quarta parte - dedicata agli operatori

Le professioni sanitarie e
la perdita precoce

a cura di Laura Castellarin, ostetrica1

L’Ostetricia appare spesso come la più gioiosa tra le discipline mediche. I reparti che ospitano le madri sono tra i più caotici, pieni come sono di madri radiose e parenti esultanti e commossi. L’atmosfera festosa nella quale i professionisti operano rende quasi irreali i problemi che, con una certa regolarità, ogni operatore sanitario si trova a dover affrontare. Per una sorta di protezione o di scaramanzia si cerca di non pensare alla possibilità di dover affrontare e contenere un lutto. Inconsapevolmente si tende a considerare usuale solo lo stato di buona salute della madre e del concepito, le deviazioni da questo standard si vivono come imbarazzanti fuori programma. Eppure anche i professionisti vivono un lutto, anche per chi sta dall’altra parte del fosso c’è un dolore con cui convivere.

La perdita di un bambino è vissuta sempre come una sorta di fallimento per i sanitari. La medicina oggi ha venduto l’illusione di essere in grado di controllare ogni istante del processo riproduttivo, l’ecografia, con le sue magiche immagini tridimensionali sembra essere in grado di rilevare ogni problema, precoce o tardivo, al punto che le visite periodiche per monitorare l’andamento della gravidanza appaiono meno importanti della “sbirciatina” dentro quel contenitore senza più segreti. È comprensibile lo sgomento dei genitori quando la stessa ecografia, che si attende con gioia per sentire il battito e per vedere il proprio bambino muoversi, comunica un esito inatteso, temuto.


Sappiamo, invece, che la natura ha metodi selettivi molto rigorosi e in gran parte ancora incomprensibili che rendono la perdita di un figlio un evento frequente. Un tempo i manuali di puericultura sostenevano che era preferibile un certo distacco da parte della madre fino all’età di circa tre anni, poiché l’alta mortalità infantile poteva privare prematuramente i genitori del loro figlio. Le coppie erano preparate a perdere alcuni dei loro bambini ed era esperienza comune avere molte gravidanze e molti figli.


Oggi la gravidanza ha profondamente cambiato i suoi connotati, le coppie attendono la nascita con consapevolezza, a volte dopo aver affrontato i percorsi tortuosi e stressanti della fecondazione assistita, il bambino (frequentemente l’unico) aleggia attorno alla coppia da mesi o anni e, quando arriva, la sua presenza viene molto precocemente diagnosticata.


Si moltiplicano, di conseguenza, le “zone grigie” nelle quali non è semplice poter dire con assoluta certezza se la gravidanza sia o meno in evoluzione, imponendo un’attesa di alcuni giorni per poter arrivare alla diagnosi definitiva. Accade che la coppia si trovi ad annunciare l’arrivo di un bambino che se ne andrà entro poche settimane. In passato la sua presenza non sarebbe nemmeno stata riconosciuta mentre oggi più che mai quel figlio si materializza presto, egli è unico e nessun altro può sostituirlo.


Nonostante la precocità della diagnosi e la medicalizzazione che avvolge la gravidanza fin dai suoi primi giorni, la formazione accademica riserva uno spazio vicino allo zero alla capacità degli operatori di comunicare in caso di lutto (precoce o tardivo) e succede ancora di sentire pronunciare frasi inopportune:

È successo anche a me, non si preoccupi, è giovane, può farne un altro. Sa, spesso è la natura che provvede a fare una selezione…


Lo studio di questi aspetti della professione, i modi per dire e ascoltare, la gestione dei silenzi e la loro importanza fondamentale per autorizzare i genitori a esprimere le proprie sensazioni, sono lasciati alla sensibilità di qualche docente, quasi che la comunicazione non potesse essere insegnata, come tutte le altre discipline, ma si sviluppasse unicamente come inclinazione personale. La comunicazione empatica, invece, ha regole precise che possono essere trasmesse e apprese facilmente, dando ai professionisti strumenti concreti per evitare di ferire ulteriormente persone già così provate.


