CAPITOLO X

Il ritorno al lavoro1

Si possono fare molte cose quando arriva il momento di tornare a lavorare. E non si può dire in assoluto che alcune siano meglio di altre, perché ci sono molti fattori da prendere in considerazione. Tutti vogliamo il meglio per il bambino, è ovvio; ma anche il meglio per la mamma, per tutta la famiglia, per l’economia domestica… Nessuno può decidere per voi, perché nessuno conosce le vostre esigenze.


Per questo è utile partecipare a un gruppo di appoggio all’allattamento (pag. 75), e parlare anche con altre mamme al di fuori del gruppo. Chiedete loro cosa hanno fatto, qual è stato il risultato, cosa farebbero ora se potessero tornare indietro. Valutate, parlatene con vostro marito e poi prendete una decisione.

Questioni pratiche

Il congedo di maternità

Al momento, in Spagna, è di sole sedici settimane. Che si possono portare a diciotto in caso di due gemelli e a venti in caso di tre (non sarebbe costato molto sedici settimane per bambino, dato che non ci sono così tanti gemelli, né la gente decide di averli di proposito per non lavorare).


Se siete state in malattia durante la gravidanza per motivi di salute, avrete sempre sedici settimane di permesso dopo il parto.


La legge permette che il padre, invece della madre, possa usufruire fino a dieci delle sedici settimane di permesso. Salvo in circostanze eccezionali, non credo che questo possa favorire l’allattamento né che possa essere la cosa migliore per il bambino.

L’ora dell’allattamento

Fino al nono mese avete diritto a un’ora al giorno di permesso retribuito. Può essere un intervallo da un’ora o due intervalli da mezz’ora. Anche se viene chiamata ora di allattamento, non è necessario che stiate allattando; la madre che dà il biberon ha lo stesso diritto. Potete anche scegliere di entrare al lavoro più tardi o uscire prima, ma in questo caso, per motivi che nessuno ha saputo spiegarmi, non si tratterà di un’ora, ma solamente di mezz’ora. Dato che per il datore di lavoro un’ora di assenza all’interno della giornata lavorativa si rivela solitamente più problematica, rispetto a un’entrata posticipata o a un’uscita anticipata, se vi risulta più comoda quest’ultima opzione, è possibile che riusciate a contrattare: “Se mi dà un’ora intera, uscirò prima dal lavoro. Altrimenti prenderò l’ora d’allattamento dalle undici a mezzogiorno, quando c’è più lavoro, per farle un dispetto” (questo è quel che starete pensando e quello che il vostro datore di lavoro penserà che pensiate. Certo, è meglio esprimerlo in una forma più diplomatica).


Avete diritto a scegliere il momento più opportuno per la vostra ora d’allattamento; una maestra a cui era stato imposto di approfittare della pausa della ricreazione, si rivolse al tribunale e vinse la causa. In un’altra sentenza, a una dottoressa venne riconosciuto che l’ora dell’allattamento corrisponde a una giornata di otto ore, e durante un turno di guardia di ventiquattro ore si ha diritto quindi a tre ore di allattamento.


L’ora dell’allattamento, unita a volte alla pausa pranzo, si può sfruttare in diversi modi. Se lavorate vicino a casa, potete tornare e allattare. Se lavorate lontano da casa, potete cercare un asilo nido che sia a poca distanza dal vostro posto di lavoro; così potrete allattare in autobus all’andata e al ritorno, e passerete meno tempo separate da vostro figlio. Potete anche mettervi d’accordo con la nonna o con l’altra persona che si prende cura di vostro figlio, per incontrarvi a una certa ora in un parco o in un bar vicino al posto di lavoro; potrete così approfittare per riposare e chiacchierare con vostra madre mentre state allattando… o forse vostra madre potrà approfittare per andare a far spese mentre voi state allattando. Altre mamme utilizzano l’ora dell’allattamento per togliersi il latte.


È possibile anche accumulare le ore dell’allattamento, sostituendole con quattro settimane aggiuntive di permesso di maternità.

Riduzione della giornata

Fino a che il bambino non avrà compiuto i sei anni, sia il padre che la madre (o entrambi contemporaneamente) hanno la possibilità di chiedere una riduzione tra un terzo e la metà della giornata lavorativa (con la corrispondente diminuzione dello stipendio). Avete diritto a decidere come organizzarvi la giornata; alcune mamme preferiscono lavorare due o tre ore in meno ogni giorno, altre scelgono di saltare una giornata intera alla settimana (per esempio il giorno in cui nessuno può prendersi cura del bambino). Ricordate che non vi stanno facendo un favore, ma è un vostro diritto che state pagando molto caro perdendo una parte di stipendio. Si suppone che, con quel che risparmia su di voi, il vostro datore di lavoro possa permettersi di pagare una persona che vi sostituisca in quelle ore. Pertanto, siccome non lo state prendendo in giro, non dovete sforzarvi di terminare in sei ore il lavoro di otto. La riduzione deve incidere anche sul tempo di lavoro effettivo, non possono concedervi solo le ore di formazione, di riunione, di coordinamento o momenti di riposo.

Permesso non retribuito

Il padre o la madre o entrambi possono chiedere un permesso non retribuito di durata variabile, fino all’età di tre anni del bambino. Durante il primo anno sono obbligati a conservarvi il vostro posto e il vostro turno di lavoro; a partire da quel momento, dipenderà dalla benevolenza del vostro capo che, se vuole danneggiarvi, troverà senza dubbio il modo di farlo.


Non c’è bisogno di fissare in anticipo la durata del permesso. Semplicemente, quando pensate di tornare al lavoro, dovete avvisare due settimane prima.


Senza dubbio il fatto di non guadagnare è un grande inconveniente. A volte senza speranza. Ma non vedetelo come denaro perso, ma come denaro speso. Molte persone spendono un mese di stipendio per andare in vacanza, o quindici mesi di paga per comprarsi una macchina, o duecento mesi per un appartamento. Che importa spendere due, dieci, o venti mesi di stipendio per prendersi cura di vostro figlio? Alla fine, questo evento capita una o due volte nella vita, pochissimi spagnoli hanno il terzo figlio.


Un’analisi economica completa deve anche tenere in considerazione altri fattori. Oltre al tempo per stare con vostro figlio, state comprando anche altre cose. Tempo per voi stesse, per la famiglia, per gli amici; tempo per leggere, per passeggiare, per pensare, per vivere… (“Leggerò poco con un bambino piccolo”, starete pensando. Sì, è vero, poco. Ma avreste letto ancora meno lavorando otto ore al giorno e prendendovi cura di vostro figlio nei momenti liberi). State comprando la tranquillità di avere sott’occhio vostro figlio, invece della preoccupazione di averlo lontano (“Che starà facendo ora? Piangerà tanto? Avrà vomitato ancora? Avrei dovuto provargli la febbre stamattina…”). State comprando, in molti casi, la vostra salute mentale (o, come si diceva un tempo, la pace dello spirito) nel perdere di vista il lavoro, i capi, i colleghi, le invidie, gli obiettivi da valutare, le ore di straordinari, le facce seccate ogni volta che mancate un giorno perché vostro figlio non sta bene… E insieme ai guadagni diminuiscono le spese: asilo nido, baby sitter, trasporti, pranzi (la differenza tra mangiare ogni giorno al ristorante e cucinare a casa)…


Sarebbe splendido se tutti i bambini (sia che siano allattati al seno, sia che siano allattati con il biberon) potessero stare coi loro genitori all’incirca fino ai tre anni. È l’età (chiaramente variabile) in cui i bimbi smettono di piangere quando si separano dai genitori, e iniziano ad andare a scuola contenti. E, prima che le femministe si arrabbino, si noti che non ho detto con la propria mamma, ma con i propri genitori. Non sto suggerendo che la madre smetta di lavorare per tre anni. Anche il padre ha il diritto di liberarsi dalla tirannia del lavoro per godersi suo figlio. A partire dall’anno o dall’anno e mezzo (anche prima, con un po’ di fortuna), i bambini stanno abbastanza volentieri con il papà. L’allattamento materno smette di essere un problema quando il bambino inizia a mangiare altri cibi. Molte famiglie si organizzano a turni, la madre prende un anno di permesso non retribuito, e poi il padre prende l’anno successivo (o più, o meno, a seconda delle possibilità economiche). Non è la stessa cosa un anno a testa o due mesi a testa. Durante i primi nove o dodici mesi, i bambini hanno tantissimo bisogno della madre. Poi, fino ai tre anni o giù di lì, sentono moltissimo il bisogno di uno dei due, mamma o papà che sia. E infine, fra i tre e i trent’anni, continuano ad aver bisogno di uno dei due, ma non piùmoltissimo, solo molto.


