seconda parte - voci di mamme e papà

Perderlo nel primo trimestre

Un sogno appena sbocciato

Circa dodici anni fa scoprii di essere incinta. Una vera sorpresa, non pensavo potesse essere così facile. Ricordo ancora le parole del ginecologo che, indicando una macchiolina sullo schermo dell’ecografo, disse: “Ecco vostro figlio!”


Stupore, felicità e sgomento si alternavano nella mia mente. Mio padre mi regalò un giornale per mamme in attesa che conservo ancora oggi. Una settimana dopo, il sogno svanì: assenza di eco embrionale. Per molti giorni e molte ecografie ho sperato che qualcosa cambiasse. Ma nulla. Quel bimbo non è mai nato. Se fosse stata femmina mi sarebbe piaciuto chiamarla Alice.


Chissà oggi come sarebbe Alice. Questa domanda mi accompagna costantemente.


Come ogni figlio, Alice ha cambiato la mia vita e continua a cambiarla. Lei mi ha regalato un po’ di preziosa umiltà.


Anna

Mi hanno fatto il raschiamento martedì scorso.

Ero alla nona settimana di gravidanza. In occasione di un controllo ecografico mi è stato detto che il suo cuoricino si era fermato già dalla sesta settimana.


Le parole non bastano per spiegare il dolore che si prova… mio marito è ancora distrutto. Il dolore che provi quando metti la tua mano sulla pancia che aveva appena iniziato a crescere e ormai è tornata come prima. O la sofferenza nel riporre in valigia tutte le cosettine che avevamo già iniziato a comprare. Sai quando senti la tua anima lacerata o quando ti senti il cuore stringere e ti manca il respiro?


Dico a me stessa che ora si trova in Paradiso con tutti gli altri bimbi mai nati, ma mi manca tanto.


Non riesco a scrivere altro perché continuo a piangere per il mio piccolo.


Freedom

Essere mamma di un bimbo mai nato vuol dire, per chi non l’ha provato, non essere mai stata madre.


Ho desiderato un figlio quando ho conosciuto il mio compagno e ho dovuto attendere quasi due anni perché sul quel test comparissero due lineette rosa. Ricordo l’emozione, il respiro bloccato e il cuore in gola: la felicità.


Ero orgogliosa, una creatura cresceva dentro me!


Un giorno – tornavo dal lavoro e pensavo a quanto ero finalmente serena – sono entrata in casa, sono andata in bagno e… quella macchiolina di sangue…


Sono corsa in ospedale dove non hanno ritenuto ci fosse pericolo, un po’ di riposo e sarebbe andato tutto a posto: era giovedì 27 gennaio 2004.


Passavo le giornate a fare forza al mio cucciolo, gli dicevo che era un bimbo forte e che ce l’avrebbe fatta. Domenica 30 gennaio, stavo male: in ospedale mi fanno un’ecografia, vedo gli occhi del mio compagno riempirsi di lacrime. Si vedeva il cuore di nostro figlio! Tutto bene. Il pomeriggio sto peggio e torno in ospedale, trovo un macellaio a visitarmi, mio figlio è ancora vivo, ma il dottore urla da una stanza all’altra: “Signora, non s’illuda, in questi casi muoiono”.


Martedì, primo febbraio, non c’è più. Avrei voluto morire con lui.

“Meglio così, magari era deforme”.

“Se la natura ha scelto così…”.

“Ne avrai altri”.

“Non era ancora un essere umano”.


Mio figlio era morto e io non potevo piangerlo perché chi, come me, ha un angelo in cielo non viene capita; in fondo anche io non ritenevo così grande il dolore che si prova nel perdere un piccolo di poche settimane, ma è una ferita immensa che è ancora aperta e che, credo, non si chiuderà mai.


27 gennaio 2006: nasce Valerio, la mia gioia, il mio sole, ma ancora oggi mi trovo a piangere per quella stella mai nata.


Alessia

Quando la mia bambina aveva circa due anni abbiamo incominciato a pensare di darle un fratellino. La prima gravidanza era stata un sogno, e così il parto, per cui ho affrontato questa nuova attesa con entusiasmo e tranquillità. La prima ecografia aveva indicato che tutto andava bene, ma già al secondo controllo il ginecologo aveva assunto un’aria preoccupata: non si sentiva bene il battito, per cui avrei dovuto ripetere il controllo in ospedale.


Di quei giorni ho alcuni ricordi nettissimi. Il primo è di Vittoria, che era venuta con me, il giorno dell’ecografia, per vedere il fratellino nella pancia. Quando siamo tornate a casa dovevo avere un’aria sconvolta, nonostante il tentativo di sembrare normale, e mi ricordo che lei, seduta nel seggiolino sul sedile posteriore, legata con le sue cinture, si è sporta verso di me e toccandomi con una manina mi ha detto: “Mamma, pecché il fatellino non vuole veni-e con noi?”


E io ricordo benissimo di averle risposto: “Non lo so, tesoro, non lo so, forse non è ancora pronto a venirci a trovare”.


Il giorno dell’ecografia in ospedale, il responso era stato chiaro, il bambino non c’era, non c’era battito, era solo un piccolo feto, morto dentro al mio corpo.


Mi hanno fatto scendere in sala operatoria e dopo pochissimi minuti mi hanno addormentata anche se non sarebbe stato necessario. Sono stati gentili, per non farmi assistere da sveglia. Ricordo con precisione che mi avevano legato i polsi al lettino operatorio, e che l’ultima cosa che ho detto prima di addormentarmi è stata: “Ma potevate anche legarmeli fra un secondo, no?”


Quando mi sono svegliata avevo mal di pancia, ovviamente, e mi hanno portato in una camera da sola dove sono rimasta fino alla sera quando qualcuno – non ricordo chi – è venuto a prendermi.


Ho pianto, tanto, tantissimo. Non capivo perché quel bambino, che si chiamava GiovanBattista, detto Bacci – un nome molto comune nella Genova di un tempo – non avesse voluto venire con noi. Mi facevo anche io la stessa domanda di Vittoria. Perché? Cos’avevo che non andava come madre? Perché una figlia sì e un altro no? Cos’era successo, cosa avevo fatto di sbagliato?


Dopo molti anni avrei capito che forse da ogni cosa nasce qualcos’altro, come diceva mia madre, si chiude una porta e si apre un portone… Infatti quel giorno, quel pomeriggio, non so come fosse stato possibile che lo sapessero, alcune amiche di mia madre (morta parecchi anni prima), senza dirselo l’una con l’altra, vennero a trovarmi all’ospedale. Fu come una specie di processione, per tre o quattro ore, di donne più anziane di me che vennero a tenermi la mano, come avrebbe fatto mia madre se ci fosse stata. Quando chiesi perché erano venute, ognuna di loro mi rispose: “Perché ci sono passata anche io e so come ti senti. E anche mia sorella e la mamma, e mia cognata, e anche tre mie amiche…”. Domandai perché nessuno mi avesse avvertita della frequenza con la quale avvengono gli aborti spontanei, mi dissero che a una “sposina” non sta bene spiegare che i bambini possono morire e che i parti possono andare male e che le gravidanze possono interrompersi.


