CAPITOLO XI

Alimentazione complementare

Riassunto pratico

Avrete già notato che il mio metodo è quello di dare una spiegazione alle cose, non concludere con un perché sì. Quanto più strano è quello che dico, tanto meno assomiglia a quel che normalmente dicono tutti, più lunga è la spiegazione.


Mi sono reso conto che questo capitolo sull’alimentazione complementare stava diventando troppo lungo, tanto che sarebbe risultato poco pratico. Così comincerò spiegando quattro cose di utilità pratica; e chi vuole conoscerne i motivi, li leggerà nelle sezioni seguenti.

Alcuni dettagli abbastanza importanti(Che però non sono neanche dogmi di fede)

  • Non obbligare mai un bambino a mangiare.
  • Fino ai sei mesi, solo allattamento al seno: né pappe, né succhi, né acqua, né infusioni, né niente. Neanche se sono naturali o fatti in casa. Eccezioni: se fra i quattro e i sei mesi chiede cibo quando vede mangiare i genitori, gli si può dare qualcosa. Se la mamma lavora e non può o non vuole togliersi il latte, può anticipare l’alimentazione complementare piuttosto che dargli latte artificiale.
  • A partire dai sei mesi iniziare a offrirgli (senza forzarlo) altri alimenti, sempre dopo la poppata al seno (il bambino stesso inizierà a mangiare prima di poppare quando lo riterrà opportuno).
  • Non sopprimere le suzioni per dare altri alimenti; fino all’anno dovrebbe continuare a poppare almeno cinque o sette volte al giorno, e se sono di più meglio. Il bambino stesso inizierà a ridurre le suzioni, fino ad arrivare a una o due al giorno… ma questo non dovrebbe accadere prima dell’anno. Eccezione: logicamente salterà qualche poppata se voi lavorate, ma compenserà poppando di sera e di notte.
  • Se lo allattate a richiesta, avrete già latte a sufficienza, e della miglior qualità. Non ha bisogno né gli conviene prendere altro tipo di latte, né derivati, né yogurt (anche se sull’etichetta è specificato che sono appositamente per bambini), né pappe mischiate col latte. Se usate cereali in polvere per bambini, assicuratevi che non contengano latte (potete scioglierli in acqua o in brodo). Non lo diciamo per puro fanatismo contro il latte; succede spesso che il latte delle pappe provochi allergie.
  • Scolare gli alimenti, non riempirgli la pancia di zuppe, brodo o acqua di cottura.
  • Continuare ad allattare al seno fino ai due anni e oltre.
  • L’ordine dei diversi alimenti non ha importanza. Non c’è un’età per la carne, un’età per la frutta…
  • È importante introdurre quasi subito gli alimenti ricchi di ferro (carne o pollo). Fino all’anno conviene non superare i 20 o 30 g al giorno; si può aumentare a 40 o 50 g tra l’anno e i tre anni. Il ferro è necessario, ma è meglio non abusare delle proteine.
  • Evitare gli alimenti che possono provocare asfissia (soprattutto la frutta secca) fino ai tre anni.
  • Potete dargli dell’acqua, da bere fin da subito usando un bicchiere. “Ma non è capace di bere dal bicchiere”. Certo, ma il vostro bambino non sa nemmeno bere dal biberon: se deve imparare a fare una cosa, che almeno sia qualcosa di utile che gli servirà per tutta la vita. I bambini che poppano dal seno non hanno assolutamente bisogno di prendere anche il biberon. E quelli che prendono il biberon dovrebbero imparare a bere dal bicchiere per eliminare l’uso del biberon prima dell’anno.
  • I succhi di frutta sono sconsigliati a qualsiasi età, e in particolare bisognerebbe evitarli prima dell’anno. Neanche i succhi fatti in casa appena spremuti. Mangiare frutta è un’abitudine sana, bere succo di frutta non lo è.

Heyman MB, Abrams SA, AAP Committee on Nutrition, Fruit juice in infants, children, and adolescents: current recommendations, in “Pediatrics”, num. 139, 2017, e2017-0967.


Meno male che ho premesso che questi consigli “non sono neanche dogmi di fede”, perché rispetto all’edizione precedente di questo libro ho dovuto eliminare dalla lista cinque consigli che non mi sembrano più così importanti come prima:

  • Il consiglio di offrire i nuovi alimenti uno alla volta, a diversi giorni di distanza. Un suggerimento molto diffuso fino a qualche decennio fa, ma che non è mai stato supportato da basi scientifiche. Le raccomandazioni attuali non lo menzionano.
  • Il consiglio riguardo al glutine, che richiede una precisazione. Dopo un periodo in cui sembrava che più se ne ritardasse l’assunzione e meglio era, e un altro periodo in cui, invece, ritardarne troppo l’assunzione sembrava una pessima scelta, nuovi studi dimostrano che l’età in cui è meglio introdurre il glutine nell’alimentazione del bambino è indifferente, qualsiasi momento tra i quattro e i dodici mesi è adatto. Gli esperti affermano ancora che nelle prime settimane è meglio dare al bambino “una quantità ridotta” di glutine, ma confessano che tale “quantità ridotta” non sia stata ancora ben definita. Secondo me, i pezzetti di cibo che un bambino afferra e mangia spontaneamente quando i genitori lo lasciano fare possono valere benissimo come “quantità ridotta”.
  • Il consiglio riguardo agli alimenti che possono provocare allergie. Si pensava che ritardarne l’assunzione potesse evitare l’insorgere di allergie, però una serie di studi ha dimostrato che è una precauzione inutile. Il pesce o le uova si possono dare al bambino in qualsiasi momento.
  • Il consiglio di non aggiungere sale o zucchero. In realtà, sale e zucchero non sono più pericolosi al sesto mese che a vent’anni. La loro pericolosità è la stessa. Se si raccomanda di non aggiungere sale o zucchero agli alimenti del bambino non è perché si teme possa rimanerne intossicato o qualcosa di simile, ma perché si spera che il bambino impari a mangiare sano, così che, quando sarà grande, consumerà una minore quantità di sale o zucchero di quella che ingeriamo noi oggigiorno. Però gli omogeneizzati e i vasetti che si trovano in farmacia contengono un po’ di sale, e i cereali per bambini contengono zucchero (non un po’, tantissimo). Comunque sia, il nostro piano è fallito: dopo decenni passati a raccomandare “niente sale, niente zucchero”, dov’è finita questa nuova generazione di giovani che mangia sano? Per molto tempo abbiamo raccomandato: “Cucinate senza sale, mettete da parte la porzione del bambino e poi aggiungete sale al piatto dei genitori”, ma non serve a niente che il bambino mangi sanissimo per sei o dodici mesi e poi si abbuffi di bibite e salatini per i successivi trent’anni. Così ho deciso di cambiare consiglio: cucinate con poco sale e poco zucchero, mangiate sano e vostro figlio potrà mangiare le stesse cose a partire dal sesto mese. Mangiare sano per trent’anni di certo influirà sulla salute di vostro figlio.
  • Il consiglio che, a partire dall’anno, il bambino può mangiare di tutto. In realtà, può già mangiare quasi tutto a partire dal sesto mese; con l’anno non avviene nessun cambiamento particolare.

Alcuni trucchi pratici

(Quel che segue sono preferenze abbastanza personali. Se non vi trovate d’accordo, fate in altro modo, e amici come prima)


I bambini allattati al seno preferiscono di solito mangiare le stesse cose che mangia la madre, e non altri alimenti preparati appositamente per loro.