Se la vostra situazione economica non vi permette di restare a casa né tre anni, né uno, né mezzo, senza guadagnare, calcolate se potete almeno prendere uno o due mesi. I quattro mesi di maternità risultano veramente un po’ pochi, dato che in teoria il bambino non dovrebbe iniziare con gli altri alimenti fino ai sei mesi. Con un bimbo che mangia altre cose, tutto è più semplice; non c’è più bisogno di togliersi il latte, lasciarlo nel congelatore, riscaldarlo… quando la madre non c’è, può mangiare riso, banane, pollo…

Portare il bambino al lavoro

In Spagna abbiamo una legge pomposamente denominata “di conciliazione della vita familiare e lavorativa”. Ma per quanto la legga al diritto e al rovescio, non vedo la conciliazione da nessuna parte. Di base ti fanno scegliere: o vita familiare o vita lavorativa. Se optate per la vita familiare, potete prendere un permesso non retribuito; se optate per la vita lavorativa, potete portare il bambino a un nido.


Per conciliare intendo poter fare entrambe le cose contemporaneamente. Come è stato fatto nell’arco di tutta la storia dell’umanità. Perché ci prenderemmo in giro se pensassimo che il lavoro della donna è un fenomeno nuovo; la donne lavorano da sempre.


“Sì – potrebbe dire qualcuno –, si occupavano dei lavori domestici, ma non lavoravano fuori casa, con un impiego retribuito.” Beh, sì, il lavoro fuori casa con un impiego retribuito è un fenomeno relativamente nuovo. Con la rivoluzione industriale, il marito andava in fabbrica o in ufficio, e la donna restava a casa a pulire e a cucinare. Ma prima, per secoli, i contadini e gli artigiani lavoravano nelle proprie case o comunque vicino, e la differenza tra i compiti riservati agli uomini e alle donne era alquanto sfumata. Né la madre, né il padre si separavano dai figli per andare al lavoro. Solo due secoli fa furono i padri soprattutto ad essere strappati al nido familiare; ed è appena da mezzo secolo che il nostro sistema di produzione ha allontanato anche la madre per lasciare il figlio in un asilo.


Anche oggi, in gran parte del mondo, una madre può lavorare la terra, camminare per chilometri con un carico di acqua o di legna, vendere (o comprare) nei mercati, tessere o cucinare, con suo figlio sulla schiena. È ovvio che una donna zappa più lentamente se ha il bambino appresso e deve fare frequenti pause per ascoltarlo. La sua produttività diminuisce. Ma questo non è un problema in molte società, perché hanno ben chiara la lista delle priorità: del bambino ci si prende cura al 100%, e si lavora quel che si può. Invece, il motto della nostra società sembra essere: nel lavoro si rende al 100%, e ci si prende cura del bambino quando si può.


Possiamo cambiare di nuovo. Anzi, sono abbastanza sicuro che cambieremo. La nostra attuale organizzazione economica è troppo stressante, si scontra troppo con le nostre necessità biologiche. Ci sono, certo, molti posti di lavoro in cui risulterebbe pericoloso o non fattibile portare un bambino. Ma in molti altri luoghi i bambini sono proibiti per abitudine, non per qualche motivazione razionale. In futuro la receptionist dell’hotel, la funzionaria d’azienda, la bigliettaia del cinema o l’agente di viaggi ci serviranno con un bimbo in braccio. Dire a una madre: “Qui può entrare, ma senza suo figlio” sarà tanto assurdo quanto dire a una donna incinta: “Qui può entrare, ma senza il suo utero”. Un giorno i nostri nipoti si stupiranno di vedere nei vecchi film che la gente si spostava senza i propri figli. E sarà solo il primo passo, perché un giorno anche a noi padri sarà concesso di conciliare, veramente, il nostro lavoro e la nostra vita. Un giorno i bambini correranno per gli uffici e per i negozi, come prima correvano per i campi e per i laboratori degli artigiani.

Prodotti tossici sul posto di lavoro

In certe occasioni l’azienda ha l’obbligo di accordare un cambio di impiego (o un congedo per malattia, se non esiste alcun impiego alternativo) a una lavoratrice incinta, per evitare il contatto con prodotti tossici, radiazioni o qualsiasi altro agente pericoloso per il feto. Si tratta di una scelta sensata, dato che alcune sostanze possono essere particolarmente pericolose durante la gravidanza. Però, proprio come succede con le medicine, il potenziale pericolo di una qualsiasi sostanza è più o meno lo stesso sia per il bambino sia per l’adulto, e la quantità di tale sostanza che è possibile rilevare nel latte materno sarà sempre di gran lunga inferiore alla quantità con cui è venuta a contatto la madre.


Se ottenete un congedo a causa di un presunto rischio per l’allattamento, beh, congratulazioni, godetevelo. Però non credo esista davvero un posto di lavoro che possa mettere in serio pericolo l’allattamento. Se lavorate nel rispetto di tutte le norme legali di sicurezza, coperte dalla testa ai piedi con una tuta speciale, con la maschera antigas, sotto una cappa aspirante provvista di speciali filtri, facendovi una bella doccia tutti i giorni appena uscite dal lavoro, a che pericoli potreste mai andare incontro? Se nella vostra azienda non rispettano tali misure di sicurezza, non sarà, forse, perché non sono necessarie, perché la sostanza con cui lavorate non è poi così tossica? E, dunque, ripeto, che pericoli potreste trovare? E se le misure di sicurezza fossero davvero necessarie, ma nella vostra azienda non le rispettassero (cosa che spero non stia accadendo in Europa, anche se immagino ci siano parti del mondo in cui questo succede), allora potreste avere la certezza che: a) il pericolo che correte voi è di gran lunga maggiore del pericolo che corre vostro figlio; b) vostro figlio riceve molte più sostanze tossiche semplicemente standovi in braccio (perché i vostri vestiti e capelli ne sono impregnati) che attaccandosi al seno.


Se davvero una lavoratrice assorbe ogni giorno una quantità di prodotto tossico tale per cui la centesima o millesima parte che penetra nel latte può far male al bambino, allora lavorare in un posto del genere equivale a un suicidio e il rischio maggiore che corre il bambino è quello di rimanere presto orfano. Se un luogo non è sicuro per una madre che allatta, allora non dovrebbe lavorarci nessuno. Bisognerebbe chiudere tale azienda.


Ovviamente esistono condizioni di lavoro che, di fatto, ostacolano l’allattamento, non certo per i prodotti tossici, ma soprattutto a causa degli orari. Chi ha un bambino piccolo (anche se non lo allatta al seno), dovrebbe avere la reale possibilità di evitare turni di guardia di 24 ore, viaggi d’affari, orari o cambi di turno che rendono impossibile trovare qualcuno che si prenda cura del bambino…

Piloti e assistenti di volo

In qualche occasione mi è capitato di sentire la singolare teoria che una hostess non dovrebbe allattare per non so quale sciocco motivo legato ai raggi cosmici che influirebbero negativamente sul latte o per una stupidaggine ancora più grande su un’ipotetica decompressione dei seni. È assurdo. Non è vero che i raggi cosmici restano immagazzinati nel seno in attesa di uscire dai capezzoli e nemmeno che l’esposizione del personale di volo a tali raggi è pericolosamente alta. Su tutti gli aerei volano centinaia di bambini a cui non è mai successo niente, e invece il latte dovrebbe diventare radioattivo?


È vero, però, che i voli lunghi obbligano una madre a passare molti giorni di seguito lontano da casa, e quando si ha un bambino piccolo, che lo si allatti al seno o no, sarebbe meglio chiedere un trasferimento su voli locali o regionali, oppure un lavoro d’ufficio, per poter tornare a casa tutti i giorni.


Tra parentesi: spesso durante l’atterraggio i bambini scoppiano a piangere perché sentono male alle orecchie a causa della pressione, proprio come succede a noi adulti. Succhiare qualcosa li aiuta ad aprire le tube di Eustachio e a stabilizzare la pressione, e cosa c’è di meglio del seno della mamma?

I viaggi d’affari

Ai bambini piccoli crea grande disturbo separarsi dalla mamma per un giorno o più. Verso i tre anni molti bambini sono già in grado di sopportare abbastanza bene una separazione di due o tre giorni se rimangono insieme al papà o a familiari molto stretti, di certo non a degli sconosciuti. Il vero problema non è l’allattamento, ma la separazione, quindi la soluzione non è tanto togliersi il latte e congelarlo, ma evitare proprio di allontanarsi.