Nel mio cuore in quel periodo aveva preso forma una prima strana nota di ribellione. Le donne, su ogni cosa – ne ero certa – devono sapere.


Ora ho due figlie femmine e loro sanno che le cose non vanno sempre bene. Mi sembrerebbe di compiere male il mio dovere di madre se raccontassi loro una finta favola sullo stato delle cose. In fondo, un tempo, quando le bambine crescevano in un gruppo tribale allargato, prima di arrivare esse stesse al primo concepimento dovevano averne viste di cotte e di crude, bambini malformati o morti, sani e bellissimi, gravidanze meravigliose o finite male per madri e figli. Quindi, senza ovviamente esagerare (esistono modi molto onesti e tranquillizzanti per parlare di queste cose ai bambini), sono convinta che tutte le esperienze debbano essere trasmesse per aumentare la loro consapevolezza.


Carla

Poco dopo l’inizio di quest’anno ho scoperto di aspettare il secondo bebè. Eravamo molto felici, presto il nostro Federico avrebbe avuto qualcuno con cui giocare! Nonostante la nausea, la stanchezza e quei dolori che mi davano un po’ fastidio, ero così felice! Arriva il momento della prima ecografia e la ginecologa dice che il battito è un pochino lento, ma va tutto bene. Alla fine del primo trimestre, eccomi al controllo ecografico in ospedale, con me ci sono mio marito e Federico, ma la dottoressa dice che la gravidanza si è fermata. Sono rimasta zitta, per comprendere quello che mi era stato detto, poi finalmente io e mio marito abbiamo chiesto in che senso la gravidanza si era fermata… La dottoressa ha risposto che c’era stato un aborto interno. Io mi sono trattenuta, mi veniva da piangere. Il mattino seguente ho subìto il raschiamento. Ecco la mia storia, sono ancora un po’ scossa, ma devo andare avanti, lassù ho un angelo che ci osserva e ci protegge e gli vorremo sempre bene!


Ora ho paura a pensare a un’altra gravidanza…


Vanessa

C’è chi ha detto che dobbiamo superare delle prove agli occhi di Dio, che Dio non manda mai sofferenze più grandi di quanto una persona è in grado di sopportare ma non è una consolazione, solo chi soffre sa cosa si prova…


C’è chi dice che le cose accadono semplicemente e punto, che non sempre c’è una spiegazione. È vero, è proprio vero, ma chi ci passa non lo accetta…


Io non accetto di aver avuto tre aborti nel giro di sei mesi.

C’è chi dice: “Pensa a chi muore di fame” e “Al peggio non c’è mai fine”. Queste sono frasi del tutto vere che ti consolano momentaneamente, ma poi ti guardi intorno e vedi tante persone che conosci che hanno realizzato i propri desideri e alle quali tutto sommato la vita non va proprio male e allora ritorni a chiederti: “Perché proprio a me?”. Mi sa che è una domanda per cui non ci sarà in questa vita terrena una risposta.


Cerco di farmi forza, di trovare degli stimoli ma non è facile. Adesso sono terrorizzata. Non so se avrò mai un figlio vivo su questa terra. Be’, spero proprio di sì, ma ci vuole tanta forza, per te stessa, per il marito, per i genitori… E non è per niente facile. Ci proverò.


Ilaria

Io ho perso due bimbi, entrambi alla dodicesima settimana di gravidanza, il 16 ottobre 2006 e il 27 luglio 2007.


Ho la sensazione che fossero due maschietti, e in famiglia li chiamiamo Matteo e Giorgio. Adesso avrebbero 2 anni e mezzo e 13 mesi.


La mia figlia maggiore, che ha 4 anni e mezzo, ha sofferto come noi di queste perdite, perciò quando mi sono accorta di aspettare la mia seconda bimba che ora ha 9 mesi ho atteso a darle la notizia fino alla sedicesima settimana (ma lei aveva capito comunque.)


Io ho spiegato alla mia bambina che a volte i bimbi arrivano nella pancia della mamma, ci stanno per un po’ e poi volano via.


Silvia

Poco prima del nostro secondo anniversario di matrimonio scopriamo piacevolmente d’essere in tre. Era il 1999. Avevamo prenotato il camper per festeggiare fuori città. Una breve vacanza di tre giorni. Prima di partire la ginecologa mi fa un’ecografia per la datazione: sette settimane e un cuoricino che si sente battere, un’emozione davvero troppo grande per trattenere la commozione, è la prima volta che sento in me il miracolo della vita. Poco dopo il nostro rientro vedo delle piccole perdite. Vado al Pronto Soccorso per capire cosa non va. Trovo per mia fortuna un Uomo prima che un medico. Una persona molto sensibile che ricerca per interminabili minuti i battiti sentiti poco più di una settimana prima, ma nulla. Mi fa ricoverare e con gli occhi un po’ arrossati non so se per la stanchezza (era tarda sera) o per la sensibilità mi dice: “Ci riproviamo domani”. Inutile dire che quella notte in un letto non mio, lontano da mio marito, e con una brutta sensazione in corpo, non ho dormito. La mattina seguente non c’era quel medico. Riproviamo. Questa volta la sensibilità è minore e la dottoressa mi guarda e mi dice: “Non c’è battito. Facciamo un raschiamento!”. Al risveglio dall’anestesia totale mi sono sentita svuotata nel cuore e nell’anima. Ho ripreso il lavoro e la mia vita, ma con l’idea di cercare presto un’altra gravidanza.


Intanto un nemico subdolo si insinua nella mia mente. Un tarlo che continua a rodere. L’idea fissa di una gravidanza, la ricerca frenetica di un bimbo che non arriva. Ogni mese una delusione. Ricordo questo periodo come uno dei più neri della mia vita. Avevo perso il mio naturale ottimismo e vivevo solo nell’idea di avere un bambino. Ho cambiato ginecologo: due mesi di cure ma nemmeno l’ombra di una gravidanza. Erano passati quasi due anni dalla perdita del mio angioletto. Ero a terra. A quel punto il medico si è finalmente deciso a farmi fare un’ecografia e si scopre una ciste di sette centimetri! In quel periodo ho conosciuto la mia attuale ginecologa, esperta in problemi della riproduzione e per la prima volta mi sono sentita capita e rassicurata: ce la potevo fare a realizzare il mio sogno di maternità. Poiché erano i primi giorni di agosto avevamo deciso di rimandare gli esami che mi aveva prescritto al rientro dalle ferie. “Quando torni, fai i tuoi esami e ci sentiamo” mi aveva incoraggiato la dottoressa. Al ritorno l’ho chiamata, ma non per gli esami… per comunicarle che il test era positivo! Alice è nata alla fine di aprile del 2002.


Ora ho due bimbi bellissimi e uno che veglia su di noi. Non l’ho mai dimenticato e lo sento parte della nostra famiglia e della nostra storia, e quando guardo Tia mi chiedo se lui sarebbe nato se quel bimbo fosse sopravvissuto. E solo così, pur serbandolo nel mio cuore di mamma, ho accettato la sua perdita.


