seconda parte - Perderlo nel cuore dell’attesa

La tua carezza dentro di me,
come ali di farfalla

Mi chiamo Elena, ho due bellissime bambine che sono nate nel 2002 e nel 2004 e, dopo un po’ di anni, io e mio marito abbiamo deciso che ci sarebbe piaciuto un altro cucciolo. Quando ho scoperto di essere in attesa, sono stata colta da una serie di preoccupazioni, i miei genitori che non accettavano l’idea di un terzo nipote, il lavoro… E il piccolo cadde in secondo piano.


Non avevo detto nulla a nessuno, neanche alle bambine, ma ciò non ha reso meno dolorosa la scoperta, a nove settimane, che il suo cuore non batteva più. Sono caduta nello sconforto, era una sensazione di vuoto e inadeguatezza che non mi aspettavo e in più mi sentivo in colpa per non aver messo quel piccolo, seppure nelle sue poche settimane di esistenza, al centro dei miei pensieri.


Dopo tre mesi ho scoperto di esser nuovamente incinta, e questa volta ho cercato di essere il più serena possibile. È vero che avevo paura, però ero consapevole che la mia piccola (ero convinta fosse una femmina) si meritasse tutte le attenzioni e la gioia per la sua esistenza. Non ho avuto il coraggio di lasciare il lavoro, però ho rallentato il ritmo, ridotto gli orari, dedicato attenzioni alla mia famiglia e alle mie bambine che erano felicissime per l’arrivo del “fra tre llino”. Le nausee, come sempre, mi hanno accompagnato quotidianamente, ma quando, dopo le dodici settimane, sono scomparse, ho attribuito la cosa all’avanzare della gravidanza. Avevo un bel pancione ed ero felice, avevo visto la mia piccola in ecografia, mi aveva anche fatto un ciao con la mano. Però verso Natale qualcosa ha iniziato a non funzionare. Nessun sintomo, nessun malessere, solo un’insonnia più greve del solito e pensieri cupi. La mattina del 30 gennaio non ho più resistito, ho chiamato la mia ginecologa che è un’amica e le ho chiesto di farmi un controllo: lì ho scoperto che anche il cuore di Clementina, così l’avrei chiamata, non batteva più. Ero a sedici settimane di gravidanza ma, probabilmente, era da un po’ che Clementina se n’era andata. Non riesco a descrivere le mie emozioni di allora: vuoto, inadeguatezza, sconforto, solitudine.


Ora sto aspettando di nuovo che un piccolo angelo mi scelga come mamma. Non so come andrà a finire, ho molta paura e, in fondo, la mia famiglia mi basta: ho due bambine meravigliose e un marito che amo moltissimo. Però io e mio marito abbiamo deciso che nella nostra famiglia c’è lo spazio per un altro bimbo e che non è giusto sia la paura a fermarci.


Se le cose non dovessero andare nel verso giusto abbiamo comunque già molto, ma in ogni caso ci sentiamo pronti a riprovare. Spero di rileggere queste righe fra qualche tempo con il cuore più leggero e con un bimbo fra le braccia.


Elena

Scoprii che stavamo aspettando due bimbe in occasione di un controllo ecografico. Mio marito era ancora fuori a parcheggiare e io ero stata chiamata per entrare dal medico. Per fortuna ero sdraiata, perché l’emozione fu davvero grande. Quando arrivò mio marito, rimase anche lui allibito e felice.


Non sapevamo come comunicare la notizia alla nostra bambina, Valentina, e a tutta la famiglia. Ci furono grandi momenti di eccitazione ma anche di timore perché le cose già per due volte non erano andate a buon fine.


Poi grande attenzione e grandi preparativi perché tutto potesse essere pronto quando il momento fosse arrivato.


Al quinto mese, però, cominciai a stare poco bene, in ospedale mi dissero che c’era un inizio di travaglio e che non si poteva fare nulla poiché le bimbe erano troppo piccole. Trascorsero altri dieci giorni nell’angoscia e nella consapevolezza che tutto si sarebbe concluso presto.