Durante i primi anni di vita del bambino sarebbe meglio evitare viaggi d’affari, convegni e simili. E se non c’è altra soluzione, la cosa migliore sarebbe portarsi dietro il bambino, e di conseguenza il padre, la nonna o chiunque altro possa prendersi cura di lui mentre siete in riunione. Però, almeno, potrete stare con vostro figlio sia di sera che di notte.

Chi si prenderà cura di mio figlio?

Sia che si tratti di una giornata intera o ridotta, sia che abbia quattro mesi o venti, qualcuno dovrà prendersi cura di vostro figlio quando vi separerete da lui. È una decisione molto seria. Molto più importante, per esempio, della scelta della scuola per un bambino più grande.


In primo luogo, le necessità affettive dei bebè e dei bambini piccoli sono di gran lunga maggiori. Non basta una persona che si prenda cura o vigili sul bambino; il bimbo deve stabilire un forte legame affettivo con la persona che si occupa di lui. In secondo luogo, la fiducia che riporrete in questa persona sarà molto maggiore, perché le possibilità che avrete di controllarla sono minori. Un bambino di sei anni può raccontarvi che l’hanno picchiato; uno di due no.


Credo che noi genitori siamo d’accordo sul fatto che i nostri figli siano il nostro più grande tesoro. Agite di conseguenza. Lascereste a questa persona le chiavi della macchina o di casa? Le consegnereste la vostra carta di credito e le rivelereste il codice segreto? Se così non fosse, come vi azzardereste a lasciarle vostro figlio?


L’ideale sarebbe che il padre si occupasse del bambino mentre la madre è assente. Se il padre decide volontariamente di prendersi cura di suo figlio fin dal principio (se gli dedica tempo e attenzioni), il rapporto può essere così forte che il bambino lo accetterà come sostituto della mamma a tutti gli effetti. Nel senso che non piangerà, né si angoscerà per l’assenza temporanea di sua madre. Alcune coppie riescono, lavorando in orari differenti e a volte con qualche riduzione della giornata, a prendersi cura dei figli a turno.


Altri familiari (generalmente le nonne) costituiscono l’altra miglior alternativa. Sono persone di fiducia, che il bambino probabilmente già conosce, con una sicura esperienza in materia (voi stesse siete la prova che la nonna non è stata tanto male…). Inoltre, sono familiari per tutta la vita; il vincolo affettivo che vostro figlio stabilisce con loro si manterrà per sempre, non spariranno dalla sua esistenza come il personale di un asilo.


Alcune mamme sono dubbiose nel ricorrere alle nonne per timore di abusare di loro. In effetti gli abusi esistono e alcune nonne sono davvero sfruttate. La nonna vorrà occuparsi di vostro figlio? Non dovrà per questo rinunciare ad altri interessi o a non rispettare altri obblighi? La sua età e il suo stato di salute le permettono realmente di farsene carico? A un estremo ci sono le nonne sfruttate; all’altro estremo nonne desiderose di prendersi cura del nipote, che lo farebbero con gioia, sentendosi così più allegre, più utili, più vive… e bambini che finiscono in un nido per eccesso di scrupoli, perché non sembri che ci si approfitti, per non instaurare cattivi rapporti con gli altri fratelli. A volte ci si sentirebbe meglio se i soldi spesi in un nido fossero stati dati alla nonna; così non vi stareste approfittando, e nello stesso tempo la aiutereste economicamente senza offenderla (alcune pensioni sono così misere…). Certo che in alcune famiglie risulterebbe un’offesa offrire o accettare denaro; queste questioni d’orgoglio sono molto soggettive.


Un altro presunto inconveniente delle nonne è il mito del viziare i bambini e consentire loro tutto. Non credeteci. Nessuna nonna (nessuna mamma, nessun papà) può concedere tutto. Certamente non permetteranno che il nipote dia fuoco alla casa, si butti dalla finestra o giochi con un coltello. Non lasceranno neanche che rompa i vasi, che dipinga le pareti o distrugga i libri. A cosa si riferiscono allora quelli che parlano di consentire e viziare? Al fatto che la nonna presta troppa attenzione a suo nipote, che gli racconta troppe storie, gli canta troppe canzoni, gioca con lui, gli sorride, lo coccola…? Beh, questo è proprio quello di cui ha bisogno vostro figlio. È impossibile dare troppa attenzione a un bimbo, perché lui ha bisogno di attenzione continua.


“Ma se si abitua al fatto che ci sia sempre qualcuno con lui, poi noi non potremo prestargli tanta attenzione e starà male”, dicono alcuni genitori. Un argomento doppiamente sbagliato. Primo, come farete a non prestargli attenzione? Se il problema è che entrambi i genitori lavorano (per questo lo lasciano alla nonna), certamente vorranno giocare col figlio quando torneranno a casa. Secondo, se davvero non possono prestargli attenzione alla sera, meno male che ha potuto farlo la nonna durante la giornata, perché ci mancherebbe solo che al bambino nessuno facesse caso per tutto il giorno.


Anche se le nonne sono le bambinaie più comuni, ci sono sempre più nonni che non si spaventano di fronte a un pannolino. E pensate anche ad altri familiari: una sorella o un cugino disoccupato, una cognata che sta curando il proprio bambino…


Succede anche che due o tre amiche si accordino: una prende un permesso non retribuito e cura i bambini di tutte, mentre le altre lavorano e, alla fine, si dividono gli stipendi.


In altre occasioni bisogna ricorrere a una persona estranea alla famiglia. Può essere il nido, o una bambinaia che stia a casa col bambino, o che lo porti a casa propria. Gli asili nido hanno il vantaggio di avere sempre un certo controllo ufficiale, e di solito sono più economici di una bambinaia. Ma il costo più basso è dovuto al fatto che per ogni educatrice ci sono troppi bambini.


L’Accademia Americana di Pediatria propone, fra gli altri, i seguenti criteri di qualità per la scelta degli asili:


Meno di dodici mesi: un’educatrice ogni tre bambini.


Dai tredici ai trenta mesi: un’educatrice ogni quattro bambini.


Dai trentuno ai trentacinque mesi: un’educatrice ogni cinque bambini.


Quattro o cinque anni: un’educatrice ogni otto bambini.

In Spagna, la legge permette a una sola educatrice di assistere otto bimbi al di sotto di un anno2. Come pensate che una persona da sola possa occuparsi di otto bimbi? E a voi costa tempo e fatica prendervi cura di uno solo! Il tempo si trascorre solo a cambiare i pannolini e a dare da mangiare e, quando l’insegnante finisce con l’ultimo bambino, toccherà già di nuovo al primo. E la cosa più bella è che parecchia gente insiste perché si porti il bambino all’asilo, perché lì lo stimolano o così si sveglia. Sarà fortunato se lo tolgono ogni tanto dalla culla!


Un altro dei criteri di qualità che raccomanda l’Accademia Americana di Pediatria è quello per cui i genitori possano vedere nella realtà l’assistenza prestata ai figli. In questo senso, una delle cose che mi ha sempre sorpreso degli asili è la loro segretezza. In pochi nidi si permette ai genitori di entrare, neppure per accompagnare o prelevare il bambino. Una dolce signorina lo porta dentro e fuori e i genitori restano in strada. Per favore, continuate ad essere voi i genitori, il bimbo non ha ancora compiuto tre anni, non l’avete mandato a fare il militare! La cosa normale sarebbe che i genitori potessero entrare nella classe in qualsiasi momento della mattinata, senza avviso, e rimanervi con il bambino per tutto il tempo che vogliono. Questo elementare diritto viene negato con argomentazioni assurde: che il bambino si innervosisce, che interferite con il lavoro della classe… Beh, negli ospedali lasciano entrare e uscire i genitori quando vogliono, nonostante lì si faccia un lavoro un po’ più delicato e il bambino abbia qualche motivo in più per essere nervoso. Anche nelle unità di terapia intensiva può entrare la mamma, anche se con qualche limite; ma il nido è vietato. E che non presentino visioni apocalittiche di otto padri e otto madri e sedici nonne, che dividono il limitato spazio con gli otto bambini, per tutta la santa mattinata; se porti tuo figlio all’asilo è proprio perché non puoi stare sempre con lui; che c’è di male se un giorno che hai del tempo disponibile passi a trovarlo per qualche minuto? Di fronte a un asilo che non lascia entrare i genitori mi chiedo sempre: cosa ci sarà che non possiamo vedere?


