza lattosio; ma all’inizio si usa il latte normale.
  • Se la diarrea è davvero seria (e non quelle tre popò a cui si dà già il nome diarrea…), oltre al seno o al biberon dategli un siero per reidratarlo. Sono delle bustine che si comprano in farmacia e che bisogna diluire come viene spiegato nelle istruzioni. Se non vuole prenderle, sarà perché non ne ha bisogno.
  • Se mangia altri alimenti, continuate a farlo mangiare come al solito. Non è necessario che mangi riso, guarirà anche con la pasta o con le lenticchie. Se gli fa male la pancia, non vorrà molto da mangiare, ma offriteglielo più spesso. D’altra parte, non dategli riso, né acqua di riso, né carote, se già prima non mangiava questi alimenti. Non è una buona idea introdurre un alimento nuovo proprio quando il bambino ha la diarrea.
  • Se vomita, non importa. Continuate con l’allattamento e con la reidratazione orale. Se prende 100 e ne vomita 80, ne avrà assunti almeno 20. Se non gli date niente non avrà niente nello stomaco. Se i depositi sono molto abbondanti e vomita molto, andate dal medico (ma non smettete di allattarlo e di dargli la reidratazione orale nel frattempo).

Román Riechmann E, Barrio Torres J, Diarrea aguda (Protocolo de la Asociación Española de Pediatría)


www.aeped.es/sites/default/files/documentos/diarrea_ag.pdf

Intolleranza al lattosio

L’intolleranza al lattosio non ha nulla a che vedere con l’allergia al latte. Non esiste l’allergia al lattosio, è impossibile. L’allergia al latte è allergia alle proteine del latte, e può essere una malattia grave. Alcuni bambini che hanno i sintomi dell’allergia al latte hanno gli esami dell’allergia negativi, e qualche medico la chiama “intolleranza alle proteine del latte vaccino”, che è un altro modo per dire: “Credo che sia allergico, ma non posso dimostrarlo”.


L’intolleranza al lattosio non è un’allergia. Passata l’età dello svezzamento, l’intolleranza al lattosio è semplicemente normale; quelli strani siamo noi, che possiamo bere latte da adulti a causa di una mutazione (pag. 180). Ma a volte, nei lattanti e nei bambini piccoli, si crea un’intolleranza secondaria al lattosio quando hanno la diarrea. Guarisce da sola, in pochi giorni, e in ogni caso si tratta di una malattia leggera. Quando il bambino prende il biberon, in alcuni casi gli si dà un latte senza lattosio; ma con il seno di solito non ci sono problemi. Continuate ad allattarlo normalmente.


Il lattosio del latte materno non ha nulla a che vedere con il fatto che la madre beva o smetta di bere latte. Il lattosio non viene assorbito (questo è il problema dell’intolleranza: o il lattosio viene digerito e viene distrutto, o non riesce ad essere assorbito), anche se la madre beve litri e litri di latte vaccino, nel suo sangue non esiste neanche una molecola di lattosio. Il lattosio del latte materno viene prodotto nel seno stesso, sia che la madre beva il latte, sia che non lo beva.


Esiste una rarissima intolleranza primaria al lattosio, una malattia congenita che si può trattare dando al bambino l’enzima lattasi insieme al latte materno.

Galattosemia

La galattosemia è una grave malattia congenita (cataratta, ittero, ritardo mentale, cirrosi, insufficiente aumento di peso, vomito, ipoglicemia…). Colpisce all’incirca un neonato su 50.000.


I bambini affetti da galattosemia non possono essere allattati, neanche con il latte normale del biberon. Devono prendere un latte completamente privo di lattosio. È una controindicazione assoluta.


La galattosemia non ha nulla a che vedere con l’intolleranza secondaria al lattosio, un problema lieve e transitorio che non pregiudica in alcun modo l’allattamento. L’unica motivazione per la quale nomino la galattosemia in questo libro è perché non venga confusa (e perché non vi lasciate confondere da qualcun altro che si è confuso), con l’intolleranza (secondaria) al lattosio in cui si può allattare senza problemi.