Samantha

Mi sono sposata nel 2000. Volevo un figlio subito e ho iniziato a provare dopo circa tre mesi. Nel maggio del 2001 sono rimasta finalmente incinta: ero troppo felice! Mi prescrissero le analisi del sangue: il beta-HCG era molto basso. Ricordo le parole del ginecologo di turno: “Signora, molto probabilmente lo perderà. Non c’è molto da fare”. Mi sono sentita morire. Ero all’ottava settimana di gravidanza. Dopo due giorni ho avuto dei dolori lancinanti e una forte emorragia, non c’è stato nemmeno bisogno di raschiamento. Mi hanno fatto un’eco di controllo ed era tutto ok, ma il mio umore era sottoterra. Sono stata come in stand-by per giorni, piangevo, cercavo di distrarmi con qualche lettura. Poi ho metabolizzato il tutto dandomi una spiegazione razionale e scientifica. Probabilmente era meglio così: la natura sa cosa fare, mi son detta. E ci ho riprovato subito. A luglio ero di nuovo incinta, test positivo, stavolta per le analisi del sangue ho aspettato. Tra la settima e l’ottava settimana di gravidanza l’ho perso di nuovo. Ed è stato peggio. Peggio perché a questo punto ho dubitato di me, delle mie possibilità di divenire madre, di tutto. Io e mio marito abbiamo cominciato a parlare di adozioni, di esami; se la natura aveva deciso così non volevo nessuna forma di accanimento.


Siamo andati in vacanza e tristemente parlavamo e pensavamo solo a quello: due anime perse, vuote. Mi sentivo una donna mancata, poi però la ragione ha preso il sopravvento e ho elaborato il tutto. Mi sono documentata e ho scoperto che per parlare di aborti ricorrenti devono verificarsi almeno tre eventi. A fine agosto ho iniziato a provare di nuovo, però senza illudermi troppo, pensando di fare l’ultimo tentativo.


In settembre sono rimasta incinta di Giovanni, nato il 30 maggio 2002. Il maggio successivo sono di nuovo incinta: Giuseppe nasce a gennaio 2004, e nel giugno 2007, nasce Angela.


Sono una mamma fortunata e felice.


Alessandra

Alla fine del 2007 io e Sergio avevamo deciso di provare a dare un fratellino o una sorellina a Susanna. Ai primi di febbraio, dopo una settimana di ritardo, faccio il test: positivo! Eravamo contenti ma anche sorpresi di esserci riusciti così, al primo tentativo. Nonostante la gioia, fin dai primi giorni sono stata colta da una profonda ansia. Venivo da un periodo molto stressante al lavoro e in famiglia, e avevo questa strana vocina che mi diceva di andare a fare una visita al più presto, che mi suggeriva di non dare la notizia a nessuno, e mi teneva sveglia la notte con i pensieri più cupi.


Alla settima settimana ho fatto la prima ecografia. Il ginecologo mi è sembrato preoccupato, ha voluto rivedermi dopo quindici giorni. Il 10 marzo sono tornata da lui, era una giornata grigia e triste, pioveva a dirotto e io mi sentivo dentro un presentimento negativo fortissimo. Infatti, l’embrione non era cresciuto. Il dottore, una persona davvero gentile e carinissima dal punto di vista umano, sembrava più dispiaciuto di me. Mi ha fissato il raschiamento per il giorno successivo dicendomi di non preoccuparmi, che questo non avrebbe compromesso la possibilità di avere altri bambini, che succede molto spesso. Uscita dallo studio sono scoppiata a piangere e non riuscivo a fermarmi. Ero delusa, triste, svuotata da ogni emozione. Però nel giro di qualche ora sono riuscita a calmarmi, a razionalizzare e soprattutto a impormi di non mostrare il mio dolore a Susanna. Quello che mi ha permesso di risollevarmi nel giro di qualche giorno è stata proprio lei. Da una parte non volevo farle pesare questa delusione, perché lei non sapeva niente e soprattutto era troppo piccola (2 anni e mezzo) per capire. Dall’altra, il fatto di avere già una bambina, arrivata al primo tentativo e con una gravidanza tranquilla e serena, mi rassicurava sul fatto che, prima o poi, ci avremmo riprovato e sarebbe andata meglio. L’esperienza del raschiamento non è stata traumatica come pensavo, anzi è stata quasi una liberazione dai mille dubbi che mi avevano accompagnato in quelle settimane, sono stata a casa quattro giorni durante i quali ho avuto tempo di pensare, di elaborare il mio lutto e anche capire molte cose di me stessa. In un certo senso ho trovato una ragione per cui le cose erano andate così: io non ero pronta, non ero nello stato psico-fisico ideale per far crescere una nuova vita dentro di me.


Innanzitutto, stavo sbagliando approccio col mondo, da un po’ di tempo mi ero lasciata sopraffare dal nervosismo e dallo stress accumulato. È stato come se tutto il veleno che avevo accumulato negli ultimi mesi si fosse sciolto con le lacrime. Adesso sapevo cosa contava davvero per me. Volevo intensamente quel secondo bambino, non solo perché Susi non fosse figlia unica, ma per me stessa, per vivere di nuovo la meravigliosa avventura di essere mamma, per rendere la nostra famiglia più completa.


Giorno dopo giorno diventavo più forte e più serena, il dolore si attenuava e prima che me ne rendessi conto, ai primi di maggio, ero di nuovo incinta. Questa volta mi sentivo completamente diversa: carica delle energie positive della primavera, felice e serena. Sono tornata dallo stesso dottore e lui era contento ed emozionato quanto noi, quando ha visto il cuoricino che batteva e che tutto stava andando bene. Il 14 gennaio 2009 è nato Federico!


Io sono stata fortunata, ma è una ferita profonda che segna il cuore di una donna per sempre, anche se ci sono già e ci saranno altri bambini. L’unica cosa che mi permetto di dire, a chi ha vissuto questa esperienza, è di non perdere la speranza e di essere positive, è il modo migliore per accogliere il fagiolino che prima o poi arriverà.


Elena

Giulia ha 4 anni quando io e mio marito decidiamo che è il momento di pensare a un fratellino o una sorellina. Rimango incinta subito, il mese dopo! Faccio il test proprio nel giorno di S.Valentino: positivo!


Alla prima ecografia, all’ottava settimana, una delusione. Si vede la sacca gestazionale e dentro qualcosa di non definito. La ginecologa mi dice che potrei essere indietro di un paio di settimane, ma i conti a me non tornano.


Mi consiglia di stare a riposo anche se mi prepara a un’eventuale perdita dicendo che potrebbe essere avvenuta una “selezione naturale”. Io stavo benissimo, non avevo perdite e continuavo ad avere i classici sintomi della gravidanza (seno gonfio, nausee ecc.).


Dopo due settimane ho ripetuto l’ecografia: non si distingueva più la camera gestazionale e c’era una degenerazione dei tessuti placentari. La ginecologa allarmata ha parlato di “mola vescicolare”. Il giorno dopo ero in sala operatoria per il raschiamento! Era il 27 marzo 2008.


Inutile dire come mi sentivo, come si sentiva mio marito… Nessuno si aspettava una cosa del genere dopo che la gravidanza precedente era andata benissimo!


Quando capita un’interruzione nel primo trimestre, in preda al dolore della perdita, fa male sentirsi dire cose del tipo: “È stata una selezione naturale, non era geneticamente perfetto”, “Capita spesso nel primo trimestre”, “Il 50% delle gravidanze finisce con un aborto spontaneo”, ecc.