Come scegliere tra vari asili? È importante sapere quanti sono i bambini assegnati a un’educatrice, ed è ancora più importante sapere come si prenderanno cura di vostro figlio e questo, in ultima analisi, dipende dal carattere di una persona specifica. Visitate gli spazi: i bambini da uno a tre anni hanno spazio sufficiente per muoversi e giocare con giochi divertenti, o vengono tenuti seduti a lavorare seguendo delle attività educative? I bambini di quest’età non hanno bisogno di imparare forme e colori; hanno solo bisogno di attenzioni e affetto. Vi sembrano gentili e amabili le signorine? Potete osservare durante l’orario di insegnamento i bambini e la loro insegnante in azione, anche se da lontano e attraverso un vetro? In molti asili portano i bimbi al parco ogni giorno, potete approfittarne per vedere come li trattano.


Una bambinaia si occupa solamente di vostro figlio (a volte di due o tre, se lasciate vostro figlio a casa sua), ma risulta più costosa. Alcuni comuni, come quello di San Feliù de Guixol (Gerona), promuovono questo servizio, formando e controllando donne che accettano bambini nella loro casa. In molti altri casi la selezione e la supervisione spettano esclusivamente ai genitori, e questo è un compito difficile. Non fatevi problemi nel risultare pesanti, chiedere informazioni e referenze, nel parlare con le mamme di altri bimbi che sono stati affidati a questa persona. Negli asili possono consigliarvi qualche studentessa di puericultura che abbia fatto il tirocinio da loro. È importante che la vostra bambinaia accetti un impegno a mezzo termine, almeno per un anno, idealmente finché vostro figlio comincerà la scuola. Naturalmente possono sorgere imprevisti, e in ogni caso non potete obbligarla a restare. Ma verificate che abbia almeno l’intenzione di occuparsi di vostro figlio per un certo periodo di tempo. A un bimbo non fa bene passare di mano in mano ogni qualche mese. Una persona che vuole occuparsene solo per tre mesi, mentre cerca un lavoro migliore, dovrebbe accudire bambini più grandi, non di bebè.


American Academy of Pediatrics Committee on Early Childhood, Adoption, and Dependent care. Quality early education and child care from birth to kindergarten”, in “Pediatrics”, num. 115, 2005, pp. 187-191.

Conoscenza reciproca

È importante che vostro figlio conosca in anticipo la persona che si prenderà cura di lui. Se si tratta della nonna o di un altro familiare, normalmente già li conosce. Ma non è sempre così, e ricordate che non esiste il richiamo del sangue. Se l’ha vista solo di sfuggita, per vostro figlio la nonna è una sconosciuta qualsiasi.


Cercate di ottenere un periodo di transizione prima di ricominciare a lavorare. Se assumete una bambinaia, fatelo con un paio di settimane di anticipo. Se lo portate all’asilo, iniziate una quindicina di giorni prima. Ma attenzione, non si tratta di lasciarlo per mezz’ora con la bambinaia o all’asilo e andarsene, e il giorno seguente un’ora e così via aumentando il tempo. Questo non è nient’altro che un cambiamento graduale, che può essere un po’ meno dannoso di uno brusco, ma che continua ad essere lontano dalla situazione ideale. E per farlo gradualmente, avete anche dovuto anticipare di due settimane la separazione da vostro figlio, non guadagnando nulla.


Si tratta di stare tutti e tre insieme, madre, bambino e bambinaia, per un certo periodo. Si tratta di passare qualche ora al giorno all’asilo con vostro figlio, o che la bambinaia venga qualche ora al giorno a casa vostra o che vi accompagni al parco. Esistono già asili che, durante questo periodo, permettono alla madre di entrare, e stiamo aspettando che presto tutti quanti si rendano conto che non solo possono permetterlo, ma che conviene farlo.


Quando il bambino vede la sua bambinaia vicino alla madre, in un certo qual modo la classifica come amica di mamma e le trasmette parte della sua fiducia. Inoltre, siccome è contento e felice (perché sta con sua madre), è più disponibile a conoscere gente nuova e ambienti nuovi, e così questa esperienza risulta gradevole. Invece, il bambino che viene lasciato solo all’asilo fin dal primo giorno, piange, ed è mentre piange angosciato che conosce persone e luoghi. Diventa un’ossessione. Finisce per abituarsi, certo, ma gli costa molto farlo. Nella sua memoria, l’inizio della scuola sarà sempre associato al pianto e alla sofferenza.


All’inizio della scuola materna, a tre anni, i bambini che di solito piangono meno sono proprio quelli che non hanno mai frequentato il nido. A quell’età, i bimbi di solito sono preparati a separarsi dalla madre per diverse ore. In quel momento non stanno soffrendo; invece buona parte di quelli che hanno frequentato il nido, ricordano il primo giorno dell’anno precedente con sofferenza.


Questo periodo di transizione serve anche a verificare se avete indovinato nella scelta della bambinaia. Se vedete qualcosa che non vi piace per niente, siete ancora in tempo a cambiare.

Cosa mangerà quando non ci sarò?

Le possibilità sono svariate. Potrebbero dargli, per esempio, un biberon di latte artificiale. Attenzione, non lo nomino in primo luogo perché lo considero l’opzione migliore, ma solo perché vi rendiate conto che esiste questa possibilità. Perché ho visto molte mamme svezzare prima di tornare al lavoro (a volte, svezzare un mese prima di ritornare al lavoro), perché: “Quando lavorerò non potrò più allattarlo”. Ho conosciuto addirittura alcune madri che non hanno mai allattato, neanche per un giorno, “perché dovrò tornare a lavorare alla fine del quarto mese…”. Beh, non potrete allattare durante la giornata lavorativa (finché non vi permetteranno di portare il bambino al lavoro); ma potrete allattare per il resto del giorno, durante la notte, e nei fine settimana. Se pensate comunque di dargli latte artificiale, perché non allattarlo anche al seno di sera? Eviterete una sofferenza a vostro figlio (ai bimbi non piace che la mamma se ne vada, e non piace neanche essere svezzati. Svezzarli e andare a lavorare sono due bastonate una di seguito all’altra). Il latte materno lo renderà più resistente (non del tutto resistente perché questo è impossibile, però un poco di più sì) ai molti virus che lo assaliranno all’asilo. Voi vi sentirete meglio se, dopo aver passato tutta la mattinata lontane da vostro figlio, potrete tornare a casa e allattarlo.


Potete togliervi il latte, ma siccome è un po’ lungo da spiegare lo tratteremo più avanti.


Possono anche offrirgli altri alimenti che non siano il latte. Ricordate che il cibo nutre nello stesso modo a qualsiasi ora. Lo dico perché l’abitudine di dare ai bimbi frutta al pomeriggio e verdura alla sera è così radicata che ci sono mamme che si tolgono il latte e lo lasciano nel frigo perché la nonna lo usi per il bambino, e poi, al ritorno, le stesse mamme offrono la frutta. Invece quanto sarebbe più facile se la nonna gli desse frutta, pollo, lenticchie, polpette e tutto il resto, e la madre, tornata a casa, gli desse il seno e ancora il seno. Per questo prima dicevo che qualche mese di permesso non retribuito sarebbe molto utile; perché a partire dai sei mesi il bimbo può già iniziare a mangiare altre cose, e tutto diventa molto più semplice.


Se tornate a lavorare tra il quarto e il sesto mese, e non volete, o non potete, o non vi risulta pratico togliervi il latte, potete dargli del latte artificiale o anticipare un po’ i cibi solidi, come il riso bollito o la banana schiacciata (ho fatto questi due esempi perché si tratta di alimenti abbastanza calorici; se il bambino deve stare per ore senza succhiare, non può certo consumare verdure bollite o mela, che sono composte quasi esclusivamente di acqua). Fino ai sei mesi, la domenica e nei giorni festivi, allattatelo solamente. Usate gli altri alimenti solo quando è inevitabile.


E ora viene il divertente. Dopo tanto scervellarsi per capire se il bimbo mangerà questo o quello o quell’altro ancora, devo informarvi che la cosa più verosimile è che il bambino non mangi niente.


I bambini più grandicelli, che già stavano mangiando una consistente quantità di cibi solidi, probabilmente continueranno a mangiarli quando la mamma tornerà al lavoro. Ma i piccoli dai quattro ai sei mesi (e molti anche dagli otto ai dieci), che si nutrono (quasi) solo dal seno, è molto probabile che rifiutino il cibo. Non vogliono il biberon, né col latte materno né (ancor meno) col latte artificiale. Non vogliono il latte dal bicchiere, né col contagocce. Non vogliono banane, né riso bollito. Non vogliono niente di niente. Se avete una riduzione della giornata lavorativa e state lontane solo cinque o sei ore, la cosa più probabile è che, in questo tempo, vostro figlio non mangi. Ma anche quando la madre lavora per otto ore (che sono poi nove calcolando l’andata e il ritorno), molti bimbi non vogliono mangiare. Semplicemente, passano la mattinata senza nutrirsi e gran parte del tempo a dormire, per poi recuperare, poppando come matti, di sera e di notte. Per questo molte mamme che lavorano decidono di tenere il bambino con loro nel letto; è l’unico modo per continuare a dormire mentre il bimbo succhia quanto vuole.


