capitolo ii

Fisiologia del portare

Il fatto che portare i bambini sia una pratica antica, ancora oggi comune a una grande parte dell’umanità, ci induce a pensare che si tratti di una pratica “originale”, nel senso (quasi) letterale del termine, e profondamente “naturale” nei confronti della prole umana.


Questo è il pensiero di partenza nell’indagine di un significato ampio di questa modalità, che non si vuole limitare a descrivere qualche “beneficio per il bambino” o “vantaggio per i genitori”. Il risultato di questa riflessione è la fisiologia1 del portare.


Come già accennato nell’introduzione, ho tentato di sviluppare un quadro “in positivo”, che da un lato metta insieme conoscenze e nozioni provenienti da diverse discipline che si occupano della natura umana (nel senso più ampio della parola), e dall’altro traduca in teoria ciò che si sperimenta nella pratica. Al suo interno il concetto biologico del portare (capitolo II.1.) diventa la partenza per illustrare poi il concetto della P e dei suoi elementi portanti (capitolo II.2).

II.1. IL CONCETTO BIOLOGICO DEL PORTARE

La biologia comportamentale si occupa delle tendenze biologiche dei comportamenti specifici degli esseri viventi. Anche l’uomo, come mammifero, è incluso. Hassenstein2 parla di “tendenze” perché proprio l’uomo non è solo sottoposto alle leggi della natura che lo governano, ma può scegliere se sottomettersi alla propria natura oppure scegliere di comportarsi in modo diverso, sulla base del libero arbitrio, del senso di responsabilità individuale, ma anche seguendo valori culturali acquisiti.3


Il concetto biologico del portare non è altro che un’introduzione di massima alla “tendenza naturale” (biologica) dell’uomo di portare ed essere portato, come base fondamentale per ogni ulteriore considerazione e riflessione sul tema.

II.1.1.  Introduzione al concetto del portato in etologia (biologia comportamentale)

Dal punto di vista biologico, portare è un concetto preciso per cui una determinata categoria di mammiferi si muove con i propri cuccioli e si prende cura di loro.


Per illustrare l’approccio scientifico mi baso sui lavori di Adolf Portmann, zoologo, di Bernhard Hassenstein, biologo e zoologo, e di Evelin Kirkilionis, etologa, perché questi, negli ultimi quarant’anni, si sono occupati in modo specifico del tema del portare e del suo significato per lo sviluppo del cucciolo d’uomo.

Fino agli anni settanta, in biologia si distinguevano due categorie di cuccioli di mammiferi: i nidifughi e i nidiacei.4


I cuccioli della categoria nidiacei (di cui sono esempi i cani, i gatti, i topi, i conigli) nascono, dopo un periodo breve di gestazione e spesso in gran numero, fortemente immaturi; sono nudi e i loro sensi non sono ancora del tutto funzionanti; sordi e con gli occhi chiusi, assomigliano nella loro morfologia ancora molto poco ai genitori. Molto immaturi anche dal punto di vista motorio, vengono raggruppati dalla madre in un nido, dove passano la maggior parte della giornata da soli e tranquilli mentre i genitori sono in cerca di cibo. L’allattamento non è frequente; ci possono essere delle pause lunghe della durata di 12 ore.


I cuccioli del nidifugo (per esempio il cavallo o la pecora), nascono dopo una lunga gestazione e sono considerati cuccioli maturi; infatti alla nascita assomigliano molto ai genitori e i loro sensi sono sviluppati e funzionanti. Le loro capacità motorie gli permettono di seguire autonomamente la madre e il gregge dopo poche ore dalla nascita. Sono allattati a richiesta e frequentemente.


Sembra che i nidifughi nascano completamente maturi dal punto di vista motorio e sensoriale perché hanno trascorso il periodo di nidiaceo in utero. Lo zoologo svizzero Adolf Portmann5 ha definito la categoria dei nidiacei delle nascite fisiologiche premature. La loro enterogestazione è abbastanza breve, mentre il periodo di maturazione dopo la nascita relativamente lungo.

E il cucciolo dell’uomo? Secondo Portmann il cucciolo dell’uomo doveva essere un nidiaceo secondario. Un aspetto particolare del cucciolo dell’uomo, sempre secondo Portmann, è che non trascorre tutto il tempo fino alla completa maturazione in utero, ma viene partorito prima. Portmann parla di una nascita prematura fisiologica di 12 mesi. Questo significherebbe che il cucciolo d’uomo per arrivare alla completa maturazione dovrebbe rimanere in utero per 21 mesi complessivi.

Anche Ashley Montagu6 afferma:

Poiché il feto umano deve nascere quando il cervello ha raggiunto dimensioni tali da consentire l’ingresso e il passaggio attraverso il canale naturale, la maturazione, cioè l’ulteriore sviluppo conseguito dagli altri mammiferi prima della nascita, il mammifero umano la deve completare dopo. In altre parole, il periodo di gestazione dovrà estendersi a dopo la nascita.


Ritornando alla discussione attorno alle categorie e alle appartenenze a esse, le due categorie non definivano esattamente molti mammiferi come le scimmie, i koala, gli opossum e i canguri. Questi, sebbene dimostrino esternamente la maturazione dei nidifughi (alla nascita assomigliano fisicamente molto ai genitori, dal punto di vista sensoriale sono maturi), non sono in grado di muoversi autonomamente, si aggrappano al corpo della madre e vengono portati da lei fino alla maturazione motoria.


Questi mammiferi inizialmente erano inseriti nella categoria dei nidifughi (secondari) e dei nidiacei secondari, ma nel 1970 Hassenstein ha introdotto una terza categoria di mammiferi: i portati (Traglinge), una definizione, in ambiente nordeuropeo, oggi largamente recepita dal mondo scientifico.7


I portati sono cuccioli che vengono portati dopo la nascita da un genitore (normalmente dalla madre) finché non sono in grado di muoversi autonomamente. Assomigliano molto ai propri genitori (come i nidifughi), sono maturi dal punto di vista sensoriale e lo scheletro delle gambe è adattato in modo che le piante dei piedi e delle mani nella posizione di riposo siano rivolti verso l’interno, così che possano aggrapparsi con le dita alla pelliccia del genitore che porta.8 Il loro ambiente naturale, dopo la nascita, per il periodo dell’esogestazione, non è un nido, ma il corpo della madre.


Si distinguono due tipi di portati: i portati attivi e i portati passivi. I portati passivi vengono portati dal genitore senza un loro contributo attivo. Un esempio sono i marsupiali, i canguri le cui zampe non sono adatte ad aggrapparsi e che vengono portati in un marsupio per molti mesi. I portati attivi invece si aggrappano alla pelliccia della madre. Alla nascita dispongono di un forte riflesso grasping nelle mani e nei piedi, che permette loro di aggrapparsi e tenersi anche per delle ore alla pelliccia della madre.9 A parte le differenze anatomiche e posturali, i portati, attivi e passivi, hanno in comune il fatto che sono allattati frequentemente e che il latte materno (specie specifico) è ricco di carboidrati e povero di grassi. Una composizione che richiede un allattamento frequente.10 Ma non solo. I portati attivi mettono in atto dei comportamenti specifici: si aggrappano alla madre con maggiore vigore nel momento in cui vengono allattati, quando sono stanchi e quando si addormentano.11 Se perdono il contatto corporeo urlano e piangono, in modo da attirare l’attenzione della madre verso “il pericolo” in cui stanno per cadere. Quando sono separati dalla madre piangono disperatamente.

E il cucciolo dell’uomo? È veramente una forma di nidiaceo o nidifugo immaturo? Secondo Hassenstein e Kirkilionis il cucciolo dell’uomo non è un nidiaceo perché trascorre questo stadio ancora in utero. Ma non è neanche un nidifugo, perché dopo la nascita ha bisogno di un anno e più per camminare da solo. Il cucciolo dell’uomo, secondo Hassenstein e Kirkilionis, sarebbe un Tragling, cioè un portato.


Evelin Kirkilionis, nell’ottica filogenetica, non ha dubbi sul fatto che i cuccioli dei nostri parenti prossimi e antenati siano stati sicuramente dei portati attivi. Ma è ancora così? Se mai il cucciolo d’uomo ha avuto lo status di portato, lo ha mantenuto fino a oggi?

Evelin Kirkilionis12 ha dedicato la sua tesi di dottorato a questa domanda e ci propone un ragionamento interessante: i resti dell’uomo più antico (risalenti a 4 milioni di anni fa) ci dimostrano un’attività motoria bipede matura, la postura eretta e il piede plantigrado. Al di là delle ipotesi evolutive su dove e quando si collochi la trasformazione nella posizione eretta e deambulazione bipede, sembra che non ci siano dubbi, sulla base delle conoscenze di oggi, che la storia dell’umanità è caratterizzata fin dall’inizio da una deambulazione bipede.


Se seguiamo l’ipotesi evolutiva, diventa evidente al primo sguardo che il portato aveva da affrontare molti problemi: Il piede trasformato da prensile a plantare non permetteva più alcuna presa sul corpo, la mancanza di peluria sul corpo non permetteva più al piccolo di aggrapparsi con sicurezza e la postura eretta dell’adulto cambiava tutti gli equilibri corporei rispetto alla forza di gravità.


Possiamo ipotizzare che la madre, nel corso della trasformazione del piede, avrebbe fatto lei tutto il lavoro di portare il piccolo, come si può vedere in certe scimmie dopo il parto, che sostengono con un braccio il piccolo. La relazione tra corpo e peso della madre e del bambino l’avrebbe probabilmente reso possibile. Il cucciolo d’uomo quindi sarebbe diventato un portato passivo e forse si sarebbe adattato alla tipologia del nidiaceo (con specifici adattamenti comportamentali a questa tipologia) nel momento in cui gli uomini sono diventati sedentari.13


Oppure il neonato umano, per mantenere lo status di portato attivo, doveva adattare la posizione sul corpo dell’adulto alla condizione anatomica umana: piede plantare, postura eretta, peluria corporea quasi inesistente.

II.1.2. La posizione sul fianco14

Le trasformazioni necessarie per la postura eretta e la deambulazione bipede si evidenziano bene prendendo come esempio le scimmie antropoidi. Queste riescono a muoversi per brevi distanze su due piedi senza l’aiuto delle mani, tengono il busto relativamente eretto ma si muovono in modo molto strano. Le ginocchia rimangono flesse e le anche orientate in avanti di modo che le cosce non possano essere portate dietro all’asse mediana del corpo. Tutto ciò non permette un allungamento completo delle gambe. Le scimmie in questa situazione possono muoversi con le gambe solo davanti al corpo e non possono fare passi effettivi come l’uomo.


Quindi, la deambulazione eretta chiede un orientamento diverso delle anche e del bacino. In questo contesto si trova anche la forma caratteristica della colonna vertebrale umana: da un lato l’angolo tra vertebre lombari e osso sacro, il cosiddetto promontorio, dall’altra parte la forma tipica a S della colonna vertebrale.


Il movimento bipede del plantigrado interessa tutta la zona delle anche; infatti, comparando la forma del bacino di uno scimpanzé, di un Australopithecus (specie estinta di scimmia) e di un uomo recente, si nota che il bacino dell’Australopithecus è più piatto e più largo di quello dello scimpanzé. Si presume che i primi uomini fossero già molto simili all’uomo moderno, anche se la zona tra vita e anche probabilmente era molto più accentuata. Questo bacino ampio proponeva allora buone condizioni per il cucciolo dell’uomo di sedersi sul fianco dell’adulto, stabilizzando la sua posizione attraverso la presa “a pinza” delle gambe (cosce, tibia e piedi) attorno al corpo dell’adulto. In questa posizione le difficoltà dovute alle caratteristiche anatomiche e alla postura eretta degli esseri umani si risolvono. Infatti la seduta sul fianco è adatta anche per distribuire in modo equo su entrambe le estremità del piccolo lo sforzo per stabilizzarsi nella posizione (pinza delle gambe). Di contro, questa posizione su un corpo inclinato come quello degli scimpanzé, che sono piegati in avanti mentre si muovono, avrebbe portato a un carico asimmetrico delle estremità, perché la mano e il piede dalla parte della schiena avrebbero dovuto portare tutto il peso. L’assenza quasi totale di peluria corporea,15 inoltre, privava il portato umano della possibilità di aggrapparsi con le mani, quindi la madre doveva sostenerlo con un braccio attorno alla schiena e poi aiutarsi con un supporto artificiale.

Si potrebbe concludere che la posizione sul fianco sia la posizione “storica” del portato umano, e che il cucciolo d’uomo fosse a tutti gli effetti un portato.

Ma è veramente così? Per rispondere a questa domanda dobbiamo confrontare le caratteristiche anatomiche, posturali e i comportamenti caratteristici del portato con quelle del cucciolo d’uomo.

II.1.3. Le caratteristiche del cucciolo d’uomo

  • I riflessi primordiali del neonato umano (Palmar Reflex, riflesso di Moro, riflesso di Babinsk)

  • Caratteristiche anatomiche

  • Caratteristiche dello sviluppo neurologico

  • Caratteristiche comportamentali

I riflessi primordiali

I riflessi innati, presenti alla nascita del bambino, sono comportamenti involontari, che sono giudicati rudimenti e che nella nostra società civilizzata sembrano non avere alcuna importanza, se non a dare una misura della salute del neonato alla nascita. Di solito, questi riflessi si perdono entro i primi mesi di vita del bambino, al più tardi quando comincia a camminare da solo.


I riflessi servono per mettere in atto dei comportamenti specifici per sopperire all’immaturità motoria del cucciolo.

  • Palmar Reflex

Questo è il tipico riflesso di presa (grasping) del neonato, che permette di aggrapparsi. Un riflesso tanto forte che potrebbe sostenere il peso del suo corpo per poco tempo.16 In questo contesto è interessante notare che le mani dei neonati nelle prime settimane sono chiuse a pugno, come se si trovassero costantemente nella situazione di doversi aggrappare. La presa si accentua quando il bambino succhia il latte.17 Si manifesta nelle mani fino a circa 9 mesi di vita e nei piedi fino alla fine del primo anno, per poi perdersi definitivamente.

  • Riflesso di Moro

Si manifesta con una reazione di soprassalto accompagnata da improvvisa apertura delle braccia e cerca di presa quando si verificano degli stimoli come un rumore improvviso o quando si appoggia il neonato in modo un po’ brusco o troppo rapido. In questi casi il neonato fa un sobbalzo, tende le braccia allargando mani e dita e successivamente le piega; normalmente segue il pianto. Prechtl18 notava come la sequenza del riflesso di Moro cambi se si dà al bambino la possibilità di aggrapparsi; in questo caso il riflesso si manifesta in una reazione rafforzata di aggrapparsi! È presente in tutti i neonati e spesso è più accentuato in quelli prematuri. Si inizia a manifestare verso la ventottesima settimana e raggiunge la completezza nella trentaquattresima. Normalmente il neonato perde il riflesso di Moro intorno al sesto mese di vita.

  • Riflesso di Babinski

Un riflesso che si esegue toccando la pianta del piede del bambino e che porta a un movimento di stacco del pollice dalle altre dita. La sua perdita, attorno all’anno di vita, è la premessa per la deambulazione plantigrada e prerogativa del piede plantare.

Caratteristiche anatomiche

  • Anche

La posizione del bacino del neonato e l’orientamento delle sue anche sono diversi rispetto all’adulto. I neonati non possono raddrizzare le gambe nell’area del bacino e non riescono ancora a portarle dietro all’asse mediano corporeo, come sarebbe necessario per poter camminare. Lo spazio di gioco delle gambe è limitato allo spazio davanti e le anche sono orientate in avanti. In posizione supina i neonati tengono quindi volentieri le gambe in posizione seduta, leggermente divaricata, soprattutto se stanno rivolgendo la loro attenzione a un oggetto che li interessa.


Alla nascita le anche stesse del neonato non sono ancora completamente mature. L’acetabolo racchiude solo 2/5 della testa del femore, mentre nell’adulto almeno 3/5 della testa del femore è racchiuso dall’acetabolo.


L’adattamento della zona bacino e delle gambe allo status di portato viene confermato in uno studio eseguito da Evelin Kirkilionis19, in cui si misuravano le angolazioni delle gambe del bambino sul corpo (fianco) della madre. L’angolo di abduzione (angolazione dall’asse mediana del corpo) misurato durante il primo anno di vita era da 36° a 58°, in media 45°, quindi l’angolo tra una gamba è l’altra era in media di 90°.


L’ortopedico Bueschelberger,20 in uno studio condotto su bambini neonati, osservava che un angolo di abduzione di 40° correlato con una flessione di 100° permetteva la posizione ottimale di inserimento della testa del femore nell’acetabolo. In questa posizione la testa del femore viene racchiusa uniformemente dall’acetabolo. Nella letteratura ortopedica pediatrica si citano i seguenti valori: l’angolo di abduzione da 30° fino 60° e della flessione da 90° a 110°.21


Questi numeri corrispondono, come ha osservato Kirkilionis, esattamente alla posizione delle gambe quando il bambino sta seduto sul fianco del genitore.


L’angolatura di divaricazione varia a seconda della posizione del bambino sul corpo della madre. Nella posizione pancia contro pancia l’angolatura di divaricazione può aumentare con un bambino di circa 6 mesi fino a 60°. D’altra parte la divaricazione può diminuire se le gambe vengono sedute (flesse) di più (soprattutto nei neonati). Essere portato seduto sul fianco o pancia a pancia corrisponde alle particolarità anatomiche del neonato. Se si usano fasce o marsupi per portare è importante garantire comunque la posizione fisiologica, divaricata-seduta, delle gambe.22


Wulf Schievenhövel, antropologo e medico etnologo, conferma che la pressione su ossa e articolazioni ne accelera la crescita. Secondo lui il portato dell’homo sapiens non solo è stato selezionato sulla base della vicinanza con la madre attraverso la stimolazione tattile, olfattiva, mentale, sociale ed emozionale; evidentemente ha bisogno di essere portato anche per maturare le sue anche. In quel punto preciso viene promossa dai tempi più remoti una profilassi ortopedica.23

  • Colonna vertebrale

La colonna vertebrale a doppia S con il promontorio accentuato è caratteristica dell’uomo adulto e gli permette di camminare in modo eretto e di fare passi ampi, portando le gambe anche dietro all’asse mediana corporea. La colonna vertebrale del neonato invece è una cifosi (curva) totale che gli permetteva di stare raggomitolato all’interno dell’utero. Insieme alla schiena curva l’angolo di promontorio è di 20°, mentre nell’adulto è di 60°. Il movimento delle gambe del neonato quindi è limitato allo spazio davanti al suo corpo.


Le caratteristiche anatomiche del neonato impediscono la deambulazione eretta. Le gambe sono sempre davanti al corpo; un orientamento che si confà allo status di portato perché sono più adatte a essere “pinza” attorno al fianco del genitore. Lo sviluppo della doppia S della colonna vertebrale va passo passo con lo sviluppo motorio del bambino, iniziando con la cosiddetta lordosi del collo, quando il bambino comincia a controllare la testa. Poi prosegue quando impara a stare seduto e si stira la parte dorsale, finché resta seduto con la schiena completamente dritta. La lordosi lombare si sviluppa (curva all’interno nella parte lombare) quando il bambino comincia a mettersi in piedi. Il bacino si gira in avanti e la doppia S è completa.

Se si costringe un neonato, sdraiato in posizione supina su superficie piatta, attraverso una pressione sulle sue ginocchia ad abbassare le gambe sulla superficie, si raggiungono velocemente i limiti di movimento delle anche, prima che le gambe siano sulla superficie… la colonna vertebrale viene costretta a una lordosi non fisiologica che fa sì che la schiena del bambino, in area lombare, si alzi dalla superficie.24


La postura del neonato, adeguatamente sostenuta,25 è da considerare fisiologica in una posizione addosso al corpo del genitore.


Non si trovano studi che confermino il temuto danno alla colonna vertebrale (scoliosi, spondylolisthesi) per essere stati portati nella posizione verticale da piccoli, anche se c’è chi richiama alla cautela soprattutto rispetto ai supporti ausiliari non adeguati.26 Kirkilionis invece ha condotto uno studio longitudinale su 196 bambini per verificare eventuali danni posturali subiti dopo che sono stati portati, nel primo anno di vita, nella fascia lunga. Sono stati esaminati diversi parametri, quali per esempio la durata giornaliera di portata, il metodo (supporto ausiliario), e il momento in cui si è cominciato a portare in posizione verticale.


Non si sono notati danni posturali nei bambini che sono stati portati nella fascia da 2 a 2,5 ore al giorno né nel gruppo di neonati che mediamente venivano portati 4, 5, 6 o più ore al giorno, a volte dalla prima settimana di vita. Nessuno dei bambini, più tardi, ha avuto problemi posturali riconducibili all’essere stati portati. La percentuale delle anormalità posturali dei bambini portati era al di sotto della percentuale media evidenziata nei bambini all’età di inizio scuola previsto per la Germania. Questo dimostra che la paura di danni posturali è infondata27 o, viceversa, che la postura dei bambini è adatta all’essere portati.