Nacquero così in una sera d’estate, in un ospedale inospitale, le nostre due bimbe perfette ma troppo piccine e furono trasportate via. La mattina seguente mio marito mi disse che non ce l’avevano fatta…


È passato tanto tempo, ventidue anni. Dopo sette anni rimasi nuovamente incinta e, arrivata al quinto mese, superarlo non fu facile. Eppure ce l’abbiamo fatta e la nostra Silvia è stata la più grande gioia per noi e per Valentina.


Per superare il periodo di depressione e dolore mi sono avvalsa di un aiuto psicologico, e più ancora mi ha aiutato pensare che quello che era accaduto faceva parte di un disegno, che le mie bimbe sono come dei palloncini colorati nel cielo: sai che sono sfuggiti a un bambino, ma che sono lì e rallegrano comunque quel cielo azzurro. Inoltre le ringrazio di aver fatto parte della mia vita perché mi hanno aiutato a essere quella che sono, una mamma e una donna felice, che attraverso la mia professione di doula (o educatrice perinatale) dà la possibilità ad altre mamme di vivere serenamente la gravidanza e il parto, o anche solo i primi giorni con il proprio bimbo.


Quando penso alle mie piccole Viviana e Vanessa, prendo dei fiori dal giardino, li metto in un vaso, accendo quattro candeline e so che loro sono lì con me!


Virginia

Mi chiamo Milena e sono mamma di tre bimbi1: Elisa Maria, Giovanni Luca e Maristella.

Le mie esperienze di perdita, purtroppo, sono state tre, due prima di Elisa e una – la più dolorosa – fra lei e Giovanni. La prima volta è stato un aborto spontaneo alla settima settimana, l’espulsione è stata spontanea, e non c’è stato bisogno di raschiamento, ma è stato un vero e proprio shock. In ospedale il personale medico è stato molto sbrigativo e poco delicato: “Sono cose che succedono, era solo la settima settimana, magari non se ne sarebbe neanche accorta”…


La seconda volta si è trattato di quello che in gergo medico si definisce un “uovo bianco”, ossia una camera gestazionale senza embrione. Sembrava andasse tutto bene, io mi sentivo bene, non avevo sintomi, ma con l’ecografia alla decima settimana la mia ginecologa si è accorta che non c’era battito. Ho dovuto fare il raschiamento. È stato molto brutto perché mi hanno ricoverato nel reparto di maternità: ero in camera con una mamma che aveva appena partorito, quindi si può immaginare il mio stato d’animo. Ma la cosa peggiore è stata l’induzione delle contrazioni per favorire la dilatazione del collo dell’utero: una vera tortura!


La parte più dolorosa in questo caso sono state tutte le ricerche e le analisi cui mi sono sottoposta in seguito, per verificare che non ci fossero problemi, visto che avevo avuto già due aborti a soli ventisei anni! Mi hanno rivoltato come un pedalino, letteralmente, ho fatto tutte le indagini genetiche (con mio marito) e anatomiche (isteroscopia, monitoraggio dell’ovulazione, dosaggi ormonali vari, controllo della tiroide). Alla fine sono risultata “normale” perciò ci abbiamo riprovato, anche se con tanti timori: io credevo che non avrei mai potuto avere figli… E invece è nata Elisa. Una gravidanza splendida! Così mi sono ‘rilassata’, ma la prova più dura doveva ancora arrivare. Quando Elisa aveva circa 18 mesi sono rimasta incinta di nuovo, contentissima.


Sembrava che tutto andasse bene, ma alla quindicesima settimana si scopre una grave anomalia genetica. Al controllo successivo, durante l’ecografia, la ginecologa si accorge che il feto è morto. Aveva avuto un arresto cardiaco, probabilmente il giorno prima. Evidentemente l’anomalia era incompatibile con la vita. Mi sembrava di morire. Per fortuna questa volta con l’assicurazione sanitaria del mio ufficio sono riuscita a farmi ricoverare nella clinica privata dove opera la mia ginecologa che ha eseguito il raschiamento con l’epidurale. Almeno fisicamente, con l’anestesia, non ho sofferto.