Conviene che lasciate vostro figlio ben sazio prima di uscire. Puntate la sveglia in modo da avere il tempo sufficiente per farlo poppare nel letto; e dopo esservi lavate, vestite e aver fatto colazione, allattatelo ancora appena prima di uscire. Oppure, se lo portate al nido, cercate di trovarne uno vicino al posto di lavoro, e allattatelo in autobus.


Altri bambini, invece, mangiano anche se la mamma lavora. Mangiano cibi solidi, bevono latte, prendono biberon o quel che c’è. Il brutto è che non possiamo sapere in anticipo quale bimbo vorrà mangiare e quale no. Pertanto, bisogna sempre prendere qualche precauzione e la persona che si occuperà del bambino dovrà seguire chiare istruzioni: come scaldare il latte, come schiacciare la banana… Ma bisognerà anche avvertirla che se il bimbo non vorrà mangiare, o mangerà poche cucchiaiate, non sarà il caso di preoccuparsi, di spaventarsi o di obbligarlo.

Abituarsi al cibo

È molto utile abituarlo alla persona che si prenderà cura di lui, ma abituarlo al biberon, o al cucchiaio, alcuni giorni prima di tornare al lavoro, è una perdita di tempo.


Se quel biberon contiene latte artificiale, o se intendete anticipare l’alimentazione complementare ancor più di quanto la stavate anticipando, la nutrizione di vostro figlio peggiorerà. Potrebbe ancora nutrirsi esclusivamente attraverso l’allattamento materno.


Ma anche quando il biberon contiene latte materno, o quando cercate di dargli il latte materno col bicchiere, lo sforzo diventa inutile e dannoso (per la grande angoscia che provoca in tutti quanti).


Quando si dà per la prima volta un biberon a un bimbo possono succedere due cose: che lo prenda o che lo rifiuti. (Di certo è più facile che lo prenda quando voi non ci siete, piuttosto che quando siete presenti). Se un mese o quindici giorni prima di tornare al lavoro date il biberon a vostro figlio, e lui lo prende estasiato, cosa ci avete guadagnato? Se lo sarebbe preso anche quindici giorni dopo. L’unica cosa che avrete ottenuto è quella di sostituire una poppata al seno, che è qualcosa di bello e rilassante, con il togliervi il latte e riempire il biberon, cosa che risulta molto più fastidiosa.


Se, al contrario, gli date il primo biberon e lo rifiuta, lo sputa e si arrabbia, che potete fare? Tappargli il naso perché apra la bocca e infilarglielo a forza? Otterrete solo che le ultime due settimane che passerete a casa saranno un inferno per entrambi, invece di approfittarne per godervele insieme. E che gli prenda una vera ossessione del biberon. Uscire di casa per otto ore in modo che il bambino capisca che non c’è il seno e accetti così il biberon dalle mani della nonna? In questo caso a che serve avere sedici settimane di permesso, se alla quattordicesima o alla dodicesima si esce di casa per lasciare il bimbo alla nonna? Per stare otto ore in strada a perdere tempo, tanto vale andare a lavorare, che almeno vi rendete utili.


Non cercate di abituare vostro figlio. Il giorno in cui inizierete a lavorare si vedrà quel che potrà succedere. Se vostro figlio dorme tranquillo, che lo lascino in pace. Se si sveglia ed è contento, che giochino con lui. Se si sveglia e sembra aver fame, che provino a dargli quel che era stato previsto, il bicchiere, il biberon o il cucchiaio. Se mangia, bene, se non mangia, va bene lo stesso; segno che non ha molta fame e preferisce aspettare che torni la mamma.

Togliersi il latte

Togliersi il latte è un’arte. Pensate che sareste in grado di mungere una mucca? Beh, mungere una donna (anche se si tratta di voi stesse), non è più facile. È qualcosa che si può fare rapidamente e comodamente quando si è capaci, ma che risulta un po’ complicato imparare. Conviene che iniziate a fare pratica almeno un paio di settimane prima del giorno x.


Potete togliervi il latte a mano o con un tiralatte. Farlo a mano ha grandi vantaggi: non dovete comprare il tiralatte, e neppure lavarlo. Potete farlo in qualsiasi luogo. Le mamme che hanno utilizzato ambedue i metodi dicono, di solito, che a mano è più facile e fa meno male. L’unico inconveniente è che bisogna imparare, e che nella nostra società tecnologizzata sembra che l’uso di un aggeggio sia considerato una cosa più seria, e poi parecchie persone sono terrorizzate al pensiero di togliersi il latte a mano.


Quando leggerete tutto il procedimento probabilmente lo troverete abbastanza complicato. Ricordate che sarà tutto molto più semplice se prenderete un periodo di permesso non retribuito e quindi tornerete a lavorare quando vostro figlio sarà un po’ più grande e mangerà anche altre cose.


Qui si sta parlando di mamme che vanno a lavorare, di bambini sani di qualche mese d’età che continuano ad alimentarsi per lo più con poppate al seno. La situazione è un po’ diversa quando si tratta di un prematuro o di un bimbo malato o ricoverato; se questo è il vostro caso, fate le cose come vi hanno spiegato nel vostro ospedale.

L’estrazione del latte

Lavatevi le mani. Non è necessario lavarvi il seno, a meno che non sia particolarmente sporco per qualche motivo. Come prima cosa conviene fare un massaggio dolce a tutto il seno, dalla base al capezzolo. Alcune donne con il seno molto grande si inclinano in avanti e lo scuotono con la mano. Toccando il capezzolo (meglio sopra i vestiti, perché il dito, anche se è lavato, ha molti più microbi del capezzolo) si stimola il riflesso di eiezione. Se non avete vostro figlio vicino, potrebbe essere utile guardare una sua foto o qualche vestito che ve lo ricordi, questo contribuisce a stimolare il riflesso.


Per togliersi il latte a mano, posizionate il pollice e le altre dita, in modo che formino una C, a un paio di centimetri dalla base del capezzolo (cosa che in molte donne significa fuori dall’areola, ma in altre no, perché hanno l’areola molto grande). Premete con le dita prima all’indietro (verso le costole) e poi, unendole, comprimete il seno tra il pollice e l’indice. Non conviene far scivolare le dita sulla pelle (finireste per irritarla). Spostate le dita, muovetele di nuovo su tutto il seno e ripetete l’operazione mentre esce il latte. Quando vi accorgete che il latte, da quel lato, è quasi ultimato, cambiate seno. È probabile che possiate conoscere un’altra mamma che possa darvi una dimostrazione, chiedendo ad altre madri o alla vostra ostetrica.


Se preferite usare il tiralatte, ce ne sono di diversi tipi. Alcuni manuali, che assomigliano a una siringa gigante con uno stantuffo che entra ed esce, altri a pile, o elettrici, di piccole dimensioni, che si possono affittare in molte farmacie o presso gruppi di madri. Negli ospedali a volte ne hanno di elettrici, di grandi dimensioni, che non si possono utilizzare privatamente, perché sono carissimi. E per ogni tipo potrete trovare diverse case di produzione. Informatevi presso altre mamme su quali modelli hanno utilizzato e se ne sono rimaste soddisfatte. Leggete le istruzioni che troverete nella confezione del tiralatte; sarebbe anche utile parlare con un’altra mamma che ha già utilizzato quello stesso modello.


Esiste un tipo di tiralatte che sconsigliamo in assoluto: quello che ha la forma di una trombetta per la bicicletta, con una pera di gomma che bisogna premere e lasciare. Quasi tutte le mamme che lo hanno usato concordano sul fatto che faccia molto male ed estragga poco latte.


Sia a mano che col tiralatte, è normale che il primo giorno non estraiate nulla. Soprattutto, non fatevi prendere dal panico. Da alcune mamme ho sentito dire: “Non ho latte, perché ho provato col tiralatte e non è uscito niente”, e di fianco il bambino grassoccio come un piccolo buddha, che sta a dimostrare chiaramente che qualcosa ha mangiato. Se non esce latte, non significa che non ce l’avete, ma che non sapete togliervelo; per questo bisogna cominciare un paio di settimane prima.