Solo una mia collega mi disse una cosa che fu realmente di conforto: “In certi casi non ci sono parole ma solo silenzi. Ora hai un angioletto che resterà sempre al tuo fianco”.


L’aborto spontaneo può manifestarsi in modi molto diversi non necessariamente riconducibili alla perdita del bambino. In alcuni casi non si ha alcun sintomo, oppure ci possono essere lievi dolori o piccole perdite ematiche, altre volte si manifesta con evidenti perdite o dolori più forti. Il riscontro e la diagnosi possono quindi essere occasionali o più prevedibili, la coppia può arrivare alla consulenza con una relativa certezza di ciò che è accaduto o con una totale inconsapevolezza.


Frequentemente è il medico di Pronto Soccorso che si trova a dover fare la diagnosi, aggiungendo la difficoltà della mancata conoscenza della donna, delle sue attese e dei suoi trascorsi, alla difficoltà del comunicare una brutta notizia.


Correttamente, la prima informazione riguarda il riscontro oggettivo: “Non vedo (o non sento) il battito”. Questa frase così temuta, può essere un buon inizio per una buona comunicazione. Il professionista descrive ciò che osserva e si rende disponibile ad accogliere gli effetti che questa informazione origina.


Non sempre, però, un buon inizio si traduce in un buon esito della comunicazione perché provare empatia (dal greco “ενπαθεια= empatheia” a sua volta composta en- “dentro” e pathos “sofferenza o sentimento”) significa anche esporsi al rischio di non riuscire a distinguere il confine tra vita professionale e privata, arrivando, a propria volta, a soffrire.


Tra le abilità professionali c’è la capacità di saper entrare in empatia, ma nello stesso tempo è necessario saper scindere la propria esperienza personale dalle decisioni prese in ambito lavorativo. Purtroppo non sempre questo avviene in modo compiuto e le esperienze precedenti, personali e professionali, possono condizionare pesantemente l’assistenza e la relazione.


Dopo il mio secondo aborto spontaneo è diventato difficile seguire le donne in gravidanza in ambulatorio ostetrico, mi rendo conto che faccio fatica.

Dopo tre aborti e il peso dell’inseminazione artificiale abbiamo deciso di rinunciare e ora è troppo pesante, non riesco più a stare così vicino ai neonati.


Tra le reazioni più frequentemente osservate c’è la paura del dolore di ogni genere, in questo caso accentuato dalla presenza del lutto, probabilmente l’ultimo vero tabù della nostra società. Le decisioni che possono essere prese in queste circostanze, possono spesso essere ricondotte all’atteggiamento “paternalistico” che contraddistingue buona parte dell’assistenza in Italia. Il professionista agisce mettendo in atto ciò che lui ritiene la cosa migliore anziché tentare di aiutare la coppia a individuare ciò che sarebbe più opportuno per il loro processo di elaborazione del lutto. Si fa spesso riferimento immediatamente al “fare” e si mettono in atto molte procedure che potrebbero essere posticipate o addirittura evitate. Il cosiddetto “atteggiamento d’attesa” che si può adottare fino all’ottava settimana di gestazione e che consiste nell’attendere l’espulsione spontanea del prodotto del concepimento, concedendo alla donna di poter far fronte con le proprie forze all’espletamento dell’aborto, spesso non viene nemmeno proposto. Le indagini successive sull’embrione (esame istologico, cariotipo) impediscono un contatto concreto con il bambino. L’azione, su cui per molti anni si è concentrata la formazione delle professioni sanitarie, diventa più importante dell’ascolto e dell’osservazione.