È anche vero che certe cose non si possono capire fino in fondo se non le vivi direttamente sulla tua pelle… ma fa male, tanto male!


Per fortuna c’era la nostra Giulia che con la sua presenza e la sua allegria ha reso più semplice il recupero psicologico! E ringrazio molto la mia ginecologa che ci è stata tanto vicina ed è stata sempre disponibile e scrupolosa.


Nel luglio dello stesso anno sono rimasta di nuovo incinta, al primo tentativo. Il 6 marzo 2009, dopo un anno esatto dall’aborto, è nata la nostra Giorgia!


Io ho preso la sua nascita come un segno, come se mi fosse stato restituito qualcosa che mi era stato ingiustamente tolto!


Paola

Io ho avuto due aborti spontanei e posso dire che, nonostante fossero le prime settimane di gravidanza, il dolore è stato intenso e ancora oggi è parte integrante della mia vita: non c’è giorno che non pensi ai miei angeli. Faranno sempre parte del mio cuore e della mia esistenza.


Titty

Perdonatemi per la lunghezza del racconto: non scrivo quasi mai ma, quando ho visto l’argomento di questo libro, ho provato il desiderio di raccontare quello che mi è successo qualche anno fa. Ad agosto 2004 mi sono accorta di essere nuovamente incinta – il mio primo bimbo aveva quasi 14 mesi – e la mia reazione non è stata positiva. Sarà perché col primo figlio si fa più fatica, ma io non me la sentivo proprio di avere un altro bambino dopo neppure due anni dal primo. Questo stato d’animo però è durato molto poco: ho compreso subito che le paturnie che mi erano venute in mente erano delle sciocchezze facilmente superabili. Poi, all’inizio di settembre, delle perdite e un distacco di placenta mi hanno costretto a riposo. Ho fatto tutto quello che mi era stato detto di fare, ma stare a riposo totale è stato veramente faticoso. Era settembre, le giornate erano bellissime, Giovanni voleva uscire e io non potevo portarlo fuori. Andava col papà o con la nonna e quasi non mi guardava, mi sentivo la mamma inutile sdraiata sul divano, ma mi confortava l’idea che stavo covando il mio bimbo… Arrivato il giorno del controllo ecografico, l’undici ottobre, io ero molto tranquilla perché non avevo più avuto perdite e stavo bene. Mi ricordo ancora perfettamente la schermata dell’ecografo: era tutto molto strano, non si vedeva il fagiolino in movimento, ma come delle macchie perfettamente immobili. La dottoressa ha detto: “C’è qualcosa che non va”. Io guardavo senza capire. “Signora, non trovo il battito”. “La prego, provi ancora”. Ha continuato ancora per qualche istante. “Mi spiace molto, il distacco è quasi completamente assorbito, ma il battito si è fermato. Deve essere successo una settimana fa”. Non mi sembrava possibile. Ho iniziato a piangere e le ho detto che mi sentivo in colpa perché all’inizio quel bambino non lo volevo. Lei mi ha detto che non dovevo assolutamente pensare che potesse essere colpa mia: la natura in alcune occasioni interrompe una gravidanza che non può proseguire. Anche mio marito era piuttosto scosso. La dottoressa a quel punto ha precisato che, se non avessi espulso spontaneamente il feto, occorreva fare un raschiamento. Era venerdì e mi ha fissato un appuntamento per il mercoledì successivo. Io sentivo un dolore lancinante al cuore, ma nello stesso tempo era come se tutto quello non stesse accadendo a me. In quei giorni, la consapevolezza di avere dentro di me un bambino morto mi faceva stare malissimo, piangevo in continuazione. Il giorno del raschiamento, in ospedale, ho trovato persone gentilissime, che mi hanno sostenuta in ogni momento, in particolare l’anestesista che, durante il colloquio pre-intervento, mi ha detto: “Signora, non cerchi di dimenticare quello che le è successo. C’era un bambino che è morto; lei ha a casa un bambino: tra qualche anno gli racconti questa storia, perché è una bella storia e val la pena di essere raccontata, quello che le è capitato non è stato per niente”.


Parlando con mio marito ci siamo detti che probabilmente il nostro bambino era morto il 4 ottobre, il giorno di San Francesco: in quel giorno noi ogni anno ricordiamo quello che è accaduto, diciamo una preghiera per il bimbo che non è nato e raccontiamo quello che è successo ai suoi fratelli (che ora sono tre).


Quando io ho perso il mio bimbo, è nata, al termine della gravidanza, la bambina di una mia amica con una patologia rara e gravissima: leucemia prenatale. È vissuta solo tre settimane. Chiaramente si tratta di due drammi ben diversi tra loro, dolorosi entrambi. Quando penso a questi due bambini, mi viene da riflettere sul fatto che a noi genitori è assegnato un compito veramente grande e per certi aspetti difficile da capire: accompagnare i figli che ci vengono dati per un certo tempo. Nel mio caso son state poche settimane di gravidanza, nel caso della mia amica poche settimane di vita. Quello che mi è chiaro è che, per quanto questo tempo possa essere breve o faticoso, è un tempo donato e possiamo solo essere grati per questo dono.


Cristina

Nell’ottobre del 2007 ho avuto un aborto spontaneo. Con il mio compagno avevamo tanto voluto quella gravidanza… A volte penso che sia stata una fortuna non aver mai sentito il battito del suo cuore – l’ecografia ha evidenziato la camera gestazionale, ma era vuota – questo però non mi fa star meglio, perché comunque nella mia testa io ero già mamma e già parlavo con la mia pancia. È stata dura.


A dicembre, appena la ginecologa ci ha dato il via libera abbiamo riprovato, ma io ho vissuto la nuova gravidanza in preda al panico, avevo sempre paura che potesse succedere qualcosa. Se tutto fosse andato bene, il mio primo bimbo sarebbe dovuto nascere a giugno. Io allora ero nuovamente incinta, aspettavo una bimba, ma non potevo fare a meno di pensare che in quel momento avrei potuto essere già mamma.


Ultimamente ho visto un telefilm in cui la protagonista ha avuto un aborto spontaneo: mi sono tornati in mente tutti quei momenti tragici e ho incominciato a piangere, singhiozzando. Il mio compagno ha cercato di calmarmi: “Dài, pensa che ora c’è Michelle qui con noi, quell’esperienza è passata”. Ma per me quello non è passato, è qualcosa che rimarrà per sempre nella mia mente e nel mio cuore!


Natascia

Una minuscola linea rosa.


Tutto ha inizio da lì. Da una breve attesa che a te pare lunga una vita. Poi la comparsa di una sottile linea rosa ti dice che dentro di te c’è una vita che sta crescendo, e tu realizzi che sei una mamma a tutti gli effetti.


Chiudi gli occhi e già vedi i lineamenti del tuo bambino, il colore dei suoi occhi, dei suoi capelli, le fossette nelle guance, il sorriso e le smorfie che saranno soltanto sue e di nessun altro. I pensieri volano lontano e ti domandi se il tuo cuore ce la farà a non scoppiare per la gioia. E l’avventura ha inizio, giorno dopo giorno, con la mente che sta sempre un passo avanti al corpo, che invece si prende tutto il tempo per prepararsi a un evento che gli cambierà la vita.