Non massacratevi il seno. È meglio farlo molte volte al giorno (cinque, otto, quante potete), e ogni volta solo per cinque o dieci minuti, piuttosto che stare per un’ora di seguito (che è quel che accadrebbe se il primo giorno diceste: “Io di qui non mi muovo finché non me ne sono tolta 100 millilitri”…e dopo un’ora non ne avrete estratto neanche un poco). No, il primo giorno l’unico obiettivo ragionevole è toglierne qualche goccia, se avete fortuna pochi millilitri; se per caso, invece, esce molto latte e con grande facilità, magnifico, fortuna vostra. La facilità con cui una donna si toglie più o meno latte non ha nulla a che vedere con la quantità di latte né con la facilità con cui succhia il latte vostro figlio poppando (vostro figlio lo fa mille volte meglio di voi, non dubitate).


I primi giorni, le quattro gocce che estrarrete potete buttarle (o metterle nel caffè). Quando inizierete a toglierne una quantità decente, 40 o 50 millilitri per volta, potrete iniziare a congelarlo.


Di solito si estrae il latte di oggi per il giorno dopo. In questo caso il latte si conserva in frigo, senza congelarlo. Quello che non pensate di usare il giorno seguente si congela per le emergenze (se per caso un giorno non riuscite a toglierne una quantità sufficiente, o se vostro figlio si sveglia con una fame da lupi e finisce tutto). Se dovete metter mano alla riserva congelata, potrete rifornirla con il latte che toglierete il venerdì e il sabato.


In quale momento togliervi il latte? Quando vi risulta più comodo. Alcune mamme se lo tolgono sul lavoro e lo portano a casa ogni giorno. Per questo avrete bisogno di un posto pulito e tranquillo, del tempo necessario per farlo (potete sfruttare la vostra ora d’allattamento, suddivisa in due intervalli di mezz’ora), di un frigo o di un frigo portatile in cui lasciare il latte estratto (con garanzie d’igiene, non deve essere un contenitore aperto e chiuso da dozzine di persone, o in cui si conservano cose che non vorreste vedere mischiate al latte), e di una borsa termica portatile per trasportarlo, specialmente con un clima caldo (di solito bastano quelle borse per surgelati, in cui si mette anche un sacchetto di ghiaccio).


Altre mamme non possono o non vogliono togliersi il latte sul lavoro, o se ne tolgono un po’ solo se i seni sono troppo gonfi, ma poi il latte va buttato se l’operazione è svolta nel lavandino, e per la verità… Non preoccupatevi, potete anche togliervi il latte a casa ogni giorno. In linea di principio, è indifferente che sia prima o dopo la suzione, o tra poppata e poppata. Come è più comodo ed efficace per voi. Se siete già padrone della tecnica e riuscite con le mani, la cosa più semplice può essere togliersi il latte da un seno mentre il bambino poppa dall’altro; in questo modo potete approfittare del riflesso dell’ossitocina e il latte uscirà rapidamente. Poi cambiate parte; potete dare a vostro figlio il seno da cui avete appena tolto il latte (ne rimane sempre una piccola quantità, e si tratta proprio del latte più calorico), e potete provare a togliervelo dal seno da cui si è appena staccato il bambino (normalmente, anche da lì esce qualcosa).


Se si estrae il latte appena dopo la poppata, asciugate prima la saliva sul seno.


Alcune donne tolgono in una volta il latte di cui hanno bisogno. Altre ripetono l’operazione due, tre o più volte durante la giornata. Ricordate che togliersi il latte è come allattare: se lo fate più volte, uscirà più latte. Se escono, diciamo, 50 ml facilmente, ma per arrivare a 100 dovete premere molto e impiegare troppo tempo, non vale la pena; è meglio toglierne 50 ml adesso e altri 50 fra una o due ore.


Non è necessario bollire o sterilizzare il tiralatte o i recipienti in cui si conserva il latte. Bisogna solo pulirli normalmente, come si lavano piatti, bicchieri e posate con cui mangiano vostro figlio e il resto della famiglia. Se il tiralatte ha tubi o parti attorcigliate che non riuscite a pulire con uno strofinaccio, è importante lavarli con acqua abbondante immediatamente dopo l’uso, perché non rimangano residui secchi.


Vi suggerisco un paio di video interessanti che riguardano l’estrazione manuale del latte:


https://youtu.be/m3t8vOS--Qs


https://youtu.be/JXJpHFIIcA8

Una banca del latte?

Alcune madri credono sia necessario mettere da parte grandi quantità di latte congelato per avere una sorta di “banca del latte” privata che verrà progressivamente consumata mentre sono al lavoro, fino a terminare tutte le scorte. No, no, e ancora no. È una soluzione poco pratica, inefficace e può dare dei problemi. Ricordatevi come funziona il seno: ogni giorno produce solo la quantità di latte che gli viene estratta (sia dal bambino che dal tiralatte). Se un bambino poppa 700 ml di latte al giorno, e in più la madre se ne toglie altri 200 per congelarli, il seno produce in totale 900 ml. Se, dunque, la madre inizia a lavorare e non si toglie più il latte, e durante la sua assenza al bambino vengono dati i 200 ml di latte scongelato, alla fine il bambino popperà solo altri 500 ml di latte al giorno, e il seno passerà da un giorno all’altro a produrre da 900 a 500 ml, cosa che può provocare fastidi o addirittura mastite.


No, il segreto non è accumulare scorte di latte congelato per mesi, ma togliersi ogni giorno il latte per il giorno successivo e poi tenerlo in frigorifero senza congelarlo. In questo modo il seno continua a produrre 700 ml di latte al giorno, di cui 500 ml sono poppati direttamente dal bambino e 200 ml vengono estratti dalla madre e sono pronti da dare al bambino il giorno successivo (queste cifre sono indicative; a seconda del vostro orario di lavoro e dei desideri del vostro bambino capirete da sole quanto latte prende di solito durante la vostra assenza).


Il fatto di cominciare a togliervi il latte con qualche settimana di anticipo non è per accumularne una gran quantità, ma è solo per imparare la tecnica. E il latte che vi siete tolte in quel periodo va conservato nel congelatore, ma sarà solo per le emergenze, per esempio se un giorno rientrate tardi dal lavoro o se la nonna rovescia il latte per terra, perché tutto può succedere. La riserva d’emergenza si può conservare insieme al latte che vi togliete il venerdì e il sabato.

Conservazione del latte

Si è discusso molto per capire se è meglio conservare il latte materno in recipienti di plastica o di vetro. Leggerete che le cellule aderiscono qui e le immunoglobuline aderiscono là. In realtà, non ha alcuna importanza; anche se il latte materno perde una parte delle sue immunoglobuline, continua ad essere di gran lunga migliore rispetto al latte artificiale, che non ne ha mai avute. Utilizzate vetro o plastica, quel che avete a portata di mano. L’importante è che siano recipienti facili da pulire, col tappo e che, se sono di plastica, siano per uso alimentare (hanno marchiato il simbolo del bicchiere e della forchetta). La capacità del recipiente dovrebbe essere sufficiente per un’intera poppata, all’incirca da 150 a 200 millilitri. Se sono meno capienti, non importa, potete usarne in numero maggiore; ma se sono troppo grandi non li riempirete e inoltre occuperanno molto spazio nel frigo. Metteteci un’etichetta con la data dell’estrazione.


Il latte materno si può conservare in frigorifero, senza bisogno di congelarlo, fino a cinque giorni. In effetti, in questo tempo è meglio tenerlo scongelato, perché così le immunoglobuline e altri fattori attaccano i microbi che, invece di aumentare, diminuiscono. Ma normalmente lo conserverete solo uno o due giorni. È usuale togliersi ogni giorno, da domenica a giovedì, il latte per il giorno seguente, e avere una piccola riserva congelata nel caso in cui, un giorno, non siate riuscite ad estrarne a sufficienza o che il bambino abbia più fame del solito. Questa riserva si accumula durante il periodo di pratica, prima di iniziare a lavorare. Se consumate la riserva congelata, potete rifornirla con il latte del venerdì e del sabato.


Se vi togliete il latte più volte al giorno, potete metterlo nello stesso recipiente, aggiungendolo a quello che già c’è in frigorifero o a quello congelato. Si possono conservare nello stesso recipiente solo estrazioni effettuate nella stessa giornata; iniziate ogni giorno una nuova bottiglia. Se il latte è da congelare, conviene utilizzare bottiglie ancora più piccole, da meno di 100 ml, anche se dovrete riempirne un numero maggiore nella stessa giornata. Proprio perché è per emergenze, si suppone che non ne avrete bisogno di una grande quantità all’improvviso. Se vostro figlio ne prende, come sempre, 150 millilitri ed è ancora affamato, non ne prenderà ancora 150, ma solo un poco di più. E se doveste scongelare un recipiente grande, dovreste buttare (o bere voi stesse) il latte avanzato.