Non è necessario tritare gli alimenti (ovvero, usare un frullatore elettrico). Questi elettrodomestici sono stati inventati solo qualche decennio fa; non credo che nessun bambino abbia mai sofferto la fame per mancanza di frullatori.


Spesso il processo di svezzamento comincia quando il bambino, seduto sulle ginocchia di mamma o papà durante i pasti, afferra qualcosa dal loro piatto e se lo porta alla bocca. Alcuni bambini preferiscono stare seduti sul seggiolone.


Questo metodo di lasciarli mangiare in tutta tranquillità, secondo i loro ritmi e con le loro manine, cibo normale o lievemente adattato (ovvio, bisogna eliminare ossi e lische e tagliare il cibo in pezzetti di dimensione adeguata) è chiamato in inglese “Baby-led weaning”, dove la parola “weaning”, dica quel che vuole il dizionario, non significa “svezzamento”, ma “alimentazione complementare”. È anche il titolo di un libro di Gill Rapley, pubblicato in spagnolo come El niño ya come solo e in italiano come Lascia che il tuo bimbo si svezzi da solo (Gribaudo, 2014). Ma non si tratta di una nuova invenzione o di un metodo rivoluzionario: l’unica novità sta nel nome. Di certo le mie otto trisavole (di cui non so nemmeno il nome, poverine) non tritavano tutto in purè né chiedevano al medico cosa dovessero dare da mangiare ai figli. Se cercate “baby-led weaning” troverete tantissime pagine in inglese e in spagnolo, nonché tantissime fotografie e video di bambini che mangiano felici cibi normali a partire dal sesto mese.


Se invece preferite dare a vostro figlio purè e pappe, ovviamente siete liberi di farlo. I purè non sono di certo tossici. Ma non dimenticatevi di iniziare con il cibo a pezzetti a un’età che sia appropriata. La ESPGHAN (Società Europea di Gastroenterologia, Epatologia e Nutrizione Pediatrica) afferma a riguardo: “Sconsigliamo l’uso prolungato di alimenti tritati: i bambini dovrebbero mangiare alimenti a pezzetti già intorno agli 8-10 mesi al massimo”. Invece conosco bambini che a tre o quattro anni mangiano solo e soltanto alimenti tritati. Alla fine tutti imparano a masticare, certo; ma un movimento che poteva essere facile e veloce da imparare a otto mesi finisce col diventare un problema a tre anni.


Se invece preferite dare a vostro figlio il purè, almeno lasciate che lo mangi spontaneamente. Quasi tutti i bambini cercano di afferrare il cucchiaio: lasciateli fare. E ricordatevi che non bisogna mai mettere il cucchiaio nella bocca del bambino (né di nessun altro). Fate una prova: provate a farvi imboccare da vostra moglie o vostro marito. Vedrete che stare fermi, con la bocca aperta mentre qualcuno vi introduce un cucchiaio è una sensazione molto spiacevole. Il modo corretto di dare da mangiare a qualcuno è mettergli il cucchiaio davanti alla bocca, così che l’altra persona possa avvicinarsi con la testa e ingerirne da solo il contenuto. E se vostro figlio non lo fa, significa che non ha voglia di mangiare, fine del discorso.


Una madre mi scrisse quel che mangiava sua figlia Nuria, di dieci mesi (oltre al latte del seno, che secondo lei costituiva il 95% della sua dieta). Si tratta di un’alimentazione modello, quindi ve la riporto per intero:

Mangia con le sue mani:

  • spicchi d’arancia e mandarino (prima li sputava dopo averli succhiati; ora li mangia quasi del tutto; mangia all’incirca mezza arancia o un mandarino e mezzo tutti i giorni, suddivisi in due momenti e quasi sempre accompagnati da altre cose);
  • pochissimi pezzetti di altra frutta, che inizia ad accettare un poco per volta;
  • pezzi di pane normale o tostato: già li strappa e li ingerisce;
  • riso bollito, con un goccino di olio di oliva: praticamente lo mangia chicco per chicco, ma in un piatto possono essere una ventina; a volte il riso è mischiato coi piselli o con pezzettini di fagiolini, che mangia ogni tanto;
  • pollo: rosicchia l’osso della coscia e inoltre mangia pezzetti di carne;
  • pasta, quattro o cinque pezzi a pasto;
  • pezzetti di prosciutto cotto, circa 1/6 di fetta a pasto;
  • ultimamente, pezzetti di prosciutto crudo molto morbidi;
  • qualche volta ha mordicchiato qualche patatina fritta fatta in casa o ha mangiato fagioli lessati uno ad uno.

Col cucchiaio (io lo tengo dall’estremità e lei lo indirizza afferrandolo dal centro: non mi ha mai permesso, neanche con le pappe, di imboccarla):

  • ogni tanto, pisto1 (senza tritare) di cipolla, pomodoro, peperone e zucchina, in totale quattro cucchiaini;
  • ogni tanto, zuppa di lenticchie non tritata.

L’unica cosa che cambierei di questo elenco è ridurre o eliminare del tutto il prosciutto, che è pur sempre un insaccato molto salato. Meglio petto di pollo o lombata alla piastra.


Le disperate mamme di migliaia di bambini di due o tre anni, che mangiano esclusivamente cibi tritati, e solo se vengono dati loro dalla mamma, e che “se trova un pezzettino che non è stato tritato, ha conati di vomito”, guarderanno certamente con invidia la madre di Nuria, che a dieci mesi magia cibo vero, mangia di tutto e da sola. E nonostante questo mi scrive, preoccupata, perché sono settimane che sua figlia rifiuta le pappine.


Però, come sono furbi i bambini! Preferiscono una dieta sana, varia e simile a quella degli adulti piuttosto che le pappe. Preferiscono mangiare con le loro manine piuttosto che venire imboccati dalla mamma. E sta mangiando la quantità di cibo di cui ha bisogno, quattro cucchiaini di verdura o cinque pezzi di pasta, o venti chicchi di riso, e il resto latte della mamma. Perché l’obiettivo principale dell’alimentazione complementare è che i bambini si abituino gradualmente alla normale dieta degli adulti. Il bambino che mangia mezzo rigatone con le sue stesse mani, e ciò lo fa felice e contento, ha fatto un passo importante nella giusta direzione; in qualche mese ne mangerà cinque, e in qualche anno un piatto intero. Invece, quello che mangia un’intera pappa fatta di nove cereali, ma solo se è la mamma a imboccarlo, insistendo e cercando di distrarlo, non ha fatto neanche un passo. Non sta imparando a mangiare da solo, né a masticare, né a godersi il cibo, né a mangiare quel che mangiano gli adulti (noi non mangiamo certo nove cereali). E inoltre, mangiando grandi quantità di cereali (o di frutta, o di verdura, o di qualsiasi cosa) sta prendendo meno latte dal seno. E questo non va bene per il suo nutrimento, perché il latte materno è molto più sano e nutriente di qualsiasi altro alimento con cui lo vogliate sostituire.


Quasi tutti i bambini mangerebbero come Nuria se si desse loro l’opportunità fin dall’inizio. Perché, a quest’età, i bambini vogliono fare le cose da soli, e vogliono assaggiare quel che vedono mangiare ai genitori. Ma se non gli si permette di provare e sperimentare, o per fretta, o perché mangino di più e senza sporcarsi, se arriviamo a tenergli le manine (perché non diano fastidio) e mettergli il cucchiaio in bocca, probabilmente ci impiegheranno degli anni a mangiare da soli2.


La domanda: “Quello che mangio io sarà sano per il mio bambino?” è sbagliata. La domanda giusta è: “Se ho il sospetto che non sia sano per il mio bambino, perché io continuo a mangiarlo?”.