Non c’è più spazio per il malumore, la tristezza, la malinconia.


Ti svegli la mattina e pensi che non te ne importa niente se fuori piove o c’è il sole, se il tuo capo ha la luna storta o se i tuoi capelli non stanno in piega, tutto diventa relativo perché tu esisti solo per portare dentro di te questa creatura e sei talmente concentrata a fare questo, che il resto non conta più.


Mentre il mondo intorno a te prosegue la sua corsa inesorabile, tu sorridi e ti tocchi il ventre ancora piatto e pensi che sei stata chiamata a custodire un tesoro grande e ora di questo ti devi occupare.


Però qualche volta accade che anche un treno in corsa si arresti all’improvviso, apparentemente senza una ragione.


Una mattina ti svegli e senti come un malessere che non dovresti sentire. Allora vai in bagno e lì, nella solitudine dei tuoi presentimenti, le vedi, due minuscole gocce di sangue che ti fissano impietose. Chiudi gli occhi per non perdere la ragione, per proteggerti in qualche modo dalla montagna che ti sta cadendo addosso, ma quando li riapri, loro sono ancora lì.


“Ho perso il mio bambino”.


Tu lo sai già, senza bisogno che un ginecologo ti dica che il battito non c’è più. Te lo senti fin nelle viscere e in un momento la disperazione ti avvolge come una spirale che ti toglie il respiro. Alla fine ti muovi, prendi il telefono e cominci un viaggio che non ti concederà nemmeno il tempo per versare lacrime. Come una via crucis che devi percorrere fino in fondo e sai che la croce da portare è tutta sulle tue spalle.


Quanto segna la tua vita aver perduto un figlio?

Non ci sono parole da sprecare.

Non dite a una donna che ha perso il suo bambino che ne potrà avere altri. Perché lei voleva quel bambino, il suo bambino, e ora non lo avrà più.


Cosa rimane?

Rimane un piccolo buco nel cuore che cerchi di riempire con pensieri che ti diano conforto.


Pensi che lui è in cielo e veglia su di te.

Pensi che anche se per poco tempo, tu l’hai accolto e protetto.


Poi alla fine, lasci fare al tempo, il balsamo che sa lenire anche le ferite più dolorose. I giorni che si susseguono, seguendo un preciso e misterioso ordine che t’impone di ricominciare, alla fine sono la tua salvezza. Una mattina ti svegli e ti accorgi che il ricordo fa un po’ meno male. Il dolore si trasforma a poco a poco in struggente tenerezza.


Tu sei mio figlio e lo sarai sempre.

Finché non ti dimenticherò, non smetterai di esistere.


Giovanna

Sono Cri, mamma di Stefano e Yuri e ora in attesa del mio terzo pupo. Ho vissuto questa esperienza nel 2005: alla settima settimana di gravidanza ho perso il mio bambino. Avrei tante cose da dire… Ma la mia testimonianza vuole essere un breve racconto di ciò che ha vissuto mio figlio Stefano, che all’epoca aveva due anni. Stefano da sempre ci chiedeva un fratellino. Alla notizia che nella pancia della mamma era finalmente “atterrato” un nuovo esserino è stato molto felice: ogni sera baciava la pancia e salutava il piccolino. Una sera, invece di baciare la pancia, ha fatto ‘ciao ciao’ con la manina rivolta verso il cielo, io ho domandato come mai facesse così, lui sereno e pacifico mi ha risposto che il bimbo non era più nella pancia, ma era tornato in cielo. La mattina dopo ho iniziato ad avere perdite ematiche e lui, con tutta la serenità che solo i piccoli riescono ad avere, non ha più chiesto nulla del fratellino.


L’ha lasciato andare con naturalezza, cosa che io invece ho fatto solo col tempo…


Cristiana

Ero sposata da sei mesi e non avrei mai creduto che per iniziare una gravidanza avrei fatto tanta fatica. Avevo letto tutto quello che potevo leggere su come aumentare le probabilità di restare incinta, mangiavo quello che era più indicato, facevo attività fisica e pensavo positivo, assolutamente positivo. Avevo letto che il nostro corpo è una macchina perfetta e proprio perché così perfetto, più del 50% delle donne che rimangono incinta la prima volta vivono un aborto spontaneo, come se il nostro corpo volesse effettuare un rodaggio in vista di quella che sarà la volta decisiva.


Era il mese di gennaio dell’anno 2000 ad Ann Arbor nel Michigan, dove abitavamo io e mio marito. Ci stavamo preparando per andare a una festa, quando all’improvviso mi era venuto in mente che avevo dimenticato di fare i calcoli di routine sulla data di arrivo delle mie regolarissime mestruazioni. Così iniziai a calcolare e… caspita! Se i miei conti erano esatti ero in ritardo di quasi sette giorni! Oh my God! Potevo essere incinta! Mi ricordo ancora la felicità di quella sera, la rinuncia al vino e a tutti gli alcolici per lei, sì perché era una lei, e si sarebbe chiamata Arianna. Il giorno dopo sono corsa a comprare un test di gravidanza, la mia scorta a casa si era esaurita. Ecco, ci siamo… OK la vedo, ecco la prima lineetta. E la seconda, la seconda, dov’è? Perché non esce? Avevo sentito che alcuni test potevano essere difettosi, ma che capitasse proprio a me… La mattina seguente preparo il nuovo test con la certezza di poter finalmente contare quelle due tanto attese lineette, ma di nuovo ne esce soltanto una.


Forse è troppo presto, penso, o forse è solo un po’ di ritardo, anche se sono sempre stata puntuale come un orologio svizzero, può sempre capitare di essere un po’ in ritardo. Nel pomeriggio però sento che, ci siamo, sono arrivate le ‘mie cose’, vado in bagno, mi cambio e torno davanti alla TV per distrarmi pensando che andrà meglio la prossima volta. Dopo circa dieci minuti iniziano dei dolori addominali mai provati e perdite fuori dal normale. Il dolore aumenta e, come un lampo di genio, mi sembra di capire che probabilmente il mio corpo perfetto sta effettuando il suo rodaggio del cavolo! Quasi mi metto a piangere. Ma se il nostro corpo è così perfetto non potrebbe accadere tutto senza che ce ne accorgiamo? I crampi sono forti, non riesco a pensare a nulla tranne che al dolore fisico e forse è meglio così, almeno non penso a lei… allora forse è vero che il nostro corpo è una macchina perfetta…


Esattamente un mese dopo, sono in una sala d’ospedale per vedere un medico, vorrei capire se sono normale, se va tutto bene, o se devo fare degli esami aggiuntivi perché ci ho messo tanto impegno e non sono ancora rimasta incinta.


Qualcuno bussa, entra un infermiere con gli esiti del mio esame delle urine, ho il cuore in gola, ho paura che mi dicano che c’è qualcosa che non va con la mia macchina perfetta.


Il dottore prende i fogli e inizia a leggere, poi mi guarda e mi chiede di nuovo perché ho richiesto quella visita e io spiego che vorrei tanto un bambino. Sorride e mi dice che io non ho bisogno di lui perché… sono in dolce attesa. Cosa? Sono incinta?


Oggi sono mamma di due maschietti e forse un domani arriverà una bimba, vedremo.