La durata del latte congelato dipende dalla potenza del vostro congelatore. Di norma, dura più di quel che durerebbe una bistecca di vitello nello stesso congelatore. Si tratta di carne morta, che è stata toccata da molta gente nel mattatoio, nel camion, nel magazzino, in negozio… quando la congelate è già piena di microbi. Il latte invece, se lo spremete e lo congelate, è già carico di immunoglobuline.


Il latte di alcune donne si altera se è stato congelato da qualche giorno, e assume uno strano odore, come di grasso rancido. Questo è dovuto al fatto che la lipasi (un enzima digestivo, che si trova nello stesso latte per facilitare la digestione del bambino) agisce sui grassi e inizia a digerirli. Non fa male, ma può essere che il bambino non ne apprezzi il sapore. Il problema si può evitare scaldando il latte subito dopo esserselo tolto (scaldatelo sul fuoco fino a che non inizia a fare bollicine ai lati del pentolino, ma senza farlo bollire completamente, e raffreddatelo di nuovo immediatamente. In questo modo dovrebbe essere stato scaldato all’incirca a 80°C).


Pardou A, Serruys E, Mascart-Lemone F, Dramaix M, Vis HL, Human milk banking: influence of storage processes and of bacterial contamination on some milk constituents, in “Biol Neonate”, num. 65, 1994, pp. 302-309.

Come scaldare il latte

In alcuni testi si raccomanda di scongelare il latte lentamente, togliendolo dal congelatore il giorno prima e lasciandolo in frigo. Non mi è mai sembrato molto ragionevole; in primo luogo, significa che per un giorno intero il latte rimane mezzo scongelato, e pertanto la conservazione non risulta perfetta; in secondo luogo, se il latte congelato è per le emergenze, come potete prevederlo il giorno prima?


Per scongelare il latte rapidamente, alcuni testi raccomandano di mettere la bottiglia sotto il rubinetto aperto, all’inizio sotto l’acqua fredda, facendola poi diventare gradualmente più calda. Questo modo di scongelare richiede di tenere il rubinetto aperto per molto tempo, e quindi di consumare una tale quantità di gas, e soprattutto di acqua, che porta a un autentico delitto ecologico.


Abbiamo consigliato di scongelare a bagnomaria, ma col fuoco spento. Ovvero, scaldare dell’acqua in un recipiente, e quando è mediamente calda (che ci si possa immergere la mano senza scottarsi), spegnere il fuoco e metterci la bottiglia del latte. Se l’acqua fosse troppo calda una bottiglia di vetro gelato potrebbe rompersi per il brusco cambio di temperatura. Questo metodo è efficace, rapido ed ecologico, ma non lo consigliamo più per paura di incidenti. Dato che la madre non è presente, tocca alla nonna (che ha i riflessi piuttosto rallentati) o al papà (un mago in cucina) scongelare il latte, spesso mentre il bambino sta piangendo per la fame e questo potrebbe innervosirli. Cercando di consolare il piccolo con una mano mentre con l’altra si scalda il latte, può succedere che il bambino si scotti con l’acqua calda, o tocchi il fornello spento ma ancora caldo…


Per tutto quanto detto, il metodo che si raccomanda, rapido, ecologico e a prova di incidenti, è scongelare con l’acqua calda del rubinetto, senza accendere il fuoco. Riempite un grosso recipiente con acqua calda, immergete la bottiglia del latte e aspettate. Se l’acqua si raffredda cambiatela più volte, al bisogno.


Si può anche scongelare o riscaldare il latte nel microonde. Alcuni testi lo sconsigliano, perché si perdono le immunoglobuline; ma solo in parte, e in ogni caso, anche il latte artificiale non possiede immunoglobuline. Non è così importante se un bambino più grande, durante una delle poppate della giornata, assume meno immunoglobuline (ben diverso il caso di un prematuro, che ha tanto bisogno di queste difese e che si nutre solo di latte scongelato). Se il latte viene scaldato solo alla temperatura adeguata, senza arrivare a farlo bollire, l’alterazione è molto bassa. In realtà, nel microonde il grave problema non è l’alterazione della composizione del latte, ma le bruciature che si possono procurare. Il microonde è l’unico metodo che permette di scaldare maggiormente il centro di un oggetto rispetto alla sua superficie; e inoltre il riscaldamento è irregolare, una parte può essere molto più calda di un’altra. In concreto, un biberon può essere tiepido quando lo si prende in mano, ma parte del latte che contiene può essere quasi in ebollizione. Quando sono comparsi i microonde, e non se ne conosceva molto bene il funzionamento, si presentarono alcuni casi di bruciature in bocca e nell’esofago, e gli esperti raccomandavano di non scaldare mai un biberon nel microonde, che si trattasse di latte artificiale oppure materno.


Però se si utilizza con prudenza non ci sono problemi. Ricordate che se la quantità di liquido è maggiore, pur utilizzando la stessa potenza e lo stesso tempo di una quantità normale, il liquido risulta meno caldo. È meglio usare una potenza media o bassa, perché in questo modo, avendo più tempo per riscaldare, ci si può regolare meglio. Scaldate per poco tempo, verificate la temperatura, continuate a scaldare se necessario. Soprattutto, prima di dare il latte al bambino, è importante agitare bene il recipiente per un momento, perché tutto diventi della stessa temperatura e accertarsene versandosene qualche goccia sul dorso della mano, come da sempre si controlla la temperatura dei biberon.


Una volta scongelato, il latte si deve consumare entro ventiquattro ore.

Come somministrare il latte

È normale che il latte materno si separi e la panna resti a galla. Basta agitare il recipiente.


Alcuni bambini prendono il latte della mamma con il biberon, e poi si attaccano al seno e sono in grado di fare tutto senza problemi. Ma alcuni, anche dopo essere stati allattati al seno per mesi, abituandosi male con il biberon, iniziano a poppare in posizione scorretta, cosa che può provocare un rifiuto del seno, dolore ai capezzoli, ragadi. E ci sono anche moltissimi bambini che, abituati al seno, non vogliono il biberon e immediatamente lo rifiutano.


Tra le varie opzioni, il biberon non è di solito la migliore. Potete usarlo, se volete, ma probabilmente vi risulterà più semplice dare il latte con un bicchierino. Sentirete anche parlare del cucchiaino, della siringa o del contagocce; questi metodi possono risultare utili per una piccola quantità di supplemento a un neonato; ma dare 150 ml o più a un bimbo grandicello con un cucchiaino può essere esasperante.


Far bere un bambino da un bicchiere suona strano nella nostra cultura, ed è probabile che amiche e nonne rimangano sbalordite. Ma si può fare. In alcuni Paesi è normale dare il latte con il bicchiere ai bambini ricoverati in ospedale, incluso i prematuri. In alcuni studi si è dimostrato che, quando le infermiere conoscono bene la tecnica, i prematuri prendono il latte più in fretta e ne disperdono meno con un bicchierino che non con un biberon (in altri esperimenti si è verificato il contrario, credo perché le infermiere non erano ben preparate).


L’ideale sarebbe utilizzare un piccolo recipiente con un becco ricurvo, come un mestolo o uno spremilimoni, ma molto più piccolo. In India utilizzano un recipiente tradizionale con questo stile, chiamato paladai (fig. 13). Se per caso trovate in vendita un recipiente simile, magari un mestolo per le bambole… se no, un semplice bicchierino di quelli da vino o da liquore, può servire.


Per prima cosa bisogna sostenere il bambino bene in verticale. Se siete destre, probabilmente la cosa più pratica sarà tenerlo sulla vostra coscia sinistra e sorreggerlo con il braccio sinistro mentre gli date il latte con la mano destra. Il bicchierino, mezzo pieno, si inserisce bene nella bocca del bimbo, toccando le commessure. Non limitatevi ad appoggiare il bordo del bicchiere al labbro; così è più facile che vada tutto fuori. Una volta posizionato bene, alzate il bicchiere fino a che il livello del latte arrivi all’orlo. Alcuni bimbi bevono come persone adulte; altri bevono come i gatti, con la lingua.


Potete trovare un video all’indirizzo: https://youtu.be/POUdYDvNPck


Ho descritto il procedimento come se lo doveste fare voi; ma in realtà è un’altra persona che lo deve applicare mentre voi siete al lavoro. Come dicevamo prima per i biberon, non è necessario né conveniente che abituiate vostro figlio al bicchierino prima di ritornare a lavorare, ma è invece necessario che spieghiate bene il trucco alla nonna o alla persona che gli darà il latte.