Allergia al latte e ad altri alimenti

Un lattante può avere un’allergia dovuta a qualcosa che ha mangiato la madre. La causa più frequente è il latte vaccino, ma si può manifestare anche con le uova, il pesce, la soia, la frutta secca… o qualsiasi altro alimento.


I sintomi possono essere diversi. Un eczema atopico grave, pianto inconsolabile, diarrea, sangue nelle feci, rifiuto del seno. A volte il bambino sembra insaziabile: poppa due minuti, si stacca dal seno piangendo; siccome non ha poppato abbastanza dopo un attimo ne chiede ancora, si stacca di nuovo… sembra che litighi con il seno.


È un errore attribuire qualsiasi problema del bambino all’allergia. Stiamo parlando di pianto intenso o di rifiuto continuo del seno praticamente a ogni poppata per giorni e settimane, non di un fastidio occasionale.


Di fronte a un fondato sospetto di allergia, la madre dovrebbe evitare il latte vaccino per almeno sette o dieci giorni. Sono state rilevate proteine della vacca nel latte materno anche dopo quattro giorni che questo viene eliminato dalla vostra dieta. Se il bambino non migliora, allora non si tratta del latte (se i sintomi dell’allergia sono chiari, si può provare con altri alimenti). Se invece sta meglio (a volte è immediato, a volte ci impiega qualche giorno), la causa può essere stata il latte, o è una pura coincidenza. Bisogna accertarsene, tornando a bere latte. Ci sono troppe mamme che smettono di assumere latte o altri alimenti per mesi o anni, senza aver effettuato le dovute verifiche, o senza una motivazione giustificata. Se la mamma torna a bere latte e il bambino continua a stare bene, allora significa che è stato un caso; potete continuare a bere latte. Se i sintomi si manifestano di nuovo, dovrete eliminare l’alimento in questione per anni; parlatene con il vostro pediatra (è facile che voglia fare degli esami per l’allergia al vostro bambino).


Quando si tratta di allergia non ci sono mezze misure. Bere poco latte non serve, probabilmente il bambino non migliorerà e voi rimarrete col dubbio. Quando eliminate il latte, fatelo completamente. Leggete gli ingredienti; c’è presenza di latte in molti tipi di biscotti, margarina, salumi, pane e dolci… (può essere indicato come componenti solidi del latte, proteine del latte, lattoproteine, caseina, siero di latte…). Se si vuole fare una prova ricominciando a bere latte, non ne bastano poche gocce, perché può essere che non siano sufficienti per causare i sintomi. Bevete uno o due bicchieri di latte al giorno.


Alcuni bambini sono sensibili a vari alimenti, quindi in molti casi è utile eliminare contemporaneamente latte, uova, pesce, soia e frutta secca (non bevete latte di soia o di mandorla quando eliminate il latte vaccino, perché anche questi provocano forti allergie), oltre a qualsiasi alimento che rite-niate sospetto nel vostro caso specifico (se il padre è allergico alle fragole, se il giorno che avete mangiato delle pesche vi è sembrato che vostro figlio peggiorasse…). Se il bambino migliora, mangiate di nuovo gli alimenti che avevate eliminato uno alla volta e con un intervallo di una settimana fra l’uno e l’altro, fino a scoprire quale di questi scatenava la reazione allergica.