  • Tibia

Le ossa di un neonato sono ancora molto morbide e, nei primi anni, cambiano notevolmente.


Nello studio scientifico eseguito da Kirkilionis28 è emerso che la tibia, alla nascita e nel primo anno, ha una curva di circa 18,5° e che questa inizia a raddrizzarsi dopo l’anno in concomitanza con la deambulazione bipede. Questa curva dà alle gambe del neonato la caratteristica forma a O, che potrebbe essere un adattamento per il portato umano: quando un bambino viene portato sul fianco dalla madre si nota che la curva della tibia contribuisce notevolmente alla presa delle gambe attorno al corpo di chi lo porta. L’intensità della pressione contro il corpo della madre viene gestita attivamente dal bambino che, si è altresì notato, aumenta la pressione delle gambe quando vede qualcosa che lo interessa.

Caratteristiche dello sviluppo neurologico

Il cervello dei neonati non è maturo alla nascita. Infatti il suo volume corrisponde solo al 25% rispetto a quello che avrà in età adulta. La maggiore crescita ha luogo nel primo anno di vita, in cui il volume si raddoppia entro i primi sei mesi e si triplica entro il primo anno.


Alla fine del terzo anno di vita avrà raggiunto il 90% della massa che avrà da adulto. (Gli ultimi 10% si distribuiscono poi nei prossimi 17 anni fino ai 20.)


Anche se la massa (volume) non dice tutto sulla qualità, e senza poter andare in profondità nell’anatomia cerebrale, è importante sapere che nel primo anno di vita succede “il grosso” della crescita cerebrale e che essa viene influenzata direttamente dalla qualità (e quantità) degli stimoli sensoriali che riceve e sperimenta un bambino.

Un’adeguata quantità di stimoli sensoriali è fondamentale quanto la loro qualità e influenza la struttura e la strutturazione del cervello stesso. Infatti, anche se il bambino alla nascita dispone di un sistema nervoso centrale e periferico funzionante e se i neuroni si sono allungati e sono capaci di attivarsi in tutte le direzioni, è l’esperienza che guida questi ultimi nella scelta delle connessioni da attivare, poiché i neuroni e le sinapsi non attivati non sopravviveranno.29 Ci sono ormai le prove che evidenziano che la struttura si sviluppa in seguito a un determinato stimolo funzionale e non al contrario.


Fino a pochi decenni fa il cervello fu oggetto di studio soltanto sulla base della sua anatomia e rispetto alle funzioni intellettive-razionali, funzioni dell’emisfero sinistro, escludendo che le emozioni potessero essere generate, sentite ed elaborate a livello cerebrale. Da vent’anni comunque le emozioni e l’emisfero destro sono oggetto di studio e sembra che l’attività cognitiva dipenda in gran parte dalle emozioni.30 “Sembra che l’apparato della razionalità, tradizionalmente ritenuto neocorticale, non operi senza quello della regolazione biologica, tradizionalmente considerato subcorticale; sembra, cioè, che la natura abbia edificato il primo non semplicemente alla sommità del secondo, ma anche con questo e a partire da questo”.31 Queste conoscenze aprono nuovi scenari nella comprensione del cervello e delle sue funzioni e dell’uomo intero. Nel suo lavoro di mettere in relazione la grandissima mole di nozioni e studi emersi dalle diverse discipline, le neuroscienze, la biochimica e la psicologia, Allan Schore32 afferma che l’ambiente che il bambino incontra nel primo anno di vita, costituito principalmente dalla persona che si prende cura di lui, influenza e orienta lo sviluppo e l’evoluzione delle sue strutture cerebrali, determinando la capacità futura di autoregolare le emozioni, di gestire lo stress e di modulare la relazione con gli altri.


Sembra che il cervello maturi in due periodi che si succedono, in cui domina prima uno poi l’altro emisfero cerebrale. Nei primi due anni di vita del bambino è dominante l’emisfero destro, che controlla il linguaggio non verbale e le percezioni sensoriali, ed è direttamente collegato con il sistema nervoso autonomo, che determina le funzioni involontarie del corpo. Solo dopo due anni comincia a prevalere l’emisfero sinistro, capace del pensiero logico-matematico e astratto.33 Un altro dato importante da considerare è quello relativo alla memoria; infatti solo quando il bambino comincia a utilizzare la parola essa diventa la chiave alla memoria. Prima non si può parlare di una memoria esplicita, ma implicita, che ha registrato le situazioni nel codice delle emozioni e dei sentimenti. Questo vale anche per il vissuto intrauterino, il ricordo della nascita e del primo periodo di vita. “Tutte le esperienze della prima infanzia (e ogni trauma precoce) non possono essere depositate che in questa forma di memoria implicita, l’unica disponibile all’inizio della vita.”34


Oggi restano ancora aperte molte domande rispetto allo sviluppo del cervello e le sue capacità, e le neuroscienze sono solo agli inizi nell’integrare un’immagine di uomo completo di emozioni nei loro studi. Come afferma il neonatologo Alessandro Volta: “Probabilmente il futuro riserverà grandi sorprese, ma possiamo già da ora contare su due importanti pilastri: la certezza che la nostra identità è definita dalla relazione con i nostri simili e la scoperta che i nostri comportamenti sono strettamente collegati alle primissime esperienze della nostra esistenza”.35

Caratteristiche comportamentali

  • Segnale di presenza attraverso contatto e movimento

Perché un neonato, messo a dormire nella propria stanza protetto da rumori di quotidianità e voci, spesso non dorme profondamente, ma si sveglia piangendo? Perché un bambino, addormentato in braccio, quando lo si mette giù si sveglia dopo poco e piange? Perché smette di piangere appena viene preso in braccio? “Certi comportamenti del neonato diventano comprensibili soltanto se esso viene considerato dal punto di vista dei bisogni del portato e non del nidiaceo”.36


Il portato è sempre in contatto corporeo con la madre, sente la sua presenza costante.


Essere solo e tranquillo per un portato significa pericolo esistenziale, perché si trova separato dalla persona di riferimento che nel corso della storia assicura la sua sopravvivenza.


Un ambiente con suoni conosciuti, contatto corporeo e cambiamenti di posizione segnalano invece al neonato di non essere solo anche quando la presenza materna viene solo simulata, per esempio tramite la culla.37


Il portato riconosce le condizioni di contatto e di movimento come condizioni “giuste”, adatte alla sopravvivenza, mentre il silenzio, l’immobilità e il non-contatto sono condizioni avvertite come minaccia e pericolo.

  • L’angoscia della perdita di contatto corporeo (Koerperkontaktverlustangst)

Franz Renggli,38 zoologo e psicoanalista, illustra come il bambino dopo la nascita pianga sempre per esprimere un’angoscia (esistenziale), che lui chiama “l’angoscia della perdita di contatto corporeo”, tipica per la categoria dei portati, che sono programmati al contatto. È un pianto che si distingue dal pianto del cucciolo nidifugo, che in questo modo effettivamente richiama l’attenzione della madre o da quello del nidiaceo, che è adattato a situazioni di presenza che si alternano a lunghe assenze materne.

Secondo Renggli il cucciolo d’uomo subito dopo la nascita piange sempre per paura e probabilmente vive le angosce più forti ed esistenziali di tutta la sua vita. Lo spiega con il fatto che il neonato non ha ancora una consapevolezza dell’io e del tu, quindi non riconosce i confini tra il proprio corpo e quello della sua persona di riferimento. Non può ancora richiamare “l’altro” (la madre), ma può solo esprimere, attraverso il pianto, che le condizioni in cui si trova “non sono giuste” e quindi che si trova in pericolo di vita!


Nella biologia esiste una regola comportamentale secondo cui ciò che è estraneo, esterno e sconosciuto viene considerato come “nemico”, mentre ciò che è interno e conosciuto è “amico”. Renggli illustra come il bambino subito dopo la nascita sia esposto a molteplici stimoli a lui completamente sconosciuti, quali stimoli acustici e visivi, ma anche al senso della fame e alla sensazione di dolore, al cambiamento di temperatura e all’adattamento fisiologico dopo la nascita.


Quali sono quindi gli stimoli che il bambino riconosce “amici”? Gli esperti non hanno dubbi che si tratti del contatto corporeo e del senso di appagamento dopo l’assunzione del cibo. La ricerca del seno, la suzione e il conseguente appagamento sono le prime esperienze conosciute del bambino. Il contatto corporeo viene vissuto dal bambino come proprio, interno, e quindi come primitivo vissuto di “io”. La madre può essere vissuta dal bambino, in questa fase, come parte propria. Questi comportamenti sono innati, fanno parte del bagaglio biologico comportamentale e indicano l’adattamento per la crescita ottimale del cucciolo.


Sotto questo aspetto, il pianto del bambino separato dal corpo della madre non solo è comprensibile, ma possiamo considerarlo sano, del tutto fisiologico. Il portato che piange lontano da sua madre ha una reazione biologicamente corretta, esprime la sua forte angoscia per la perdita di contatto e un sano istinto per la propria sopravvivenza.

  • La posizione divaricata-seduta

Un altro comportamento (involontario) è la posizione divaricata-seduta. Una bambina di 6 mesi sdraiata in posizione supina, che esplora un oggetto con molto interesse, tiene le gambe nella posizione divaricata-seduta, cioè in una posizione di flessione e abduzione. Se un adulto dovesse mantenere a lungo questa posizione avrebbe bisogno di un notevole sforzo muscolare. I lattanti a volte la mantengono per molti minuti anche se la durata media è di 19 secondi. Nello studio eseguito da Kirkilionis si notava che i bambini la mantenevano a lungo quando erano occupati a esplorare un oggetto di loro interesse.39

Questa posizione divaricata-seduta si nota in particolare

  • quando i bambini si occupano di un oggetto che li interessa e li stimola, e mentre lo esplorano oralmente, manualmente o solo visualmente.

  • quando un lattante seduto o sdraiato per terra viene alzato e preso in braccio, appena perde contatto con la superficie.

Infatti i lattanti, quando vogliono essere presi in braccio, tendono le braccia mentre le gambe si preparano nella posizione divaricata-seduta. Nello studio è emerso che tutti i bambini, quando venivano alzati dalla superficie, flettevano e divaricavano le gambe, mentre in posizione supina nella situazione gioco non lo facevano. Ciò significa che la situazione originaria che fa scattare la reazione divaricata-seduta si trova nella situazione di essere alzato e portato.


Questa reazione delle gambe prepara i bambini a essere portati sul fianco dei propri genitori e permette loro di regolare e stabilizzare la seduta sul fianco. Infatti il bambino contribuisce attivamente alla seduta stabile sul fianco premendo le gambe a modo di “pinza” contro il corpo del genitore e ottenendo così una maggiore presa attiva.


Nello studio tutti i 16 bambini avevano la reazione divaricata-seduta delle gambe e la potevano mantenere già nella terza settimana di vita. In alcune osservazioni individuali questo comportamento è stato rilevato in due neonati alla prima e alla seconda settimana di vita. L’angolatura di flessione si è poi modificata durante il primo anno di vita: crescendo, i bambini flettevano meno le gambe e l’angolo tra il bacino e la colonna vertebrale aumentava.

Nel corso del primo anno l’angolo di apertura era mediamente di 45° (+/- 4).40 Anche se il bacino più piccolo del neonato avesse lasciato pensare a una divaricazione maggiore, non si riuscivano a notare delle variazioni notevoli rispetto all’età. Si suppone che la maggiore flessione delle cosce e del bacino verso l’alto permettesse anche ai neonati piccoli di mantenere l’angolo di abduzione come i bambini di 6 mesi, le cui cosce aderiscono orizzontalmente al corpo della madre. Solo la posizione sul corpo del genitore influenzava l’abduzione delle gambe. Se i bambini erano seduti sul lato era di 42° (+/- 4), mentre in posizione faccia a faccia era di 46° (+/- 4).

Secondo queste osservazioni il bambino non è un portato passivo ma contribuisce attivamente alla seduta sul fianco. Quando il genitore si muove in modo brusco il bambino aumenta la pressione delle gambe contro il corpo del genitore e le flette di più, mentre lo stare fermo a lungo dell’adulto provoca l’abbassamento delle cosce, scaricando il peso sul bacino della madre.


Prima di trarre le conclusioni rispetto al cucciolo d’uomo come portato, è indispensabile completare il quadro biologico: se c’è il portato bisogna che ci sia, anche dal punto di vista biologico, qualcuno che lo porti. Sull’altro piatto della bilancia dovrebbe quindi esistere una predisposizione biologica della madre/del padre a portare il proprio bambino.

II.1.4. Predisposizione biologica della madre a portare il suo cucciolo

Le madri mammiferi nella gestazione, nella nascita e nelle cure primarie mettono in atto dei comportamenti specifici atti a crescere la prole al meglio. La mamma gatta prepara il nido per i suoi cuccioli nidiacei, ben nascosto e di difficile accesso, adatto a proteggerli dai predatori nelle sue lunghe assenze. Produce un latte molto grasso, che nutre i piccoli per molte ore. Le mamme cavalle invece sono a disposizione (nelle vicinanze) dei loro cuccioli nidifughi, quando hanno bisogno di essere allattati. Le madri delle scimmie alla nascita tengono i loro piccoli portati addosso e forniscono loro calore, protezione e nutrimento a richiesta.

Se l’ambiente (habitat)41 per il nidiaceo dopo la nascita è il nido, per il portato è la madre. Le madri dei portati dovrebbero quindi essere predisposte a essere “habitat naturale” dei loro cuccioli. Tutto il loro corpo, dopo il parto, dovrebbe essere pronto ad accogliere il cucciolo tra le braccia, a lasciarlo succhiare il loro latte, sapendo istintivamente che per garantire la sua sopravvivenza il cucciolo è al sicuro solo tra le loro braccia, che ha la temperatura giusta addosso al loro corpo, vicino alla fonte di nutrimento. Sappiamo che in effetti, dal punto di vista biochimico, la madre dopo la nascita del piccolo è predisposta a prendersene cura (è favorita da ormoni come l’ossitocina e la prolattina), ad attaccarlo al seno e a fornirgli tutte le cure specifiche e conformi alla propria specie. Latte, calore, vicinanza corporea.


Le osservazioni di Hess42 sui gorilla dimostrano come il piccolo alla nascita venga portato addosso in posizione ventrale, ma sostenuto dal braccio della madre per alcune settimane, perché non sembra ancora capace di tenersi a lungo aggrappato senza sostegno. Anche quando perde la presa, la madre lo tira amorevolmente vicino a sé, e quando questa cambia posizione (per esempio da seduta si alza e corre) sostiene il piccolo in modo che possa abituarsi alla nuova postura. La madre reagisce immediatamente ai segnali del piccolo quando piange, cercando di consolarlo offrendogli il seno o cambiando posizione. Le madri gorilla che vivono in cattività dimostrano un’attività continua, quasi frenetica, nell’occuparsi del loro cucciolo: lo toccano di continuo, lo spidocchiano (grooming), lo osservano, lo annusano, ci giocano, gli fanno il solletico, mentre le madri gorilla libere, anche se sono in continuo contatto corporeo, dimostrano molta meno attenzione diretta al loro cucciolo. Il cucciolo si lega alla madre in modo esclusivo. Dopo alcuni mesi comincia ad avere contatti con altri membri del gruppo fino a separarsi definitivamente dalla madre; se vivono in libertà entro il secondo anno di vita, se sono in cattività anche entro i sette anni. Un tempo analogo per la separazione si nota anche negli scimpanzé. Solo nella fase di separazione, specifica per ogni specie, la madre inizia, in alcuni momenti e poi sempre di più, a rifiutarsi di portare il suo piccolo, spingendolo via. Si può senz’altro affermare che la madre mammifero agisce e reagisce istintivamente ai segnali provenienti dal suo cucciolo anche in base al suo sviluppo.


E la madre del cucciolo d’uomo? Gli studi effettuati nel campo della nascita43 e quelli connessi all’allattamento e all’accudimento primario confermano una predisposizione biologica, biochimica e ormonale della madre a prendersi cura del suo cucciolo appena nato in modo specifico e conforme alle sue aspettative primarie: essere protetto, nutrito44 e tenuto a contatto.45


Anche nell’ambito della psicologia evolutiva si trovano confermate queste conoscenze. Winnicott46 ha chiamato preoccupazione materna primaria gli stati psicologico e fisiologico della madre che la predispongono a rispondere in modo adeguato ai bisogni del proprio bambino (nelle prime settimane di vita).

II.1.5. Riassunto del concetto biologico del portare e del portato

Portare, dal punto di vista biologico, è definito come comportamento specifico di “tenere il cucciolo addosso al proprio corpo” e “muoversi” insieme a lui. Tutte le caratteristiche osservate portano a pensare:

  • a) che il neonato umano si sia adattato perfettamente, attraverso specifiche caratteristiche anatomiche e comportamentali, alla condizione di portato.

  • b) che portare sia un comportamento biologico adatto in risposta

  1. ai bisogni primari del portato di calore, protezione e nutrimento e

  2. a un determinato stadio di sviluppo del cucciolo

Il portato cresce in modo ottimale se si tiene conto delle sue caratteristiche e degli adattamenti specifici a tale categoria; se invece non se ne tiene conto rimangono incomprese le reazioni di paura.47 Come ulteriore conseguenza, considerare lo status di portato dei neonati umani significa avere aspettative realistiche (giuste) rispetto ai loro bisogni primari e favorirne, tramite una risposta biologicamente corretta, lo sviluppo ottimale.

II.2. GLI ELEMENTI PORTANTI DELLA FISIOLOGIA DEL PORTARE

Come abbiamo visto, portare è un concetto biologico ben definito, ma per una riflessione che vada oltre la visione di cosa sia “naturale”, credo sia interessante focalizzare il portare da quattro differenti angolazioni o punti di vista, che interagiscono tra di loro e che realizzano ciò che chiamo la relazione portata di bambini e genitori.


Come simbolo che raggruppa gli elementi portanti – contatto, movimento, spazio, legame – ho trovato che la P di Portare si presti molto bene.


Illustrerò ognuno di questi elementi partendo dalla base di cornici teoriche interdisciplinari tenute ampie ma poco dettagliate. Rimando per chi vorrà approfondirli alla ricca bibliografia nelle note a piè di pagina.

II.2.1.Primo elemento: il contatto
II.2.1.1. Introduzione

Il contatto48 è uno dei principi fondamentali ed esistenziali degli organismi viventi. È la condizione per il metabolismo, per lo scambio di informazioni di natura materiale ed energetica. Già al momento del concepimento due cellule con diverse informazioni genetiche si contattano, si incontrano.49 Indubbiamente, il contatto è di inestimabile importanza per tutti gli esseri viventi; essendo la base di qualsiasi comunicazione, scambio, interazione, incontro vitale.


Per illustrare il contatto come elemento della fisiologia del portare, vorrei introdurre brevemente allo sviluppo della pelle e delle sue funzioni per poi illustrarne il significato per il bambino e per i genitori. Nello schema della P l’elemento del contatto si trova nella parte alta, là dove si “toccano” la linea dritta (il portatore) e quella curva (il bambino).

  • Sviluppo della pelle

Se consideriamo lo sviluppo del feto nelle prime settimane di gestazione, possiamo farci un’idea della posizione prioritaria (rispetto ad altri stadi di sviluppo) e quindi basilare (letteralmente) che il contatto ha per noi.


La gestazione del cucciolo d’uomo dura 266,5 giorni, corrispondenti a circa nove mesi del calendario o dieci mesi lunari. Lo sviluppo embrionale ha inizio con il concepimento, quando il nucleo dell’uovo e quello dello spermatozoo si fondono e creano la zigote. Questa, inizialmente di due cellule, cresce per ripetuta divisione cellulare. Poi ogni cellula si differenzia rispetto alla funzione che dovrà svolgere. Nella quinta settimana di gestazione (terza dopo il concepimento) avviene la separazione delle cellule germinali e si distinguono tre strati: l’endoderma (quello più interno), il mesoderma (lo strato centrale) e l’ectoderma (lo strato più esterno).


Dall’endoderma si svilupperanno il tubo digerente, i polmoni e il fegato, dal mesoderma il tessuto connettivo, i muscoli, il sistema vascolare, il cuore e dall’ectoderma il sistema nervoso centrale (il cervello), il sistema nervoso periferico e l’epidermide, come tutti gli apparati sensoriali, gli occhi, l’udito.


Alla sesta settimana batte il cuore. Alla settima settimana si distinguono gli abbozzi dei reni e i polmoni, e iniziano a formarsi il cervello, gli occhi, le orecchie, il midollo spinale e il naso. Alla decima settimana l’embrione è lungo circa 2,5 centimetri, nella bocca sono presenti i ricettori del tatto. La sua pelle è altamente sviluppata.


Dalla nona settimana l’embrione ha mani e piedi che dalla sedicesima inizia a usare in modo coordinato; infatti può congiungere le mani e tastare i confini di se stesso.