È difficile spiegare l’esperienza che ho vissuto, è stata davvero brevissima, non paragonabile agli aborti spontanei che avvengono in periodi successivi. Ma quella presenza io l’ho sentita e l’ho amata come solo una mamma può amare la sua bambina. Lei c’era e ci sarà sempre nel mio cuore perché è lì che i bimbi vengono concepiti, che poi passino il rodaggio della nostra macchina perfetta, quella è un’altra storia…


Cristina

Io ho avuto 2 aborti spontanei. Il primo 5 anni fa, il 26 aprile 2004. Avevo 18 anni, ed ero alla decima settimana di una gravidanza che non era stata programmata. Ci eravamo appena abituati all’idea. Quello che è successo è stato un brutto colpo! Non avevo nessun dolore, solo delle piccole perdite rosa. Sono andata al Pronto Soccorso e mi hanno detto che non c’era più il battito e che dovevano ricoverarmi per fare il raschiamento. Tutto questo, quattro giorni prima del mio compleanno… Il più brutto della mia vita! È stato difficile andare avanti, ma l’abbiamo fatto: io e il mio ragazzo siamo andati a convivere e lo scorso ottobre abbiamo deciso di cominciare a cercare una gravidanza. Non riuscivamo a crederci: il 10 novembre ho scoperto di essere incinta! Ma il 21 novembre sono iniziate delle perdite e, a sette settimane più due giorni, mi hanno detto che non c’era più il battito. Altro raschiamento… Ho odiato il Natale. Ora sono seguita da una brava ginecologa e stiamo valutando la situazione. Leggendo in internet ho scoperto molte cose interessanti e superare il trauma è stato più facile rispetto alla prima volta. Credo che un libro come questo possa essere molto utile.


Laura

“Angela, Angela, angelo mio…”

È stato ascoltando questa canzone che ho avuto l’assoluta certezza di essere incinta.


Avevo già fatto il test di gravidanza, quello della farmacia, e aveva dato esito negativo. Qualche sera dopo, al concerto per i vent’anni dalla scomparsa di Luigi Tenco, mentre cantavano la canzone Angela ho sentito che eravamo in due. Così per non vivere nell’incertezza, sono andata dal medico di famiglia per farmi prescrivere il test di gravidanza, che ha confermato la mia sensazione.


Mille pensieri si sono accavallati: per quando desiderato, quel figlio non era previsto, e se da una parte mi sembrava un grosso regalo che il destino mi faceva, dall’altra ero piena di paure e di timori su come sarebbe cambiata la mia vita, il mio lavoro, la mia famiglia. Ansie, paure, felicità e incapacità di decidere, considerando che il futuro papà era al riguardo abbastanza pessimista. Poi abbiamo deciso di “scommettere” con il destino e accettare il nostro angelo.


Passato il primo trimestre abbiamo cominciato ad avvisare tutti. Ero già stata dal ginecologo, e avevo fatto la prima visita con le ostetriche per il


parto in casa, a giorni dovevo fare la prima ecografia e mi sentivo strana. C’era qualcosa che non andava che non sapevo spiegarmi. Non pensavo che un aborto potesse essere silenzioso, per me era un evento associato al dolore e al sangue. Così quando l’ecografo ha detto “Non c’è battito”, il mio primo pensiero è stato: “Lo sapevo”. E poi è iniziato il lutto.


“Angela, Angela,

angelo mio io

non credevo che

questa sera

sarebbe stato

davvero un addio,

Angela credimi,

io non volevo.”

“Ti prego, Angela,

no, non andartene

non puoi lasciarmi

quaggiù da solo

non è possibile

che tutto a un tratto

io possa perderti

perdere tutto.”


Di grande aiuto è stato parlarne con chi aveva vissuto la stessa esperienza.


Marcella

Ero al supermercato, in un pomeriggio qualunque, e ho saputo che c’eri. Un attacco di nausea, al semplice odore del caffè, mi ha reso certa. Il test era scontato, utile ma superfluo.


Non ti aspettavo. Forse pensavo che non fosse più tempo per me. La tua sorellina cresceva, era la mia gioia senza fine. Ma adesso c’eri anche tu: la mia sorpresa, il mio regalo più grande.


Una strana malinconia però accompagnava i miei giorni, fino alla prima ecografia. Eccoti nel monitor, un oscuro puntino pulsante. Eri mio, eri tutto, eri vivo.


Dopo tre giorni, mi svegliai una mattina con un brutto presentimento. Non c’erano segnali evidenti che giustificassero alcun allarmismo. Fisicamente stavo bene, eppure sentivo che era successo qualcosa a te.


Dovetti convincere tuo padre ad accompagnarmi in ospedale, per lui ero la solita pessimista, che si preoccupava per un nonnulla. Invece, purtroppo, avevo ragione. In un’atmosfera irreale, nella penombra dello studio medico, mentre l’ecografo passava sulla mia pancia, fredda di gel, io ti cercavo sullo schermo, ma tu non c’eri più. Ti hanno cercato per minuti interminabili, ma io sapevo ormai che era tutto inutile. Senza darmi un segnale preciso eri andato via. Sedici millimetri di vita volano in un istante. Eri morto dentro di me e adesso volevano recidere l’ultimo nostro legame, perché non morissi anch’io.


Improvvisamente mi parve insopportabile averti dentro, ma l’idea che saresti finito tra i rifiuti, anonimo, indifeso, dimenticato, mi lacerava l’anima.


L’intervento, programmato per il pomeriggio, si svolse senza complicazioni. Ricordo, poco prima dell’anestesia, il chiacchiericcio delle infermiere che organizzavano una serata al pub, per la festa delle donne. Io avevo poco da festeggiare, capivo che nessuno avrebbe potuto condividere il mio dramma, a tutti sembrava un incidente di poco conto, facilmente rimediabile, bastava tentare ancora e sarei di nuovo rimasta incinta.


Niente nella vita è ripetibile. È uno spettacolo all’impronta, senza copione, e se muore un personaggio, esce di scena per sempre e non viene rimpiazzato come nelle soap-opera. Tu non c’eri più e, se anche la sorte avesse voluto regalarmi un’altra maternità, tu saresti rimasto unico.


Volevo darti un nome, un’identità. Dall’esame del DNA hanno scoperto che eri un maschio, io l’ho sempre saputo. Mi hanno detto che avevi delle anomalie genetiche che ti avrebbero impedito, una volta nato, ogni possibilità di sopravvivenza.


Per me tu, chiamato da tutti ‘feto’, sarai per sempre Jacopo, l’angioletto a cui non è stata concessa la possibilità di vedere la luce, il volto di sua madre, di assaggiare il sapore dolce del suo latte.


Passarono i mesi nel tentativo di dimenticare, nella convinzione che la dolorosa esperienza vissuta avrebbe dovuto insegnarmi qualcosa, il tragico avvertimento che il mio orologio biologico stava perdendo colpi.


Mai più. Mai più mi sarei esposta a gravidanze a rischio.

Mi sentivo già fortunata ad avere una bimba sana e bellissima, bastava così. Forse era meglio tornare al lavoro, ritagliare più spazi per me stessa, ora che mia figlia stava diventando sempre più autonoma.