Se il bambino non migliora quando viene eliminato il latte dalla dieta della mamma, alcuni medici raccomandano di svezzarlo e di dargli latte idrolizzato. È assurdo; prima di arrivare a questo estremo bisogna prendere in considerazione altre possibili cause di allergia. Alcuni bambini sono allergici a più di un alimento, e qualcuno a molti alimenti. Ho conosciuto un bambino allergico al latte, alle uova, al pesce, al pollo, alla carne di manzo, al riso, al grano e ad altri cibi. Migliorò solamente quando la madre incominciò a bere, per molti giorni di seguito, il latte idrolizzato che avevano prescritto al figlio, e nient’altro (è una dieta completa, se ne prendete la quantità sufficiente). Per diversi mesi, la madre si nutrì esclusivamente di latte idrolizzato, carote, patate, lenticchie e carne di cavallo mentre il figlio mangiava latte materno, carote, patate, lenticchie e carne di cavallo (non che questi alimenti siano particolarmente antiallergizzanti, semplicemente erano quelli che riusciva a tollerare il bambino, ma possono provocare allergia in altri soggetti).


L’espressione intolleranza alle proteine del latte vaccino si utilizza quando i sintomi suggeriscono un’allergia al latte, ma le analisi risultano negative. Questa situazione è più frequente nelle sindromi digestive come la colite (diarrea con sangue). Bisogna evitare l’assunzione di latte, esattamente come se le analisi risultassero positive. Da non confondere con l’intolleranza al lattosio.


In certi casi, la stitichezza cronica, anche nei bambini allattati esclusivamente al seno, si deve a un’autentica allergia al latte vaccino, mediata dalle IgE.


Com’è ovvio, se a un bambino fa male quel che mangia la madre, gli farà ancora peggio se lo mangia direttamente. L’allergia al latte vaccino guarisce normalmente intorno ai due o quattro anni; non dategli nessun derivato del latte fino a che non ve lo dirà il medico. Avvisate il nido e tutti i familiari.


In alcuni casi, somministrare alla madre enzimi pancreatici durante i pasti potrebbe evitare la comparsa dei sintomi allergici nel bambino. In questo modo gli alimenti sono digeriti in maniera più completa nell’intestino materno e, quindi, non possono passare proteine intere nel latte.


Molti medici non sanno che l’allergia al latte vaccino può causare stitichezza, credono che provochi solo diarrea. Alcuni medici vi diranno addirittura che è impossibile che sia allergico a qualcosa che ha mangiato la madre. Sono riportati qui diversi studi scientifici, se per caso dovete convincere qualcuno:


Tormo, R, Alergia e intolerancia a la proteina de la leche de vaca, (Protocollo de la Asociación Española de Pediatría).


www.aeped.es/sites/default/files/documentos/iplv.pdf


Pumberger W, Pomberger G, Geissler W, Protocolitis in breast fed infant: a contribution to differential diagnosis of haematochezia in early childhood, in “Postgrad Med J”, num. 77, 2001, pp. 252-4.


http://pmj.bmjjournals.com/cgi/content/full/77/906/252


Clyne PS, Kulczycki, Human breast milk contains bovine IgG. Relationship to infant colic?, in “Pediatrics”, num. 87, 1991, 439-444.


Iacono G, Cavataio F, Montalto G, Florena A, Tumminello M, Soresi M et al., Intolerance of cow’s milk and chronic constipation in chidren, in “N Engl J Med”, num. 339, 1998, pp. 1100-4.


www.nejm.org/doi/full/10.1056/NEJM199810153391602


Des Roches A, Abbott M, Bégin P, et al., Oral pancreatic enzyme supplements can reduce excretion of ovalbumin in breast milk, in “J Investig Allergol Clin Immunol”, num. 24, 2014, pp. 62-63.


www.jiaci.org/issues/vol24issue1/vol24issue01-11.htm

Interventi chirurgici

Prima di un’operazione, il paziente deve stare molte ore a digiuno. L’obiettivo è che lo stomaco sia vuoto, in modo tale che non possa vomitare durante l’anestesia e soffocare. Ma il latte materno si digerisce molto più in fretta dei fagioli, ed è un errore tenere un bambino piccolo tante ore senza mangiare prima di un intervento.