  • Le funzioni fisiologiche della pelle

La pelle ricopre interamente il nostro corpo e lo protegge da agenti esterni, ha la funzione di contenere lo scheletro, la struttura muscolare e gli organi interni. Inoltre è il nostro organo di senso più antico con un numero di circa 5000 ricettori e da 7 a 135 corpuscoli tattili al cm2. È un organo complesso che ha inoltre la funzione di regolare la temperatura corporea ed è responsabile del metabolismo dell’acqua e dei sali mediante la traspirazione, oltre che dell’immagazzinamento di grasso.50

  • Il senso del tatto

“Riflettiamo: in quanto apparato sensoriale, la pelle è il più importante sistema organico del corpo. Un essere umano può trascorrere la vita cieco e sordo o completamente privo dei sensi dell’olfatto e del gusto, ma non può sopravvivere senza le funzioni proprie della pelle”.51


“Il bisogno di stimolazione tattile dura tutta una vita, ma non è mai così urgente e fondamentale come nel neonato e nella prima fase della vita”.52

Il senso del tatto viene suddiviso in due sistemi sensoriali: il senso tattile, sensibile alla superficie, e il senso propriocettivo (cinestetico), sensibile alla profondità.

  • Il senso tattile

Il senso tattile è il senso sensibile alla superficie del corpo con cui gli esseri viventi possono ricevere stimoli meccanici dall’esterno. C’è un indefinito numero di corpuscoli inseriti nella pelle, che si distinguono per la qualità di stimolo che riescono a ricevere: i corpuscoli di Meissner per le sensazioni tattili (tocco); i corpuscoli di Pacini, responsabili per la ricezione di stimoli di pressione e vibrazione; poi una serie di terminazioni nervose che ricevono e valutano informazioni rispetto a temperatura e dolore.


Il feto in utero ha le sue prime percezioni sensoriali esclusivamente a livello tattile. Attraverso la pelle sente pressione, movimenti di acqua amniotica, dolore, ma anche sensazioni di caldo e freddo. La pelle del feto viene stimolata continuamente.53


Anche dopo la nascita, secondo Montagu, il senso tattile rimane quello più importante per uno sviluppo sano a livello fisico, psichico e sociale del bambino:


Il primo sviluppo del sistema nervoso del bambino dipende al massimo grado dal tipo di stimolazione cutanea che riceve. Non può esserci dubbio che la stimolazione tattile sia necessaria per il suo sano sviluppo. Come dice la Clay: “Il bisogno di stimolazione periferica della pelle e di contatto esiste per tutta la vita, ma appare più intenso e più critico nella prima fase dell’attaccamento riflesso”. Ribble arriva a dire che in questo primo periodo il sistema nervoso del neonato sembra richiedere una sorta di nutrimento stimolante. Certamente il bambino piccolo ha bisogno di un periodo di appagamento ottimale dei suoi bisogni sensoriali, che sono orali e tattili. Ecco perché gli anni preverbali sono considerati un periodo critico per l’apprendimento tattile. Da questo momento in poi i bisogni di contatto tattile diminuiscono, ma la stimolazione tattile deve ancora essere commisurata con l’età, secondo le esigenze dello sviluppo dell’organismo umano.54


La sensibilità tattile comunque viene sviluppata in misura diversa ed è sottoposta all’influenza della stimolazione ricevuta in età evolutiva e di aspetti familiari, sociali e culturali. La pelle degli europei per esempio è molto meno sensibile agli stimoli della pelle di membri di società tradizionali. Anche i vestiti sono importanti inibitori dello sviluppo della sensibilità tattile. Si è notato che i bambini quando sono vestiti sono meno attivi di quando sono nudi.55 Probabilmente questo è dovuto al fatto che gli abiti esercitano un isolamento nei confronti degli stimoli provenienti dall’esterno.56

  • Il senso propriocettivo (kinestetico)

La percezione kinestetica,57 denominata anche percezione di profondità oppure propriocezione,58 percepisce il movimento, la sua direzione e la percezione del proprio corpo senza l’uso degli occhi. La propriocezione è strettamente imparentata e collegata alla percezione vestibolare o senso dell’equilibrio (trattato nel prossimo capitolo: movimento) e raccoglie le affezioni attraverso diversi ricettori situati in svariate zone del corpo. Ci sono i ricettori vestibolari nel labirinto (orecchio interno), i ricettori somatici, situati nella muscolatura volontaria, gli organi di Golgi, posti in corrispondenza delle giunzioni muscolo-tendinee, e le terminazioni di Ruffini, situate al livello delle articolazioni.


La percezione della posizione e del movimento del corpo nello spazio o addosso a un altro corpo avviene attraverso ricettori specifici che registrano le informazioni della tensione muscolare, la lunghezza del muscolo e la posizione delle articolazioni che vengono inoltrate al cervelletto, dove si collegano alle affezioni da parte del senso dell’equilibrio.


Ma che ruolo ha la propriocezione per il bambino portato e per chi lo porta?

  • Le emozioni veicolate dal corpo

“Più che la semplice pressione sulla pelle, è il messaggio raccolto dal bambino attraverso i recettori delle proprie inserzioni muscolari, è il modo in cui viene tenuto a dirgli che cosa ‘sente’ per lui chi lo tiene”.59


Gli stati emotivi si esprimono nel corpo e possono essere “letti” nella tensione muscolare e nella postura oltre che sulla pelle.60 Per questo motivo sembra che il bambino a stretto contatto con chi lo porta, modellato al corpo del proprio genitore, percepisca, attraverso il senso cinestetico, la specifica tensione muscolare di chi lo porta.


Margaret Mead (1942), nel suo studio sui costumi a Bali, riporta un esempio illustrativo:


Il contatto con il corpo materno fornisce [al bambino balinese] direttamente l’indicazione di fidarsi del mondo esterno o di temerlo: nonostante la madre riesca a controllarsi in modo da sorridere e mostrarsi gentile al forestiero o a chi appartiene a una casta superiore senza che la sua espressione cortese lasci trasparire il minimo timore, le urla del bambino che essa tiene in braccio ne tradiscono l’intimo panico.61


Un esempio più alla nostra portata invece può essere quello del bambino che alle cinque del pomeriggio comincia a piangere in braccio a sua madre. Niente sembra consolarlo, né le coccole, né lo stare in braccio, né l’essere cullato o nutrito. Quando alle sette arriva a casa il padre, reduce da una giornata di lavoro, spalanca le braccia e prende il piccolo in braccio, e miracolo… questo smette di piangere. Una delle spiegazioni di questo “fenomeno” che spesso mette in crisi le madri – “ma come, ci sto tutto il giorno e mi prendo cura di lui ma sembra che con suo padre sia più contento” – potrebbe essere cercata proprio nel senso cinestetico.


Invece di continuare a chiedersi come sta il bambino, sarebbe utile chiedersi come si sente chi lo sta tenendo. Alle cinque del pomeriggio, dopo un’intera giornata dedita al piccolo, le madri cominciano a essere stanche, sono scariche emotivamente, avrebbero bisogno di farsi un doccia, di dormire o di andare in bagno in pace. Insomma, avrebbero bisogno di un po’ di tempo per sé per ricaricarsi. Il bambino “legge” la stanchezza della madre nel suo corpo in tensione e la esprime con il pianto. Potrebbe essere questo il motivo per cui si tranquillizza appena è in braccio a suo padre, che sarà pure stanco fisicamente, ma dal punto di vista psichico ed emozionale è ancora carico e pronto per dare tutto l’amore, l’attenzione, la vicinanza, il contatto al suo bambino.


Un altro esempio viene dall’ambito dei gruppi dopo-parto. Le mamme sono sedute in cerchio con i loro bambini; una di loro racconta in modo impassibile il suo parto terribile, molto lontano dall’essere stata un’esperienza naturale, anche se clinicamente “è andato tutto bene”.62 Durante il racconto, il bambino in braccio comincia all’improvviso a piangere molto forte e in modo inconsolabile. Nello stesso gruppo di incontro, un’altra madre parla del suo parto (anche lì “è andato tutto bene”), esprimendo con molta chiarezza la sua delusione, la sua rabbia, il senso di forte impotenza che ha provato quando l’hanno “trattata” e le hanno estratto il bambino, il senso di essere stata tradita e privata di un’esperienza che l’avrebbe resa più forte se solo l’avessero lasciata stare. Durante il racconto, interrotto a volte dal pianto della madre, il bambino in braccio è sveglio e rimane tranquillo per tutto il tempo.

Qual è la differenza tra le due situazioni? Interpretando le situazioni dal punto di vista cinestetico, potrebbe essere che il bambino della prima mamma avverte il dolore, in forma di tensione, nel corpo della madre – dolore che lei non riconosce e non esterna – quindi se ne fa carico e lo esprime. La seconda madre invece riconosce ed esterna il proprio dolore, “buttandolo fuori”, e probabilmente il suo corpo rimane rilassato e il bambino di conseguenza è tranquillo addosso a lei.


Non ci sono dubbi che il bambino portato a contatto percepisce le emozioni inespresse e a volte nascoste di chi lo porta. Credo che questa conoscenza della propriocezione e del suo ruolo nell’interazione tra genitore e bambino sia una prospettiva interessante verso una lettura nuova di molte situazioni difficili che si incontrano durante il percorso del portare.


È molto probabile che se un genitore intimamente si sente stanco o stressato e ha bisogno di stare da solo, ma invece per “dovere” si mette il bambino addosso, probabilmente il bambino piangerà e “non vorrà starci”, esternando più che il proprio disagio quello effettivo del genitore.

  • La regolazione della temperatura corporea

La temperatura corporea nell’adulto viene regolata attraverso la pelle e il meccanismo della sudorazione.63 Ma alla nascita il bambino non dispone di una termoregolazione autonoma e funzionante e ha il bisogno esistenziale di qualcuno che dall’esterno lo aiuti a regolarsi.


Due possono essere le modalità di intervento esterno:

  • a) attraverso gli strati di vestiti (specifico per la nostra cultura). Tutti i genitori sanno che se il neonato non venisse vestito adeguatamente, in pochissimo tempo disperderebbe la sua temperatura corporea e andrebbe incontro a seri problemi di ipotermia. Così vestono e svestono, coprono e scoprono il bambino secondo la propria intuizione, seguendo i consigli medici che hanno letto oppure valutando la temperatura ambientale dal loro punto di vista.

  • b) Prima dei vestiti comunque ci sarebbe l’ambiente fisiologico (l’habitat naturale), che aiuterebbe il bambino a regolarsi al meglio. A sostegno di tale ipotesi, ci sono due aspetti interessanti che emergono:

  1. il grasso corporeo è distribuito in modo tale che sulla schiena se ne trova uno strato più spesso, mentre sulla parte ventrale ce n’è pochissimo. Il contatto ventrale con il corpo del genitore è funzionale alla dispersione di meno calore corporeo.64

  2. Negli studi effettuati con bambini prematuri tenuti a contatto pelle a pelle è emerso che tra madre e bambino esiste una sincronia termica.65 All’inizio, quando la madre tiene il bambino prematuro a contatto pelle a pelle, la temperatura di entrambi aumenta; quindi i due corpi si riscaldano a vicenda.


Quando la temperatura del bambino ha raggiunto un certo limite, la temperatura della madre scende per aumentare nuovamente quando scende la temperatura del bambino. La madre diventa così termostato per tenere costante la temperatura ottimale del bambino.


Nils Bergmann, medico sudafricano che si occupa da molti anni del contatto pelle a pelle, afferma nei suoi studi eseguiti in Zimbabwe e in Sudafrica che la temperatura dei bambini, e non solo dei prematuri,66 a contatto pelle a pelle con le loro madri rimane molto più stabile e costante di quella dei bambini riscaldati nell’ambiente controllato della termoculla o dell’incubatrice.67

  • Ulteriore significato della pelle sul piano psichico

Per struttura e funzioni la pelle è più che un organo, è un insieme di organi diversi. La sua complessità anatomica, fisiologica e culturale anticipa, sul piano organico, la complessità dell’Io sul piano psichico. La pelle fornisce numerosi esempi di funzionamento paradossale, al punto che ci si può chiedere se la paradossalità psichica non trovi sulla pelle una parte del suo appoggio, ed è un riflesso della nostra buona o cattiva salute organica e uno specchio della nostra anima.68


Anzieu, nella descrizione del concetto dell’Io-pelle,69 illustra alcune funzioni che sono da considerare molto interessanti rispetto al portare e a cui vorrei accennare brevemente:


a) la funzione di conservazione o mantenimento.

Come la pelle fisicamente sostiene struttura ossea e muscolare, così l’Iopelle conserva la vita psichica. Questa funzione, a livello fisico, viene esercitata dall’holding,70 quindi dal modo in cui la madre sostiene il corpo del bambino, mentre la funzione psichica si sviluppa perché l’holding materno viene interiorizzato. “L’appoggio esterno sul corpo materno porta il bambino alla conquista dell’appoggio interno sulla colonna vertebrale come spina solida che permette di raddrizzarsi”.71 Nello sviluppo di un senso dell’Io sano, sembra che sia molto importante questa funzione perché l’Io “può addossarsi con tutta sicurezza a tale supporto solo se mediante il corpo è sicuro di avere delle zone di contatto stretto e stabile con la pelle, i muscoli e le palme della madre (e delle persone del suo ambiente primario)”.72


b) la funzione di contenitore.

Alla funzione di contenitore dell’Io-pelle corrisponde sul piano fisico la funzione della pelle di ricoprire l’intero corpo e i suoi organi vitali e di contenerli. Secondo Anzieu, questa funzione viene esercitata principalmente dall’handling materno, quindi dalle cure corporee che il bambino riceve dalla madre e che sono adatte ai suoi bisogni specifici.


c) la funzione di protezione da stimoli.

Lo strato più esterno della pelle protegge quello più interno e tutto l’organismo da agenti e stimoli esterni.


Freud (1895), nel Progetto di una psicologia, riconosce all’Io una funzione di para-eccitazione e lascia intendere che la madre serve da paraeccitazione ausiliaria per il bambino, e ciò, aggiungo io, fino a quando il suo Io in crescita trova nella propria pelle un appoggio sufficiente per assumere tale funzione. In linea generale, l’Io pelle è una struttura, virtuale alla nascita, che si attualizza nel corso della relazione tra il lattante e il suo ambiente primario.73


d) la funzione di individuazione.

Con la sua grana, il suo colore, la sua tessitura, il suo odore la pelle umana presenta notevoli differenze individuali. (…) Esse permettono di distinguere nell’altro gli oggetti di attaccamento e di amore e di affermare se stessi come individui che hanno la propria pelle personale. A sua volta l’Io-pelle assicura una funzione di individuazione del sé, che gli dà il sentimento di essere un essere unico.74


Quindi l’Io-pelle si costruisce fondamentalmente attraverso il contatto fisico, il tocco, l’esperienza “pelle” che il bambino ha con i genitori e con altre persone di riferimento, cioè con il suo ambiente primario. Se poi, per passare dall’Io-pelle a un Io pensante, sia necessario passare attraverso il doppio divieto del toccare,75 come condizione necessaria per superare l’Io-pelle, Anzieu tuttavia afferma che questa ristrutturazione viene favorita solo nel momento in cui l’Io-pelle sia stato costruito sufficientemente, perché anche dopo la costruzione dell’Io pensante l’Io-pelle rimane nello sfondo delle funzioni del pensiero.

II.2.1.2. Il significato del contatto per il bambino

Il contatto corporeo funziona attraverso il senso del tatto, ma è di più: è un bisogno vitale (biologico) e psicologico di incontrare e di relazionarsi con l’altro. Nel neonato questo bisogno di contatto è innato e urgente. Stare a contatto con il bambino significa parlare il suo linguaggio, quello che comprende dal primo momento, il linguaggio della pelle, del tatto, che gli comunica sicurezza esistenziale e attraverso cui stabilisce la prima relazione con l’esterno.76 Ascoltare e soddisfare il bisogno primario di contatto corporeo del bambino non crea un suo ulteriore bisogno o lo accresce, ma con il tempo lo colma.


Quali sono le modalità di contatto con il bambino piccolo? Di seguito vorrei illustrare due modalità che si possono completare: il contatto attraverso il massaggio e il contatto attraverso il portare.


  • Il contatto corporeo attraverso il massaggio

“Le madri di tutto il mondo hanno sempre saputo che il contatto delicato delle loro mani rilassa, calma e comunica amore”.77 È un atto d’amore. Montagu afferma addirittura che l’amore stesso è un atto e non una sensazione astratta. Comunque sia, l’amore a tatto non si sperimenta più in modo così intenso, primario, come a contatto con un neonato.


Quando massaggio il bambino comunico con lui, sono concentrata su di lui, lo guardo, cerco il suo sguardo, cerco di comprendere i segnali che mi invia con il suo corpo: è morbido sotto le mie mani o si irrigidisce, piange o si rilassa sorridendo? Quando massaggio il bambino mi prendo il tempo per stare con lui, così che ci possiamo incontrare e possiamo comunicare attraverso il contatto.


Ormai l’importanza del contatto e degli stimoli tattili attivi per il bambino dopo la nascita dovrebbe essere indiscussa, e la sua efficacia è stata provata da molti studi soprattutto nell’ambito della neonatologia e patologia neonatale. In uno studio eseguito nel 1986 è emerso che i bambini prematuri che ricevevano massaggi di una durata giornaliera di 45 minuti, nell’arco di due settimane raddoppiavano il peso rispetto ai bambini del gruppo di controllo, anche se la quantità di latte assunta era la stessa. I bambini massaggiati erano più attivi e più svegli e dal punto di vista neurologico si organizzavano meglio.78


Posso citare altri studi che confermano l’effetto positivo del contatto sullo sviluppo del bambino, le sue funzioni vitali, come l’attività cardiaca e respiratoria, la digestione, la crescita ponderale, ma anche come una migliore risposta allo stress.79


Il massaggio infantile, pratica sviluppata nell’Occidente ma che ha le sue radici in diverse tradizioni del mondo, è un contatto attivo, una comunicazione amorevole con il bambino, un momento condiviso e dedicato, un’interazione diretta. Grazie al lavoro dell’AIMI80 questa pratica trova sempre maggiore diffusione in Italia, dove operatori sanitari, adeguatamente formati, trasmettono ai genitori l’antico sapere del massaggio nei luoghi di maternità, nei corsi postparto e nei consultori.

  • Il contatto attraverso il portare

A differenza della pratica del massaggio, il contatto nel portare ricopre una funzione più “fissa” (si ricorda il significato “stabile” del verbo portare) o se vogliamo più passiva. Nella P è simbolizzato dalla parte alta della linea verticale, dove i due corpi (persone) stanno o sono a contatto.


Al suo interno si possono suddividere ancora due modalità; la prima l’ho chiamata portare integralmente, dove il contatto avviene per il bambino su tutto il corpo pelle a pelle, e la seconda semplicemente portare, dove il contatto avviene tra entrambi i corpi vestiti.

  • Portare integralmente (pelle a pelle)

Il contatto pelle a pelle81 descrive una modalità precisa di incontro tra il bambino e sua madre, in cui il bambino sta nudo (o vestito solo con un pannolino), pancia contro pancia, tra i seni di sua madre e con le gambe aperte “a rana”, tenuto in braccio ma spesso opportunamente “fissato”(legato) con un telo attorno al busto del genitore. Si tratta della posizione di maggiore contatto corporeo, in cui la maggiore superficie di pelle del bambino è a contatto con la pelle del genitore.


Numerosi studi eseguiti negli ultimi trent’anni, soprattutto con bambini prematuri, confermano: il contatto pelle a pelle ha effetti molto positivi sui parametri vitali anche nei bambini molto prematuri e non stabili,82 rende inoltre i bambini prematuri più stabili e gli episodi di apnee diminuiscono.83 I bambini prematuri hanno un comportamento neurologico più maturo, un sonno più tranquillo, stati di veglia più attivi.84 In due studi recenti si conferma inoltre che il contatto pelle a pelle è un forte analgesico naturale sia per neonati sani85 sia per i prematuri stabili.86


Il contatto pelle a pelle oggi è diventato un approccio nella cura dei neonati prematuri, approvato e promosso dall’OMS87 (vedi capitolo III.3. 1. portare bambini prematuri).