Gli alimenti che si considerano sani per un bambino sono gli stessi anche per un adulto. Ovvio, un bambino non deve esagerare con il sale o lo zucchero, e deve mangiare dolci o gelati solo saltuariamente... proprio come un adulto. Finché i bambini sono piccoli mangeranno solo ciò che comprano i genitori. Dunque la responsabilità è vostra, cari genitori: siete voi che decidete cosa comprare.


Qui trovate i consigli dei professionisti della ESPGHAN:


Fewtrell M, Bronsky J, Campoy, C, et al., Complementary feeding: A position paper by the European Society for Paediatric Gastroenterology, Hepatology, and Nutrition (ESPGHAN) Committee on Nutrition, in “Journal of Pediatric Gastroenterology and Nutrition”, num. 64, 2017, pp. 119-132.


https://goo.gl/8CfGNc


Qui, invece, trovate i consigli per genitori della Agenzia Catalana per la Sanità Pubblica:


Consigli per l’alimentazione nella prima infanzia (da 0 a 3 anni)


https://goo.gl/7z6vay


Due ottimi libri sul tema dell’alimentazione infantile:


Basulto J, Se me hace bola, DeBolsillo, 2013.


Casabona C, Tú eliges lo que comes, Paidos, 2016.

Terminologia

Qualsiasi alimento che si dà al bambino al di fuori del latte (materno o artificiale) è un alimento complementare. Questo include le pappe, i succhi, l’acqua con zucchero, le infusioni con zucchero, i biscotti o i biberon a cui viene aggiunta una cucchiaiata di cereali. Forse potete pensare che il termine alimento sia troppo nobile per applicarlo all’acqua e zucchero, ma la cosa certa è che contiene moltissime calorie. Non trattandosi di acqua pura, è considerato un cattivo (pessimo) alimento complementare.


Mi piace la parola complementare, perché indica chiaramente che esiste un altro alimento principale (indovinate quale?), e che tutto il resto è solo un’integrazione.


In inglese, gli alimenti complementari vengono chiamati solids o solid food. In molti libri tradotti (o scritti da gente abituata a leggere libri in lingua inglese) parlano di cibi solidi, ma, occhio!, l’espressione ha un significato generico: anche i succhi e i biberon coi cereali sono solidi. Insisto su questo dettaglio, perché qualche furbo, leggendo “cominciare con i cibi solidi a partire dai sei mesi”, sostiene che i succhi e i biberon con cereali non sono solidi, ma liquidi, pertanto si possono dare ai due o tre mesi. Non è vero. Fino ai sei mesi si raccomanda di non dare niente, né di solido, né di liquido, né di gassoso. Nient’altro che latte. All’altro estremo, alcune mamme intendono solido in forma molto stretta, escludendo le pappe e i purè; una volta mi hanno parlato di un bimbo di due anni che “non mangiava ancora solidi”.


Prima si parlava di biberon con cereali: non è una buona idea. Un bambino che viene allattato al seno non dovrebbe mai prendere il biberon. E un bambino cresciuto con il biberon non dovrebbe ingerire cereali o altre cose insieme al latte del biberon. Il biberon è solo per il latte e solo per il primo anno d’età. A partire dal sesto mese conviene cominciare a dare qualche dose di latte con un bicchiere, in maniera tale che al compimento dell’anno il bambino beva soltanto dal bicchiere e smetta di usare il biberon.


Certo, con il biberon il bambino ingerisce una maggiore quantità di latte e più in fretta… ma, come abbiamo già detto in precedenza, non vogliamo che ingerisca più del dovuto. L’alimento principale per un bambino è il latte, quindi se ingerisce troppa farina, troppa frutta o verdura, prenderà meno latte. A noi interessa che impari a mangiare normalmente, ma se si nutre con il biberon non imparerà di certo a farlo. Sempre più spesso si incontrano bambini di due o tre anni che ormai sono abituati a mangiare solo dal biberon. Una volta ho addirittura visto dei biberon con pesce e verdure!


Un’altra espressione che a volte viene utilizzata in inglese è weaning food, che si traduce spesso come alimento da svezzamento. Ma, attenzione, weaning e svezzamento non sono esattamente la stessa cosa (pag. 248), e l’espressione non significa, neanche da lontano, che si debba svezzare completamente il bambino (cioè togliere il seno). Al contrario, il latte, preferibilmente materno, continua ad essere la base della sua alimentazione fino ai due anni o più.

Un po’ di storia

Durante il XX secolo l’età consigliata per iniziare con le pappe subì notevoli cambiamenti. Nella figura 14 si possono vedere le raccomandazioni di diversi libri scritti da medici spagnoli (che non erano scienziati pazzi, ma che consigliavano le stesse cose dei loro colleghi inglesi, francesi o tedeschi di quell’epoca).


All’inizio del secolo scorso, la prima pappa si dava ai dodici mesi compiuti. Fino all’anno solo seno e nient’altro che seno. Perché a quei tempi praticamente tutti i bambini erano allattati al seno: i poveri, da quello della madre, i ricchi, da quello della nutrice. Solo negli orfanotrofi (in quelli organizzati peggio, perché nei migliori orfanotrofi si usava assumere nutrici) i bambini prendevano latte artificiale, con pessimi risultati. La mortalità era altissima.


Il latte vaccino ha una eccedenza di proteine e minerali che il rene del neonato non riesce a smaltire. Bisognerebbe diluirlo con acqua. Ma il latte vaccino contiene meno lattosio e meno grassi del latte materno e aggiungere acqua risulterebbe ancora più dannoso. Dato che non esisteva il modo di miscelare il grasso col latte (galleggiava), si cercava di compensare con abbondante zucchero. E così si preparavano i biberon: un tot di latte, un tot di acqua, un tot di zucchero, a cui, col tempo, si andarono ad aggiungere altri ingredienti, fino a che la preparazione risultò così complicata che non si poté più preparare in casa, ma si dovette ricorrere alle farmacie. Anche oggi, in inglese, il latte del biberon si chiama formula.


Con quei miscugli alcuni bambini riuscivano a sopravvivere, ma con problemi. Non esisteva latte pastorizzato industrialmente, alla temperatura più bassa possibile per distruggere i batteri conservando le vitamine; il latte si bolliva in casa, alla meno peggio (il latte non bollito poteva provocare molte malattie, iniziando dalla tubercolosi), e la vitamina C veniva distrutta. I bambini che venivano nutriti solo con quelle primitive formule fatte in casa soffrivano di scorbuto per mancanza di vitamina C. Il ferro del latte vaccino è molto difficile da assorbire, e diluendo il latte con acqua il livello del ferro si abbassava provocando l’anemia nei bambini. La principale fonte di vitamina D non è la dieta, ma il sole; la nostra pelle produce vitamina D quando è esposta alla luce del sole. Ma quei bambini ammucchiati negli orfanotrofi non venivano portati spesso a passeggio, quindi soffrivano anche di rachitismo. Come risolvere tutti questi problemi? Se diamo loro della frutta, soprattutto succo d’arancia, evitiamo lo scorbuto. Se diamo loro alimenti ricchi di ferro, carne e soprattutto fegato, evitiamo l’anemia. Gli alimenti ricchi di vitamina D, fegato e pesce, prevengono il rachitismo. Nel 1920 fu pubblicato uno studio scientifico sull’alimentazione dei bambini di un orfanotrofio a base di diversi cibi solidi, alla tenera età di sei mesi, in apparenza con un esito notevole.