Sia la Società Europea di Anestesiologia sia quella Americana raccomandano un digiuno di due ore per i liquidi chiari (acqua, succhi o infusi), di quattro ore per il latte materno e di sei ore per il latte artificiale o i cibi solidi. Se devono operare vostro figlio, chiedete in anticipo quante ore deve stare a digiuno. Se vi rispondono che sono necessarie un mucchio di ore, stampate i seguenti documenti da Internet e portateli all’anestesista, al chirurgo, o a entrambi:


Smith I, Kranke P, Murat I et al., Perioperative fasting in adults and children: guidelines from the European Society of Anaesthesiology, in “Eur J Anaesthesiol”, num. 28, 2011, pp. 556-69.


http://journals.lww.com/ejanaesthesiology/Fulltext/2011/08000


American Society of Anesthesiologists Committee, Practice guidelines for preoperative fasting and the use of pharmacologic agents to reduce the risk of pulmonary aspiration: application to healthy patients undergoing elective procedures: an updated report by the American Society of Anesthesiologists Committee on Standards and Practice Parameters, in “Anesthesiology“, num. 114, 2011, pp. 495-511.


http://anesthesiology.pubs.asahq.org/article.aspx?articleid=1933410

Digiuno prima delle analisi cliniche

In generale, non è necessario digiunare prima di fare le analisi del sangue. Purtroppo, in Spagna il digiuno prima di qualsiasi analisi clinica è un mito fortemente radicato, e questo provoca parecchi disagi ai bambini e alle loro famiglie, e a volte mette persino a rischio la loro salute. Non bisogna limitare né l’acqua né l’alimentazione ai bambini che devono fare delle analisi, né, beninteso, bisogna interrompere l’allattamento materno, né per otto ore né per otto minuti.


NHS choices, Can I eat and drink before having a blood test?


www.nhs.uk/chq/Pages/1018.aspx?CategoryID=69

Riflusso gastroesofageo

Tutti i bambini vomitano, quindi tutti soffrono di riflusso gastroesofageo (in questo consiste il vomito, nel fatto che il contenuto dello stomaco rifluisca verso l’esofago). Verso l’anno inizia a sparire. Se sono comunque felici, se non sentono dolore da nessuna parte e ingrassano, il riflusso non ha alcuna importanza né si necessita di alcuna cura.


In rari casi, il riflusso si presenta come una vera malattia, che provoca esofagite (infiammazione dell’esofago causata dagli acidi dello stomaco) o problemi respiratori (a causa dell’aspirazione). L’allattamento materno è particolarmente indicato in questi casi, perché diminuisce la durata degli episodi di riflusso.


D’altra parte, gli alimenti densi (come il latte antirigurgitativo) risultano praticamente inutili per la cura del riflusso. È un errore grave svezzare un bambino per dargli un latte del genere.


Heacock HJ, Jeffery HE, Baker JL, Page M, Influence of breast versus formula milk on physiological gastroesophageal reflux in healthy, newborn infants, in “J Pediatr Gastroenterol Nutr”, num. 14, 1992, pp. 41-6.

Carie nel bambino

L’abitudine di andare a letto con un biberon in bocca, soprattutto se contiene succhi o liquidi zuccherati, provoca molte carie agli incisivi, le cosiddette carie da biberon. Nel 1983, Brams e Maloney si mostrarono sorpresi scoprendo alcuni casi di carie da biberon in bambini che venivano allattati esclusivamente al seno. In seguito, questo tipo di carie ha ricevuto diversi nomi: carie da allattamento, rampante… le definizioni sono varie; normalmente si riconosce per la presenza di molteplici carie, mentre per la diagnosi della carie infantile precoce basta una carie a un dente da latte, prima dei sei anni.


Il rapporto tra allattamento materno e carie non è chiaro, perché si tratta di una malattia multicausale.


È interessante paragonare la prevalenza globale di carie in diverse popolazioni.


