terza parte - capitolo ii

Il parto a domicilio:
l’esperienza di un’ostetrica

Sono figlia degli anni ’70, ma il ’68 già mi aveva dato la sua benedizione. Da adolescente ero impegnata politicamente e leggevo, sognavo come avrebbe potuto essere un mondo di pace e di uguaglianza a partire da una famiglia non repressiva. Erano gli anni del femminismo, dall’America arrivavano libri tipo Riprendiamoci il parto in cui le donne denunciavano la violenza del parto medicalizzato e ricominciavano a far nascere i loro piccoli a casa con ostetriche empiriche. Ina May Gaskin fondava The Farm, comune pacifista, dove iniziò la sua pratica e il suo studio da autodidatta come ostetrica.


Infine arrivò Leboyer col suo poetico e rivoluzionario Per una nascita senza violenza. Si era già scritto di quanto il nascere rappresentasse un trauma per noi tutti, ma non nei termini in cui lui riuscì a esprimerlo: è chi accoglie il bambino, con la sua insensibilità, con le sue pratiche inutili e routinarie, a violentarlo, anzichè proteggerlo.


A quel punto per me fu chiaro: avrei fatto l’ostetrica, assistendo a domicilio, in modo rispettoso, la donna e il suo compagno fin dalla gravidanza, al momento del parto e nei primi tempi di vita con il loro bambino. Da allora smisi di fare politica: l’amore e l’impegno nella professione sono diventate il mio contributo per un mondo nuovo concreto e possibile.


Per darvi un’idea di cosa significhi assistere a domicilio oggi, vi racconterò una “storia” che ricordo con un affetto particolare, perché riguarda mia nipote.


Francesca aveva 24 anni quando è rimasta incinta: il bambino non era programmato, ma era arrivato per amore. Fino a quel momento lei era una ragazza di vent’anni come tante: viveva ancora in famiglia, sotto l’ala dei genitori, lavorava fuori Bologna, la sera rientrava – doccia, cena e fuori a divertirsi… Ma com’è cambiata in fretta! Con Alex, il suo compagno, hanno deciso di metter su casa e in breve tempo sono andati a vivere insieme, pieni di entusiasmo e …di paure. Quante telefonate in quel periodo, quante confidenze: che fermento e che metamorfosi! La piccola Francesca per la prima volta responsabile di tante cose. Si è cercata un altro lavoro a Bologna: non ce la faceva più col pancione ad andare avanti e indietro in treno da Reggio Emilia e poi adesso aveva bisogno di altri ritmi, di rallentare, di ascoltare il suo cucciolo, di farsi coccolare da Alex. La gravidanza procedeva bene, a vent’anni non se ne sente il peso: i suoi occhi erano pieni di luce, il viso disteso, il suo sorriso sempre più dolce, quel bambino la stava portando in uno stato di grazia.


Ma all’ecografia morfologica (21 settimana) riscontrano delle cisti del plesso corioideo (a livello cerebrale) di dimensioni tali da richiedere una funicolocentesi urgente. A lei e a tutti noi crolla il mondo addosso, quello che era stato fino a quel momento un sogno si trasforma in incubo. Francesca e Alex parlano con i medici della Patologia Prenatale: calcolando l’età di Francesca e la percentuale di frequenza del rischio che il bambino sia davvero affetto da tale patologia, è maggiore il rischio di aborto in seguito alla funicolocentesi. Tornano a casa e si documentano su Internet: nel peggiore dei casi il bambino vivrà solo un anno. Al telefono Francesca mi dice “Paola, io sento che il mio bambino sta bene! Ma, se dovessi sbagliarmi, vorrà dire che vivremo con lui solo per un anno”. Resto attonita, non riesco a capacitarmi della serenità, della dignità, del coraggio di quella che fino a ieri era una ragazzina. Ma le pressioni familiari sono forti e alla fine Francesca e Alex decidono di fare la funicolocentesi.


Francesca è sul lettino, le mettono i telini verdi, sterili sulla pancia, la disinfettano, stanno per cominciare: “NO! Non la voglio fare. Scusate NON POSSO!”