A ridosso della prima guerra mondiale, e ancor di più della seconda, le fabbriche e gli uffici aprirono le porte alle donne; gli uomini erano occupati a uccidersi fra di loro. Questa situazione causò la fine dell’antica e nobile professione della nutrice, che fino ad allora era uno dei pochi modi in cui una donna potesse guadagnare dei soldi. Una nutrice non può smetter il venerdì pomeriggio per riprendere a lavorare il lunedì mattina, lasciando il bambino a succhiarsi il dito nel frattempo. Una nutrice lavora ventiquattro ore al giorno, per sette giorni alla settimana, 365 giorni all’anno, compreso il giorno di Natale. La nutrice, chiaramente, dormiva insieme al suo cliente e lo allattava di notte. I bambini dei ricchi non dormivano coi genitori (i poveri sì, dormivano insieme, perché non c’erano altre stanze in casa); ma non pensate neanche per un momento che dormissero da soli; l’abitudine di lasciare i bambini piccoli a dormire da soli in un’altra stanza è un’invenzione molto, molto recente. In inglese, la camera dei bambini si chiama nursery, la stanza della nurse, dal francese nourrice, la nutrice. Ogni volta che il bambino si svegliava nel bel mezzo della notte, la nutrice lo allattava, ci mancherebbe altro, o pensate che fosse pagata per lasciarlo piangere? (Nell’inglese attuale la nurse è l’infermiera. Quando non esistevano scuole di infermeria, se c’era qualche malato in casa, toccava alla nutrice curarlo.)


Quindi fare la nutrice è uno dei lavori più duri che esistano. Chi avrebbe voglia di fare qualcosa del genere, per un bambino che non è neanche suo? Chi vorrebbe fare la nutrice, quando potrebbe diventare operaia, segretaria, telefonista…? Arrivò un momento in cui solamente le donne che non riuscivano a trovare nessun altro lavoro, donne ignoranti, malate o di discutibile morale, si offrivano come nutrici. Negli anni Venti e Trenta, i pediatri mettevano in guardia contro i pericoli che derivavano dall’affidare un figlio a una nutrice, usando addirittura un termine dispregiativo, allattamento mercenario. I ricchi molto ricchi, pagando grosse cifre, potevano contare sul servizio di una nutrice di fiducia. Le donne della classe medioalta, ma non milionarie, non riuscivano a trovare una buona nutrice, ma non potevano neanche allattare. Un forte pregiudizio sociale impediva a una signora di allattare. Anche oggi, molte delle mie lettrici saranno state rimproverate dalle loro famiglie: “Sembra impossibile, tutto il giorno con il seno fuori, come una zingara!” Se c’è chi si azzarda a parlare in questo modo in pieno ventunesimo secolo, immaginatevi quel che potevano dire nel 1930. Così le donne di una certa posizione (la moglie dell’architetto, la moglie dell’avvocato… la moglie del medico!) iniziarono ad alimentare i loro figli a biberon. I bambini ricchi (gli unici che andavano dal pediatra, perché non esisteva una copertura sanitaria sociale) incominciarono a soffrire di scorbuto, rachitismo, anemia…


I pediatri, logicamente preoccupati, applicarono il rimedio più adeguato: anticipare progressivamente l’alimentazione complementare. Ai quattro mesi, ai due, a un mese… Un esperto nordamericano, negli anni Quaranta, arrivò a raccomandare sardine, tonno e gamberi a bambini di poche settimane, nello stesso momento in cui in Spagna veniva consigliato succo di arancia a partire dalle prime due settimane.


Ma nello stesso tempo stava cadendo nel dimenticatoio la formula preparata in casa o in farmacia, e i biberon si riempivano di latte artificiale preparato industrialmente. L’industria si preoccupò di fare ricerche per perfezionare il prodotto, vennero aggiunti vitamina C, vitamina D, ferro… e altre dozzine di ingredienti; se avete una bottiglia di latte in mano potete leggerne la composizione. Anche oggi, la pubblicità del latte per bambini si focalizza sulle ultime integrazioni: arricchito, plus, forte, nucleotidi, acidi grassi a lunga catena… A mano a mano che si aggiungevano ai biberon i diversi nutrienti, diminuiva la necessità di aggiungere altri alimenti alla dieta del bambino. Si resero manifesti i pericoli di un’alimentazione troppo precoce, in particolare il pericolo di allergie (un pericolo che esiste da sempre, ma che prima era considerato un male minore, paragonato ai vantaggi che portava. Cosa conta qualche caso di allergia al pesce, se evitiamo centinaia di casi di rachitismo?). E di nuovo la prima pappa venne ritardata, ai tre mesi, ai quattro, fra i quattro e i sei, ai sei…


Da anni, l’OMS, l’UNICEF, l’Accademia Americana di Pediatria e l’Associazione Spagnola di Pediatria3 raccomandano l’allattamento materno esclusivo fino ai sei mesi, e a partire da quest’età consigliano di offrire altri alimenti oltre al seno.


Siamo animali abitudinari, resistiamo ai cambiamenti. L’età dell’inizio delle pappe non si anticipò quando scomparvero le nutrici, né si ritardò appena aggiunsero le vitamine al biberon. In entrambi i casi si verificò un ritardo di vent’anni, da quando si presentò la necessità fino a che la risposta non comparve sui libri per le mamme. Ma a parte questo ritardo così umano, gli incredibili cambiamenti che notiamo nella figura 14 (pag. 231) non furono dovuti alla moda o ai capricci di medici ignoranti, ma rappresentarono la risposta razionale di scienziati seri e competenti alle necessità dei bambini in ogni momento.


Il brutto è che questi cambiamenti, riflesso delle modifiche nel latte artificiale, si applicarono anche ai bimbi che venivano allattati al seno, eppure il latte materno non aveva subìto alcuna variazione. Il latte materno di oggi è uguale a quello che prendevano i nostri bisnonni, in esclusiva, per un anno. E che non era neanche tanto male.


Un secolo fa gli studi scientifici non si facevano così in dettaglio come oggi. Al massimo i nostri bisnonni, con l’allattamento materno esclusivo fino a un anno, non erano perfettamente sani. Erano più sani dei bambini che mangiavano altre cose, questo è sicuro e lo dimostrarono i pediatri dell’epoca. Ma l’acqua non era sempre potabile, il latte non era pastorizzato, la carne e il pesce non venivano conservati in frigorifero… Sicuramente l’alimentazione complementare attuale non è così pericolosa come lo era un secolo fa.


Non possiamo pertanto affermare che l’allattamento esclusivo fino a un anno sia la soluzione migliore. Forse, gli scienziati di quell’epoca si sbagliarono. O forse erano nel giusto e dodici mesi era la soluzione migliore in quelle circostanze, ma non lo è più ai nostri giorni. In ogni caso, dopo aver dato uno sguardo alla figura 14 mi risulta difficile pensare che siamo giunti, infine, a conoscere la verità, tutta la verità e nient’altro che la verità sull’alimentazione infantile. Se gli esperti di oggi non ripetono più le stesse cose di vent’anni fa, cosa diranno fra vent’anni o fra cinquanta? Dubito che stiamo assistendo alla fine della storia, e personalmente penso che l’età di inizio dell’alimentazione si ritarderà ancora di più. Ma è solo un’opinione personale; al momento, nel dubbio, ci accordiamo tutti per i sei mesi.

Perché sei mesi?

Al momento di decidere qual è l’età idonea per iniziare con l’alimentazione complementare, si possono prendere in considerazione due criteri distinti, uno teorico e l’altro empirico.