Da un po’ mi sentivo diversa, questa gravidanza non era come quella precedente. Un giorno ebbi dei dolori forti, andai in bagno e lui uscì. Era piccolo ma completamente formato. Lo avvolsi in un telo e andai in ospedale. Dissi alla dottoressa che glielo avrei fatto vedere soltanto se avessi potuto riportarmelo a casa e lei, fortunatamente, acconsentì.


In alcuni casi di urgenza, alla coppia non resta nemmeno il tempo minimo necessario per realizzare l’accaduto: la donna viene immediatamente sottoposta alle procedure previste dal protocollo (vestizione, posizionamento dei presidi necessari all’intervento, somministrazione di farmaci) e si ritrova in sala operatoria senza aver nemmeno avuto qualche minuto di intimità per “salutare” il proprio bambino. A sei ore dal rientro in reparto la signora può essere dimessa. Il benessere fisico è garantito, quello emotivo è ignorato.


Facilmente, nessun sanitario nelle settimane successive chiederà più a quella donna “Come va?”. Questo genere di approccio è, nella maggioranza dei casi, funzionale all’organizzazione di reparto, fornisce ai professionisti un buon alibi per non farsi troppo coinvolgere e lascia i genitori soli di fronte all’accaduto.


In altri casi le condizioni della donna permettono di poter attendere alcune ore e spesso si può programmare un intervento nei giorni successivi. Questo atteggiamento, anche se, a prima vista, può sembrare irresponsabile e ingiustificato, sarebbe preferibile, poiché dà alla coppia la possibilità di prendere coscienza dell’accaduto, riflettere sulle scelte proposte dai sanitari, poter fare delle domande e ricevere delle risposte prima di subire qualsiasi tipo di intervento invasivo e, in alcuni casi, di arrivare al ricovero con un processo di lutto più maturo e più ricettivi alla proposta di aiuto che possa arrivare dal personale.


Capita di frequente vedere le donne sottoposte all’intervento di revisione della cavità uterina particolarmente tranquille. Questo tipo di reazione è molto comune nei primissimi giorni, è una modalità di autodifesa ma non significa affatto che la donna sia davvero disinteressata a ciò che è successo. Spesso questa reazione pare essere la più adeguata a un ambiente poco accogliente come l’ospedale, dove le regole, le procedure, la sterilità e l’efficienza del personale occupano ogni spazio, soffocando il bisogno delle persone di sentirsi meno esaminate, meno giudicate.


Mi capitava di vedere queste donne entrare in sala operatoria per la revisione della cavità, erano rilassate, tranquille e io pensavo che fosse molto strano, mi chiedevo se, realmente, volevano bene ai loro bambini. Poi è successo anche a me e mi sono comportata nello stesso modo. Solo alcuni giorni dopo ho sentito davvero il vuoto.


Culturalmente siamo portati a pensare che una coppia che abbia subito un lutto desideri solo silenzio e intimità, capita spesso che si riducano gli ingressi nella camera per “lasciare tranquilli” i genitori e le dimissioni vengono anticipate “per evitare che senta gli altri bambini piangere”. Pur essendo questi degli aspetti importanti, è essenziale che sia riservato alla coppia uno spazio per fare delle domande e ricevere delle risposte chiare e tempestive.


Può essere utile un ricovero in ginecologia anziché in ostetricia (nelle strutture che dispongano di reparti separati) oltre che consegnare alla coppia uno scritto che riassuma le formalità a cui dovranno adempiere nei giorni successivi e le modalità di accesso ai servizi (orari, indirizzi, ecc.):


Quando morì mio padre cercarono di nascondermelo per un po’. Trovavo insopportabili quelle bugie dette nel tentativo di proteggermi. Temevano che avrei reagito male ma, in questo modo, non fecero altro che aumentare la mia rabbia. Volevo solo la verità, volevo delle risposte e volevo poter esprimere a qualcuno ciò che stavo provando. Quella coppia non ha potuto vivere completamente quella storia, non c’è stato il tempo materiale di poterli incontrare ancora, avrei voluto vederli, parlare con loro, ascoltare i loro racconti.