Sebbene esistano pochi studi sull’effetto positivo del contatto pelle a pelle con bambini nati a termine, questi confermano che anche loro approfittano molto del contatto integrale godendo di un ambientamento migliore alla vita extrauterina.88 Ancora a distanza di un anno i bambini che hanno goduto subito dopo la nascita del contatto pelle a pelle sono in vantaggio rispetto al loro sviluppo.89 Il già citato medico Bergmann, da molti anni impegnato nella promozione del contatto pelle a pelle, afferma che esso è un diritto di tutti i neonati, perché l’unico posto giusto e adatto al bambino dopo la nascita e per le prime settimane di vita si trova addosso alla madre. Nel 2004 pubblicò insieme ad altri ricercatori uno studio90 in cui sperimentarono l’effetto del contatto pelle a pelle alla nascita per bambini prematuri di basso peso (1200-1999 gr.), rispetto a bambini che venivano stabilizzati dentro l’incubatrice. Conclusero che i 18 bambini a contatto pelle a pelle con le loro madri si erano stabilizzati tutti entro 6 ore, contro 6 dei 13 bambini nelle incubatrici. Inoltre, 8 dei 13 bambini nelle incubatrici avevano sofferto di ipotermia91. Bergman afferma che neonati a contatto pelle a pelle dopo la nascita hanno valori fisiologici migliori e una stabilità maggiore dei bambini nelle incubatrici, che inoltre soffrono di instabilità cardiaca dovuta a stress biologico perché nell’incubatrice si trovano in un habitat artificiale; pertanto conclude che i neonati non dovrebbero mai essere separati dalle loro madri.


Tuttavia siamo una cultura vestita ed è probabile che il portare integralmente rimanga una modalità di terapia più che un approccio proponibile su larga scala per i genitori e i loro bambini.

  • Portare (vestiti)

Forse proprio perché questa modalità di portare è quella più conosciuta e scontata e teoricamente alla portata di tutti, non esistono studi e ricerche specifiche a cui possiamo fare riferimento per un’analisi del contatto rispetto alle posizioni sul corpo.


Qualunque siano i motivi della scarsa quantità di studi specifici di riferimento, credo sia molto interessante tentare un’analisi della qualità del contatto (non in una scala dal meglio al peggio, ma nel senso di “diverso”) a seconda di come il bambino è portato, in braccio o con un supporto; sdraiato o pancia a pancia, sul fianco o sulla schiena.


L’analisi che segue cerca di rimanere il più possibile attaccata all’aspetto del contatto, partendo dall’osservazione della posizione e dalla sua interpretazione. Non è un’analisi scientifica, ma finché non sarà smentita credo possa essere un approccio valido.


C’è una differenza qualitativa del contatto se si porta un bambino in braccio o con un supporto? Per trovare una risposta a questa domanda è utile affrontare le due modalità distinte.

Portare in braccio

Senz’altro portare in braccio è il modo più comune per tenere il bambino vicino a sé. Ma come si tiene in braccio un bambino? Quando nasce il loro bambino, per molti genitori è la prima volta che tengono in braccio un neonato. Molti tremano all’idea, si sentono insicuri e non sanno come fare, ma nel momento in cui prendono il bambino nelle proprie braccia lo portano istintivamente vicino al proprio corpo. Sono le braccia a sostenere il piccolo, ma ciò che lo fa sentire sicuro è il corpo a cui viene appoggiato. Sdraiato, a culla, nella posizione “aereo”, a pancia in giù sul proprio braccio, vicino alla spalla, rivolto verso l’esterno, sul fianco per avere almeno un braccio libero. Tutte le posizioni in braccio sono caratterizzate dal fatto che il bambino è tenuto, almeno da un lato, vicino al proprio corpo.


Cosa fa scegliere al genitore di tenere il bambino in una posizione piuttosto che in un’altra?


Certamente non si può affermare che la posizione venga scelta in modo consapevole e razionale, ma è probabile che la scelta sia di tipo “corporeo”, guidata dall’istinto e a volte da tentativi. Anche chi non ha mai tenuto un neonato in braccio, dopo poco tempo e superate le prime insicurezze imparerà istintivamente tutte le posizioni possibili e sarà guidato a reagire a due impulsi:


a) i segnali che provengono dal bambino.

Nel momento in cui il bambino piange si cerca di cambiargli posizione per dargli sollievo e finché non si tranquillizza. “Il mio bambino ama particolarmente la posizione pancia in giù”, “no, il mio vuole stare solo dritto all’altezza delle spalle”. I genitori imparano presto a conoscere le preferenze di posizione dei loro bambini in determinate situazioni e a reagire di conseguenza.


b) i segnali che provengono dal corpo di chi porta.

Il corpo di chi porta parla e segnala, dopo poco tempo fermo nella stessa posizione, un affaticamento posturale, che normalmente induce chi porta a cambiare posizione per dare sollievo alle proprie fatiche.


Emerge quindi che portare in braccio è una modalità caratterizzata da una continua mobilità in risposta a segnali provenienti da entrambi. È fisiologico che il bambino in braccio non stia per molto tempo nella stessa posizione, perché chi tiene, sostiene e porta cambia istintivamente la posizione del bambino per rispondere ai segnali che provengono da esso e dal proprio corpo.


Anche quando il bambino si è addormentato e starebbe molto bene nella posizione in cui è riuscito a rilassarsi, dopo un po’ di tempo diverrà pesante e chi porta sentirà la necessità di metterlo giù per riposarsi. Quindi qualsiasi posizione del bambino in braccio dopo un tempo relativamente breve necessita di essere cambiata.


In braccio il contatto è fluido e mobile; in un breve arco di tempo il bambino viene mosso, toccato, premuto su tutto il corpo, e riceve una stimolazione tattile continua e diversa. Non esistono posizioni sbagliate perché nemmeno la posizione meno fisiologica viene mantenuta per tanto tempo.


Ma portare in braccio è una modalità molto faticosa per chi porta. Dopo alcuni mesi in cui il bambino sta in braccio per un numero non contato di ore al giorno, le madri lamentano tendinite acuta, mal di schiena, dolori cervicali. Al grosso sforzo fisico dell’adulto si aggiunge il fatto di avere spesso entrambe le braccia impegnate a tenere il bambino e quindi di essere impossibilitato a fare altro. Dopo alcuni mesi il problema dell’affaticamento si accentua progressivamente, perché il bambino comincia a pesare molto e “io proprio non ce la faccio più”. Il bambino, non più neonato, sembra non avere mai (ancora) abbastanza e richiede, del tutto incurante delle difficoltà dell’adulto, di stare ancora in braccio. A questo punto molti genitori si chiedono se esista una modalità più comoda per tenere il loro bambino in braccio. Si arriva così alla questione dei supporti.

Portare con un supporto

Portare con un supporto, invece, significa “fissare” il corpo del bambino sul proprio corpo in una determinata posizione e lasciarlo lì “incollato” per un po’ di tempo. Per questo motivo è evidente quanto sia fondamentale che la posizione “stabile” addosso al corpo del genitore sia fisiologica in primo luogo per il bambino (che ha una postura in crescita) e poi per il genitore, che porta. Pertanto conoscere la qualità di ciascuna posizione acquisisce una grande importanza che permette poi di scegliere una posizione adatta. Portare con un supporto libera le braccia di chi porta dal tenere attivamente il bambino e rilassa il dorso e la zona del trapezio riducendo notevolmente la fatica posturale fisica per chi porta.


Un altro aspetto del portare con un supporto è che si esplicita e si evidenzia (a seconda del supporto) la modalità di stare a contatto con il proprio bambino, e qui entrano in gioco altri aspetti (culturali, ambientali, di relazione).


Potrebbe essere un motivo per cui il bambino, anche piccolissimo, sembra riconoscere la differenza dello stare in braccio oppure nel supporto e che possa preferire, a seconda della situazione, una modalità o l’altra. Una mamma una volta ha notato che il suo bambino sente, stando in braccio, che è “a rischio” di essere messo giù in ogni momento (infatti continua a piagnucolare), mentre dentro il supporto “sa” che ci starà per un po’ di tempo tranquillamente, si rilassa e si addormenta immediatamente.


Mettendo a confronto le due modalità di portare si notano alcune differenze.


  IN BRACCIO NEL SUPPORTO
POSIZIONE DEL BAMBINO MOBILE STABILE
TEMPO A CONTATTO TENDENZIALMENTE BREVE TENDENZIALMENTE LUNGO
CHI PORTA FATICA POSTURALEIMMEDIATA RILASSAMENTO POSTURALE
LIBERTÀ DI MOVIMENTO BRACCIA IMPEGNATE BRACCIA LIBERE


Quando si analizzano teoricamente le diverse posizioni rispetto alle caratteristiche qualitative della posizione stessa, non esiste differenza se il bambino è in braccio o nel supporto. Tuttavia evidenzierò, laddove necessario, alcune differenze e limitazioni, perché in braccio non esiste la posizione “sbagliata”, mentre, caratteristiche qualitative e tecnico-pratiche (vedi capitolo IV) dei supporti a parte, nel supporto ci sono posizioni da evitare. L’analisi di ciascuna posizione seguirà il filo rosso dalla descrizione oggettiva della posizione al tentativo di un’interpretazione.

Le posizioni

  • Davanti

Davanti al corpo del genitore ci sono tre posizioni che si possono realizzare:92

  • pancia contro pancia (“l’incontro”)

  • fianco del bambino contro pancia del genitore (“culla”)

  • schiena del bambino contro pancia del genitore (“pancia al mondo”)

Pancia contro pancia: “l’incontro”


La posizione:


Il bambino si appoggia con la sua intera parte anteriore (pancia, tronco, gambe e testa) alla pancia (tronco centrale) del genitore. La pancia del piccolo è a contatto frontale con la pancia/tronco di chi lo porta.

Interpretazione

Per il bambino che si appoggia, il corpo del genitore è il mondo davanti a lui, un corpo-mondo tutto da sentire, toccare, il terreno su cui fare esperienze sensoriali. È un mondo caldo, che asseconda i suoi movimenti e gli procura la resistenza ottimale. Il bambino ritrova un mondo amico, conosciuto e rassicurante; il ritmo cardiaco, la sua voce, il suo odore, le sue vibrazioni, ritrova stimoli sensoriali che conosce dalla vita intrauterina.


Il bambino che si appoggia è protetto nella sua parte più sensibile93 dal mondo aperto; il corpo-mondo del genitore diventa il filtro tra il mondo aperto (l’ambiente esterno) e il bambino, che non deve affacciarsi al mondo esterno direttamente, ma solo mediato dalla presenza filtro del corpo-mondo del genitore. Se il mondo esterno è mediato dal corpo del genitore, nella posizione pancia contro pancia il bambino sta a contatto frontale e diretto con il centro del genitore. Attraverso la propriocezione avverte qualsiasi emozione che muove l’interno del genitore mentre è addosso a lui. Sente qualsiasi tensione in modo diretto e non esita a esprimere il suo disagio dovessero esserci tensioni dolorose.


E qui arriviamo al significato per il genitore. In questa posizione frontale, il genitore mette il bambino a contatto con il proprio centro, lo mette nel suo centro. Se il bambino viene portato con una fascia, viene evocata facilmente l’immagine dell’utero esterno, dell’esogestazione praticata. Per le madri può essere un’opportunità di permettersi, nelle prime settimane dopo il parto, soprattutto se è stato un evento brusco, di ritrovare ancora l’intimità con il piccolo. I padri, dicendo “finalmente ho anch’io la pancia” e accarezzandolo con un grande sorriso, esprimono anche loro questo senso di contatto quasi “interno”.


A volte, come vedremo più avanti, questo contatto frontale, diretto, intimo, che tocca la parte più sensibile, fragile e importante del genitore, può suscitare reazioni emotive diverse in loro e non sempre positive. Ho chiamato questa posizione la posizione dell’incontro, perché


a) mette le parti più sensibili di entrambi a contatto, li fa incontrare, li fa esprimere e

b) è una posizione che si userà per un tempo molto limitato, nelle prime settimane e mesi dopo la nascita. Indubbiamente è la posizione di contatto più forte che si può condividere con il bambino.94


A confronto, la posizione a “culla”, che vediamo ora, è molto meno impegnativa dal punto di vista del contatto.

Fianco contro pancia: “culla”


La posizione:

Il bambino è sdraiato, appoggiato lateralmente in tutta la sua lunghezza, a contatto con la pancia (sopra la linea dell’ombelico) del genitore. Quando apre gli occhi mette a fuoco il viso del genitore perché si trova a una distanza ottimale.95 I due si scambiano sorrisi e si parlano. La pancia del bambino è “all’aria”, mentre quella del genitore è a contatto con il corpo del bambino.


Interpretazione

La posizione “a culla” è interessante perché permette un’interazione visiva ottimale tra genitore e bambino, mentre il contatto corporeo è limitato. Anche se la pancia è scoperta e “all’aria” e il bambino non ha modo di appoggiarsi con mani e piedi al corpo del genitore, questo è presente a livello visivo e proteso verso il piccolo, e riempie ampiamente la visione del mondo davanti a lui.


È una delle posizioni preferite dai genitori occidentali che si avvicinano al portare con un bambino appena nato, probabilmente per due motivi:


a) il bambino sta sdraiato e si possono debellare i dubbi rispetto a un eventuale danno posturale spesso e ingiustamente avanzati (anche dal mondo degli esperti) per le posizioni verticali precoci. Non c’è nessun motivo fisico-anatomico per portare i bambini sdraiati nei primi mesi.96


b) la posizione permette di vedere il bambino e di interagire direttamente con lui, due modalità che corrispondono al maternage occidentale. È interessante notare che non molti neonati la amano se prolungata, e la accettano solo in alcuni momenti, come quando per esempio sono disposti al dialogo e all’interazione. Quando invece sono stanchi o sovraccarichi di stimoli questa posizione sembra che non li protegga e non li contenga a sufficienza: preferiscono una posizione dove la pancia è coperta o sotto leggera pressione.97


Ai genitori invece piace molto la posizione “a culla”, forse perché ricorda la posizione “in pancia”, ma bisogna tener presente che il bambino in questa posizione non può eseguire movimenti competenti né sistemare la propria postura e si trova “in balia” della forza di gravità (vedi anche il capitolo: movimento).


La posizione “a culla” è una posizione funzionale all’interazione diretta, al dialogo, alla comunicazione visiva e verbale, ma non c’è bisogno di giustificarla come funzionale alle caratteristiche posturali del bambino anteponendola per questo motivo alla posizione verticale pancia contro pancia.

Schiena contro pancia: “pancia al mondo”


La posizione:


Il bambino si appoggia con la schiena al tronco del genitore. Sostenuto da dietro, le sue gambe finiscono nel vuoto davanti, le braccia e le mani sono prive di appoggio. Il bambino può toccare i propri piedi. La sua pancia è scoperta. Davanti al bambino c’è il mondo aperto, l’incognito, il non-limite. Il corpo del genitore “alle spalle”, su cui si appoggia il corpo del piccolo, diventa lo “sfondo” mentre il corpo del bambino è rivolto al mondo, all’aperto, all’esterno.


Interpretazione

La schiena, la parte posteriore del nostro corpo, è la zona dove ci sono meno corpuscoli sensoriali in concomitanza con uno strato maggiore di grasso, quindi ha una sensibilità ridotta rispetto alla parte anteriore del corpo. Questa posizione fornisce al bambino il contatto della sua schiena (parte meno sensibile), con la pancia del genitore (parte più sensibile). La posizione non permette uno scambio di sguardi e di interazione visiva tra i due.


Per il bambino, la posizione pancia al mondo favorisce l’incontro diretto con il mondo aperto e lo espone senza filtro agli stimoli provenienti da esso. Spesso si giustifica questa posizione proprio per il fatto che il bambino “è così interessato” e “ha voglia di vedere il mondo”. Dopo alcuni mesi spesso i genitori colgono da parte del bambino un interesse maggiore per l’ambiente e cercano di rispondere a questi segnali cambiandogli posizione: dalla pancia a pancia alla pancia al mondo.

Ma il bambino di alcuni mesi è già in grado di incontrare il mondo aperto senza sentirsi esposto, non protetto, investito dagli stimoli provenienti dall’esterno? Quando il bambino è pronto a fare questa esperienza?


Credo sia ragionevole pensare che questo momento arrivi progressivamente con la sua maturazione motoria. Il bambino, durante il suo sviluppo e se i suoi tempi sono rispettati, affronterà lo spazio aperto un po’ alla volta nella misura in cui si può effettivamente mettere in contatto con esso. Inizia ad afferrare ed esplorare il corpo del genitore e gli oggetti intorno a lui, inizia a strisciare e poi gattonare avventurandosi nel mondo inizialmente per brevissime distanze e poi sempre più lontano. Non c’è dubbio che il mondo fuori dalla sua portata motoria comunque necessiti ancora di essere mediato a lungo dalla presenza sicura del genitore (vedi anche capitolo: legame)


Potrebbe quindi essere che l’esposizione precoce al mondo sia l’effetto del desiderio degli adulti di anticipare i tempi di sviluppo fisiologico, non tenendo conto dello stato evolutivo del bambino, che non dispone ancora di strumenti e risorse e della sicurezza interna per affrontare in modo efficace il mondo? Potrebbe essere che l’incontro diretto, senza filtro con il mondo esterno, ferisca il bambino (anziché farlo crescere) e lo sovraccarichi di stimoli a cui non è ancora in grado, sulla base delle sue esperienze, di dare un senso e di integrarli?


Considerando la posizione dal punto di vista anatomico si trovano ulteriori conferme che non sia fisiologica. Il bambino appoggiato alla pancia del genitore facilmente ha una postura non fisiologica, rischia di insaccarsi troppo, oppure di trovarsi con la schiena inarcata. In questa posizione non riesce a controllare il capo e fa fatica a trovare l’equilibrio posturale perché gli manca la possibilità di aggrapparsi e di trovare appoggio sotto i piedi e le mani, tipica per il portato. Inoltre rischia di schiacciare e di compromettere i genitali, perché tutto il peso viene scaricato sull’asse mediana del suo corpo.


Qui entra in gioco la differenza tra portare in braccio o con un supporto. Mentre in braccio questa posizione è mobile e viene cambiata spesso, portare dentro un qualsiasi supporto che fissa il bambino nella posizione pancia al mondo non è adeguato né adatto al bambino.


Simbolicamente, il sostegno “alle spalle” è un contatto che acquisirà importanza crescente (simbolico) quando il bambino, conclusa l’età del portato, cresce (infanzia, adolescenza) e incontra il mondo, ma ha ancora bisogno (a lungo) di un supporto “alle spalle” (background object).98 Allora non avrà più bisogno del contatto portato, cioè che il genitore gli stia davanti, che gli faccia da tramite o da filtro, ma avrà acquisito la sicurezza necessaria per affrontare il mondo, per sperimentarlo, sulle proprie gambe, con i suoi strumenti, sapendo che alle sue spalle, e al bisogno, il sostegno genitoriale è presente.


Per rispondere alla maggiore apertura del bambino nei confronti dell’ambiente e al suo interesse crescente per gli stimoli ambientali, è fortemente consigliato da tutti gli esperti del portare di passare dalla posizione pancia a pancia alla posizione sul fianco, che descrivo di seguito.

  • Sul fianco

Pancia contro fianco: “dialogo”


La posizione:

Il bambino sta seduto a cavallo, stringendo con le gambe il fianco di chi lo porta; le mani sono chiuse su un lembo del vestito di chi lo porta e stringono. Il braccio del genitore o il supporto sostiene il tronco del bambino. Il bambino, modellato così al corpo del genitore, guarda curioso ciò che questo fa, chi incontra, osserva con chi parla. A volte gira la testa e lancia uno sguardo indietro o segue con interesse una scena alle spalle. La sua testa è quasi all’altezza della testa del genitore, i due si guardano e si parlano.


Interpretazione

La posizione storica dell’uomo che porta, ancora oggi viene spontanea a molti genitori. È naturale mettere un bambino sul fianco, soprattutto quando tiene la testa, regge bene il proprio dorso e ha raggiunto un certo peso. Dal punto di vista del contatto, il bambino è protetto alla pancia, che appoggia sulla parte laterale del tronco del genitore. Un braccio lo avvolge e gli sostiene la schiena oppure la fascia lo avvolge e lo regge. È una posizione di contatto che protegge, ma non più un contatto frontale dove uno sta di fronte all’altro e uno è il mondo dell’altro. Ora il bambino ha un campo visivo più aperto e vasto e mantiene comunque la possibilità di accoccolarsi contro il corpo del genitore e di addormentarsi, mentre la posizione permette al genitore di respirare liberamente perché il bambino è appoggiato sul suo fianco e lascia libera la sua area pancia-torace.99


Per entrambi è una posizione di transizione, di ponte. Il contatto è sempre forte, ma non più esclusivo, frontale. Il bambino sta con l’adulto, ma non sta più al suo centro e non copre più il suo campo visivo.


Quando il bambino comincia a mostrare interesse per il mondo oltre che per i genitori, ed è un interesse che cresce gradualmente assieme alla sua maturazione motoria, la posizione sul fianco risponde al suo bisogno di una visuale maggiore, garantendo nello stesso momento la protezione e il filtro, ancora necessari.


Ho chiamato la posizione sul fianco anche la posizione del dialogo. L’adulto e il bambino si incontrano quasi alla stessa altezza e attraverso un forte contatto visivo hanno la possibilità di parlarsi, di comunicare. Nella fase dai sei mesi al terzo anno di vita, nell’acquisizione del linguaggio, il bambino integra le sensazioni che gli provengono dal contatto con il corpo della madre, con la sua mimica, con i suoi gesti, con il tono della voce e infine con le parole che usa. Si tratta di un’importante stimolazione ed esperienza plurisensoriale! Il bambino sperimenta tutti i movimenti eseguiti dal genitore nella giusta direzione (direzione di marcia), mediato dal corpo del genitore. Partecipa così alla vita di ogni giorno, al ritmo, “a fianco” dei grandi.