È emerso che si trattava di una “mola parziale vescicolare” ossia un’anomalia della placenta che si era trasformata in un tessuto di carattere tumorale, mentre la bambina aveva una trisomia. Il dopo è stato durissimo. Quello che mi ha aiutato tanto è stato avere già Elisa, perché è stato per lei che sono riuscita a non cadere in depressione.


E poi la fede. E la fiducia che non si esauriva tutto in quel momento difficile. Il volerci riprovare, anche a costo di soffrire ancora, il desiderio forte di questi figli. E la fiducia che tutto quello che stavo vivendo aveva un senso per me, anche se in quel momento non capivo quale.


Milena

Ero appena tornata a casa quando il telefono squillò, ero incinta alla ventesima settimana. Era la segretaria dell’ospedale che mi diceva che il tritest aveva evidenziato un’alterazione nel dosaggio dell’alfafetoproteina per cui era bene fare l’amniocentesi.


Due giorni dopo mi sono sposata e invece di partire per il viaggio di nozze sono andata a fare l’amniocentesi inventando una scusa con genitori e sorelle per non mettere tutti in ansia. Qualche giorno dopo ho saputo che quel valore era a posto, insomma andava tutto bene, era stato solo un errore. Mancava ancora il risultato della mappa genetica, è vero, però partimmo contenti per il nostro viaggio.


Il giorno in cui mio marito ha ripreso il lavoro (è medico e lavora nello stesso ospedale dove venivo seguita in gravidanza), al suo rientro a casa, quando era ancora sulla porta, i nostri sguardi si sono incrociati e… ho capito subito che c’era qualcosa che non andava con l’amniocentesi.


Morbo di Klineferte (non sono neanche sicura che si scriva così) vale a dire il bimbo – era un maschio, si sarebbe chiamato Giacomo – aveva un cromosoma in più: XXY al posto di XY.


Sono stata ricoverata in ospedale e mi hanno indotto il parto con le prostaglandine: nessuna dilatazione, ma dolori terribili e tutti gli effetti collaterali del farmaco usato, nausea, vomito, dissenteria, sfoghi sulla pelle. Tutto questo è durato un giorno intero senza alcun risultato. Il giorno successivo hanno ricominciato con flebo di ossitocina e sono iniziate delle contrazioni intense come quelle del parto, finché alla sera, quando ho raggiunto otto centimetri di dilatazione, con alcune spinte ho “partorito”. Lo scrivo tra virgolette perché si presume che partorire significhi dare alla luce un bimbo nato a termine, che debba vivere, mentre nel mio caso la situazione era diversa.


In quei momenti terribili mio marito è rimasto sempre con me, sia di giorno che di notte, e ricordo che al momento dell’espulsione continuavo a dirgli di non guardare.


Avevo chiesto io di non vedere niente per la paura di non togliermi più dagli occhi quell’immagine.


I mesi successivi sono stati tremendi. Nonostante le pastiglie, continuavo a perdere latte. Camminando per strada mi sentivo come se mi avessero amputato qualcosa e avevo l’impressione che tutti i passanti dovessero accorgersene, in più mia sorella, mia cugina, una cara amica e una collega erano incinte…


Con mio marito le cose non andavano benissimo perché lui non voleva più parlare di questa storia mentre io non avrei mai smesso di farlo. Ho iniziato psicoterapia, un percorso che è durato tre anni.


A distanza di mesi sono anche andata all’ospedale a leggere la cartella dove c’era il referto dell’anatomopatologo che confermava la diagnosi, ma sono andata da sola.


Prima di rimanere incinta di Camilla, che ora ha 13 anni, sono passati dieci mesi terribili: a ogni mestruazione avevo paura di non poter avere più bambini, ed ero tormentata dal senso di colpa per la responsabilità della scelta fatta. Per Camilla non mi sono sentita di fare l’amniocentesi perché quando conosci quello che ti aspetta, tutto è molto diverso, non mi sentivo più di decidere della vita di un bambino, ho pensato: “Stavolta lascio decidere al destino”.