Alcune volte manca totalmente la comprensione di ciò che è avvenuto a causa dell’utilizzo di termini tecnico-scientifici, banali per il sanitario ma ermetici per la coppia. I termini “impianto”, “embrione”, “cavità”, non corrispondono alla visione materna della gravidanza. Per la donna si tratta di un figlio, di un bambino che esiste e vive nella sua famiglia, che spesso ha già determinato cambiamenti importanti nella vita dei propri genitori (la scelta di lasciare/cambiare il lavoro o di comprare una casa o un’auto più grande, il matrimonio… ognuna di queste scelte a lungo termine ricorderà per molto tempo a quella famiglia il momento della perdita), cambiamenti che non verranno asportati nel corso dell’intervento a cui la donna viene frettolosamente preparata.


Il linguaggio scientifico si basa su presupposti molto concreti, ogni evento deve avere una dimostrazione oggettiva e nessuno ha ancora dimostrato con metodo scientifico che l’embrione è una persona. L’atto, quindi, può essere esclusivamente tecnico correndo concretamente il rischio di essere insensibili mentre spesso non si tratta di reale insensibilità ma di semplice imbarazzo, di difficoltà nel trovare le parole giuste, di paura di ripercussioni medico-legali. Capita spesso che, davanti a una diagnosi di assenza di battito, si richieda l’intervento di un collega per confermare la diagnosi. Questa, che potrebbe sembrare un eccesso di scrupolo, è una richiesta che ha diversi scopi perché permette di insinuare nella donna il dubbio che qualcosa non va, rendendola più ricettiva alla successiva comunicazione della perdita, permette di avere una maggiore sicurezza nell’interpretazione dell’immagine ecografica ma, soprattutto, soddisfa il bisogno del professionista di avere a fianco un supporto per riuscire a trovare le giuste parole per comunicare la diagnosi, per superare l’imbarazzo e per essere, al contempo, esaustivo:


Non so se il medico mi ha detto la verità, com’è possibile che la gravidanza prosegua se non c’è il bambino? Mi ha fissato un appuntamento per l’intervento ma io non capisco se veramente non c’è più nulla da fare.


In altri casi l’aborto arriva dopo una miriade di controlli fatti per valutate il benessere del concepito. L’evento luttuoso, in questo caso, appare, più o meno consapevolmente, come un tradimento: la Medicina e la Tecnologia non hanno saputo salvare quel piccolo essere vivente. Purtroppo spesso questo messaggio viene inconsciamente alimentato dall’atteggiamento di una parte della classe sanitaria la quale avalla il concetto che “un controllo/ esame in più è meglio di un controllo/esame in meno”, tacendo sugli obiettivi e sui vantaggi di una medicalizzazione così spinta. Ogni indagine, ogni ecografia, ogni visita, dovrebbero avere un fine preciso, dovrebbero rispondere a un quesito diagnostico. Qualsiasi atto medico ingiustificato potrebbe essere potenzialmente dannoso, inquina il rapporto operatore sanitariogestante offrendo la falsa garanzia di una gravidanza salvaguardata dalla forza della Scienza e lascia i genitori nell’impossibilità di affrontare il lutto come un normale evento della vita. La medicina ci ha abituati a soluzioni rapide e indolori per una buona parte dei problemi. Se questo può, per molti versi, essere un aspetto positivo, in altri casi ha venduto l’illusione di avere una soluzione per ogni contrattempo, evitando la fatica e la sofferenza.


La prima cosa che ho chiesto è stata: “Cosa ho fatto di sbagliato?”

Avevo fatto tutti i controlli e tutti gli esami consigliati, fino a tre giorni prima andava tutto bene, era tutto normale, pensare che facevo una visita ogni 15 giorni…

Implicitamente il messaggio che arriva ai genitori dalla stampa commerciale e dagli altri media è che la gravidanza termina sempre con un bambino sano, bello, spesso biondo, sicuramente vivo, grazie al moltiplicarsi delle cure a cui le donne si sottopongono con diligenza.