  • Sulla schiena

Pancia contro schiena: “tu mi segui”


La posizione:

Il bambino è appoggiato con la pancia e il tronco anteriore alla schiena (tronco posteriore) di chi lo porta.


Interpretazione

Dal punto di vista del contatto, la pancia del bambino è protetta dalla schiena di chi lo porta, il piccolo sta “incollato” dietro alla persona adulta, è protetto dal suo corpo. “(…) gli procura la sensazione-sentimento che la parte più preziosa e più fragile del proprio corpo, ossia il ventre, sia ben protetto dietro lo schermo protettore ”.100


Questa è, insieme al fianco, una delle grandi posizioni storiche della pratica del portare con un supporto e ancora oggi la posizione culturalmente più diffusa nel mondo, come abbiamo visto nel capitolo I.


È la posizione dei genitori che devono lavorare fisicamente e hanno bisogno di essere liberi davanti, oltre a doversi caricare il peso (il bambino) in un punto fisiologico. Infatti dal punto di vista fisico posturale sulla schiena si sopportano meglio e più a lungo i pesi. Il bambino dietro ha un’ampia visuale a destra e a sinistra e a volte oltre la spalla del genitore, è protetto in ogni situazione e può chiudere gli occhi e addormentarsi quando è stanco. La madre è libera e può svolgere la sua vita lavorativa normalmente. Il bambino c’è ma non è di impiccio. L’attenzione del genitore si concentra su ciò che si trova davanti a lui (il mondo aperto) e il bambino lo segue, l’accompagna, partecipa, condivide, è parte di questo “incontrare il mondo” senza essere direttamente coinvolto o direttamente interpellato, senza essere il punto focalizzato o il centro dell’attenzione.


È un contatto che protegge, introducendo il bambino nel mondo dolcemente. Tutti gli stimoli esterni, le situazioni, l’incontro con il mondo vengono ancora filtrati dal corpo di chi porta. Il bambino e chi lo porta non hanno bisogno di conferme visive per sentirsi a vicenda, perché hanno già imparato in precedenza a fidarsi del contatto e a sentirlo sicuro. Al Imfeld descrive così il valore del portare in groppa: “Iniziare la vita in groppa significa che nessun bambino deve cominciare la vita tutto da sotto e tutto da solo, ma porta avanti la visione della madre”.101


Come la posizione sul fianco, si mantiene questa posizione durante tutto il percorso portato e fino alla sua conclusione. È la posizione da cui, a suo tempo, il bambino “spiccherà il volo”, cioè partirà sulle proprie gambe.

  • Caratteristiche generali del contatto portato per il bambino

Considerando l’analisi delle posizioni si possono definire le caratteristiche implicite del contatto portato, che sostanzialmente sono due:


Corpo unico

Il corpo del piccolo e il corpo del grande, in qualsiasi posizione fisiologica, dovrebbero sempre formare un nuovo corpo unico e “pieno”, quindi incontrarsi in modo che un corpo si protenda verso l’altro (come due polarità che si attirano), formando così un nuovo corpo con baricentro proprio.


Simbolicamente, questa caratteristica si illustra bene nella lettera P e nelle sue variazioni, da una parte, e nella lettera K dall’altra. Tutte le posizioni P evidenziano un progressivo adattamento alle esigenze e alle situazioni evolutive diverse durante il percorso portato, nel senso di una apertura maggiore del campo visivo, ma la base delle posizioni (pancia del bambino contro corpo del genitore) nella qualità e nel significato del contatto non cambia.

Mediazione

Il corpo del piccolo viene quasi interamente coperto dal corpo del grande. Questa copertura si può considerare come una specie di filtro che si pone, in tutte le posizioni adeguate, tra il bambino e il mondo aperto. Subito dopo la nascita è quasi totale, mentre diminuisce gradualmente fino a mantenersi a un minimo (tra ginocchia e pancia/tronco del bambino).102


Il contatto che il piccolo ha con il mondo aperto è sempre un contatto indiretto, filtrato dal corpo del grande, e quindi è sempre un contatto mediato. Il bambino portato a contatto non è mai esposto all’esterno, ma sempre protetto in modo adeguato. Nel momento in cui non ha più bisogno della mediazione corporea si conclude il percorso portato.

II.2.3.3. Il significato del contatto per i genitori

E i genitori? Che significato trovano nel contatto portato?

Questo contatto, che all’inizio tocca il proprio centro (portare davanti), per alcuni genitori è la cosa più appagante del mondo. Ce ne sono molti, invece, che fanno fatica a stare a contatto con il loro bambino. Secondo Franz Renggli questa fatica è un po’ il tema, oggi, di un’intera generazione di genitori.


Succede spesso che, nonostante abbiano compreso l’enorme importanza del contatto corporeo per il loro bambino e siano razionalmente disposti a soddisfare questo bisogno, in realtà non vivano il contatto in modo “appagante”, “positivo”, “leggero”, “sentito”, “istintivo”, “giusto”, “caldo”, “sereno”, bensì piuttosto sofferto: “mi sento soffocare”, “sudo tanto”, “mi viene l’eritema”, “non vedo l’ora di metterlo giù”, e il loro bambino “non vuole stare tanto in braccio”, “sta meglio giù”, “non gli piace tanto stare addosso”.


Come può essere? Come può essere che la semplice volontà di stare a contatto spesso non basti? Come ho accennato nel capitolo I, non è affatto un dato trascurabile che la maggioranza dei genitori di oggi (anni ’60 e ’70) sia stata cresciuta nei termini di non-contatto e di separazione precoce. Il proprio vissuto di contatto o di non-contatto influisce in modo notevole sulla predisposizione reale al contatto con il proprio bambino, e le difficoltà che sorgono si possono vedere sotto una luce più chiara.


Franz Renggli, psicoterapeuta per genitori e i loro bambini, è convinto che spesso i genitori siano fragili, perché attraverso il bisogno di contatto del loro bambino neonato riaffiorano i loro propri vissuti primari spesso carichi di angoscia, di senso di perdita e di abbandono, e di dolore per la separazione precoce dalla propria madre. Questo proprio vissuto, inaccessibile attraverso la memoria cosciente, riaffiora, esternandosi in emozioni di disagio (“non ce la faccio a portarlo”, oppure: “lui non sta bene in braccio a me”), a volte addirittura di rabbia nei confronti del bambino esigente di contatto (“perché non la smetti di piangere!”).

Spesso si sentono sovraccaricati dalle richieste esplicite e ripetute del bambino, e anche se a volte il contatto può essere piacevole, spesso viene avvertito come molto faticoso. Renggli lo descrive così:

Madri e neonati da noi vengono separati, come tra l’altro in tutte le civiltà altamente sviluppate. Maggiore è lo sviluppo della cultura, più precoce e coerente è la separazione. Noi tutti portiamo una parte profondamente disperata dentro di noi, perché da neonati abbiamo dovuto fare l’esperienza di quanto il nostro pianto e le nostra urla rimanessero inascoltati, senza senso, ignorati. Di conseguenza, le nostre parti piene di ombre scure si trovano molto in profondità: “il bambino che piange dentro di noi”. Tutti noi portiamo dentro un’ombra così, più o meno accentuata. Le ricerche e le esperienze della psicologia e psicoterapia prenatale hanno portato alla luce due regolarità:


Gravidanza, parto e periodo della prima infanzia sono per entrambi i genitori, madri e padri, un periodo altamente sensibile. All’improvviso possono emergere dalla profondità, a volte con grande impeto, le proprie ferite e i traumi. Ma non è solo un processo doloroso. Anzi, questi genitori giovani hanno la possibilità di conoscere le proprie ombre e di accettarle infine per poterle integrare. Madre e padre con un bambino piccolo possono tornare “interi”. È un periodo particolarmente ricco di opportunità per guarire.


D’altra parte i genitori possono anche rimuovere le proprie parti ombrose oppure tenerle sotto chiave in qualche modo. I neonati non possono


farlo. Sanno leggere nell’inconscio dei loro genitori come in un libro aperto. Sentono tutte le loro paure e le emozioni represse, la rabbia, la nostalgia e le aspettative ideali (deluse) dei genitori. Si, sono esposti senza protezione a queste ombre, alle ombre del padre e della madre.


Se guardiamo entrambe le esperienze contemporaneamente possiamo riconoscere come ogni neonato deve vivere e soffrire una grande parte dei conflitti non vissuti, paure e sentimenti dei propri genitori. Molto presto quindi entra in contatto con le parti ombrose della nostra cultura.103

D’altronde non è più che comprensibile che genitori che non hanno vissuto sulla propria pelle l’effetto rassicurante dello stare in braccio, la totale accettazione nei loro confronti e nei confronti dei loro bisogni, si possano sentire a disagio con il proprio bambino, esigente e che non scende a compromessi?


Allora finisce tutto qui e bisogna lasciare perdere quando si incontrano le proprie difficoltà di contatto con il neonato? Potrebbe essere effettivamente una soluzione quella di non tenere il proprio bambino a contatto e quindi di ripetere le proprie esperienze vissute per un’altra generazione. Ma ci troviamo nella fortunata situazione di poter scegliere. Non siamo costretti a ripetere per forza le esperienze primarie vissute dalle generazioni precedenti e dalla propria, ma possiamo scegliere di cambiare.


Abbiamo visto che tanto il genitore è più consapevole delle proprie fatiche e dei propri limiti rispetto all’approccio a contatto, più sereno sta il bambino addosso a lui. Come se l’emozione espressa, cioè esternata e quindi buttata fuori, smettesse di disturbare il bambino. Nel momento in cui il genitore si fa carico delle proprie emozioni e dei propri sentimenti, anche negativi, il bambino si trova sollevato dal compito di esprimerle lui.

Il contatto davanti provoca l’impatto più forte con le proprie emozioni e il confronto necessario con i propri limiti e i bisogni non soddisfatti. Passando poi al contatto sul fianco e sulla schiena, dove il coinvolgimento a contatto non è più frontale e così intimo, la fatica psichica normalmente si riduce. Comunque va detto che, quale che sia il vissuto primario dei genitori, l’approccio a contatto durante i primi anni di vita con il proprio bambino indubbiamente è faticoso, fisicamente e psichicamente. Chi lo sceglie deve attingere periodicamente a delle fonti di energia per ricaricare le batterie. Nelle società tradizionali le madri non sono sole e l’accudimento di un bambino piccolo viene condiviso da tutta la famiglia, gruppi di 20 persone. Nelle nostre famiglie di nuclei minimi, invece, molto del peso e della responsabilità resta sulle spalle della madre. “A che cosa serve al bambino una madre che si svuota tutto il primo anno per lui, ma dopo crolla per un esaurimento nervoso?”104


Quindi, con tatto e pazienza, nei propri confronti e nei confronti del bambino, vivere il contatto. Ognuno trova la giusta misura per sé.

II.2.2. Elemento secondo: il movimento
II.2.2.1. Introduzione

Il movimento significa letteralmente il cambiamento di una posizione rispetto a un’altra ed è la condizione basilare della vita a tutti i livelli. Per il portare, l’elemento del movimento è il significato “mobile” del verbo portare, la “gamba” della P, che illustrerò di seguito nei suoi dettagli.


Dopo una breve introduzione al significato del movimento nella vita prenatale e postnatale e una descrizione dell’organo sensoriale del movimento (sistema vestibolare), inviterò a una prima analisi dei diversi aspetti del movimento per il bambino portato il movimento spaziale (trasporto), il dondolio (movimento verticale), il movimento ritmico, seguire il movimento di chi porta, il movimento attivo del bambino portato – e a una seconda del significato del movimento (spaziale, simbolico) per i genitori che portano.

Il movimento nella vita prenatale

Che cosa segnala alla donna la presenza del suo bambino nella pancia? Nei libri scolastici si trova l’indicazione semplice che sono i movimenti fetali sentiti inconfondibilmente a confermare alla madre la sua presenza certa e viva.105


Nello sviluppo embrionale e fetale il movimento, oltre a essere condizione basilare per la vita, è sempre in linea con l’obiettivo da raggiungere; infatti le ossa hanno bisogno di pressione e la muscolatura ha bisogno di movimento e allenamento altrimenti si atrofizza.106 Blechschmidt, in quarant’anni di studi sulla cibernetica embrionale, ha provato che tutto lo sviluppo embrionale, nella struttura anatomica, motoria, sensoriale, ha bisogno di un movimento continuo del feto. Il feto quindi deve muoversi attivamente per crescere e svilupparsi. Nell’ambiente intrauterino, privo di gravità, il feto si muove con molta facilità. Per mesi preme il suo corpo contro le pareti uterine e rende così il suo scheletro osseo più forte. Cambia continuamente posizione e sviluppa e allena così la sua muscolatura. I movimenti di prendere, di succhiare e di spingere lo preparano alle funzioni nella vita extrauterina; al nutrimento, ma anche alla comunicazione, alla manipolazione di oggetti e infine alla deambulazione.


Nell’ultima fase prima della nascita, nello spazio ormai diventato molto ristretto, il bambino impara ad adattare la sua posizione. Sviluppa inoltre movimenti fini motori delle mani, dei piedi e del viso.107 Il feto si confronta con stimoli sensoriali uditivi, visivi e olfattivi e impara a seguirli con i movimenti.


Ma la comunicazione effettiva tra madre e bambino si svolge attraverso il sistema propriocettivo e vestibolare. Il bambino impara a conoscere la madre seguendola nei suoi movimenti quotidiani. È uno scambio reciproco; la madre segue i movimenti e si adatta a quelli del suo bambino e viceversa. Hatch chiama questo processo il bonding kinestetico. Dopo che un bambino ha seguito per mesi i movimenti della madre, alla nascita ha la capacità di seguirli tramite processi motori di contatto.108

Il movimento dopo la nascita

L’ambiente in cui nasce un bambino non sostiene i suoi movimenti, ma lo rende completamente inerme e incapace di muoversi come faceva prima. Le gambe e le mani ruotano nel vuoto e se prima riusciva, spingendo con mani e piedi contro le pareti dell’utero, a cambiare e sistemare la sua posizione corporea, ora non ci riesce più.


“Per il neonato la forza di gravità è la sfida più grande dal punto di vista motorio.”109 Lo spazio è completamente cambiato; non si è mai trovato su una superficie piatta e ferma che non rispondeva ai suoi movimenti, non è mai stato in un ambiente che non sosteneva i suoi movimenti, che non gli veniva incontro!


Immedesimandoci nel bambino, come facevano Leboyer110 e Marcovich,111 comprendiamo che l’esperienza motoria, dopo la nascita, cambia completamente e può spaventare i bambini tanto da essere fonte di stress. Abbiamo visto che dopo la nascita si stabilizzano nei parametri vitali con maggiore facilità addosso al corpo della madre piuttosto che in una termoculla.


Se il bambino in utero era competente dal punto di vista motorio, dopo la nascita è sottoposto alla forza di gravità e deve imparare a muoversi in questo ambiente nuovo e completamente diverso. Quest’impresa gli costerà molta fatica e durerà più di un anno!

Organo di percezione sensoriale del movimento – il sistema vestibolare112

Il movimento, in quanto stimolo ed esperienza sensoriale, non viene percepito in un solo organo, ma in più organi che si raggruppano nel sistema vestibolare.113 Si tratta delle zone più antiche del nostro cervello; sembra infatti che il sistema vestibolare sia, dopo il sistema tattile, quello più precocemente funzionante nello sviluppo embrionale.


L’organo dell’equilibrio, situato nell’orecchio interno, è responsabile delle sensazioni della posizione del corpo nello spazio, del ritmo e del movimento (accelerazione) della testa in tutte le direzioni. Le informazioni raccolte nell’organo dell’equilibrio vengono inviate nell’area dei nuclei vestibolari dove arrivano anche le informazioni da parte del sistema del tatto e dagli occhi. L’elaborazione di tutte le informazioni determinano la posizione, il cosiddetto equilibrio del corpo nello spazio.


I sistemi propriocettivo e vestibolare regolano la tensione muscolare. Se la tensione è bassa il bambino è più sensibile e aperto a stimoli sensoriali e riesce a controllare e organizzare in modo più efficace i processi organici interni. Un segnale interessante, che si può notare facilmente nei neonati, è la direzione delle loro rughe frontali. Marina Marcovich,114 nella sua lunga esperienza di neonatologa, ha notato che i bambini prematuri, quando non sono ancora stabili, hanno delle rughe frontali verticali, mentre un bambino che si è stabilizzato mostra invece delle rughe orizzontali. La spiegazione di questo fenomeno proviene dall’etologia. Corrugare la fronte in direzione orizzontale è indice di quando si è fortemente interessati a qualcosa, per esempio quando si sta ascoltando attentamente. Ma l’attenzione e l’interesse verso l’esterno può essere alta solo se la tensione interna è bassa e si sta bene internamente. Le rughe verticali invece indicano una concentrazione verso i propri processi interni, quando si sta male, quando si è preoccupati, quando si sente dolore. In un momento di rughe verticali non si è pronti a ricevere stimoli dall’esterno. Questo vale per i bambini prematuri, per i neonati, per gli adulti.


Vorrei di seguito illustrare il significato del movimento (nella sue diverse qualità) rispetto al bambino (portato) e ai genitori (che portano).

II.2.2.2. Il significato del movimento per il bambino

  • Il movimento spaziale

Spostare

Dopo la nascita e ancora per alcuni mesi il bambino è completamente immaturo dal punto di vista motorio e per eseguire un movimento proprio e competente nello spazio extrauterino ha bisogno di essere spostato, cioè mosso da un luogo A a un luogo B. Questi luoghi (A e B) nella nostra cultura sono normalmente contenitori (fasciatoio, culla, lettino, sdraietta, box, quindi luoghi fermi), ma teoricamente potrebbero essere dei luoghi vitali, cioè i corpi delle persone dell’ambiente di cura primario.


Il passaggio tra A e B, qualsiasi siano i luoghi da raggiungere, avviene sempre tramite le braccia, quindi tramite un movimento portato. Anche chi tiene il bambino il meno possibile in braccio è soggetto a questo aspetto del movimento portato.


Tras-portare

Il termine “tras-porto”, invece, viene utilizzato per un movimento più lungo. Si tratta quindi di spostamenti macro (nel tempo e nella misura), come quando per esempio si trasporta il bambino da A (la casa) a B (il negozio in paese) e ritorno.


Come abbiamo visto nel capitolo I, in Europa oggi si può scegliere liberamente come trasportare i bambini. Il bambino per questo tipo di spostamento può essere portato addosso oppure essere spinto in una carrozzina o nel passeggino, a seconda della situazione. Proprio la necessità di trasportare il bambino più comodamente nella vita di tutti giorni è uno dei motivi principali del perché i genitori occidentali comincino a portare i propri figli.

Il dondolio ritmico

Quando si tiene un neonato in braccio a molti viene d’istinto di muoversi insieme a lui, camminare, cullarlo, dondolarlo.


Strano che il movimento non disturbi il neonato e non gli impedisca di dormire, come succede con altri stimoli sensoriali, ma addirittura lo calmi e lo faccia addormentare. Probabilmente la causa è biologica: essere mossi significa, per il portato (Tragling), un segnale di essere portato e quindi di trovarsi nell’ambiente sicuro della madre.115


Nelle ricerche sui benefici del dondolio sui bambini si nota come il movimento oscillante in verticale abbia un beneficio maggiore del movimento orizzontale.116 Anche qui potrebbe esserci una spiegazione biologica; il dondolio verticale infatti è quello che il bambino sperimenta quando viene portato da una persona che cammina. È il dondolio fisiologico del portato attivo.


Camminando, facendo una passeggiata e durante il lavoro fisico, per esempio nei campi, nell’orto, i movimenti sono sempre ritmici. Dopo un po’ di tempo la frequenza respiratoria, i passi e il battito cardiaco armonizzano, come si è scoperto nelle ricerche della medicina sportiva. Questo rilassa e armonizza il sistema psicovegetativo di chi porta. Il bambino portato lo sente (lo annusa perché una persona rilassata odora diversamente). Poi si rilassa ulteriormente per i movimenti ritmici e riesce ad addormentarsi e digerire meglio.117


L’effetto rasserenante del movimento ritmico sul bambino è noto da migliaia di anni. La culla (vedi capitolo I), contenitore e surrogato per il movimento, secondo Montagu era un’invenzione molto benefica perché procurava ai bambini una buona stimolazione vestibolare. Oggi, essendo riconosciuti anche dalla scienza i benefici per lo sviluppo del bambino, il movimento viene simulato da culle moderne che dispongono di meccanismi per dondolare il piccolo ritmicamente.