Invece no. Ancora una volta il destino sparpaglia le carte e imprime svolte incredibili a percorsi già tracciati. Aspettavo un bambino.


Non ero mai stata tanto terrorizzata. A ogni ecografia, per nove mesi, ho tremato.


Finalmente Samuele Jacopo è nato, sano e forte.


Ora ha sette anni, è un bambino solare e vivacissimo. E una sua frase mi ha sconvolto. In auto, fermi a un semaforo, ascoltiamo la radio. Mio figlio a un certo punto mi chiede di raccontargli com’era da piccolo. Non è la prima volta, è una sua curiosità ricorrente, fa sempre domande su com’è nato, se era bello o brutto, se mangiava tanto o poco, non ho dato quindi importanza ai suoi ennesimi interrogativi.


Imprevedibile come solo i bambini sanno essere, a un certo punto, esclama: “Io so che ho cercato di nascere la prima volta, ma non ci sono riuscito, poi ho tentato ancora e sono nato”.


Il semaforo è diventato verde e già le macchine dietro la mia strombazzano insofferenti, ma a me si è gelato il sangue e non riesco a inserire la prima.


Samuele non ha mai saputo del mio aborto spontaneo.

Cerco di abbozzare, provo a fare qualche altra domanda con malcelata indifferenza: “Perché non ci sei riuscito la prima volta?”


“Non lo so. Dovevo tornare. Mamma, perché io mi chiamo Samuele? A me piace di più Jacopo”.


A distanza di alcuni anni, dopo il divorzio da suo padre, forse conosco la risposta. Adesso so perché non era il momento giusto per nascere la prima volta. È legittimo pensare che si tratti di falsi convincimenti, di illusioni per lenire la sofferenza.


Una cosa so per certo: Samuele mi ha salvato la vita, dandomi una ragione per non ‘mollare’ fra mille difficoltà, facendomi sentire meno sola nel deserto lasciato dalle certezze perdute.


E devo a lui se ora ho ritrovato anche Jacopo.


Rossana

Ho scoperto di essere incinta due giorni dopo il funerale di mia mamma. Anche se nella tristezza ero molto felice del nuovo arrivo. Lo vedevo come un segno, un dono di mia mamma. E invece… Il Signore ha disposto diversamente per il mio piccolino. Alla dodicesima settimana l’ho perso, se ne è andato per sempre. Che dolore! Avevo già vissuto delle esperienze di perdita, avevo già lasciato andare i miei cari che erano stati con me per molto più tempo di quel piccolino, ma un dolore così grande non l’avevo mai provato. Per giorni non ho fatto altro che piangere, vedevo bimbi e mamme in attesa ovunque! Che tortura. E inevitabilmente ogni volta il pensiero correva al mio angioletto. Io e mio marito abbiamo cercato un altro figlio quasi subito, ma è arrivato solo dopo due anni e mezzo. Al corso preparto, un giorno, l’ostetrica ha ricevuto la telefonata di una donna che aveva appena perso un bimbo… io sono scoppiata in lacrime. Non riuscivo a calmarmi, ho rivisto me sul lettino, me dopo il raschiamento… che disperazione!


Ora siamo genitori della piccola Valentina ed è la gioia più grande che esista, ma non ho dimenticato il mio angelo del cielo, al quale ho chiesto di proteggere la sua sorellina.


Paola

L’ecografia inizia: sonda sulla pancia e si parte alla ricerca della mia creaturina, del mio terzo figlio.


Già… il mio terzo figlio. Guardo il monitor e lo vedo. Eccolo lì il mio bambino.


“Ma è già così grande?” considero con un po’ di sorpresa. Cavoli non pensavo di vederlo già così bene, così chiaramente: la testina ben delineata e il corpo che comincia a prendere forma.


Tempo di un secondo. “Ma perché non batte il cuore?” L’ho detto. L’ho chiesto subito, una constatazione dopo l’altra.


Sono passati anni, ma è come se fosse adesso, mi fa male al cuore. Ma tanto.


“Perché non batte il cuore?” e per un attimo, resta in sospeso anche il mio di cuore. Comincia l’ecografia più lunga della mia vita. Il dottore muove la sonda, fa un po’ di pressione, prova un po’ più a destra, un po’ più a sinistra. Ma il battito non si vede. Io sono sempre lì, lo sguardo fisso su quel monitor, fisso sul mio bambino. Non sbatto neanche le palpebre. E nella mia mente si rincorre un continuo: “Gesù ti prego fagli battere il cuore! Gesù ti prego fagli battere il cuore! Gesù…” L’ecografia continua. Saranno stati minuti? A me sembra di fissare quel monitor alla ricerca disperata di un lieve battito da quasi un’ora. O più. Non mi capacito.


Forse è troppo piccolino. Lo penso e lo dico.


Forse. Il mio medico spiega che dobbiamo rifare un’altra ecografia, ma aggiunge che la situazione non è delle migliori, e mi fa alzare dal lettino. Torno a sedermi davanti alla sua scrivania e continuo a ripetermi che era troppo piccolo per trovare il battito. Strano vero? Visto che mi ero appena sorpresa del fatto che fosse già così ‘grande’. Il mio medico, che è una persona davvero in gamba, parla di un’altra ecografia, magari venerdì. Venerdì? Ma come? Non è presto venerdì? Non dobbiamo lasciar passare più tempo? Il dottore mi guarda e sì, va bene, facciamo lunedì. Ok, lunedì mi sembra meglio. Per lunedì può essere cresciuto abbastanza, in fondo nelle prime settimane di gravidanza i bimbi fanno incredibili progressi da un giorno all’altro…


Lunedì, 12 gennaio. Il giorno è arrivato. Siamo alla resa dei conti. Ore 17.15. Sono nello studio del mio medico. Il cuore che mi scoppia per l’infelicità, l’agitazione, la paura. Mi stendo sul lettino, si accende il monitor. E lo vedo. Questa volta l’ecografia dura pochissimo. Un attimo. Il dottore non ha niente da cercare, non insiste. Guardo il mio bambino piccolino nella pancia. Su quel video in bianco e nero. Sembra che dorma. Mi colpisce al cuore: cielo, mi sembra così solo. Sì, solo. Questo lo ricordo bene. Mi sembra piccolo, tanto piccolo e sperduto, tutto solo sullo schermo nero. Lontano, irraggiungibile. Irraggiungibile per me, che lo amo tanto, che sono la sua mamma, che lo avrei accolto e amato con tutto il mio cuore. E invece lui è lì tanto solo, in quel silenzio.


Non c’è battito.

L’attesa si è interrotta.

Non avrò questo bambino. Il suo viaggio dentro di me è terminato.