Il cerchio però si è chiuso quando nel 2001 è nato Giacomo. Sono passati quindici anni e ovviamente mi sento bene, ci sono i bambini che riempiono la vita, ma non posso dire di aver dimenticato quell’esperienza devastante e quel Giacomo che non è mai nato, ma che rimarrà per sempre nel mio cuore.


Federica

La mia seconda bambina è arrivata dopo molto tempo che la cercavo, iniziava l’estate. Ho passato l’estate del 2007 al settimo cielo, avevo il mio tesoro di due anni e mezzo e nella mia pancia cresceva una nuova vita. È stata l’estate più bella della mia vita. Tutto procedeva bene, nessun disturbo, alle visite tutto bene, fino al 22 ottobre del 2007. Ricordo tutto di quel giorno. Come è stampato nella mia mente tutto ciò che accadde dopo. La mia bimba era affetta da spina bifida. Non è descrivibile come le parole mi tuonavano nella testa e il cuore mi batteva forte nel petto, così forte che a un certo punto non riuscivo a sentire più niente. Quando tornai a casa strinsi forte mio figlio al petto quasi a non volerlo più lasciar andare, e mi preparai ad affrontare la cosa più terribile della mia vita. Pianificare la morte di mia figlia. Sono state giornate lunghe e dolorose, la sentivo muovere dentro di me e non riuscivo a togliere le mie mani dalla pancia, volevo sentirla per imprimere nella mente quella sensazione e volevo che si fermasse perché da lì a breve non l’avrei più sentita e mi faceva star male. Il 25 ottobre alle 10.30 mi hanno indotto il parto. Il travaglio è iniziato alle 12.25. Non facevo niente altro che piangere, soprattutto quando ho visto le prime perdite di sangue. Mia figlia stava morendo e con lei una parte di me. Il travaglio è stato terribile. Potrei raccontarvi ogni minuto, ogni secondo, tanto sono ancora chiari nella memoria. Hanno permesso a mia sorella di rimanere con me fino a che mi hanno portata in sala parto, da lì sono rimasta sola. Sola sul serio, visto che nessuno è entrato in quella stanza fino a quando io ho gridato che mia figlia era nata, erano le 20, circa. L’ho tenuta con me per un po’. L’ho baciata, accarezzata, le ho chiesto di perdonarmi, visto che io non mi sarei mai perdonata, per non aver avuto la forza di accettarla per quello che era e combattere per farla vivere. Poi il buio.


In quel buio ci vivo dal 22 ottobre 2007.


Laura

Io e Vanessa abbiamo dovuto prendere la decisione di interrompere la gravidanza nel momento in cui ci hanno diagnosticato una trisomia 13 del nostro bimbo. Malattia tanto rara, quanto devastante.


La prima volta che ho visto Pietro in sala parto mi sono sentito impotente: era un bimbo piccolino, immobile, rannicchiato nella posizione classica fetale, occhietti chiusi, senza un gemito. Era morto e ho pianto, tanto.


Un pugno nello stomaco, forte da toglierti il fiato. Le lacrime non le ho proprio potute controllare anche se volevo farlo.


Non ha fatto movimenti, non ha detto niente, ha dovuto solo subire il suo destino. In silenzio. Personalmente sono sicuro di aver preso la decisione giusta soprattutto per lui, ma è comunque difficile e resterà inaccettabile.


Lo abbiamo battezzato, Pietro.


Per noi papà, secondo me, è molto diverso il dolore che si prova in quanto il rapporto strettissimo che ha la mamma fin dal concepimento lo possiamo solo immaginare. Anzi no, da questa esperienza che ho vissuto, penso sia inimmaginabile perché sono quei sentimenti talmente profondi e primitivi che solo provandoli puoi capire la loro vera natura. È come quando sono diventato papà per la prima volta: solo allora ho capito veramente l’affetto che un genitore prova verso i figli. È un sentimento che non si può proprio immaginare.


Comunque posso assicurare che è un dolore forte, intenso. La grossa differenza penso sia che per me è un dolore molto concentrato: solo quando ho di fronte il fatto mi sento male (quando l’ho visto all’obitorio, quando sono andato a fargli visita nel suo loculo provvisorio, quando lo abbiamo sotterrato), mentre per la mamma è un dolore ugualmente forte ma continuo.