Montagu ci riporta i risultati dello studioso Colin McPhee, esperto in musica balinese, che ha scoperto che il ritmo base della musica balinese è lo stesso ritmo con il quale le donne pestano il riso nel mortaio. Una conferma di questa osservazione è riportata anche in uno studio effettuato su bambini di 7 mesi e pubblicato sulla rivista “Science” nel 2005.118 I bambini venivano sottoposti all’ascolto di diversi brani musicali con ritmi diversi. Un gruppo veniva cullato ogni secondo battito, un altro ogni terzo. In seguito i bambini preferivano ascoltare la musica alla stessa cadenza con cui erano cullati. Questo significa che il movimento influenza certamente l’udito e il modo in cui sentiamo (udiamo) un determinato stimolo!


Anche gli studi effettuati sul movimento, soprattutto nell’ambito della patologia neonatale, provano scientificamente la caratteristica rasserenante del movimento ritmico sul bambino in concomitanza con effetti positivi sull’attività cardiorespiratoria, intestinale e sul tono muscolare. Molte cliniche infatti cominciano a sfruttare queste conoscenze e sdraiano i prematuri nelle incubatrici su amache e lettini ad acqua,119 o incoraggiano addirittura i genitori a portare i loro bambini già nel periodo del ricovero.120

Seguire i movimenti di chi porta

Quando il bambino viene portato segue con il suo corpo i movimenti di chi lo porta. A livello sensoriale tattile e propriocettivo il bambino sente i movimenti muscolari, posturali e spaziali e apprende in questo modo delle sequenze motorie.


Alcune tribù africane nel primo anno portano i bambini quasi esclusivamente a contatto con il proprio corpo (sulla schiena). Nonostante ciò questi bambini hanno uno sviluppo motorio precoce rispetto ai bambini europei.


La nostra esperienza ci insegna che i bambini portati hanno tutti un buon sviluppo motorio, che non si manifesta necessariamente in modo quantitativo, cioè nel dato di una deambulazione precoce, ma soprattutto nell’osservazione di una grande sicurezza loco e finimotoria; cioè di un buon appoggio del piede sulla superficie (terra) e di ottime capacità finimotorie.

Il movimento attivo del bambino portato addosso

Un bambino portato non è solo incollato passivamente al corpo di chi lo porta. Tramite la capacità di aggrapparsi e la possibilità di appoggiare i piedi è capace, dalla nascita, di adattare e di sistemare la sua postura corporea in posizione verticale, di sistemare le mani davanti al corpo ed entro brevissimo tempo di controllare la posizione del capo. Probabilmente per questo motivo in un tempo sorprendentemente veloce il bambino riesce a rilassarsi (abbassare la tensione interna) e ad addormentarsi. In questo modo può eseguire attivamente dei movimenti finalizzati a equilibrare la tensione muscolare.

Se teniamo conto delle condizioni di cui necessita un bambino alla nascita per eseguire movimenti competenti,121 allora possiamo cominciare a osservare molte cose sotto una luce diversa.


Se al neonato viene data la possibilità di muoversi attivamente in modo che possa abbassare la propria tensione muscolare e che possa regolarsi, allora sarà più pronto per dare l’attenzione ad altri stimoli, che favoriranno a loro volta la sua crescita. Sappiamo oggi per certo che i bambini apprendono meglio, più velocemente e in un senso più completo se hanno la possibilità di muoversi. Il movimento è la chiave per l’apprendimento!122

Integrazione degli stimoli sensoriali

Il movimento è solo uno degli elementi con cui il bambino portato sperimenta se stesso e l’ambiente. Il movimento portato è sempre un movimento a contatto. Anche nella letteratura scientifica emerge che è l’integrazione di diversi stimoli sensoriali – vestibolari e propriocettivi, tattili e visivi, olfattivi e acustici – a determinare i maggiori benefici per lo sviluppo armonico del bambino (non solo motorio, ma neurologico e infine cognitivo!).


Riconsiderando la predisposizione biologica del portato, non ci sono dubbi che il neonato umano sia predisposto alla stimolazione plurisensoriale e quindi a ricevere e integrare stimoli diversi, che coinvolgono il sistema vestibolare e sono di fondamentale importanza per il suo sviluppo neurologico sano. In questo modo un bambino portato riceve una stimolazione sensoriale elevata al di là delle sue competenze motorie attuali e nonostante ciò adatta al suo stato evolutivo.


Può toccare ed essere toccato (senso tattile), sentire i movimenti del corpo di chi lo porta (senso propriocettivo), udire voci (senso acustico), cambiare posizione e ritrovare l’equilibrio (senso dell’equilibrio), vedere le persone faccia a faccia (senso visivo), annusare l’odore di sua madre e del suo ambiente (senso olfattivo) e, perché no, assaggiare il gusto di ciò che lo circonda e avvolge. Tutte queste informazioni vengono raccolte, elaborate, collegate e integrate. Senza entrare in merito alle spiegazioni scientifiche neurologiche del funzionamento della stimolazione sensoriale e dei suoi effetti, propongo due situazioni per invitare alla riflessione.

Stimolazione sensoriale del bambino di due mesi nella sdraietta (in casa)

Il bambino è in posizione semisdraiata nella sdraietta in mezzo al soggiorno, luogo di maggiore attività familiare. Davanti a lui ondeggia un filo con pupazzi colorati, che muovendosi al suo tocco accidentale suonano e scricchiolano e attirano la sua attenzione. Non riesce ad afferrare ancora nulla, ma ci prova. Sente la voce di sua madre che gli parla, passandogli davanti. Un’ombra che sparisce in cucina. Poi torna, gli parla, andando avanti e indietro, facendo i mestieri di casa. Il bambino dopo un po’ di tempo comincia a piangere.

Gli stimoli che riceve sono soprattutto di qualità visiva e acustica, ma in questo modo slegati dall’esperienza tattile. Dopo un po’ si annoia, perché arriva all’assuefazione dello stesso stimolo (pupazzo).123 E dopo un po’ di tempo piange, segnalando noia o fame, frustrazione o voglia di contatto, bisogno di sicurezza o stanchezza. A questo punto sta al genitore interpretare il pianto del suo bambino e reagire come meglio crede (vedi anche introduzione).

Non ci sono dubbi che il bambino poco più che neonato nella posizione supina semi sdraiata non possa effettuare movimenti competenti, ma solo muovere nell’aria le gambe e le braccia senza che questi movimenti siano efficaci. È difficile immaginare che a un certo punto, essendosi stancato dei pupazzi, se non altro si trovi frustrato, annoiato e desideri una stimolazione diversa?


Stimolazione sensoriale del bambino di due mesi portato addosso (in casa)

Il bambino appoggia il suo corpo a quello del genitore; la fascia, che lo sostiene in posizione verticale, avvolge entrambi in modo saldo. Il bambino ha sistemato il proprio corpo nella fascia; tramite l’appoggio sotto i piedi e il corpo-mondo davanti a sé ha trovato l’equilibrio interno. Si è addormentato di colpo e la sua testa si è appoggiata al corpo della madre, che l’ha coperta con un lembo della fascia per sostenerla durante le sue attività. La madre fa i mestieri, appende biancheria al filo in alto, si china per prendere una pentola dal cassetto più basso. In questo modo con ogni movimento massaggia il bambino e gli trasmette le sensazioni delle sue attività motorie. Il cambiamento continuo della posizione della madre stimola il senso dell’equilibrio del bambino e in concomitanza gli procura una continua stimolazione tattile. Quando la madre fa un movimento brusco, lui sussulta appena e chiude le mani. Poi sente la voce (e la vibrazione da questa provocata) di sua madre che forse gli racconta cosa stanno facendo, oppure la sente mentre parla con qualcuno. Ora si è svegliato. Alza la testa e vede il viso, l’espressione e la mimica di sua madre: sorride, è concentrata, è rilassata? In qualsiasi momento può richiamarla al contatto visivo a una distanza per lui nitida.


Questa descrizione sembra idilliaca, ma chi porta e ha portato sa che è molto realistica.


Ho incontrato spesso genitori che nutrivano dubbi rispetto alla stimolazione sensoriale adeguata quando portavano i loro bambini, perché questi, almeno all’inizio, per la maggior parte del tempo continuavano a dormire serenamente. Allora i genitori si chiedono se hanno un bambino poco sveglio (nel doppio senso). Fortunatamente non sono preoccupazioni del bambino, che invece nasce con la spinta naturale a crescere. Per poter crescere ha bisogno di stimoli e chiederà risposte adeguate (anche di poter dormire quando è il suo momento), adatte e specifiche alla sua situazione e al momento evolutivo in cui si trova.


Un bambino che riceve pochi stimoli si lamenterà, ne chiederà di nuovi e sicuramente non si addormenterà di colpo. Al contrario, nel momento in cui è sazio di stimoli e si è stancato, si lamenterà e chiederà una condizione favorevole per poter elaborare gli stimoli ricevuti.


Essendo la condizione portata per il bambino una condizione fisiologica, che risponde a monte a molte delle sue esigenze, spesso il piccolo non deve neanche usare il pianto per farsi capire. Può addormentarsi quando gli piace e svegliarsi in tutta sicurezza. Viceversa, se si trova in una situazione “artificiale”, che non corrisponde più alle sue esigenze, piange e si fa sentire.


Credo che si possa affermare tranquillamente che portando si stimoli il proprio bambino neonato in modo adatto e adeguato.

II.2.2.3. Il significato del movimento per i genitori che portano

  • Libertà di movimento

Il genitore, portando il proprio bambino, può muoversi con più facilità e più libertà negli spazi a cui era abituato prima della nascita del bambino. La passeggiata su strade sterrate, in collina, ma anche prendere la metropolitana o l’autobus, muoversi in centro città, non sono più un problema con il bambino addosso e le mani libere.


Questa libertà di movimento (o la sua mancanza) viene avvertita in modo molto forte soprattutto dalle madri, che dopo la nascita del loro bambino non escono quasi più di casa perché è diventata un’impresa troppo faticosa. Abitando per esempio al terzo piano di un condominio sono costrette a trascinare la carrozzina su e giù per le scale, smontarla e rimontarla ogni volta, il che può significare uno sforzo fisico notevole. Devono inoltre subire lo stress psichico di lasciare il bambino da solo mentre sono occupate ad andare su e giù per le scale con la carrozzina. A tutti gli effetti, per le madri nell’Italia di oggi muoversi con un bambino piccolo non è un’azione del tutto scontata nonostante si siano premunite di tutte le attrezzature proposte per il suo trasporto.


Fatto sta che molte madri rinunciano per diverso tempo a uscire di casa da sole, non perché lo scelgano ma perché è troppo complicato, e si devono confrontare con una dipendenza strumentale di cui prima non avevano neanche idea. Questa dipendenza e difficoltà non dovrebbe essere sottovalutata perché può portare a un senso crescente di solitudine e di insofferenza della madre, che non vede l’ora di trovare qualcuno che stia con il bambino così da poter uscire. Se si comprende invece che non sono la dipendenza del bambino e il suo bisogno di essere portato a contatto ad essere sbagliati, ma è sbagliata la proposta di strumenti inadeguati a soddisfare i suoi bisogni e i propri, muoversi portando il bambino appresso può aprire nuovamente gli spazi e le vie creduti persi.


  • L’aspetto simbolico del movimento

Ritornando al significato originario della parola, movimento significa cambiamento di posizione, da una posizione A si transita a una posizione B. Diventare genitori di un bambino (e non solo del primo, anche se con il primo il cambiamento è maggiore) significa essere sottoposti individualmente e in coppia a cambiamenti notevoli.


I genitori sono messi a confronto con la costruzione di una nuova identità, quella di genitori, che richiede l’impiego di aspetti spesso diametralmente opposti a quelli richiesti nell’area professionale. La coppia si ritrova “a tre”, e anche questa transizione non è naturalmente semplice o indolore.


Oggi gli esperti pongono sempre maggiore attenzione a questo periodo di transizione, che è un periodo sensibile per i genitori, madre e padre, che hanno bisogno di molte energie per adattarsi al meglio alla situazione nuova con il bambino. (vedi capitolo II.2.4. Quarto elemento: legame).


Portare, in questo contesto, può essere una modalità per aiutarsi a rimanere in movimento, camminare molto, cercare di assumere una postura adeguata. Quando il bambino sta addosso al genitore, a quest’ultimo viene richiesta una grande mobilità. Si deve muovere spesso e non può fossilizzarsi in una posizione (per esempio davanti al computer per molto tempo di seguito). Portare, inevitabilmente, porta a cambiare le proprie abitudini fisse.


Oso fare l’ipotesi, e molti genitori me l’hanno già confermato con la loro esperienza, che questo movimento fisico aiuti a vivere meglio i cambiamenti (anche psicologici e mentali) che inevitabilmente sono correlati all’arrivo di un bambino. Aiuta ad accettare la transizione dall’essere donna/uomo all’essere anche genitore, dall’essere una coppia all’essere una famiglia. Un genitore che porta si rende fisicamente conto di essere tale! In questo senso portare aiuta a muoversi nella nuova condizione di vita insieme al bambino.

II.2.3. Terzo elemento: lo spazio
II.2.3.1. Introduzione

Il termine “spazio” non ha un significato univoco e chiaro nell’uso comune e neppure nell’uso scientifico, dove, per esempio in matematica, fisica, filosofia e psicologia, vengono discussi significati diversi e addirittura contrastanti tra di loro.


In questo capitolo non cercherò di dare ulteriori definizioni del termine, ma per esporre le considerazioni rispetto alla fisiologia del portare cercherò di attingere soprattutto alla nostra comune esperienza percettiva dello spazio. Per esporre il concetto di spazio portato, che di seguito illustrerò, ho scelto come cornice teorica la definizione dello spazio personale come l’ha proposta Edward T. Hall,124 antropologo americano, che a sua volta ha basato le sue teorie sulle ricerche dello zoologo Heini Hediger.125

  • Lo spazio personale

Lo spazio personale si immagina come un’area che circonda ogni persona e che viene considerata “proprio territorio”. Nel momento in cui quest’area viene invasa da un’altra persona la reazione può essere una sensazione di fastidio. Lo spazio di cui ogni essere vivente (umano, pianta, animale) ha bisogno per vivere viene suddiviso in due categorie: lo spazio fisico personale, che viene descritto con cerchi (bolle) attorno alla persona fisica, e lo spazio in cui vivere e abitare (l’habitat). I due spazi si possono influenzare e adattare a vicenda. Pertanto una persona che vive nel deserto sviluppa uno spazio fisico personale più ampio di una persona che vive in una città grande o in una bidonville.

La dimensione dello spazio fisico dipende da molti aspetti, anche culturali e sociali. Hall ha messo in luce proprio queste differenze etnologiche; sembra che nelle società europee e americane la cosiddetta distanza di cortesia, che non si deve toccare (lo spazio fisico personale), abbia dimensioni maggiori. Le misure sono difficili da prendere, ma sembra che per l’europeo/americano medio riguardo allo spazio personale si possano considerare le seguenti misure: 60 cm a ogni lato, 70 cm davanti, 40 cm dietro. È uno spazio notevole. All’interno dello spazio personale si trova lo spazio intimo (ca. 30-45 cm), dove l’accesso è privilegiato a persone con cui esiste un legame affettivo, persone con cui ci si sente al sicuro, mentre lo spazio personale più ampio è riservato a persone amiche. Lo spazio sociale e pubblico, poi, indica la distanza per persone che non si conoscono e per parlare in pubblico.


Questo è lo spazio personale di una persona adulta. Considerando la grande influenza di elementi sociali e culturali nella percezione dello spazio personale, si può ragionevolmente pensare che il bambino alla sua nascita non disponga ancora del suo spazio personale come sopra descritto, ma che lo costruirà nel tempo, attraverso il suo vissuto, le esperienze sensoriali, le influenze sociali e culturali.

Di conseguenza non si può applicare la stessa misura di spazio personale al neonato. Infatti, come abbiamo visto anche nel capitolo sul contatto, il suo confine è la pelle stessa. È interessante notare che in altre culture e discipline orientali si dica che il bambino alla nascita non dispone di un’aura propria e per questo motivo abbia bisogno di restare nell’aura della madre (che corrisponde al concetto dello spazio personale) per almeno 40 giorni.


Sicuramente ci sono tutti gli elementi per comprendere che il bambino non ha le stesse necessità di spazi “distanti” degli adulti (dei suoi genitori). Allora qual è la sua necessità di spazio?

  • Lo spazio adatto al bambino dopo la nascita

Abbiamo già visto che alla nascita il bambino perde completamente il senso dello spazio, perché questo cambia totalmente. Da uno spazio ristrettissimo ma elastico, che rispondeva a tutti i suoi movimenti, è arrivato in uno spazio vuoto, freddo, che non risponde più ai suoi segnali.


È ormai indiscusso, anche a livello istituzionale (seppure la pratica spesso manchi!), che ridare al bambino subito dopo la nascita lo spazio ristretto, limitato, caldo, avvolgente e quindi rassicurante sia fondamentale per il suo adattamento graduale e “buono” al mondo extrauterino (vedi Leboyer e Marcovich); e che, dall’altro lato, lo spazio più adatto al bambino dopo la nascita è addosso a sua madre (vedi Bergmann, Odent, e molti altri).


Anche dopo i primi momenti lo spazio adatto al neonato rimane uno spazio limitato, dove il bambino possa sentire, nello spazio confinato, i confini del proprio corpo e quindi se stesso.


Lo spazio più elastico, di temperatura ottimale, che risponde ai movimenti del bambino, che lo confina senza costringerlo, che risponde ai suoi segnali corporei, lo spazio vivo è senza dubbio il corpo del genitore. È il primo spazio d’esperienza e di relazione con l’altro. Contenitori esterni, cioè lettini con riduttore di spazio e culle allestite, borsa dell’acqua calda, materassi antisoffocamento sono surrogati dello spazio naturale sul corpo del genitore.

II.2.3.2. Lo spazio portato

Partendo dal presupposto che il corpo del genitore sia lo spazio naturale del bambino dove stare e per crescere, si arriva a interrogarsi inevitabilmente se a riguardo esistano delle differenze tra portare in braccio e portare con la fascia.126

Anche se al primo sguardo può sembrare la stessa cosa, infatti entrambi sono uno spazio portato, tuttavia esistono alcune differenze:


a) in braccio si crea uno spazio momentaneo, nel suo aspetto in continuo cambiamento che da un momento all’altro può essere dissolto (quando si mette giù il bambino).


b) nella fascia lo spazio, rappresentato dal telo che avvolge, è più stabile, continuativo, duraturo, è uno spazio in cui il bambino per un po’ di tempo “ci sta”.


Lo spazio portato non è solo una metafora o uno spazio immaginato, ma uno spazio fisico, reale, che viene preparato dal genitore e riempito/modellato dal bambino, e che nello sviluppo diventa un luogo che fornisce le caratteristiche di base (tempi e modalità adeguate) per la crescita a espansione del bambino, un luogo di partenza per spiccare il volo.


  • Caratteristiche e funzioni dello spazio portato

Sostanzialmente lo spazio portato è un posto contenuto, a contatto (addosso a chi porta), delimitato dalla fascia o dalle braccia, creato dal genitore e riempito dal bambino. Le sue funzioni sono di proteggere, filtrare, contenere ed essere luogo di riposo. Le diverse funzioni si mantengono parallelamente durante tutto il percorso portato, anche se alcune, come vedremo di seguito, prevarranno su altre nei diversi stadi dell’età evolutiva del bambino.


Protezione/sicurezza

Lo spazio portato protegge il bambino da influenze esterne che lo possano disturbare, da stimoli inadeguati e troppo intensi, da ciò che invade e per cui lui non dispone ancora di strumenti di difesa sufficienti. Anche se il neonato non è privo di sistemi di difesa propri, per esempio il pianto ma anche il sonno possono essere impiegati per l’autodifesa da stimoli inadeguati e troppo intensi, la protezione che fornisce lo spazio portato permette al bambino di non dover impegnare le sue energie nella autoprotezione (e nella difesa) e di impiegarle in modo più costruttivo per la sua crescita.

Trovandosi in un luogo sicuro e protetto il bambino è nella condizione favorevole per vivere contatti sociali con l’ambiente e per sorridere alle persone127 che lo circondano. Può permettersi di sperimentare contatti con altri oltre che con chi lo porta. La protezione fisica (legata al corpo del genitore) si riversa anche sul piano psichico128 e relazionale (vedi l’elemento legame). Il bambino al sicuro può aprirsi, essere curioso, comunicativo, ricettivo e può conoscere spazi al di là delle sue competenze motorie.


Filtro

Lo spazio portato funge da filtro efficace tra l’ambiente (lo spazio vuoto, stimoli visivi, acustici, “il mondo”) e il bambino. Il bambino nasce con un sistema nervoso immaturo, che facilmente si sovraccarica.129 Perciò non tutti gli stimoli ambientali sono adatti alla sua età, soprattutto se vengono vissuti slegati dal contatto e dalla relazione portante, che dà sicurezza, come succede per gli stimoli caotici130 forniti per esempio dalla TV e nei centri commerciali.