Il ragionamento teorico potrebbe essere una cosa del genere: “I bambini di x mesi hanno bisogno di tot milligrammi di vitamina X; dato che il latte materno ne contiene solamente tot milligrammi, a partire da x mesi i bambini hanno bisogno di mangiare altre cose”.


Il criterio empirico sarebbe: “Paragoniamo 100 bambini allattati esclusivamente con latte materno per x mesi, con altri 100 bambini allattati esclusivamente con latte materno per y mesi. Osserviamone il peso, la taglia, lo sviluppo psicomotorio, l’incidenza delle infezioni, la percentuale di anemia… e la conclusione è la seguente: per x mesi si ha un risultato migliore che per y mesi”.

Necessità teoriche dei nutrienti

Il problema dei criteri teorici è che non si hanno dati sufficienti per ragionarci sopra. Potremmo quasi dire che non ne abbiamo idea. Una domanda di base: di quante calorie ha bisogno ogni giorno un bambino? Nella tabella 2 potete scegliere una risposta.


Tabella 2.INGERIMENTO RACCOMANDATO (KCAL AL GIORNO, DATI DI DIVERSI AUTORI COMPARATI DA DEWEY E BROWN (2003)

ETÀ (MESI)

FAO/OMS/UNU, 1985

OMS/UNICEF, 1998

BUTTE, 2000

6-8

784

682

615

9-11

949

830

684

12-23

1.170

1.092

894


Prendiamo in considerazione solamente le cifre provenienti da fonti serie e recenti, non voglio neppure pensare se iniziassimo a cercare su testi meno recenti. Per la metodologia utilizzata, le cifre di Butte sembrano essere le più affidabili. Saranno definitive o le cambieranno nel giro di pochi anni? Scenderanno, o saliranno? Se le cifre di Butte sono corrette, che conseguenza ha avuto il fatto che per anni gli esperti abbiano raccomandato una quantità di cibo del 25% superiore a quella realmente necessaria? (Vi anticipo una conseguenza: i bambini si sono rifiutati di mangiare così tanto, e gli ambulatori dei pediatri si sono riempiti di bambini che non mangiano).


È anche evidente che non tutti i bambini mangiano la stessa quantità di cibo. Queste cifre sono solamente una media, nel tempo e nello spazio. Nel tempo, perché probabilmente un bambino non ha bisogno di 684 kcal nel tal giorno, e il giorno seguente ne ha bisogno di 894. Il cambiamento sarà senza dubbio graduale, e probabilmente non lineare; ovvero, ci possono essere periodi in cui le necessità aumentano rapidamente, e altri in cui non aumentano quasi per niente o addirittura diminuiscono. Nello spazio, perché il fabbisogno calorico è (o si spera che sia), per definizione, il fabbisogno medio della popolazione. Si considera statisticamente normale (che non è la stessa cosa di normale a livello medico) quel che si trova tra meno due e più due deviazioni tipiche; in questo intervallo si situa il 95% della popolazione sana nell’accezione medica. Un 5% di persone sane (e molte malate) si trova ancora fuori da questo ± 2 deviazioni.


Tabella 3.VARIABILITÀ DEL FABBISOGNO ENERGETICO (DUE DEVIAZIONI STANDARD AL DI SOTTO O AL DI SOPRA DELLA MEDIA) A SECONDA DELL’ETÀ E DEL SESSO, CON ALLATTAMENTO MATERNO (DATI DI BUTTE, 2000)

FABBISOGNO ENERGETICO (KCAL/GIORNO)

ETÀ

BAMBINI

BAMBINE

3 mesi

328-728

341-685

6 mesi

491-779

351-819

9 mesi

504-924

459-859

12 mesi

479-1.159

505-1.013

18 mesi

804-1.112

508-1.168

24 mesi

729-1.301

661-1.273


Come si può vedere nella tabella 3, un bambino può avere bisogno ogni giorno del doppio del cibo di un altro, ed entrambi sono assolutamente normali. Se diamo a tutti e due la stessa quantità, o uno soffrirà di denutrizione, o l’altro diventerà obeso. E ricordate, ci sono ancora un 2 e qualcosa per cento di bambini che hanno bisogno di un po’ meno cibo, e altrettanti che ne necessitano di un poco di più.


Se c’è stata una danza di cifre con le calorie, la situazione coi nutrienti specifici (proteine, vitamine, minerali…) è già un vaudeville4. Per definizione, il fabbisogno di nutrienti non si fissa sulla presunta media della popolazione, ma su due deviazioni tipiche sopra la media, arrotondate (normalmente per eccesso) per ottenere una cifra tonda. Ovvero, quando si dice che una persona ha bisogno di 300 milligrammi di vitamina X al giorno, è perché gli esperti credono (di solito non sanno, credono soltanto) che il 97,5% della popolazione abbia una necessità inferiore in rapporto a questa quantità. Ufficialmente non si chiamano necessità, gli si danno altri nomi che cambiano a seconda dell’epoca e del Paese. In Inghilterra RNI, assunzione raccomandata di nutrienti; in Spagna CDR, quantità giornaliera raccomandata, negli Stati Uniti si chiamava RDA, assegnazione dietetica raccomandata, ma ora viene indicata con la sigla RDI, assunzione giornaliera raccomandata5. Nel linguaggio comune parliamo di necessità: “Un adulto necessita di 300 milligrammi al giorno di vitamina X”, come se fosse un minimo. Sarebbe più corretto dire: “La stragrande maggioranza degli adulti ha una necessità non superiore ai 300 milligrammi”.


Solo come esempio, guardiamo le raccomandazioni per una vitamina che consideriamo sia stata studiata approfonditamente, la vitamina C:


Tabella 4.INGERIMENTO RACCOMANDATO DI VITAMINA C (MG/GIORNO) SECONDO DIVERSI ESPERTI

ETÀ

INGHILTERRA 1991

USA 1997

FAO/OMS 2002

6-8 mesi

25

50

30

9-11 mesi

25

50

30

12-23 mesi

30

15

30


Non solo le cifre sono diverse, ma inglesi e americani non sono neanche riusciti a mettersi d’accordo se, a partire dall’anno, il bambino abbia o meno bisogno di più vitamina C di prima.


Con un’altra vitamina, la niacina, accade una cosa ancor più curiosa. L’assunzione giornaliera raccomandata, secondo gli americani, è di due milligrammi fino a sei mesi, e di quattro milligrammi fra i sette e i dodici mesi. Un litro di latte materno contiene solamente 1,5 milligrammi di niacina, e un bambino ne prende meno di un litro al giorno, di modo che, secondo queste cifre, tutti i bambini allattati al seno, fin dalla nascita, dovrebbero avere un deficit di niacina. Ne assumono solo la metà di quello di cui hanno bisogno. Se dovessimo prendere le raccomandazioni alla lettera, tutti i bambini allattati al seno dovrebbero prendere una dose integrativa di un milligrammo di niacina al giorno. Che succede? Risulta che gli esperti non avessero la benché minima idea di quanta niacina necessiti un bambino, quindi decisero che la normalità doveva coincidere con la quantità che ne assume un bambino allattato al seno, tenuto conto che questo non ha deficit di elementi nutritivi. Per quanto riguarda la maggioranza delle vitamine e dei minerali, l’ingerimento giornaliero raccomandato nei primi sei mesi è, per definizione, la quantità che assume un bambino allattato esclusivamente con latte materno. Ma si fece il calcolo partendo da un’altra cifra (analizzando il latte materno, non si avrà mai lo stesso risultato), cioè supponendo che il latte ne contenesse 1,8 milligrammi al litro. Pertanto il bambino ne starebbe assumendo 1,4 al giorno, cioè due arrotondando generosamente. La cifra di quattro milligrammi giornalieri tra i sette e i dodici mesi viene dall’arrotondamento della quantità media di niacina che assume un bambino che si nutre di latte e pappe.