Nei mesi successivi era serena, il geco che aveva tatuato sul pancione si allungava ed estendeva a vista d’occhio: lo guardavamo e ridevamo. Io, a dire il vero, pregavo, sì pregavo un qualche Signore, perchè non infierisse su Francesca, che non le facesse patire un dolore così grande, che quel cucciolo che cresceva così tanto stesse davvero bene, come lei sentiva.


Intanto le mie amiche ostetriche non perdevano occasione per rassicurarmi: “Ma sei matta ad assistere tua nipote a casa, lo sai che non si fa, che alle amiche e ai parenti capita sempre qualche sfiga!” Anche in famiglia l’idea del parto in casa creava un po’ di tensione. Francesca e Alex erano convinti, io mi tranquillizzavo da sola ogni volta che accarezzavo quel pancione e sentivo i movimenti decisi e vigorosi del piccolo e Francesca mi sorrideva complice: “Lo senti!? È forte!”


Si avvicinava il giorno del parto, ma non c’erano grandi segni di preparazione. Avevo deciso, in cuor mio, che non avrei fatto nulla per stimolare il travaglio se fosse andato oltre il termine; o iniziava spontaneamente, o saremmo andati in ospedale. Ma finalmente (quasi non ci speravo più) una mattina alle cinque Alex mi telefona: “Paola, ci siamo!” – “OK arrivo”. Mi metto in tangenziale, avviso per cellulare la collega che mi avrebbe fatto da seconda durante il parto e non mi accorgo che sono andata oltre l’ultima uscita: l’emozione gioca brutti scherzi! – Mi tocca entrare in autostrada e tornare indietro. Alex mi ritelefona: “Paola, ma dove sei? Francesca è in travaglio.” – “Tranquillo, sto arrivando. Stalle vicino tu: per un primo bambino ci vogliono molte ore, non preoccuparti, tutto OK”. Verso le sei e mezza sono a casa loro. Francesca mi sorride compiaciuta: “Hai visto!” Ha contrazioni energiche, regolari, il battito del bambino è perfetto. Francesca si lamenta appena, cammina, si sdraia sul fianco, ma si rialza subito, abbraccia Alex (lui è più teso: soffre del vederla soffrire). Finita la doglia Francesca si rilassa completamente, lo vedo dalle mani, dal viso, dalle labbra. Mi chiede se può andare in acqua: certo, c’è davvero molto fuoco in questo travaglio, immergersi nella vasca, in penombra, non può che aiutarla. Resta in bagno un paio d’ore, completamente concentrata in sé stessa, solo poche parole, qualche carezza e qualche bacio con Alex. Il tempo si è fermato, c’è silenzio e profondo rispetto per ciò che si sta compiendo: noi siamo solo testimoni, presenti con tutti noi stessi, un unico respiro calmo e profondo, un senso di meraviglia e di gratitudine pervade questa casa.


Chiamo la collega: il travaglio è veloce, ho previsto un bambino sui 4 chili, il periodo espulsivo richiederà un po’ di tempo, ma intanto, che venga.


Francesca esce dall’acqua, i dolori sono potenti, è un fuscello in balia della tempesta, ma aderisce pneumaticamente alle contrazioni e si lascia trasportare senza opporre resistenza. Dopo una mezz’ora inizia a sentire il premito. Richiamo la collega: “Sbrigati, il bambino vuole nascere” – ”Non posso, sono bloccata in tangenziale, è il primo giorno di fiera, anche l’autostrada è bloccata”. Francesca nel frattempo ci chiede di chiamare sua madre e sua sorella, che ci tenevano a esserci – che vengano pure, adesso che sta per nascere. È mezzogiorno, solo sua sorella Antonella, che è in motorino, riesce a glissare il traffico, anche mia cognata è rimasta bloccata. Francesca comincia a sentire bisogno di spingere, le chiedo di stare a carponi sul letto, di assecondare il premito solo quando è irrefrenabile: voglio che arrivi la seconda ostetrica, non mi và di assistere il parto da sola, non questo; il travaglio è andato splendidamente, senza problemi, ma con l’ansia che mi hanno messo tutti… C’è un angelo buono che protegge le donne e le ostetriche: suona il campanello, finalmente l’altra ostetrica è arrivata e dopo un po’ anche mia cognata ce la fa. È in tempo, il bambino non è ancora nato!