Difficile è stato dargli l’ultimo saluto nella camera mortuaria dell’ospedale. È arrivato nel momento stesso in cui entravo per chiedere cosa dovevo fare a livello burocratico; volevamo portalo via con noi e dargli una sepoltura vicino a noi. Ho chiesto se potevano farmelo vedere un’ultima volta: era piccolino avvolto nella copertina di sua mamma di quand’era piccina, con il coniglietto di Emma e Nicola. L’ho chiamato. Non so perché ma l’ho fatto. Mi aspettavo che si muovesse, non lo so. Ho pianto, gli ho detto che mi dispiaceva, l’ho baciato e sono andato via lasciandolo solo.


Fa male, tanto male, adesso scrivendo queste parole ho le lacrime agli occhi, il groppo in gola.


Pietro rimarrà sempre con me anche se non sono riuscito a conoscerlo, Pietro rimarrà sempre dentro Vanessa perché lei sì, lo ha conosciuto e mai una ferita tanto intima riuscirà a scomparire.


Mario

Quando l'attesa si interrompe
Quando l'attesa si interrompe
Giorgia Cozza
Riflessioni e testimonianze sulla perdita prenatale.La perdita di un bambino durante la gravidanza è sempre una tragedia, vissuta spesso da sole e senza l’adeguata vicinanza emotiva. Ma si può superare. Quando si perde un bambino non si può dimenticare lo smarrimento, la solitudine e l’angoscia che una donna prova. Un aborto spontaneo è un dolore grande, è una promessa di gioia senza fine che si infrange all’improvviso, lasciando nel cuore amarezza, delusione, incredulità. I dati clinici sono allarmanti: il 15-25% circa delle gravidanze si interrompe spontaneamente nel primo trimestre, e ogni anno in Italia circa 2 gravidanze su 100 si concludono con una morte perinatale. Perché mai è successo?Capiterà ancora?Ce la farò a diventare madre?Dovrei fare ulteriori controlli e accertamenti?Perché gli altri non capiscono questo dolore?E il futuro padre? Cosa prova un uomo che perde un figlio?Molte domande, poche risposte. Esistono centinaia di titoli su gravidanza, nascita, accudimento dei figli, ma mancava un libro che parlasse dell’aborto spontaneo, un’esperienza che, purtroppo, riguarda tante donne.Perché parlarne è un modo di riconoscerne l’importanza. Raccontare la propria storia, rivivere certi momenti per alcune donne è difficile e doloroso, mentre per altre è un’opportunità per comprendere meglio le proprie emozioni e riconciliarsi col passato. Quando l’attesa si interrompe si propone di offrire una risposta agli interrogativi più comuni quando si perde un bimbo nell’attesa o subito dopo la nascita. È difficile parlare di questo dolore, perché al dispiacere si aggiunge anche la devastante consapevolezza di non essere comprese. Uscire dal silenzio che molto spesso avvolge questi argomenti, rendendoli quasi dei tabù, può essere di grande aiuto non solo per la donna, ma anche per chi le sta accanto (partner, familiari, amici, operatori sanitari) e vorrebbe offrirle il proprio sostegno emotivo. Grazie ai contributi di numerosi esperti (ostetriche, psicologi, ginecologi, neonatologi) l’autrice Giorgia Cozza offre una chiave di lettura delle reazioni fisiche ed emotive della donna (e della coppia), riflettendo sulle tappe e sui tempi di elaborazione del lutto.Le testimonianze, intense e commoventi, di tanti genitori che hanno perso il proprio figlio vogliono essere una mano tesa verso ogni donna che sta soffrendo e ha bisogno di sapere che non è sola. Conosci l’autore Giorgia Cozza è una mamma-giornalista, specializzata nel settore materno-infantile, autrice di libri per bambini e numerosi manuali per genitori, divenuti un importante punto di riferimento per tante famiglie in Italia e all’estero.È stata relatrice in numerosi congressi per genitori e operatori del settore e ospite di trasmissioni televisive per rispondere a quesiti legati all’accudimento dei bimbi e a uno stile genitoriale ecocompatibile.