Scordiamoci l’arrotondamento; torniamo al ragionamento originale: i bambini hanno bisogno di un milligrammo di niacina al giorno, perché questa è la quantità che assume un bimbo allattato al seno. Ma come possiamo essere certi che il bambino necessiti di un milligrammo intero? Non è logico pensare che il latte materno contenga niacina in abbondanza, forse? Non può essere che a un bambino basti uno 0,8, uno 0,5, o addirittura uno 0,1? Beh, non ne abbiamo proprio idea. Per saperlo bisognerebbe fare una serie di esperimenti sui bambini, dandogli ogni volta meno niacina per vedere qual è la quantità minima perché non si ammalino; chiaramente non si può fare un simile esperimento e di conseguenza non lo sapremo mai con certezza.


E dopo i sei mesi? A quest’età l’ingerimento raccomandato aumenta da due a quattro, e il latte materno davvero non arriva a quattro neanche arrotondando. È forse la prova che, a partire dai sei mesi, l’allattamento esclusivo è deficitario di niacina e quindi il bambino ha bisogno di mangiare altro? Beh, no. Le raccomandazioni sono calcolate partendo dal presupposto che l’alimentazione complementare cominci ai sei mesi. Se iniziasse invece agli otto mesi, le raccomandazioni sarebbero: da zero a otto mesi, due milligrammi; da otto a dodici mesi, quattro milligrammi. È una petizione di principio, un ragionamento circolare. Gli diamo le pappe perché hanno bisogno di vitamine, e hanno bisogno di vitamine perché mangiano le pappe.


Sono solo due esempi; potremmo raccontare simili storie per quasi qualsiasi vitamina o minerale. In conclusione, le necessità teoriche di nutrienti non servono a decidere qual è l’età migliore per iniziare l’alimentazione complementare.


Dewey KG, Brown KH, Update on tecnica issues concerning complementary feeding of young children in developing countries and implications for intervention programs, in “Food Nat Bull”, num. 24, 2003, pp. 2-28.


Butte NF, Wong WW, Hopkinson JM, Heinz CJ, Metha NR, Smith EOB, Energy requirements derived from total energy expenditure and energy deposition during the first 2 years of life, in “Am J Clin Nutr”, num. 72, 2000, pp. 1558-1569.

Il ferro

Il ferro è un caso particolare. Rispetto agli altri nutrienti, di cui abbiamo solo calcoli teorici molto discutibili, con il ferro abbiamo dati un po’ più affidabili. E anche se abbiamo la certezza che nessun bambino allattato al seno soffre di scorbuto (per mancanza di vitamina C) o di pellagra (per mancanza di niacina), ce ne sono sicuramente a sufficienza che diventano anemici per mancanza di ferro.


Il latte materno è povero di ferro, ma questo ferro viene assorbito molto bene, meglio di qualsiasi altro alimento. Anche quello vaccino è povero di ferro, che oltretutto è di difficile assorbimento. Il latte di tutti i mammiferi che è stato analizzato è povero di ferro. Quando a una madre si somministrano integratori, la quantità di ferro nel suo latte non aumenta. La cosa risulta molto stuzzicante perché se alla stessa madre diamo un’aspirina, la quantità di aspirina nel suo latte aumenta. Esiste, in apparenza, un meccanismo biologico che impedisce attivamente che nel latte ci sia troppo ferro. Sarà che l’eccesso di ferro non va bene per i lattanti? Si dice (ma non ci sono prove, che io sappia) che l’eccesso di ferro nell’apparato digerente potrebbe provocare diarrea, perché i microbi cattivi che provocano la diarrea hanno bisogno di molto ferro per vivere, mentre i microbi buoni, i lattobacilli che formano la flora digestiva dei bambini allattati al seno, possono vivere con pochissimo ferro. Secondo un paio di studi, i bambini sani, senza anemia, a cui venivano somministrati gli integratori di ferro, all’età di un anno pesavano e misuravano un po’ meno rispetto a quelli del gruppo di controllo che non assumevano integratori di ferro. Sembra che somministrare molto ferro a un bambino che non ne ha bisogno non sia del tutto innocuo, e forse converrebbe evitarlo (sto parlando di quelli che non ne hanno bisogno. Se vostro figlio è anemico e gli è stato prescritto del ferro, certo che glielo dovete dare).


E se il latte contiene poco ferro, perché non soffrono di anemia tutti i bambini, fin da quando nascono? Da dove prendono il ferro? Non lo prendono da nessuna parte; i bambini nascono già con riserve di ferro.


Il ferro fa parte dell’emoglobina, la molecola che trasporta l’ossigeno nel sangue. Il feto prende l’ossigeno dal sangue della madre, attraverso la placenta. Immaginatevi la placenta come una rete, da una parte all’altra due squadre che giocano a passarsi la palla. La squadra che tiene la palla vince. Ma la natura non può permettere che la madre vinca la partita; se la madre resta con l’ossigeno suo figlio muore. Così bara. La squadra del feto ha più giocatori, e tutti professionisti. Il feto ha un tipo di emoglobina speciale, l’emoglobina fetale, che si unisce più fortemente all’ossigeno rispetto all’emoglobina normale. E inoltre è più ricca di globuli rossi, ne ha di più (per millilitro) rispetto alla madre e anche rispetto al padre (i maschi adulti hanno più globuli rossi delle donne; ma il feto ne ha ancora di più).


Il risultato è che, quando nasce, il feto ha un sacco di globuli rossi in eccesso. Rapidamente si distruggono non solo quelli in eccesso, ma tutti, perché il neonato non ha più bisogno dell’emoglobina fetale. E nel contempo si creano i nuovi globuli rossi, con emoglobina normale. L’emoglobina distrutta si trasforma in bilirubina; per questo ai neonati aumenta di un po’ e diventano itterici (gialli). Tra il mese e i due mesi si raggiunge il punto più basso, quando rimangono pochi globuli rossi fetali ma ancora non è stato creato un sufficiente numero di globuli rossi normali, e il bambino soffre di un’anemia transitoria, l’anemia fisiologica del lattante (fisiologico significa che è normale, che non è dovuto a malattia).


Il ferro di quei globuli rossi in eccesso viene immagazzinato e si utilizza a poco a poco per creare nuovi globuli rossi. Quindi il grande problema è: quanto durano le riserve? Quando il ferro immagazzinato finisce, il poco ferro del latte materno sarà insufficiente, e il bambino avrà bisogno di mangiare altri alimenti ricchi di ferro. I bambini nati prematuri o con un peso scarso non hanno potuto accumulare ferro a sufficienza, per cui il pediatra avrà certo prescritto loro un integratore.


Già molti decenni fa si fecero calcoli meticolosi, e si arrivò alla conclusione che questi depositi si possono esaurire tra i sei e i dodici mesi. E questo coincide abbastanza bene con la realtà: ai sei mesi si iniziano a vedere alcuni bambini anemici, agli otto mesi qualcuno in più, a dieci mesi ancora di più… Basandosi su quei dati si dice di solito che “a partire dai sei mesi, il ferro nel latte materno è insufficiente, e pertanto bisogna introdurre l’alimentazione complementare”. Naturalmente però questa è solo una semplificazione esagerata. Sarebbe più corretto dire: “A partire dai sei mesi alcuni bambini possono aver bisogno di un’alimentazione complementare, mentre altri hanno ferro a sufficienza nutrendosi solo al seno fino ai dodici mesi” (o forse di più). Il problema è sapere chi ha bisogno di ferro e chi no.