In Tanzania, fra più di 2.000 bambini tra uno e quattro anni, Matee e collaboratori scoprirono un 6,8% di carie da allattamento, variando a seconda della regione dall’1,5 al 12,8%. L’uso del biberon era molto raro, e i dolci che si mangiavano pochi. Il dormire col seno in bocca e l’ipoplasia lineare (un difetto dello smalto dovuto a qualche malattia durante la gravidanza, nel periodo di formazione dei denti) si associavano alla carie. Si osservi che qui la questione non è più se il bambino poppi di notte (che è quel che probabilmente fanno tutti i bambini della Tanzania), ma se tenga sempre il seno in bocca. Nonostante questo, l’incidenza di carie nell’allattamento è molto bassa.


In India, in una popolazione più occidentalizzata, ma in cui l’allattamento materno è ancora universale, Jose e King riscontrarono una prevalenza di carie del 44% nei bambini da otto a quarantotto mesi; il 99% era allattato al seno, generalmente a richiesta. Identificarono come fattori di rischio la cattiva igiene dentale, il consumo di caramelle e la povertà.


In una popolazione che ha raggiunto quote esageratamente basse di allattamento materno, tra i 244 Inuit (Eschimesi) del Canada dai due ai cinque anni, Houde e collaboratori riscontrarono un 72,2% di carie da biberon.


Ovviamente, non è la stessa cosa poppare molto latte dal seno e, in aggiunta, seguire una dieta sana, che poppare molto e, in aggiunta, mangiare caramelle, biscotti, bere succhi di frutta (ricordatevi che i succhi non sono affatto sani, nemmeno quelli fatti in casa). E mangiare caramelle e biscotti e bere succhi senza poppare dal seno è forse la cosa peggiore in assoluto.


Nel 2015, due gruppi di ricercatori hanno pubblicato altrettante revisioni sistematiche (analisi approfondite di tutti gli studi pubblicati sull’argomento) e sono giunti a conclusioni abbastanza differenti:

  • Tham è arrivato alla conclusione che nei primi dodici mesi l’allattamento al seno protegge il bambino dalle carie, ma, successivamente, chi continua a poppare oltre i dodici mesi presenta più carie di chi smette prima. Tra i bambini che poppano per più di dodici mesi, ha più carie chi si attacca al seno più spesso o di notte. Ma non si trovano studi che mettano a confronto l’allattamento al seno per più di dodici mesi con l’uso del biberon a quella stessa età, o che tengano conto del consumo di zucchero o del livello di igiene dentale.
  • Avila concorda sul fatto che i bambini allattati al seno presentano meno carie dei bambini che usano il biberon. Ma afferma anche che i bambini che poppano dal seno per più di dodici mesi hanno meno carie (esatto, meno) di quelli che poppano per meno tempo. Di nuovo, però, condivide il dato che i bambini che poppano di notte per più di dodici mesi hanno più carie dentali.

È possibile che i nostri dubbi non verranno mai chiariti del tutto, perché la tipologia di studio scientifico più affidabile in medicina (lo studio aleatorio in doppio cieco, in cui vengono sorteggiati i pazienti che devono ricevere una data cura e quelli che devono ricevere un placebo, ma né il paziente né il medico sanno quale delle due pastiglie hanno preso) è impossibile da applicare all’allattamento. Per questo lo studio PROBIT mi sembra particolarmente rilevante, in quanto si avvicina molto a uno studio aleatorio applicato alla questione dell’allattamento. I ricercatori non hanno sorteggiato madri e bambini, ma ospedali: in diversi ospedali della Bielorussia, scelti secondo un criterio casuale, hanno formato il personale sanitario e cambiato le regole allo scopo di trasformarli in ospedali amici dei bambini.


Hanno comparato poi diverse migliaia di bambini nati in quegli ospedali con neonati di altri ospedali dello stesso Paese che non avevano cambiato abitudini. Si è registrato un aumento significativo dell’allattamento al seno fino ai dodici mesi di età (e perciò è logico supporre che c’è stato anche un aumento dei bambini che poppavano di frequente dopo l’anno, o che poppavano di notte), ma fino ai sei anni Kramer non ha riscontrato differenze nell’incidenza della carie.


