Ero al supermercato, in un pomeriggio qualunque, e ho saputo che c’eri. Un attacco di nausea, al semplice odore del caffè, mi ha reso certa. Il test era scontato, utile ma superfluo.
Non ti aspettavo. Forse pensavo che non fosse più tempo per me. La tua sorellina cresceva, era la mia gioia senza fine. Ma adesso c’eri anche tu: la mia sorpresa, il mio regalo più grande.
Una strana malinconia però accompagnava i miei giorni, fino alla prima ecografia. Eccoti nel monitor, un oscuro puntino pulsante. Eri mio, eri tutto, eri vivo.
Dopo tre giorni, mi svegliai una mattina con un brutto presentimento. Non c’erano segnali evidenti che giustificassero alcun allarmismo. Fisicamente stavo bene, eppure sentivo che era successo qualcosa a te.
Dovetti convincere tuo padre ad accompagnarmi in ospedale, per lui ero la solita pessimista, che si preoccupava per un nonnulla. Invece, purtroppo, avevo ragione. In un’atmosfera irreale, nella penombra dello studio medico, mentre l’ecografo passava sulla mia pancia, fredda di gel, io ti cercavo sullo schermo, ma tu non c’eri più. Ti hanno cercato per minuti interminabili, ma io sapevo ormai che era tutto inutile. Senza darmi un segnale preciso eri andato via. Sedici millimetri di vita volano in un istante. Eri morto dentro di me e adesso volevano recidere l’ultimo nostro legame, perché non morissi anch’io.
Improvvisamente mi parve insopportabile averti dentro, ma l’idea che saresti finito tra i rifiuti, anonimo, indifeso, dimenticato, mi lacerava l’anima.
L’intervento, programmato per il pomeriggio, si svolse senza complicazioni. Ricordo, poco prima dell’anestesia, il chiacchiericcio delle infermiere che organizzavano una serata al pub, per la festa delle donne. Io avevo poco da festeggiare, capivo che nessuno avrebbe potuto condividere il mio dramma, a tutti sembrava un incidente di poco conto, facilmente rimediabile, bastava tentare ancora e sarei di nuovo rimasta incinta.
Niente nella vita è ripetibile. È uno spettacolo all’impronta, senza copione, e se muore un personaggio, esce di scena per sempre e non viene rimpiazzato come nelle soap-opera. Tu non c’eri più e, se anche la sorte avesse voluto regalarmi un’altra maternità, tu saresti rimasto unico.
Volevo darti un nome, un’identità. Dall’esame del DNA hanno scoperto che eri un maschio, io l’ho sempre saputo. Mi hanno detto che avevi delle anomalie genetiche che ti avrebbero impedito, una volta nato, ogni possibilità di sopravvivenza.
Per me tu, chiamato da tutti ‘feto’, sarai per sempre Jacopo, l’angioletto a cui non è stata concessa la possibilità di vedere la luce, il volto di sua madre, di assaggiare il sapore dolce del suo latte.
Passarono i mesi nel tentativo di dimenticare, nella convinzione che la dolorosa esperienza vissuta avrebbe dovuto insegnarmi qualcosa, il tragico avvertimento che il mio orologio biologico stava perdendo colpi.
Mai più. Mai più mi sarei esposta a gravidanze a rischio.
Mi sentivo già fortunata ad avere una bimba sana e bellissima, bastava così. Forse era meglio tornare al lavoro, ritagliare più spazi per me stessa, ora che mia figlia stava diventando sempre più autonoma.
Invece no. Ancora una volta il destino sparpaglia le carte e imprime svolte incredibili a percorsi già tracciati. Aspettavo un bambino.
Non ero mai stata tanto terrorizzata. A ogni ecografia, per nove mesi, ho tremato.
Finalmente Samuele Jacopo è nato, sano e forte.
Ora ha sette anni, è un bambino solare e vivacissimo. E una sua frase mi ha sconvolto. In auto, fermi a un semaforo, ascoltiamo la radio. Mio figlio a un certo punto mi chiede di raccontargli com’era da piccolo. Non è la prima volta, è una sua curiosità ricorrente, fa sempre domande su com’è nato, se era bello o brutto, se mangiava tanto o poco, non ho dato quindi importanza ai suoi ennesimi interrogativi.
Imprevedibile come solo i bambini sanno essere, a un certo punto, esclama: “Io so che ho cercato di nascere la prima volta, ma non ci sono riuscito, poi ho tentato ancora e sono nato”.
Il semaforo è diventato verde e già le macchine dietro la mia strombazzano insofferenti, ma a me si è gelato il sangue e non riesco a inserire la prima.
Samuele non ha mai saputo del mio aborto spontaneo.
Cerco di abbozzare, provo a fare qualche altra domanda con malcelata indifferenza: “Perché non ci sei riuscito la prima volta?”
“Non lo so. Dovevo tornare. Mamma, perché io mi chiamo Samuele? A me piace di più Jacopo”.
A distanza di alcuni anni, dopo il divorzio da suo padre, forse conosco la risposta. Adesso so perché non era il momento giusto per nascere la prima volta. È legittimo pensare che si tratti di falsi convincimenti, di illusioni per lenire la sofferenza.
Una cosa so per certo: Samuele mi ha salvato la vita, dandomi una ragione per non ‘mollare’ fra mille difficoltà, facendomi sentire meno sola nel deserto lasciato dalle certezze perdute.
E devo a lui se ora ho ritrovato anche Jacopo.
Rossana