La morte non è contemplata, la possibilità che un evento estremo possa verificarsi viene accuratamente taciuta da una medicina che ha accettato di assumersi il ruolo di risolutrice di ogni problema, dimenticando che la sofferenza emotiva di una perdita non si può né risolvere con dei farmaci, né compensare semplicemente con una successiva gravidanza, ma si può superare e metabolizzare soltanto affrontando un sano percorso di lutto che preveda anche il passaggio, integrale, senza sconti, attraverso il dolore.


Dietro la facciata del rapporto professionale, però, si celano spesso storie personali pesanti che possono venire evocate dal contatto occasionale con situazioni simili. Anche i professionisti possono aver vissuto esperienze personali o lavorative molto dolorose.


Si può vivere la paura di aver commesso degli errori, di dover affrontare delle accuse. Entra in gioco la questione della responsabilità professionale che induce a caricare di importanza l’atto sanitario che viene eseguito in modo impeccabile, si compilano con cura i documenti pensando a un’eventuale autodifesa successiva e si tralascia l’aspetto più essenziale in un rapporto di fiducia com’è quello tra professionista e cliente: l’informazione e la scelta condivisa. Quest’ultimo tipo di approccio garantisce una maggiore sicurezza per tutti gli attori poiché permette di affrontare con piena consapevolezza le scelte più difficili, abbassa il contenzioso medico legale e permette di portare la comunicazione su livelli meno sbilanciati, su rapporti di potere più equi. Il cliente può essere visto come persona anziché come potenziale avversario.


Un aspetto sempre molto trascurato è la difficoltà del sanitario nel vivere l’assistenza in condizioni difficili. Anche tra professionisti si dà per scontato che, dopo un certo tempo, sia possibile “farci l’abitudine”, sia normale convivere con l’emergenza. Nessuno spazio viene riservato alla rielaborazione dell’accaduto e solo in poche realtà il confronto e la discussione di gruppo vengono regolarmente organizzate per discutere, analizzare e metabolizzare gli eventi pesanti. In psicologia, questo tipo di intervento viene chiamato “defusing” e consiste nel rielaborare brevemente e nel gruppo di colleghi l’avvenimento, nel tentativo di ridurne l’impatto emotivo e di offrire una visione più oggettiva dell’accaduto. Si tratta di un intervento da realizzare nelle ore successive all’evento. Soltanto quando necessario si può ricorrere al “debriefing”, intervento più strutturato mediato da un esperto (in genere uno psicologo) da riservare a situazioni che necessitino un approfondimento maggiore. Lasciare questo aspetto alla solidarietà dei colleghi è un rischio notevole; nelle Aziende più attente viene richiesto ai dirigenti di occuparsi del benessere emotivo e relazionale dei loro collaboratori.


In questi sette anni in ospedale tutti sapevano che stavo passando problemi legali e tutti sapevano che non avevo nessuna responsabilità, eppure nessuno mi ha mai chiesto: “Come stai? Com’è finita?”. Mi sentivo addosso gli sguardi della gente, non uscivo più di casa.

È assurdo, tu che sei un’allieva mi chiedi come sto mentre nessuna delle mie colleghe mi ha detto una parola.


Il sostegno dell’équipe è fondamentale: sentire di non essere soli, durante o dopo l’assistenza, può fare la differenza:


Mi sentivo estremamente debole, sentivo che io non avrei retto a un dolore così grande. Avevo paura di sbagliare. Fortunatamente c’era B. vicino a me, lei era tranquilla, non so come facesse a essere così tranquilla, era discreta e non mi ha lasciata mai, la sua voce era calma e questo era di grande conforto.