Credo che l’allattamento al seno non influisca affatto sulle carie dentali, ma i dati non sono risolutivi e non potrei scartare l’ipotesi che, nei bambini più grandi, poppare a lungo di notte possa di fatto contribuire all’insorgere della carie. Comunque, le Accademie Americane di Pediatria e di Odontoiatria Pediatrica raccomandano di non dare più il seno a richiesta a partire dal sesto mese. Mi sembra una raccomandazione infondata (chi ha dimostrato che dare il seno ogni tre ore produce meno carie?) e impossibile da mettere in pratica: sono sicuro che pochissime madri che offrono il seno cinque volte a notte lo fanno solo perché si divertono un mondo. Lo fanno perché, appunto, i loro figli si svegliano cinque volte a notte, e dare loro il seno è il modo più semplice e veloce perché tutta la famiglia possa rimettersi a dormire. Che si inventeranno ora alle tre di notte se è “proibito” allattare?


E poi, anche se fosse evidente e assolutamente inequivocabile che l’allattamento materno aumenta il numeri di carie, non mi sembrerebbe comunque un buon motivo per svezzare un bambino. È stato chiaramente dimostrato che l’allattamento materno protegge da tante altre malattie infinitamente più gravi della carie. Ed esistono molte altre misure che si possono adottare per prevenire la carie, senza rinunciare all’allattamento.


Un importante fattore per la prevenzione della carie potrebbe essere il contatto salivare tra la madre e il bambino (come baciarli sulla bocca) prima della crescita dei denti, forse perché scatena l’immunità contro lo Streptococcus mutans della saliva materna. Aaltoen e Tenovuo, durante uno studio prospettico, classificarono 55 bambini finlandesi di sette mesi in due gruppi, a seconda se i contatti salivari erano più o meno frequenti. Tra i cinque e i sette anni, i bambini con un maggior contatto salivare avevano meno carie ai canini e ai premolari primari (19% rispetto al 56%), nonostante consumassero una maggior quantità di dolci. Law, invece, riscontrò un maggior numero di carie nei bambini colonizzati dallo Streptococcus mutans prima dei due anni. Forse l’effetto è molto diverso a seconda che la colonia batterica si sviluppi prima o dopo l’eruzione dei primi dentini.


In conclusione, la prevenzione per le carie infantili sembra sia quella di baciare il bambino dalla nascita, allattarlo, evitare il biberon (specialmente i biberon con succo, infusioni, zucchero o miele, e i biberon notturni), evitare dolci, biscotti e caramelle, iniziare la pulizia dentale quando spuntano i primi denti e somministrare fluoro dopo i sei mesi in quantità adeguata a seconda del livello di fluoro presente nell’acqua che beve (il vostro pediatra vi darà le indicazioni). Se nonostante tutto si manifestano carie nel lattante (il che può essere dovuto a una particolare sensibilità individuale o a una predisposizione in famiglia), può essere utile tentare di evitare che il bambino passi la nottata con il seno in bocca, e invece far sì che poppi e lasci il seno prima di addormentarsi (il libro di Pantley offre consigli utili per riuscirci).


Asociación Española de Pediatría, Comité de Lactancia Materna, Lactancia materna y caries, 2015.


www.aeped.es/comite-lactancia-materna/documentos/lactancia-materna-y-caries


Brams M, Maloney J, Nursing bottle caries in breast-fed children, in “J Pediatr”, num. 103, 1983, pp. 415-6.


Matee M, van’t Hof M, Maselle S, Mikx F, van Palenstein Helderman, Nursing caries, linear hypoplasia, and nursing and weaning habits in Tanzanian infants, in “Community Dent Oral Epidemiol”, num. 22, 1994, pp. 289-93.