Povera Francesca, che pazienza, non ce la faceva più a trattenere le spinte. Prova in ginocchio sul letto, ma così non va. Abbiamo preparato lo sgabello: dà una spinta da seduta, Alex la sostiene e l’abbraccia da dietro: così va meglio, si riposa. Antonella fa qualche foto, mia cognata si siede per terra in un angolo, con tutta l’emozione e l’incredulità di una madre che vede la propria “bambina” che si fa donna e partorisce.


Con poche spinte il perineo si riempie, la testina affiora. “Brucia! Brucia da matti!”


“Hai ragione, tesoro, ma porta pazienza, ormai manca pochissimo, un paio di spinte e nasce. Sei bravissima, coraggio!” Mi accuccio davanti a lei e soffio sul perineo, come si fa coi bambini quando si sbucciano un ginocchio…


Esce la testa, o meglio la testolona, istintivamente guardo la collega, è uno sguardo d’intesa, il nostro: “E adesso le spalle…”. Il tempo di rigirarmi verso Francesca e le spalle si stanno già disimpegnando per conto loro, tutto quello che posso fare è accogliere questo meraviglioso torello tra le mani: è splendido. Lo appoggio sul cuscino, lo asciugo, è bello rosa, gli occhi sgranati che si guardano attorno. Francesca se lo prende in braccio, Alex da dietro abbraccia tutti e due. “Non ci credo, non è possibile” questo dice Francesca scoprendo il suo bambino, accarezzandolo delicatamente, sommersa da un coro di “Brava, sei stata bravissima!” – “Ma quanto è bello!?” – “È grandissimo” – Abbracci, qualche lacrima, una gioia incontenibile…In effetti il piccolo Pietro sta benissimo, pesa 4.400 grammi ed è stato cosi bravo da non fare neanche un graffio alla sua mamma.


Devo dire che nei mesi successivi nessuno ha mai fatto tanta pubblicità al parto in casa come mia cognata, che a suo tempo aveva partorito in clinica privata, con travaglio indotto, ecc., ecc… Non si sarebbe mai aspettata tanta semplicità, tanta intimità e serenità. La bisnonna poi non smetteva di farmi i complimenti, perché il bambino era proprio “perfetto”, non aveva neanche un “segnino”: povera donna, memore di tanti forcipi dei suoi tempi, se sapesse che tutto il mio merito è stato di prenderlo tra le mani e appoggiarlo sul cuscino…


Paola Chini, ostetrica (Bologna)

Sono qui con te - Seconda edizione
Sono qui con te - Seconda edizione
Elena Balsamo
L’arte del maternage.Uno sguardo nuovo e rivoluzionario sulla vita perinatale, per affrontare gravidanza, parto e primi mesi con il bambino con serenità e consapevolezza. Elena Balsamo offre uno sguardo nuovo e rivoluzionario sulla vita prenatale e sulla nascita.Nella prima parte l’autrice mira a esplorare le pratiche di maternage nelle diverse culture, mentre nella seconda offre al lettore un vero e proprio strumento terapeutico per rivedere la propria vita alla luce dell’esperienza intrauterina e del parto.Basato su un’accurata documentazione scientifica, Sono qui con te si rivolge ai genitori, nonché agli operatori socio-sanitari che desiderano comprendere meglio l’universo del maternage. Conosci l’autore Elena Balsamo, specialista in puericultura, si occupa di pratiche di maternage e lavora a sostegno della coppia madre-bambino nei periodi della gravidanza, del parto e dell'allattamento.Esperta di pedagogia Montessori, svolge attività di formazione per genitori e operatori in ambito educativo e sanitario.