Contenimento

Cosa significa esattamente contenimento? Letteralmente “contenere” significa tenere insieme. Winnicott ha illustrato il concetto di holding come capacità innata della madre sufficientemente buona131 di contenere fisicamente e quindi psichicamente il proprio bambino. In questo contesto lo spazio portato sarebbe una modalità di holding e la conseguenza di una risposta istintiva ai bisogni del bambino neonato.132


All’inizio della vita del bambino è la madre che lo tiene insieme in risposta ai suoi bisogni, e specialmente quando rischia di essere sopraffatto dalle sue emozioni. Il contenimento nei primi anni di vita del bambino passa attraverso un intenso contatto corporeo.133 Nel portare, questa funzione di contenimento viene delegata allo spazio portato. Se il bambino viene portato in braccio il contenimento è attivo, mentre nella fascia il contenimento viene delegato al supporto ausiliario che contiene.


Probabilmente, per motivi fisici e psichici, in braccio si può contenere un bambino per un tempo più limitato. D’altronde in braccio il coinvolgimento e l’ascolto di chi contiene con chi è da contenere è diretto e totale, mentre nella fascia il bambino riceve uno spazio contenuto e chi porta può distogliere teoricamente l’attenzione diretta.

Luogo di riposo

Infine lo spazio portato è un luogo di riposo autentico, in cui il bambino può darsi tranquillamente al sonno, rifornirsi di affetto tangibile, lasciarsi andare, rilassarsi per elaborare vissuti. Per il bambino piccolo come per quello più grande è “il letto appresso” quando si fanno delle gite e dei viaggi, e si affrontano situazioni nuove e spazi sconosciuti.

II.2.3.3. Il significato simbolico dello spazio portato

Di seguito, per illustrare meglio lo spazio portato, faccio riferimento alla sua “versione” con la fascia, perché questo concetto, che in braccio viene automatico e scontato, tanto che diventa difficile spiegare a parole, si esplicita invece al meglio con la fascia.


  • Creare/predisporre lo spazio portato (genitore)

Quando il genitore si mette addosso la fascia cerca di immaginare lo spazio che il bambino prenderà e occuperà addosso a lui e che lui gli concederà. Infatti per il genitore il significato dello spazio portato sta soprattutto nel fatto di concedere al bambino di entrare nel suo spazio intimo. Niente di più naturale, siamo d’accordo. Ma se per i genitori questo può essere appagante in alcuni momenti, in altri non lo è, anzi viene avvertito come faticoso e fastidioso. Non si deve dare per scontato il fatto che tenere ogni giorno e per tanto tempo una persona tanto vicina sia un’impresa semplice. Prima della nascita del bambino abbiamo concesso alla persona di cui siamo innamorati e con la quale esiste un forte legame affettivo cresciuto nel tempo di stare nel nostro spazio intimo, ma solo “a puntate”, mai 24 ore su 24! Pertanto credo che sia importante rendersi conto che non siamo abituati a condividere il nostro spazio personale continuamente con un’altra persona, quindi sentiamo l’esigenza del bambino di stare addosso a noi e nel nostro spazio intimo, a volte e comprensibilmente, come una grande fatica.


D’altronde per i genitori è un passaggio molto forte e importante (e non sempre scontato) quello di fare spazio, anche mentale e psichico, al proprio bambino e di lasciarlo entrare nel proprio spazio, cioè nella propria vita! In gravidanza o al più tardi dopo la nascita i genitori devono imparare un po’ alla volta a fare spazio al bambino, ad aprire la propria vita alla sua presenza. In questo processo, lo spazio portato può costituire un grande aiuto per vivere in modo più sereno questo passaggio. La fascia attorno media il coinvolgimento diretto (quello delle braccia). Il genitore ha le mani libere, e può rivolgere la sua attenzione altrove, “prendere una boccata d’aria”, non deve necessariamente concentrarsi sul bambino e può delegare allo spazio portato di sostenere, contenere, supportare, sopportare il bambino. Questa delega non è solo immaginaria, ma supportata fisicamente dalla fascia, che avvolge e tiene il corpo del bambino e lascia al genitore una certa libertà.


Anche per questo motivo non è la stessa cosa portare in braccio o portare con la fascia, che funge da supporto, da mediatore, a cui si può delegare il compito di sostenere e contenere quando le braccia sono troppo stanche (anche in senso metaforico). Infatti i genitori che portano i loro bambini con la fascia si stancano meno della presenza vicina del bambino e soffrono meno di tutti i disturbi di sovraccarico.


Un ulteriore e notevole vantaggio della fascia sta nel fatto che per un genitore che porta è molto più semplice, con essa, fornire un’efficace protezione al bambino perché non deve fare altro che difendere il proprio spazio intimo. Esempio: si provi a fare l’esperienza di andare al mercato con il neonato in carrozzina; probabilmente diverse persone che non si conoscono nemmeno si avvicineranno e infileranno le mani nella carrozzina per toccare il bambino. Magari si rimane di sasso, ma sarà difficile dire qualcosa e anche “la fuga” affrettata non sarà semplicissima con la carrozzina tra la gente. Ora si provi ad andare al mercato insieme al bambino che spunta appena dalla fascia. Sarà difficile che qualcuno si avvicini per vedere il bambino, spostando la fascia e toccandolo, perché per fare ciò deve entrare nel vostro spazio intimo (come se vi toccasse il seno). Infatti se qualcuno lo fa voi arretrate immediatamente di due passi lanciando uno sguardo feroce a chi ha osato violare il vostro spazio intimo.


Lo spazio portato è lo spazio su misura e individuale che il genitore crea, predispone e dona al proprio bambino. Anche se è uno spazio fisico, è altamente probabile che abbia il suo significato parallelo e metaforico sul piano psichico e mentale.

Riempire lo spazio portato (bambino)

Il bambino infilato nella fascia riempie lo spazio portato, gli dà forma, secondo l’età e la situazione. Nessuno spazio portato è perfettamente uguale all’altro, perché dipende da chi l’ha preparato (genitore) e da chi lo riempie (bambino). Non è uno spazio fermo, ma sottoposto a cambiamenti ripetuti. Ogni volta che il bambino entra nello spazio portato lo riempie un po’ diversamente, anche perché ogni volta sarà un po’ diverso lui e sarà un po’ diversa la predisposizione (legatura) da parte del genitore. Una volta è più stretta una volta è più larga. Lo spazio si adatta e “nasce” ogni volta assieme al bambino. Questo spazio adatto gli fa sentire il suo corpo, i suoi confini, se stesso. Nello spazio portato il bambino sperimenta e trova la sicurezza spaziale legata alla presenza dell’altro (genitore). È un’esperienza profondamente sociale e interattiva!

II.2.3.4. Lo spazio portato come luogo per crescere

Dopo la nascita il bambino riempirà lo spazio portato con tutto il suo corpo e fino oltre la testa. Per lunghezza e peso ci sparirà dentro completamente. Infatti nelle prime settimane lo spazio portato è simile a un utero esterno, che gli fornisce delle condizioni di contenimento, di movimento, di stimoli acustici e visivi molto simili alla sua vita intrauterina. Ci passerà il maggior tempo dormendo. Già dopo alcune settimane comincerà a tirare su la testa e si metterà a sbirciare fuori dallo spazio portato. Ora sarà più visibile anche ad altre persone (è cresciuto di peso e di lunghezza) e passerà dei momenti sveglio, cercherà il contatto visivo con il genitore, che trova disponibile e vicino a sé. Rientrerà completamente nello spazio portato solo per dormire ed elaborare le esperienze fatte. Dopo alcuni mesi terrà le braccia fuori e appoggerà i piedi liberamente al corpo del genitore. Questo è lo spazio portato “minimo”, che copre il bambino dal tronco alle ginocchia e che si manterrà per tutto il percorso portato. Lo spazio portato avvolge e sostiene la parte centrale del corpo, quindi dà sicurezza, ma lascia anche ampie parti del corpo del bambino libere di sperimentare e di muoversi liberamente.


Il bambino segue il genitore nelle sue attività, nei suoi spazi esterni, nei suoi contatti sociali. Fa esperienze sociali proprie, partecipando, condividendo, seguendo, apprendendo, comunicando con il mondo, che altrimenti sarebbe ancora irraggiungibile.


Dopo l’anno di vita, quando comincia a camminare, prevale la funzione di “luogo sicuro” in cui si rifornisce di sicurezza e di “luogo di riposo” in cui si ricarica per poi tornare a esplorare il mondo sulle proprie gambe. Chiederà di entrare nello spazio portato in situazioni, luoghi e spazi sconosciuti, ma forse non lo accetterà più nella propria casa o in ambienti conosciuti perché lì avrà già acquisito una sicurezza spaziale tale da non averne più bisogno. Arriverà poi il momento in cui il bambino segnalerà che ha lasciato definitivamente lo spazio portato, perché avrà acquisito una propria sicurezza spaziale (il suo spazio personale?) tale da poterne fare a meno. Lo spazio sicuro, dove esprime anche sentimenti forti, può diventare fisicamente la casa, psicologicamente il contenimento in famiglia. Abbiamo osservato il momento dell’addio allo spazio portato da due anni in poi. In questo senso, probabilmente, i bambini portati non devono essere “svezzati” dalla fascia, ma semplicemente e con naturalezza ne escono, perché lo spazio è diventato troppo piccolo.

II.2.4. Quarto elemento: il legame
II.2.4.1. Introduzione

Legame è una parola dal suono un po’ scomodo, contraria alla “libertà alata” promossa nella nostra epoca, dal gusto leggermente impopolare, che sa di restrizione, di costrizione, ma ci porta sulle tracce del quarto e indispensabile elemento della fisiologia del portare.


Ho incontrato molti genitori che esprimono la paura che il bambino possa legarsi troppo a loro. Sembra che questa paura sia direttamente collegata alla paura di quando si dovranno separare (per esempio perché dovranno ritornare al lavoro): “Se il bambino si lega ‘troppo’ non vivrà poi un dolore troppo forte quando si dovrà separare? Come faremo se saremo troppo legati? Legarsi troppo non significa viziare? Se il bambino si lega troppo, sarà troppo dipendente da me?”


Sono domande legittime, vive e pressanti dei genitori di oggi, e nel portare ci dobbiamo confrontare proprio con questi aspetti riguardanti la parola legame. Infatti spesso i genitori intuiscono davanti alla fascia lunga che portare potrebbe significare (letteralmente, simbolicamente ed esplicitamente) legare il proprio bambino vicino a sé e legarsi al bambino. Portare potrebbe significare costruire un legame forte.

Cosa dire a una madre con un neonato di due settimane, che ha paura di legarlo/si troppo perché quando il bambino avrà sei mesi dovrà ritornare al lavoro e quindi dovrà separarsi da lui per molte ore al giorno? Ovviamente non posso dare una risposta, ma solo rinnovare l’invito alla riflessione rispetto al significato oggettivo di legame. Qual è il suo significato per il bambino? Cosa significa, in questo contesto, la parola indipendenza? Ci si può legare troppo?


Si potrebbe pensare, osservando superficialmente, che la crescente autonomia del bambino piccolo sia il contrario di legame, ovvero, che un intenso legame tra bambino e madre potrebbe indebolire tale sviluppo.


Il contrario di legame invece è non-legame; l’indipendenza si trova in un’altra dimensione. Indipendenza e legame non solo non sono contrari, ma hanno un effetto l’uno sull’altro: un legame sicuro con i genitori rende possibile e favorisce lo sviluppo dell’indipendenza; un legame mancante o debole lo ostacola.134


Oggi sappiamo (a livello teorico) che nei primi anni di vita lo sviluppo psichico del bambino è caratterizzato dal legame che stringe con la madre, il padre e altre persone di riferimento. La qualità del legame determina in modo irreversibile la vita psichica del bambino oggi e quella dell’adulto domani, la sua capacità futura di stringere legami e relazioni. Ma nell’uso linguistico quotidiano i termini “legame” e “attaccamento” non sono univoci e spesso vengono usati lontano dalla loro definizione originaria.135


Il quadro teorico che meglio illustra il significato del legame e a cui facciamo riferimento nella fisiologia del portare parte dalla teoria dell’attaccamento136 e dei suoi ulteriori sviluppi negli ultimi trent’anni, a cui di seguito accenno brevemente.


In tre volumi della sua opera principale,137 Bowlby illustra il significato dell’attaccamento e dei comportamenti di attaccamento138 innati nel bambino, che provocano nella persona di riferimento la risposta istintiva di prendersi cura del bambino.139


La teoria dell’attaccamento sottolinea il ruolo fondamentale delle caratteristiche biologiche che mirano alla sopravvivenza specie specifica, ma anche l’importanza delle figure di attaccamento140 per lo sviluppo del bambino e infine la stabilità dello stile di attaccamento141 nel tempo e nelle situazioni come base per l’ulteriore sviluppo psichico e sociale del bambino.


Lo stile di attaccamento rispecchia la fiducia che i bambini hanno nella risposta dei genitori ai loro bisogni. Non esiste un attaccamento troppo sicuro! Gli studi eseguiti negli ultimi vent’anni dimostrano chiaramente che bambini con attaccamento sicuro (all’anno di vita) hanno notevoli vantaggi rispetto ai loro compagni con attaccamento insicuro nell’età prescolare. In un progetto eseguito in una scuola materna americana, si è rilevato che i bambini con attaccamento sicuro avevano una maggiore autostima e nella relazione con le maestre erano più autonomi e meno dipendenti dei loro compagni. Inoltre erano emotivamente più stabili, meno aggressivi, manifestavano meno atteggiamenti umilianti verso i loro compagni e si integravano meglio nella classe.142 Anche in età adolescenziale e, poi, adulta, i bambini con attaccamento sicuro erano in vantaggio rispetto alla salute emotiva e sociale, a valori come moralità, autocontrollo e autostima. Come ulteriore conseguenza ci si può chiedere se lo stile di attaccamento sia influente rispetto a come si diventa genitori a propria volta. Sembra che lo stile di genitorialità venga trasmesso da generazione a generazione.143 Pertanto bambini con attaccamento sicuro diventano più facilmente genitori in ascolto e sensibili ai bisogni dei loro bambini.


Prima di passare alle considerazioni rispetto alla fisiologia del portare, ritengo sia necessario introdurre qualche dettaglio su uno specifico aspetto della teoria dell’attaccamento.

  • Fasi nella costruzione dell’attaccamento

Se il comportamento di attaccamento è innato, lo stile d’attaccamento (o il legame) non lo è, ma va costruito nel tempo e dipende da diversi fattori.

Si differenziano quattro fasi nella costruzione del legame di attaccamento.144


Fase 1: orientamento e segnali senza discriminazione della persona (0-2 mesi) - fase di contatto indiscriminato145


Il bambino si orienta verso qualunque persona e produce segnali (l’atto di aggrapparsi, il pianto, il sorriso, lo sguardo, i vocalizzi) allo scopo di indurre contatto, vicinanza e prossimità con le persone. In questa fase non fa distinzione tra la madre e altre persone che si rivolgono a lui.


La paura principale in questa fase è la paura della perdita di contatto corporeo. (Koerperkontaktverlustangst)146


Fase 2: orientamento e segnali diretti verso una o più persone discriminate (3-6 mesi) - fase dell’imprinting147


In questa fase il bambino comincia a preferire la figura materna (o chi si prende maggiormente cura di lui) a tutte le altre persone, reagendo in modo differenziato ai segnali provenienti dalla madre piuttosto che da altri. Successivamente rifiuta il contatto che non sia quello con la madre.


La paura maggiore è la paura dell’estraneo, che esprime in positivo un buon orientamento (imprinting) rispetto alla figura di attaccamento.


Fase 3: mantenimento della vicinanza a una persona discriminata mediante la locomozione e mediante segnali (6-24 mesi) - la madre come base sicura148


Il bambino, con crescente competenza motoria, segue la madre, si allontana e ritorna, e la “usa” come punto di partenza per le sue esplorazioni.149 Non ha più un atteggiamento amichevole con chiunque ma distingue nettamente tra figure di attaccamento e non. Gli estranei vengono trattati con cautela sempre maggiore; ora il legame con la figura di attaccamento primaria diviene evidente per tutti. La paura collegata a questa fase è la paura della separazione.


Fase 4: formazione di un rapporto reciproco corretto secondo lo scopo (24-36 mesi) - il processo di separazione150


Si stabilisce un rapporto madre-bambino più “alla pari”; il bambino diventa sempre più capace di sentirsi sicuro in un ambiente estraneo e con figure di attaccamento secondarie. Diventa sempre più autonomo e più indipendente dalla madre. Non ha più bisogno di accertarsi continuamente della sua presenza; la paura di separazione diminuisce. Il legame fisico tra madre e bambino si allenta.


Renggli illustra come nei primati in questa fase non solo il cucciolo stia diventando autonomo, ma anche la madre cominci a separarsi da lui, rifiutando di portarlo, di allattarlo, di lasciarlo dormire con lei. Sembra che la separazione possa essere un processo promosso da entrambe le parti perché è tempo per il piccolo di essere abbastanza sicuro per andare, mentre per la madre si conclude il ciclo che la rende aperta per una nuova gestazione.151 Forse quest’ottica potrebbe dare una chiave di lettura anche per la relazione madre-bambino.


La teoria dell’attaccamento oggi è alla base di studi e concetti che portano a una visione “nuova” del bambino piccolo e del suo sviluppo psichico e mentale. Sembra ormai indiscusso che “attaccarsi”, oltre che essere un bisogno biologico, è una necessità psicologica basilare per lo sviluppo sano del bambino.152

II.2.4.2. Portare e attaccamento

Ora, se a livello teorico si ritiene fondamentale un attaccamento sicuro e si sa in che cosa consiste, come ci si arriva? Cosa significa a livello pratico? Quali strumenti abbiamo per realizzarlo? Non credo siano domande scontate, visto che, per nominare solo alcuni aspetti, nella nostra realtà europea e italiana alla nascita i bambini sono spesso separati dalle madri, molti pediatri sconsigliano di tenerli troppo in braccio e il tema di viziarli con troppo contatto è uno dei temi più affrontati nell’ambito dei corsi di preparazione al parto.


Sembra infatti che a livello pratico e reale ci sia una grande confusione rispetto al tema dell’attaccamento e del legame; se ne parla a livello accademico come aspetto fondamentale per la crescita sana del bambino, ma a livello pratico può essere negato pure da esperti (pediatri, psicologi!) che danno ai genitori consigli contrastanti (mettere giù il bambino, non dormirci insieme, abituarlo ai ritmi al più presto). Proprio loro dovrebbero sapere che la qualità delle risposte che si danno al bambino può influenzare lo stile di attaccamento.

Se confrontiamo i dati emersi da uno studio sui bambini Dogon (Mali),153 cresciuti e accuditi con uno stile ad alto contatto, con uno studio su 1990 bambini di 8 paesi europei e degli Stati Uniti,154 si evidenzia che l’87% dei bambini Dogon avevano un attaccamento sicuro, lo 0% uno insicuro-evitante e il 13% uno insicuro-resistente. I bambini europei e americani invece erano il 65% del tipo sicuro, il 21% insicuro-evitante e il 14% insicuro-resistente.


Riesaminando lo stesso studio sui Dogon, includendo nella valutazione il quarto stile successivamente identificato di attaccamento disorganizzato, emerge che il 67% dei Dogon erano sicuri, lo 0% insicuro-evitanti, l’8% resistenti e il 25% disorganizzati, dati confrontati in uno studio su 306 bambini nordamericani, dove invece il 55% aveva un attaccamento sicuro, il 23% era insicuro-evitante, l’8% insicuro-resistente e il 15% disorganizzato.155


Il dato più interessante emerge rispetto alla qualità di attaccamento insicuro-evitante. Nei bambini Dogon nessuno ha un attaccamento di questo tipo (né nella prima né nella seconda valutazione), mentre la percentuale a confronto è del 23% in Europa e negli USA. Gli autori si spiegano questa differenza perché nello stile di maternage ad alto contatto dei Dogon non sono previsti comportamenti tipici che nella cultura occidentale producono uno stile di attaccamento insicuro-evitante; cioè la mancanza di contatto corporeo e di contenimento fisico (il bambino viene respinto, umiliato o ridicolizzato quando chiede di attaccarsi).


Indubbiamente ci sono molteplici fattori che influenzano lo stile di attaccamento, fattori che non possono essere valutati qui. Ma la domanda che ci possiamo porre in questo scenario è se portare possa essere una modalità praticabile per favorire l’attaccamento sicuro.


Alcuni anni fa Elizabeth Anisfeld e i suoi colleghi eseguirono uno studio sperimentale156 per stabilire se lo stile di attaccamento possa essere effettivamente influenzato dal portare. A un gruppo di madri ancora in ospedale era stato insegnato l’uso di un supporto per portare, che al momento della dimissione veniva regalato, mentre al gruppo di controllo erano state consegnate delle sdraiette. Durante tutto il primo anno il legame madre-bambino fu osservato periodicamente e a 13 mesi fu applicata la Strange Situation157 per individuare lo stile di attaccamento.