Questi calcoli sono stati fatti in un’epoca in cui era abitudine pinzare e tagliare il cordone ombelicale appena nati. Oggi sappiamo che è meglio tagliarlo qualche minuto dopo (pag. 79), perché in questo modo diminuiscono i casi di anemia a un anno di età.


Il possibile deficit di ferro a partire dai sei mesi è uno dei principali argomenti per iniziare l’alimentazione complementare a quest’età.


Molti bambini allattati al seno si rifiutano in assoluto di mangiare qualsiasi altra cosa fino agli otto o dieci mesi, o oltre; e quando dico in assoluto voglio dire che non accettano nemmeno una cucchiaiata. E molti altri mangiano solo tre o quattro cucchiaiate, e qui arriviamo a un altro disaccordo sulla terminologia, perché quando un bambino mangia tre o quattro cucchiai le mamme di solito dicono: “Non mangia niente”, ma io rispondo: “Sì che mangia”.


Personalmente, credo che i bambini che si rifiutano di mangiare abbiano già ferro a sufficienza, e che nel momento in cui avranno bisogno di ferro (o di qualsiasi altra cosa) si decideranno a mangiare. Quindi, l’unica cosa che devono fare i genitori, è offrirgli alimenti ricchi di ferro, e poi possono stare tranquilli, sia che il bambino mangi sia che non mangi. Ma è solo una convinzione, non esiste alcuno studio scientifico che lo dimostri.


Altri pensano tutto il contrario: che il deficit di ferro gli faccia perdere l’appetito, e per questo si rifiutano di mangiare le pappe e gli viene a mancare ancora più ferro, entrando così in un circolo vizioso. In questa situazione i genitori non dovrebbero sentirsi per niente tranquilli. Ma è solo un’altra convinzione; neanche per questo conosco prove scientifiche.


In ogni caso, quando un bambino si rifiuta di mangiare non lo si può obbligare. Non solo va contro l’etica (non si può obbligare un essere umano a mangiare), ma è inutile. Decine di migliaia di mamme passano ore a cercare di far mangiare il proprio figlio, senza ottenere niente. Il consiglio (spesso seguito) di “non dargli il seno così se avrà fame mangerà qualcos’altro” è assurdo e aberrante: il latte materno è il miglior alimento che esista, e contiene centinaia di ingredienti; non ha alcuna logica privare vostro figlio di tutto questo solo perché assuma un po’ di ferro in più.


Esiste un’opzione molto più semplice. Se il bambino rifiuta gli alimenti ricchi di ferro, se non vuole provare la carne, il pollo o il pesce, e i genitori e il pediatra sono preoccupati della possibilità che abbia carenze di ferro, devono solo fargli un esame. Se sta bene, tutti tranquilli, può continuare senza che mangi. E se davvero gli manca il ferro, gliene si dà una goccina e buonanotte. Oppure, se vi dispiace fargli un’iniezione e non sospettate che soffra di una grave forma di anemia, gli si può dare il ferro in maniera preventiva senza fare le analisi. Col seno e il ferro può continuare “senza mangiare” per tutto il tempo che vuole.


La ESPGHAN consiglia di posticipare la recisione del cordone ombelicale, di somministrare integratori di ferro ai bambini prematuri o di scarso peso e di offrire loro alimenti ricchi di ferro (soprattutto pollo e carne) a partire dal sesto mese.


Griffin IJ, Abrams SA, Iron and breastfeeding, in “Pediatr Clin N Amer”, num. 48, 2001, pp. 401-413.


Makrides m, Leeson R, Gibson RA, Simmer K, A randomized controlled clinical trial of increased dietary iron in breast-fed infants, in “J Pediatr”, num. 133, 1998, pp. 559-562.


Idjradinata P, Watkins WE, Pollitt E, Adverse affect of iron supplementation on weight gain of iron-replete young children, in “Lancet”, num. 343, 1994, pp. 1252-1254.


Pisacane A, De Vizia B, Valiante A, Vaccaro F, Russo M, Grillo G, Giustardi A, Iron status in breast-fed infants, in “J Pediatr”, num. 127, 1995, pp. 429-431.


Domellöf M, Braegger C, Campoy C, et al., ESPGHAN Committee on Nutrition.


Iron requirements of infants and toddlers, in “J Pediatr Gastroenterol Nutr”, num. 58, 2014, pp. 119-129.


https://goo.gl/uKS2r1

Mio figlio ha forse bisogno di vitamine?

Al momento della nascita, viene somministrata a tutti i bambini una piccolissima dose di vitamina K, imprescindibile per la coagulazione del sangue. In questo modo si previene la malattia emorragica del neonato, che può essere molto grave. Può essere somministrata per via intramuscolare (un’unica dose al momento della nascita) o per via orale (diverse dosi nell’arco dei primi due mesi di vita).


Negli ultimi tempi pare che il deficit di vitamina D stia aumentando, forse a causa del nostro stile di vita (i bambini escono sempre meno all’aria aperta). La ESPGHAN consiglia di dare un integratore di vitamina D a tutti i bambini nel primo anno di vita.


A parte questo, nient’altro. Ai bambini sani non si raccomandano altri integratori di vitamine o minerali. E nemmeno “rinforzanti”, “ricostituenti”, “prodotti naturali”, pappa reale o altro.


Mihatsch WA, Braegger C, Bronsky J, et al., Prevention of vitamin K deficiency bleeding in newborn infants: A position paper by the ESPGHAN Committee on Nutrition, in “J Pediatr Gastroenterol Nutr”, num. 63, 2016, pp. 123-129.


https://goo.gl/PoSMEq


Braegger C, Campoy C, Colomb V, et al., ESPGHAN Committee on Nutrition. Vitamin Din the healthy European paediatric population, in “J Pediatr Gastroenterol Nutr”, num. 56, 2013, pp. 692-701.


https://goo.gl/RhpMfh

Dati empirici

Come abbiamo visto, non si può decidere l’età ideale in cui iniziare con l’alimentazione complementare basandosi sui bisogni nutrizionali dei bambini, perché non conosciamo quali siano questi bisogni. Di modo che gli argomenti decisivi sono di natura pratica: fino a che età sono sani i bambini allattati esclusivamente al seno?


Nel 1989, il dottor Hijazi pubblicò uno studio intitolato Per quanto tempo è sufficiente l’allattamento materno esclusivo. La sua squadra seguì 331 bambini giordani appartenenti alla classe media che erano stati allattati per il primo mese e le cui madri avevano intenzione di continuare con l’allattamento materno esclusivo fino a nuovo ordine. I bambini venivano visitati a casa e pesati ogni due settimane. Consideravano che il peso diventava stabile quando, in due periodi consecutivi di due settimane, un bambino aumentava meno del minimo previsto dalle tabelle del peso. Lo studio terminava quando il peso diventava stabile o quando la madre smetteva di dargli esclusivamente latte materno.


Uno studio di questo tipo ha moltissimi limiti. Primo, per definizione un 3% dei bambini aumenta meno del minimo (che è il percentile 3). Secondo, queste tabelle sono state fatte con bambini che mangiavano pappe. Terzo, sembra che nessuno, durante quello studio, desse consigli alle mamme su come migliorare la posizione o raccomandasse loro di allattare con più frequenza, e che non si prendesse in considerazione se la stabilità del peso era dovuta a qualche diarrea o qualsiasi altra malattia. Quarto, quando la madre decideva di sua iniziativa di cominciare con le pappe, anche se suo figlio continuava ad ingrassare bene, noi ci perdevamo la fine della storia, per quanti mesi ancora avrebbe potuto ingrassare senza pappe?