Giorgia

È difficilissimo per me parlare di quanto è accaduto sei anni fa. Eravamo sposati da qualche mese, ma già desideravamo un figlio. Io dovevo partire per uno stage in una città vicina, per frequentare la sala operatoria. Avevo fatto tanto per ottenere questa opportunità! Le persone a me più vicine mi dicevano di aspettare a cercare questa gravidanza, di fare una cosa alla volta. Ma io non ho ascoltato…


Ero a Lubiana e mi guardavo allo specchio: il seno era teso, la pancia gonfia. Non ricordo dove e quando ho fatto il test, né come l’ho detto a mio marito. Ricordo la prima ecografia: sei settimane, il cuore già batteva. Ho letto e consultato tante persone. Sapevo che i gas anestetici sono considerati pericolosi nelle prime settimane di gravidanza, ma la letteratura medica non lo conferma e le colleghe ginecologhe di Lubiana mi dicevano che loro in sala operatoria ci andavano comunque. E per me era così bello e importante quello stage…


Una mattina comincio a sentire dei dolori. “Facciamo un’ecografia”, mi dice un’amica. Non c’è battito. Scappo dall’ospedale e prendo la macchina per tornarmene a casa. 140 chilometri lunghissimi, 140 chilometri di pianto.


Ho fatto un altro controllo nell’ospedale della mia città. Non c’è battito. Mi ricordo il pianto di rabbia che ho fatto la sera a casa dei miei, davanti a mio marito. “Lasciatemi in pace” gridavo, e sentivo dentro di me la disperazione di non essere stata capace di essere madre. Sono stata ricoverata per il raschiamento il giorno del mio compleanno. Ricordo la stanza caldissima, era la torrida estate del 2003, ricordo la premura di medici e infermieri. Tre mesi dopo ci abbiamo riprovato. Di nuovo, aborto interno, blighted ovum, questa volta non era colpa mia, ma di una malformazione dell’embrione.


La vita riprende come sempre. Io sento dentro di me un vuoto enorme, ma ho paura, non voglio cercare un’altra gravidanza. Non è il momento, non sono pronta, il mio futuro lavorativo è tutto da definire.


Non ho mai tenuto conto della data delle mie mestruazioni, seppur regolarissime. Ma c’è un inequivocabile ritardo…


Quanta paura e quante ecografie ho fatto il primo trimestre, tante volte anche da sola, la sonda sulla pancia e via, per vedere il battito. Dio ci ha donato Francesco, senza che noi lo cercassimo, perché aveva capito che nei nostri cuori la paura era insormontabile. Ho tenuto nascosto per tanto tempo questa gravidanza, perché non avrei sopportato, per la terza volta, gli sguardi pietosi delle persone.


Nel corso della gravidanza di Francesco, mi comunicano le analisi del cariotipo che avevano fatto sul primo aborto: femmina, cariotipo normale.Ero al lavoro, mi sono chiusa in una stanza e ho pianto tutta la mia disperazione. Cariotipo normale. Femmina. Quanto avevo desiderato una femmina. Quanto mi mancava la mia bambina.


E adesso, dopo Francesco, è arrivato anche Nicolò. Ogni tanto penso che Dio ci ha donato dei bambini meravigliosi, ma che la mia bambina l’ho persa per colpa mia, e non tornerà più.


Avevo dimenticato tutte queste sensazioni, avevo dimenticato anche la mia bambina, presa dalla vita piena e faticosa che ho. Il libro di Giorgia mi ha fatto ricordare il mio lutto, che avevo chiuso in fondo all’anima. E che adesso richiuderò, perché il senso di colpa non mi abbandonerà mai.


Sara

La vedevo soffrire, ma non sapevo cosa dirle, né cosa fare. Non comprendevo fino in fondo quel dolore, era evidente. Avrei voluto che smettesse di pensarci. Avrei voluto parlarne, ma non trovavo le parole.


Stefano

Ci sono cose nella vita per le quali non si è mai pronti, perdere un bambino prima che nasca penso che sia una di quelle. Avendo purtroppo provato questa esperienza, che è rimasta un triste ricordo tra le gioie del secondo e del terzo figlio, posso solo consigliare ai padri che vivranno questa condizione una cosa molto semplice: stare vicini alla propria compagna, essere a sua completa disposizione ed essere disponibili ad ascoltare, semplicemente ascoltare il suo dolore.


Non che per noi padri perdere un figlio prima che nasca sia un’esperienza facile, ma la mia sensazione è che per la mamma, per ovvi motivi, sia una situazione molto più pesante. Non dobbiamo sottovalutare il momento di grande difficoltà che lei sta vivendo e dobbiamo fare del nostro meglio per aiutarla, senza fretta, a uscirne il meglio possibile. Di sicuro, quello che per noi è forse solo un triste ricordo, per la donna avrà un nome…


Antonio

Quando l'attesa si interrompe
Quando l'attesa si interrompe
Giorgia Cozza
Riflessioni e testimonianze sulla perdita prenatale.La perdita di un bambino durante la gravidanza è sempre una tragedia, vissuta spesso da sole e senza l’adeguata vicinanza emotiva. Ma si può superare. Quando si perde un bambino non si può dimenticare lo smarrimento, la solitudine e l’angoscia che una donna prova. Un aborto spontaneo è un dolore grande, è una promessa di gioia senza fine che si infrange all’improvviso, lasciando nel cuore amarezza, delusione, incredulità. I dati clinici sono allarmanti: il 15-25% circa delle gravidanze si interrompe spontaneamente nel primo trimestre, e ogni anno in Italia circa 2 gravidanze su 100 si concludono con una morte perinatale. Perché mai è successo?Capiterà ancora?Ce la farò a diventare madre?Dovrei fare ulteriori controlli e accertamenti?Perché gli altri non capiscono questo dolore?E il futuro padre? Cosa prova un uomo che perde un figlio?Molte domande, poche risposte. Esistono centinaia di titoli su gravidanza, nascita, accudimento dei figli, ma mancava un libro che parlasse dell’aborto spontaneo, un’esperienza che, purtroppo, riguarda tante donne.Perché parlarne è un modo di riconoscerne l’importanza. Raccontare la propria storia, rivivere certi momenti per alcune donne è difficile e doloroso, mentre per altre è un’opportunità per comprendere meglio le proprie emozioni e riconciliarsi col passato. Quando l’attesa si interrompe si propone di offrire una risposta agli interrogativi più comuni quando si perde un bimbo nell’attesa o subito dopo la nascita. È difficile parlare di questo dolore, perché al dispiacere si aggiunge anche la devastante consapevolezza di non essere comprese. Uscire dal silenzio che molto spesso avvolge questi argomenti, rendendoli quasi dei tabù, può essere di grande aiuto non solo per la donna, ma anche per chi le sta accanto (partner, familiari, amici, operatori sanitari) e vorrebbe offrirle il proprio sostegno emotivo. Grazie ai contributi di numerosi esperti (ostetriche, psicologi, ginecologi, neonatologi) l’autrice Giorgia Cozza offre una chiave di lettura delle reazioni fisiche ed emotive della donna (e della coppia), riflettendo sulle tappe e sui tempi di elaborazione del lutto.Le testimonianze, intense e commoventi, di tanti genitori che hanno perso il proprio figlio vogliono essere una mano tesa verso ogni donna che sta soffrendo e ha bisogno di sapere che non è sola. Conosci l’autore Giorgia Cozza è una mamma-giornalista, specializzata nel settore materno-infantile, autrice di libri per bambini e numerosi manuali per genitori, divenuti un importante punto di riferimento per tante famiglie in Italia e all’estero.È stata relatrice in numerosi congressi per genitori e operatori del settore e ospite di trasmissioni televisive per rispondere a quesiti legati all’accudimento dei bimbi e a uno stile genitoriale ecocompatibile.