Jose B, King NM, Early childhood caries lesions in preschool children in Kerala, India, in “Pediatr Dent”, num. 25, 2003, p. 594.


Houde G. Gagnon PF. St Germain M, A descriptive study of early caries and oral health habits of Inuit pre-schoolers: preliminary results, in “Arctic Med Res”, Suppl, 1991, pp. 683-4.


Tham R, Bowatte G, Dharmage SC, et al., Breastfeeding and the risk of dental caries: a systematic review and meta-analysis, in “Acta Paediatr Suppl”, num. 104, 2015, pp. 62-84. http://onlinelibrary.wiley.com/doi/10.1111/apa.13118/pdf


Avila WM, Pordeus IA, Paiva SM, et al., Breast and bottle feeding as risk factors for dental caries: A systematic review and meta-analysis, in “PLoS One”, num. 10, 2015, e0142922.


http://journals.plos.org/plosone/article?id=10.1371/journal.pone.0142922


Kramer MS, Vanilovich I, Matush L, et al., The effect of prolonged and exclusive breast-feeding on dental caries in early school-age children. New evidence from a large randomized trial, in “Caries Res”, num. 41, 2007, pp. 484-488.


www.karger.com.sire.ub.edu/Article/Abstract/108596


Aaltonen AS, Tenovuo J, Association between mother-infant salivary contacts and caries resistance in children: a cohort study, in “Pediatr Dent”, num. 16, 1994, pp. 110-6.


Law V, Seow WK, Townsend G, Factors influencing oral colonization of mutans streptococci in young children, in “Aust Dent J”, num. 52, 2007, pp. 93-100.


http://onlinelibrary.wiley.com/doi/10.1111/j.1834-7819.2007.tb00471.x/epdf


Pantley E, Felices sueños, Madrid, McGraw-Hill Interamericana, 2003.

Un dono per tutta la vita - 2a edizione
Un dono per tutta la vita - 2a edizione
Carlos González
Guida all’allattamento materno.Un vademecum indispensabile, con tante informazioni pratiche per aiutare le madri che desiderano allattare a farlo senza stress e con soddisfazione. Dopo i bestseller Bésame mucho e Il mio bambino non mi mangia, Carlos González, in una seconda edizione ampliata e aggiornata, con Un dono per tutta la vita torna a parlare di una delle sue grandi passioni: la difesa dell’allattamento materno.Il suo obiettivo non è convincere le madri ad allattare, né dimostrare che allattare al seno sia meglio, bensì offrire informazioni pratiche per aiutare quelle mamme che desiderino allattare a farlo senza stress e con soddisfazione.Nel seno, oltre al cibo, il bimbo cerca e trova affetto, consolazione, calore, sicurezza e attenzione.Non è solo una questione di alimentazione: il bimbo reclama il seno perché vuole il calore di sua madre, la persona che conosce di più.Per questo motivo, la cosa importante non è contare le ore e i minuti o calcolare i millilitri di latte, ma il vincolo che si stabilisce tra i due, una sorta di continuazione del cordone ombelicale.L’allattamento è parte del ciclo sessuale della donna; per molte madri è un momento di pace, di soddisfazione profonda, in cui riconoscono di essere insostituibili e si sentono adorate.È un dono, sebbene sia difficile stabilire chi dia e chi riceva. Conosci l’autore Carlos González, laureato in Medicina presso l’Università Autonoma di Barcellona, si è formato come pediatra presso l'ospedale Sant Joan de Déu.Fondatore e presidente dell’Associazione Catalana per l’Allattamento Materno, tiene corsi sull’allattamento per personale sanitario e traduce libri sul tema. Dal 1996 è responsabile del consultorio sull’allattamento materno e da due anni cura la rubrica dedicata della rivista Ser Padres.È sposato, padre di tre figli e vive a Hospitalet de Llobregat, in provincia di Barcelona.