Avevo chiesto a E. di starmi vicina anche se, in realtà, non c’era bisogno di un aiuto pratico. Per me era la prima volta, a me, così sicura, tremavano le mani ma sapevo di non dovermi preoccupare per questo, lei avrebbe capito.


Le esperienze vissute in precedenza, i propri lutti familiari, possono riemergere con forza, si può scoprire che il dolore vissuto in altri momenti della propria vita è ancora presente:


Pensavo: “Ho già sofferto abbastanza, la mia dose l’ho già avuta, ora basta!”, invece, in quel momento, mi sono accorta che può capitare di nuovo, anche se non vuoi, succederà ancora.


Uno spazio per potersi confrontare può aiutare a “normalizzare” ciò che si prova, a riconoscersi il diritto a provare delle emozioni.


Ciò che è essenziale è essere consapevoli che il ruolo di cura impone di dover dare sostegno alla coppia. Questo rapporto non deve mai essere rovesciato. I genitori dimostrano di apprezzare un professionista che dica “Mi dispiace” o esprima in altro modo il proprio rammarico:


Secondo te è sbagliato farsi vedere a piangere? Io non sono proprio riuscita a trattenere qualche lacrima, pensavo che quello che stavano vivendo era un dolore enorme e nessuno poteva fare niente.


La tecnica del debriefing può essere utile anche per analizzare le scelte effettuate in una determinata situazione, per sottoporle a un’analisi oggettiva e stabilire cosa sia corretto fare o cosa sia meglio evitare. Talvolta la fretta, la paura di conseguenze medico-legali, la compresenza di troppi specialisti, rendono difficoltosa una serena gestione del caso. Può succedere che vengano persi di vista i riferimenti scientifici che devono guidare nelle scelte e, ancora una volta, si trascuri di condividere le scelte con i genitori. È possibile che non si riesca a dare ciò che si pensa sia il meglio perché le opinioni tra professionisti possono essere divergenti e le competenze potrebbero sovrapporsi:


Ricordo che all’università ci dicevano di non farlo mai, in quella situazione non va mai fatto, nessuno può sapere com’è quel bambino. Poi la signora è stata sedata con la scusa che così non avrebbe ricordato nulla. Io sentivo che non era giusto e ho provato a dire che questo non sarebbe stato realmente d’aiuto. Penso che vedere aiuti a capire che è successo davvero, che è realmente così.

Se mi morisse un parente e mi sedassero per farmi dimenticare, potrei reagire in modo violento, vorrei ricordare ogni singolo istante del passaggio di questa creatura tra noi. Non credo che sia stato dato il massimo, in questo caso.

È così difficile pensare che la donna potrebbe aver bisogno di più tempo? Che fretta c’è?

È stato un bene che dormisse, così non ricorderà nulla di quel momento. Hanno fatto tutto in fretta, anche per il marito è stato meglio, non è un bello spettacolo.

Anch’io ho avuto fretta, dovevo saper aspettare di più, ma tutti si agitavano attorno…


Il rientro a casa è difficoltoso, può essere difficile “staccare”, si tratta di riuscire a separare la vita professionale da quella personale, cosa estremamente difficile da fare quando il coinvolgimento emotivo è superiore a un certo limite. La quotidianità è ancora più pesante se il ruolo di cura prosegue anche a casa con bambini o parenti.


Quel giorno, quando sono tornata a casa, mi sono trovata subito qualcosa da fare, avevo bisogno di riempire il tempo per non pensare e sono andata in giardino a sistemare i fiori.

Lei era l’ultimo pensiero prima di addormentarmi e il primo quando mi svegliavo al mattino. È stato così per un paio di settimane.


Lavorare attorno alla nascita significa accettare di condividere con le persone un momento di passaggio fondamentale ed estremamente pregnante. Le emozioni forti che la circondano rendono il ricordo vivido in qualsiasi caso, anche quando le cose non vanno bene.