La quantità è quella che il bambino vuole. Il latte che avanza nel biberon o nel bicchiere è mischiato alla saliva e diventa una coltivazione di microbi, quindi è bene non conservarlo. Per questo è consigliabile non aggiungere più latte di quel che di solito il bimbo prende; è meglio dargliene 50 ml, e se li termina, altri 50, piuttosto che prepararne 200, di cui ne prende solo 50 addormentandosi, voi buttate il latte avanzato e dopo due ore si risveglia chiedendone ancora.


Se il bimbo sembra affamato, ma non riesce a prendere né il bicchiere né il biberon, potete provare ad addensare il latte con dei cereali e a darglielo con il cucchiaino. Questo trucco serve anche per allungare il latte nel caso, un giorno, non ce ne fosse a sufficienza nel frigo. Se il bambino rifiuta bicchiere e biberon, e non sembra neanche affamato, ricordate che è normale, e che non bisogna preoccuparsi e insistere.

Questioni politiche

In Spagna, il permesso di maternità dura solo sedici settimane. Di fatto però la legge ne garantisce solo sei. Il convegno C103 dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro del 1952 raccomandava un permesso di dodici settimane, così che sedici non andavano poi tanto male. Ma il nuovo convegno C183 del 2000 (che il governo spagnolo non ha ancora ratificato nel 2017, e non so cosa stiano aspettando) ne consiglia quattordici, e la raccomandazione annessa R191 aggiunge che “i Membri dovrebbero cercare di estendere la durata del congedo di maternità, menzionata nell’articolo 4 del Convegno, almeno a diciotto settimane”. Ma in Spagna, la legge di conciliazione della vita familiare e lavorativa, del 1999, stabilisce che solamente sei delle sedici settimane sono obbligatorie, e che le altre dieci potrebbero essere usate dal padre invece che dalla madre. Per cui, lungi dal raggiungere le diciotto settimane che quasi tutti i Paesi europei superano ampiamente, abbiamo solo sei settimane di permesso realmente garantite.


Naturalmente l’idea si presentava (e in apparenza fu accettata) come un gran passo avanti nella liberazione della donna. Alla fine saremmo tutti uguali, e i padri così parteciperebbero in prima persona alla cura dei figli.


Ma come può essere una liberazione se ti tolgono i diritti? Perché l’uguaglianza non consiste nel concedere sedici settimane di permesso al padre, considerato ora come la madre, ma nel toglierle alla madre per darle al marito. Si cercava di imitare un modello simile a quello che avevano utilizzato gli svedesi qualche anno prima, ma in circostanze molto diverse. In Svezia, il permesso di maternità dura ventidue mesi, così sì che si può dividere!


Il fatto che le sedici settimane non siano più obbligatorie non rappresenta nessuna conquista, nessuna liberazione. Lavoratore e datore di lavoro non negoziano a parità di condizioni, il datore ha molta più forza nell’imporre la sua volontà. Per questo tutti i diritti del lavoratore devono essere diritti obbligatori, fissati dalla legge: è obbligatoria la giornata lavorativa, è obbligatorio lo stipendio, sono obbligatorie le vacanze e le retribuzioni per gli straordinari. Se la settimana di quaranta ore o il mese di vacanza non fossero obbligatori, se il lavoratore potesse volontariamente scegliere una settimana di cinquanta ore (prendendo gli stessi soldi) o una vacanza di due settimane soltanto, vi immaginate le pressioni che subirebbe? Alcune donne già ne subiscono: “Non mi dire che ti prendi le sedici settimane intere. Sai come stiamo al lavoro, non trovo nessuno che ti sostituisca. Puoi tornare fra due mesi, e il resto fallo fare a tuo marito. Ricordati che dobbiamo parlare di quella eventuale promozione…”. Da parte sua, il padre può ricevere le stesse pressioni: “Come, un mese di permesso di paternità? Non uscire con queste stupidate, queste sono cose da donne! Sì, lo so, hai un diritto legale, ma poi non chiedermi favori…”.


Nel 2009, sempre in Spagna, un gruppo di professionisti ha lanciato il manifesto Più tempo con i figli: chiediamo due anni di maternità/paternità garantiti dalle autorità dello Stato. Sembra che ora la campagna non sia molto attiva, ma il suo sito web contiene documenti molto interessanti sul tema: http://mastiempoconloshijos.blogspot.com.es.


Ho spiegato, come vogliono i sacri canoni, la maniera per togliersi il latte e conservarlo nel frigorifero, come congelarlo e scongelarlo… ma non sono ancora convinto.


A volte il togliersi il latte si presenta come la soluzione che permette di conciliare il lavoro con l’allattamento, che permette alla madre che lavora di continuare ad allattare il proprio figlio. Molte volte l’ho letto, molte volte l’ho ripetuto… L’importanza di un intervallo per togliersi il latte nel bel mezzo del lavoro, un frigo, un nido nell’azienda.


Fino a che un giorno si è svegliata la mia indignazione. Che soluzione è mai questa? Sembra più una presa in giro. È come dire a una madre: “Lasci qui nel frigo il suo latte, che è quel che conta, e poi può andare, suo figlio starà benissimo, nutrito con latte materno”. Come se il latte fosse l’unica cosa (o la più importante) che una madre dà al proprio figlio.


Ma no, signori. Si suppone che io sia un fanatico dell’allattamento; ma se io fossi il bambino, preferirei che mamma rimanesse a casa e mi desse il biberon piuttosto che se ne andasse e fosse un’altra persona a darmi il latte materno. Togliersi il latte non è una soluzione, ma solo una piccola toppa per un grave problema socioeconomico, per un’organizzazione del lavoro assolutamente pervertita che ha messo le necessità dei bambini e delle mamme all’ultimo posto nella lista delle priorità.


Certo in molti casi non c’è altro rimedio se non separarsi dal bambino; e in questi casi togliersi il latte può essere utile. Ma non dobbiamo dire che è una soluzione, perché allora smetteremmo (e smetterebbe chi ci governa) di cercare veramente una soluzione. Perché allungare il permesso di maternità, se è molto più economico distribuire volantini spiegando come si toglie il latte?


OIT. C103 Convegno sulla protezione della maternità, 1952.


http://www.ilo.org/dyn/normlex/es/f?p=1000:12000


OIT. C183 Convegno sulla protezione della maternità, 2000.


http://www.ilo.org/dyn/normlex/es/f?p=1000:12000


Raccomandazione R191 sulla protezione della maternità, 2000.


http://www.ilo.org/dyn/normlex/es/f?p=1000:12010


Legge 39/1999, del 5 Novembre, per promuovere la conciliazione della vita familiare e lavorativa dei lavoratori.


https://www.boe.es/buscar/act.php?id=BOE-A-1999-21568

Un dono per tutta la vita - Seconda edizione
Un dono per tutta la vita - Seconda edizione
Carlos González
Guida all’allattamento materno.Un vademecum indispensabile, con tante informazioni pratiche per aiutare le madri che desiderano allattare a farlo senza stress e con soddisfazione. Dopo i bestseller Bésame mucho e Il mio bambino non mi mangia, Carlos González, in una seconda edizione ampliata e aggiornata, con Un dono per tutta la vita torna a parlare di una delle sue grandi passioni: la difesa dell’allattamento materno.Il suo obiettivo non è convincere le madri ad allattare, né dimostrare che allattare al seno sia meglio, bensì offrire informazioni pratiche per aiutare quelle mamme che desiderino allattare a farlo senza stress e con soddisfazione.Nel seno, oltre al cibo, il bimbo cerca e trova affetto, consolazione, calore, sicurezza e attenzione.Non è solo una questione di alimentazione: il bimbo reclama il seno perché vuole il calore di sua madre, la persona che conosce di più.Per questo motivo, la cosa importante non è contare le ore e i minuti o calcolare i millilitri di latte, ma il vincolo che si stabilisce tra i due, una sorta di continuazione del cordone ombelicale.L’allattamento è parte del ciclo sessuale della donna; per molte madri è un momento di pace, di soddisfazione profonda, in cui riconoscono di essere insostituibili e si sentono adorate.È un dono, sebbene sia difficile stabilire chi dia e chi riceva. Conosci l’autore Carlos González, laureato in Medicina presso l’Università Autonoma di Barcellona, si è formato come pediatra presso l'ospedale Sant Joan de Déu.Fondatore e presidente dell’Associazione Catalana per l’Allattamento Materno, tiene corsi sull’allattamento per personale sanitario e traduce libri sul tema. Dal 1996 è responsabile del consultorio sull’allattamento materno e da due anni cura la rubrica dedicata della rivista Ser Padres.È sposato, padre di tre figli e vive a Hospitalet de Llobregat, in provincia di Barcelona.