Il problema dell’adeguamento delle tabelle è particolarmente delicato. Supponiamo che i bambini ingrassino di più alimentandosi col seno e gli altri alimenti, che non servendosi solo del seno. È ciò che pensa la maggioranza della gente, ma la verità è che nessuno l’ha dimostrato (si veda più avanti). Supponiamo che, a dieci mesi, i bambini allattati solo al seno pesino in media sette chili, e quelli che mangiano anche le pappe 7,2 kg. Cos’è meglio? Continuiamo a non saperlo. La decisione di qual è la cosa migliore dovrebbe basarsi su altri dati obiettivi, come per esempio, quali siano i più sani, quali manifestino un miglior sviluppo psicomotorio, sia ora che in futuro. Mancando questi dati, la decisione è puramente arbitraria: se io decido che la cosa normale a dieci mesi è prendere le pappe, allora il peso normale sarà di 7,2 kg, e ai bambini che non mangiano pappe mancano 200 grammi. Al contrario, se decido che a dieci mesi la cosa normale è l’allattamento materno esclusivo, allora i bambini che mangiano pappine sono in eccesso di 200 grammi. La teoria non si basa sui fatti, ma sono i fatti che si interpretano alla luce della teoria.


Con tutti i suoi limiti, lo studio del dottor Hijazi scoprì 53 bambini che continuavano a ingrassare normalmente solo con allattamento materno esclusivo per più di sei mesi. Di questi, tredici bambini superarono i nove mesi; uno di loro arrivò all’anno e un altro a quattordici mesi solo col seno. Tale studio dimostra che alcuni bimbi possono aumentare normalmente per un anno e più solo con il seno. Ma non possiamo sapere se questi stessi bambini sarebbero ingrassati di più o di meno, o se sarebbero stati più o meno sani se avessero mangiato altre cose.


Se vogliamo risultati più concreti, quello di cui abbiamo bisogno è uno studio sperimentale. Dividere a caso i bambini in due gruppi, che inizino l’alimentazione complementare a un’età diversa e vedere cosa succede: quali ingrassano di più, quali sono più sani… I primi studi di questo genere sono stati fatti in Honduras, a metà degli anni Novanta. Alcuni bambini presero le prime pappe a quattro mesi, altri a sei. Non riscontrarono differenze nel peso e nella misura, nei livelli di zinco nel sangue, né nell’incidenza di diarrea e di malattie respiratorie o di anemia, né nello sviluppo psicomotorio. Le mamme che iniziarono più tardi con le pappe persero maggior peso dopo il parto. Tra i quattro e i sei mesi, i bambini che prendevano le pappe aumentarono allo stesso modo di quelli che non le prendevano; il che dimostra che non mangiavano di più, ma che poppavano meno latte per lasciare spazio alle pappe. Dato che il latte materno è più nutritivo di qualsiasi altro alimento, al momento del cambio assumevano meno elementi nutrizionali (e meno difese). Successivamente altri studi dello stesso tipo condotti negli Stati Uniti e in Islanda ottennero risultati molto simili: i bambini che iniziano l’alimentazione complementare al quarto mese non crescono di più né hanno particolari vantaggi, ma prendono meno latte materno. Sulla base di questi studi, i principali esperti del mondo (l’OMS, l’UNICEF, l’Accademia Americana di Pediatria e altre associazioni simili di quasi tutti i Paesi) hanno cambiato le loro raccomandazioni; decenni fa consigliavano di iniziare l’alimentazione complementare tra i quattro e i sei mesi; oggi intorno ai sei.


Due ricerche mettono a confronto l’inizio dell’alimentazione a quattro e a sei mesi e dimostrano che è meglio iniziare a sei. Ma non esiste un solo studio che metta a confronto sei mesi con otto, con dieci o con dodici. Non c’è e non c’è mai stato, infatti tempo fa si modificavano i termini a occhio, non sulla base di studi scientifici. Se i genitori e i professionisti pensavano che i consigli sull’alimentazione infantile si basassero su dati scientifici e processi logici, si sbagliavano. In realtà, è un po’ come il gioco delle sedie: tutti corrono in tondo fino a che non si ferma la musica, e allora si resta sulle proprie posizioni e non ci si muove più. Per caso, quando è finita la musica (cioè quando si accettò di fare studi seri prima di cambiare le cose) la regola era di cominciare a quattro mesi l’alimentazione complementare, ed è costato moltissimo spostarne l’inizio a sei. Se la musica fosse finita un secolo fa, quando la regola era la prima pappa a dodici mesi, i fautori dell’inizio a dieci avrebbero dovuto portare prove inconfutabili per ottenere il cambiamento.


Hijazi SS, Abulaban A, Waterlow JC, The duration for which exclusive breast-feeding is adequate. A study in Jordan, in “Acta Pædiatr Scand”, num. 78, 1989, pp. 23-28.


Cohen RJ, Brown KH, Canahuati J e coll., Effects of age of introduction of complementary foods on infant breast milk intake, total energy, and growth: a randomized intervention study in Honduras, in “Lancet”, num. 343, 1994, pp. 288-293.


Dewey KG, Cohen RJ, Brown KH, Landa Rivera L, Age of introduction of complementary foods and growth of term, low-birth-weight, breast-fed infants: a randomized intervention study in Honduras, in “Am J Clin Nutr”, num. 69, 1999, pp. 679-686.

Un dono per tutta la vita - 2a edizione
Un dono per tutta la vita - 2a edizione
Carlos González
Guida all’allattamento materno.Un vademecum indispensabile, con tante informazioni pratiche per aiutare le madri che desiderano allattare a farlo senza stress e con soddisfazione. Dopo i bestseller Bésame mucho e Il mio bambino non mi mangia, Carlos González, in una seconda edizione ampliata e aggiornata, con Un dono per tutta la vita torna a parlare di una delle sue grandi passioni: la difesa dell’allattamento materno.Il suo obiettivo non è convincere le madri ad allattare, né dimostrare che allattare al seno sia meglio, bensì offrire informazioni pratiche per aiutare quelle mamme che desiderino allattare a farlo senza stress e con soddisfazione.Nel seno, oltre al cibo, il bimbo cerca e trova affetto, consolazione, calore, sicurezza e attenzione.Non è solo una questione di alimentazione: il bimbo reclama il seno perché vuole il calore di sua madre, la persona che conosce di più.Per questo motivo, la cosa importante non è contare le ore e i minuti o calcolare i millilitri di latte, ma il vincolo che si stabilisce tra i due, una sorta di continuazione del cordone ombelicale.L’allattamento è parte del ciclo sessuale della donna; per molte madri è un momento di pace, di soddisfazione profonda, in cui riconoscono di essere insostituibili e si sentono adorate.È un dono, sebbene sia difficile stabilire chi dia e chi riceva. Conosci l’autore Carlos González, laureato in Medicina presso l’Università Autonoma di Barcellona, si è formato come pediatra presso l'ospedale Sant Joan de Déu.Fondatore e presidente dell’Associazione Catalana per l’Allattamento Materno, tiene corsi sull’allattamento per personale sanitario e traduce libri sul tema. Dal 1996 è responsabile del consultorio sull’allattamento materno e da due anni cura la rubrica dedicata della rivista Ser Padres.È sposato, padre di tre figli e vive a Hospitalet de Llobregat, in provincia di Barcelona.