Il compito dei professionisti è quello di permettere alla coppia di vivere la migliore esperienza compatibilmente con il livello di cure necessario. Grande attenzione dovrebbe essere quindi riposta all’assistenza in caso di lutto poiché l’azione sanitaria è fortemente ridimensionata, mentre l’azione di tipo relazionale continua a mantenere un’importanza immutata. Parole, gesti, tempi… possono incidere sulla capacità della coppia di ricostruire il proprio percorso con quel bambino. Il vero aiuto sta nel tentare di mettere a loro disposizione tutte le tessere del mosaico che dovranno ricostruire, da soli o con il nostro aiuto ma sempre con la piena consapevolezza di avere condiviso ogni scelta, sapendo che il dolore necessario a guarire quella ferita emotiva può essere spostato o diluito, ma non cancellato.2

Quando l'attesa si interrompe
Quando l'attesa si interrompe
Giorgia Cozza
Riflessioni e testimonianze sulla perdita prenatale.La perdita di un bambino durante la gravidanza è sempre una tragedia, vissuta spesso da sole e senza l’adeguata vicinanza emotiva. Ma si può superare. Quando si perde un bambino non si può dimenticare lo smarrimento, la solitudine e l’angoscia che una donna prova. Un aborto spontaneo è un dolore grande, è una promessa di gioia senza fine che si infrange all’improvviso, lasciando nel cuore amarezza, delusione, incredulità. I dati clinici sono allarmanti: il 15-25% circa delle gravidanze si interrompe spontaneamente nel primo trimestre, e ogni anno in Italia circa 2 gravidanze su 100 si concludono con una morte perinatale. Perché mai è successo?Capiterà ancora?Ce la farò a diventare madre?Dovrei fare ulteriori controlli e accertamenti?Perché gli altri non capiscono questo dolore?E il futuro padre? Cosa prova un uomo che perde un figlio?Molte domande, poche risposte. Esistono centinaia di titoli su gravidanza, nascita, accudimento dei figli, ma mancava un libro che parlasse dell’aborto spontaneo, un’esperienza che, purtroppo, riguarda tante donne.Perché parlarne è un modo di riconoscerne l’importanza. Raccontare la propria storia, rivivere certi momenti per alcune donne è difficile e doloroso, mentre per altre è un’opportunità per comprendere meglio le proprie emozioni e riconciliarsi col passato. Quando l’attesa si interrompe si propone di offrire una risposta agli interrogativi più comuni quando si perde un bimbo nell’attesa o subito dopo la nascita. È difficile parlare di questo dolore, perché al dispiacere si aggiunge anche la devastante consapevolezza di non essere comprese. Uscire dal silenzio che molto spesso avvolge questi argomenti, rendendoli quasi dei tabù, può essere di grande aiuto non solo per la donna, ma anche per chi le sta accanto (partner, familiari, amici, operatori sanitari) e vorrebbe offrirle il proprio sostegno emotivo. Grazie ai contributi di numerosi esperti (ostetriche, psicologi, ginecologi, neonatologi) l’autrice Giorgia Cozza offre una chiave di lettura delle reazioni fisiche ed emotive della donna (e della coppia), riflettendo sulle tappe e sui tempi di elaborazione del lutto.Le testimonianze, intense e commoventi, di tanti genitori che hanno perso il proprio figlio vogliono essere una mano tesa verso ogni donna che sta soffrendo e ha bisogno di sapere che non è sola. Conosci l’autore Giorgia Cozza è una mamma-giornalista, specializzata nel settore materno-infantile, autrice di libri per bambini e numerosi manuali per genitori, divenuti un importante punto di riferimento per tante famiglie in Italia e all’estero.È stata relatrice in numerosi congressi per genitori e operatori del settore e ospite di trasmissioni televisive per rispondere a quesiti legati all’accudimento dei bimbi e a uno stile genitoriale ecocompatibile.