Rispetto al gruppo di controllo, le madri “portanti” erano più sensibili e più comprensive nei confronti dei bisogni dei loro bambini anche se i supporti erano stati impiegati solo tre volte alla settimana. Il risultato dell’esame della Strange Situation rilevava tra i bambini portati un numero maggiore con un attaccamento sicuro rispetto ai bambini del gruppo di controllo. Interessante era il fatto che succedeva anche nei casi dove esistevano situazioni sociali ed economiche difficili, statisticamente considerate un rischio per un buon attaccamento. È ovvio che non tutti i bambini portati avevano un attaccamento sicuro. Infatti portare non è una garanzia “automatica” per un attaccamento sicuro, ma costituisce “una possibilità da non sottovalutare per la costruzione di una buona relazione genitori-bambini”.158 All’interno dello studio tre madri usarono il supporto ausiliario di propria iniziativa. I loro bambini avevano tutti un attaccamento sicuro.

  • La dinamica fisiologica della costruzione del legame

Ora, vista la descrizione delle diverse fasi della costruzione dell’attaccamento, credo che si possa senz’altro evidenziare che esiste una dinamica direzionale-temporale della costruzione del legame, che si evolve dall’attaccamento alla separazione e solo in questa direzione. (vedi schema sotto)

Osservando i tempi delle diverse fasi diventa evidente che prima c’è bisogno di un periodo di attaccamento (1 anno), poi di una sperimentazione di questo attaccamento continua, costante e ripetuta (2 anni), per poi arrivare alla fase della separazione (3 anni).


Queste fasi sono fisiologiche anche se non tutti ne sono a conoscenza. Conoscendo questa dinamica e diventando consapevole di che cosa significhi realmente, cioè che si può arrivare (bene) alla separazione soltanto se si ha costruito un legame sicuro, credo possano diminuire le preoccupazioni rispetto a troppo attaccamento e troppo legame (e anzi aumentare la consapevolezza dell’importanza di un buon legame). Come ulteriore conseguenza si evidenzia che anche se si deve affrontare una separazione precoce (entro il primo anno per motivi di ritorno al lavoro, per esempio), il modo meno traumatico per aiutare il bambino a vivere la separazione potrebbe essere effettivamente dargli la possibilità di attaccarsi bene, di legarsi in modo sicuro nel tempo che si trascorre insieme, oltre a dargli la possibilità di attaccarsi anche ad altre figure che si prendono cura di lui.

  • Portare come modalità nella costruzione del legame

Il legame ha bisogno di tempo per instaurarsi, di stabilità, di continuità, ed è un processo per entrambi, genitori e bambini. Di seguito vorrei illustrare come portare sia una modalità adatta nell’evoluzione del legame utilizzando il riferimento delle quattro fasi con i termini sopra descritti:

Portare nella fase di contatto indiscriminato – iniziare il legame


Le prime settimane dopo la nascita sono caratterizzate dall’incontro, dalla conoscenza reciproca, dalla meraviglia, dall’innamoramento, dalla transizione, dal cambiamento e dalle fatiche connesse.


Dice un padre: “A pensarci bene, diventare genitori è pura follia! È sorprendente quanta gente si metta in questa situazione. Non mi pento di nulla, per la maggior parte del tempo. A volte comunque mi pento di tutto. Questa nuova situazione è un cambiamento incredibile. La vita diventa più intensa, nel positivo e nel negativo”.159


Che si tratti di un grande cambiamento, da non sottovalutare, viene detto anche da esperti:


Troppo spesso la relazione madre-bebè è stata descritta come un’unione senza ombre, un quadretto di maniera. Ora, a volte, alcuni eventi (un parto difficile [difficile anche soggettivamente, N.d.A.], un bebè prematuro, un alloggio troppo piccolo) possono rendere questo primo incontro insopportabile. I genitori si sentiranno incompetenti, impotenti come sono a calmare un bebè agitato. La madre si sentirà “insufficiente”, il latte esaurisce e la pazienza se ne va. (…) Penso che sia utile diffondere l’idea che l’incontro con un bebè può generare problemi e gravi delusioni. (…) È necessario essere pronti a demistificare la relazione genitori-bebè: essa può ingenerare tanto dolore quanto piacere. Ogni bebè può suscitare l’odio dei genitori così come renderli folli d’amore.160


Per comprendere l’importanza di questo periodo, a questo punto mi preme accennare a ciò che Stern chiama la costellazione materna. Alla nascita del primo bambino la donna che diventa madre trascorre un periodo di riorganizzazione e trasformazione psichica molto profonda. In questo periodo affronta tre grandi discorsi interni ed esterni: il discorso con sua madre (quando era bambina), il discorso con se stessa in quanto madre, il discorso con il suo bambino. Questa trilogia materna diventa la sua preoccupazione principale, nel senso che richiede una quantità enorme di lavoro e di rielaborazione psichica.161


I temi affrontati nella costellazione materna sono sostanzialmente quattro: il tema della vita-crescita e le paure di fallire nella competenza genitoriale, il ritrovarsi di una nuova identità di madre e il bisogno proprio di essere contenuta e “maternata”. In pratica, questo bisogno di cure materne (matrix)162 della nuova madre dopo il parto si rivolge come a un ambiente che la protegga da elementi stressanti e dalla realtà esterna, che le permetta di riposarsi, che soddisfi i suoi bisogni vitali di contenimento, di sicurezza e di stima, oltre che di accettazione incondizionata. Questi bisogni si rivolgono alla propria madre, con cui la neomadre si confronta se è presente, perché le proprie esperienze da bambina si rivitalizzano e diventano attuali, più fortemente se al tempo in cui avvennero i suoi bisogni non furono soddisfatti; poi ad altre persone femminili (per esempio l’ostetrica o l’amica) e infine al partner.163 In linea generale significa che si tratta di un periodo altamente sensibile attraverso cui ogni donna, con la propria storia e le proprie risorse interne ed esterne disponibili, deve passare.164


A livello concreto ciò significa che è normale e fisiologico se dopo quaranta giorni dal parto una madre non è ritornata (fisicamente e psichicamente) quella di prima (della gravidanza). Significa che è fisiologico il fatto che invece si senta diversa, immersa in un mondo che a tratti la travolge, la sconvolge, oppure la avvolge come un vestito caldo. Sentimenti contrastanti, una forte emotività, immagini che salgono alla superficie, discorsi con la propria origine che si risvegliano all’improvviso anche se si aveva pensato di aver lasciato ormai alle spalle i vecchi conflitti.


Il percorso di questa riorganizzazione, anche se è fisiologica, non è sempre una strada asfaltata, ma spesso è piena di sassi e di ombre individuali, che si devono accettare, superare e integrare. Tutto questo ha bisogno del suo tempo, di spazi contenuti, di amore.165 In questo contesto la modalità del portare può costituire un notevole aiuto per stare nella costellazione materna; per stare insieme al bambino, per prendersene cura, acquisire sicurezza, sentirsi competente per il suo benessere; per affrontare la nuova condizione di famiglia, di vita così diversa, insieme; per confrontarsi con le esperienze di accudimento vissute da bambini, che spesso erano così diverse.

Portare favorisce e facilita l’incontro e la conoscenza reciproca attraverso i sensi, come un ponte che permette di passare alla vita nuova, insieme, con maggiore serenità e sicurezza.

Portare nella fase dell’imprinting – personalizzare il legame


Anche se il bambino poco dopo la nascita ha la capacità di riconoscere la madre (il suo odore, la sua voce), solo ora comincia a esprimere una chiara preferenza per lei come figura di attaccamento primaria. Tutto a un tratto non sta più in braccio a tutti e comincia a distinguere tra le figure di attaccamento e le altre persone.


In questo contesto, Renggli166 illustra un collegamento interessante tra sviluppo motorio e sviluppo sociale del bambino. A quattro-sei mesi il bambino comincia ad afferrare gli oggetti in modo volontario. “Prendere” non è più soltanto un riflesso per aggrapparsi ciecamente a qualsiasi persona o oggetto disponibile, ma una “presa volontaria” di oggetti. Questo segna un’epoca: infatti il bambino entra nella fase di selezione e di presa di possesso167 e la vive anche rispetto alle figure di attaccamento. Solo verso i nove mesi, entrando nella terza fase rispetto all’evoluzione dell’attaccamento, in concomitanza con l’attività locomotoria efficace (gattona e poi cammina), impara a lasciare volontariamente gli oggetti e osa anche lasciare la madre allontanandosi da lei per esplorare l’ambiente.


Portare in questa fase ha due funzioni rispetto al legame:

a) dona al bambino la possibilità di “possedere” le figure di attaccamento fisicamente e quindi realmente. Abbiamo osservato che in questa fase i bambini stanno molto volentieri nella fascia, avvolti e legati strettamente al corpo del genitore. Sembra che il bambino sia consapevole del fatto che la fascia non si allenta a ogni passo ed è sicuro della vicinanza confermata con la figura di attaccamento.168


b) la madre e il padre sono persone diverse e le esperienze sensoriali per il bambino addosso a ciascuno sono diverse. Il legame si personalizza non solo in modo astratto, ma attraverso gli stimoli differenti di odore, tono muscolare, vibrazione della voce di ciascuna persona che porta il bambino.


Per il padre, il portare è una modalità per stare a contatto con il proprio bambino, per sentirlo, per aprirsi a sensazioni che altrimenti difficilmente vivrebbe. Le nostre osservazioni confermano quanto emerso dal sondaggio di Manns e Schrader,169 che i padri che portano godono della vicinanza corporea con i bambini e si sentono molto sicuri con loro. Anche se non dispongono della fonte di nutrimento (seno) possono fare l’esperienza che il loro bambino si consola e si addormenta addosso a loro e che ci sta tranquillamente! Abbiamo notato che queste esperienze accrescono la competenza paterna: “lui/lei sta proprio bene con me.”170 Secondo le nostre osservazioni finora, i bambini regolarmente portati dai loro padri sviluppano un ricco legame affettivo con loro.

Portare nella fase della base sicura – confermare e rafforzare il legame Il concetto di base sicura171 definisce la base (fisica e psichica) da cui il bambino parte per fare le sue esplorazioni nell’ambiente. Ciò significa, detto con altre parole, che la sensazione di sicurezza nel bambino piccolo dipende dalla presenza della madre (figura di attaccamento), e che una sensazione di sicurezza autonoma, indipendente si sviluppa soltanto, come osservato da Bowlby, se il bambino può “usare” la propria madre come base sicura.172

Il secondo anno di vita è caratterizzato dalle esplorazioni, dal suo andare e ritornare prolungando man mano i tempi dell’andare mentre acquisisce una sempre maggiore sicurezza degli spazi conosciuti. L’esperienza costante e ripetuta di poter tornare un’infinità di volte alla base sicura gli permette infine di interiorizzarla e di diventare sicuro (esternamente e internamente) negli spazi e nelle situazioni.


In questo periodo portare è una modalità per confermare, rafforzare e mantenere il legame personale costruito con il bambino. Lo spazio portato è l’espressione fisica della base sicura. Anche se il tempo in cui il bambino vi si trova diminuisce notevolmente, il portare rimane una modalità importante per ritrovare la base sicura, per rigenerarsi quando è stanco, per scambiare coccole con i genitori. Il bambino in questa fase può esprimere la sua volontà diretta di essere portato (quando necessita della base sicura) dando la fascia al genitore ma anche indicando il momento in cui si sente sufficientemente ricaricato per lasciarla (e vuole essere messo giù).

Portare nel processo di separazione – l’addio al portare


Nella fase di separazione diventano attuali temi come l’indipendenza173 e si pone la questione se il bambino si svezzi da solo o debba essere svezzato dalla fascia. I bambini portati in Europa si separano dal portare tra il secondo e il terzo anno di vita,174 in concomitanza con una sempre maggiore sicurezza spaziale e una naturale curiosità di sperimentare il mondo sempre più vasto sulle proprie gambe. Se alla nascita la dipendenza dai genitori era massima e doppia, cioè strumentale ed emotiva, il bambino che ha sviluppato un attaccamento sicuro ha avuto il tempo e lo spazio per interiorizzare la base sicura e maturerà naturalmente l’indipendenza e quindi la separazione.


Nel sondaggio di Manns e Schrader175 sullo “svezzamento” dalla fascia lunga è emerso che sono soprattutto i genitori a spingere all’“addio” intervenendo in due modi: a) attraverso la spiegazione verbale al bambino del motivo per cui non viene più portato e b) attraverso il rifiuto coerente di portarlo. Ciò significa che a livello razionale si mostra al bambino una soluzione del problema, ma allo stesso tempo gli si chiede una chiara accettazione della propria volontà, che deve elaborare attraverso un processo di apprendimento. È il genitore che decide a seconda della situazione se rispondere alle richieste del bambino, mostrandogli in questo modo la reazione che ci si aspetta da lui. Ciò premette comunque che anche al bambino vengano lasciate delle competenze di decisione.176 Nel momento in cui questo processo di apprendimento dovesse favorire solo il più forte, il bambino dimostrerebbe probabilmente un comportamento contrariato.177

Nella nostra esperienza italiana, invece, il segnale di “saluto alla fascia” proviene altrettanto spesso dal bambino. “Sono troppo grande per la fascia, mamma!”: si possono sentire i bambini verbalizzare un momento che i genitori avrebbero voluto spostare in avanti. “Ora come faremo senza fascia?” si chiedono mamma e papà davanti ai loro bambini “cresciuti”. A questo proposito si apre un nuovo capitolo ma si può ricordare che la fine del periodo portato non è la fine del legame, ma solo il momento in cui si è raggiunta la maturità necessaria per spostare gli aspetti relazionali su altri piani: dal contenimento fisico si passa a un contenimento più verbale e rituale, dallo spazio portato si passa allo spazio familiare, alla “casa” che contiene, dal legame fisico, letterale e visibile, si passa a un legame “interiore”, invisibile, ma ugualmente forte.


La separazione dal portare, se vissuta dal bambino secondo i suoi tempi individuali, si compierà in modo naturale, graduale e in linea con il suo sviluppo, mentre per i genitori probabilmente dovrà essere elaborata sempre con più o meno fatica.

II.3. UNA RELAZIONE ALLA PORTATA DI BAMBINI E GENITORI

Gli elementi portanti della fisiologia del portare, cioè contatto, movimento, spazio e legame, evidenziano i diversi aspetti del significato del portare per bambini e genitori, ma è sempre la relazione bambino-genitori che ne viene toccata, influenzata, modellata, modulata e mediata. Ogni relazione è un rapporto individuale che nasce assieme alla specifica coppia genitorebambino e segue un proprio percorso unico.


In questo senso portare, in modo consapevole ed esplicito, è una modalità di relazione che si basa sull’ascolto reciproco (e solo così funziona), che va impostata e calibrata individualmente per trovare la vicinanza giusta e la distanza necessaria a seconda del momento, ed è un percorso fisiologico che accompagna il bambino nel suo sviluppo fisiologico dalla dipendenza emotiva e strumentale totale alla sua sicurezza nei primi anni di vita.

II.3.1. L’ascolto reciproco

L’ascolto di ciò che dice l’altro è l’aspetto implicito di ogni relazione. Se spesso ci si limita all’ascolto verbale è bene ricordarsi che i linguaggi e i livelli di ascolto sono molti e non sono necessariamente legati alle parole.


Nel caso della relazione portata l’ascolto si basa sul linguaggio del corpo, che il bambino conosce dalla nascita e con cui si percepisce ed esprime in modo eccellente, “insegnandolo”, o meglio, ricordandolo al genitore, che nel corso della vita l’ha un po’ trascurato. Quando l’ascolto a livello tattile, sensitivo e psichico non è ostacolato ma scorre in modo fluido, entrambe le parti sono “in armonia”, serene e attente.


Se fosse così semplice! Spesso (e credo che fino a un certo punto sia inevitabile) l’ascolto reciproco è ostacolato, la comprensione difficile. Qualche anno fa, una nota ditta italiana ha lanciato la promozione di un aggeggio elettronico proveniente dagli Stati Uniti con cui finalmente era possibile interpretare e comprendere il pianto del proprio bambino. Per fortuna dopo poco tempo la pubblicità del prodotto fu vietata perché giustamente ritenuta ingannevole. Ma il mercato reagisce alla richiesta (e ai bisogni) dei consumatori. Evidentemente, e questo è il dato veramente preoccupante, per molti genitori oggi ascoltare e comprendere il linguaggio dei neonati è un una reLazione aLLa Portata di bambini e genitori grande problema, tanto da indurre il mercato a mettere in circolazione un prodotto di consumo che dovrebbe risolvere l’inconveniente. L’ascolto del linguaggio del corpo per i genitori è tutt’altro che scontato.


Oltre alla crisi fisiologica in seguito alla trasformazione che i genitori subiscono alla nascita del bambino, e che abbiamo già trattato nei capitoli precedenti, evidentemente ci sono almeno altri due aspetti che possono rendere l’ascolto difficile:

  • i modelli educativi della propria cultura e le aspettative che ne derivano implicitamente

  • lo squilibrio tra i bisogni del bambino e i bisogni dei genitori.

I modelli educativi della propria cultura e le aspettative che ne derivano implicitamente

Abbiamo discusso ampiamente le aspettative naturali del bambino, i suoi bisogni di protezione, di contatto, di movimento, di spazi adeguati e di legame per la sua crescita ottimale dal punto di vista fisico, neurologico, motorio, psichico e sociale. E cosa si aspettano i genitori quando nasce il loro bambino? Segnati profondamente dalla cultura a basso contatto perché cresciuti in essa, si aspettano un bambino che mangi e dorma, che abbia dei ritmi precisi, che si adatti facilmente all’attrezzatura comprata appositamente per lui, che stia tranquillo nella carrozzina, che dorma nella culla, che non pianga, che stia in braccio a tutti, che sia al più presto autosufficiente! Sono aspettative che non corrispondono a quelle del bambino, determinando inevitabilmente un conflitto che fa disperdere a entrambi una grande quantità di energia.


In questo conflitto portare come modalità fisiologica può diventare un ponte che aiuta genitori e bambini a incontrarsi (e ad ascoltarsi), accettando e rispettando le aspettative di entrambi! Su questo ponte il bambino si trova rispettato e accettato pienamente nella sua natura di portato e nei suoi bisogni primari, mentre i genitori a loro volta, con il bambino contento e contenuto e consolabile vicino a sé, si sentono competenti per il suo benessere, rafforzando il senso della propria capacità genitoriale; sentendosi quindi più liberi e più rispettati nel proprio bisogno di fare anche dell’altro oltre a tenerlo in braccio, riuscendo a scoprire più serenamente la nuova vita “insieme” anziché “nonostante” il bambino. Allora sì che possono cominciare ad ascoltare, accettare e soddisfare i bisogni dei loro bambini e nel contempo ascoltare, conoscere e rispettare i propri limiti.

Lo squilibrio tra i bisogni del bambino e i bisogni dei genitori

È fuor di dubbio che il bambino abbia bisogni primari e prioritari rispetto a quelli del genitore. Mentre i genitori possono vivere un po’ di rendita, attingendo alle proprie risorse interne, di cui fortunatamente la maggior parte dispone, anche se in misura diversa, il bambino non può farlo. Non ha né gli strumenti né le risorse interne. Deve ancora interiorizzare il senso di sicurezza, riempirsi di contatto e contenimento. Il bambino, incapace di fare compromessi, ha bisogni totali e totalizzanti che non possono aspettare di essere soddisfatti.


Ma come ho già accennato nei primi due capitoli, non posso evitare di ripetere che scegliendo di portare i propri bambini a contatto è normale confrontarsi prima o poi con i propri limiti fisici e psichici. Limiti nati per una gran parte dai propri bisogni primari insoddisfatti e che si manifesteranno in sintomi fisici, come mal di schiena, stanchezza, sudorazione eccessiva o come desiderio bruciante di mettere giù il bambino e di stare un po’ in pace. Alcuni genitori li sentono dopo un mese, altri dopo otto mesi. E tutti li sentono ogni tanto. È importante ascoltare ed esprimere questi segnali e non ignorarli magari per motivi ideologici, prima che diventino sintomi dominanti e inducano a dover staccare il bambino per forza. Ho visto diverse mamme che avevano ignorato i primi sintomi di bisogno di cura propria, e che sono arrivate a staccare il proprio bambino (prima dell’anno) improvvisamente per poter sopravvivere, procurandogli una separazione brusca e traumatica.

Ma non sono forse un dilemma risolvibile i limiti (bisogni) dei genitori a confronto con i bisogni prioritari del bambino? Non posso dare una risposta, ma solo porre la domanda in modo diverso: e se proprio dal dilemma e dalla tensione tra i bisogni nascesse un grande potenziale di guarigione (per i genitori) e di cambiamento? Potrebbe essere che l’ascolto reciproco nel portare faccia emergere emozioni che trovano uno spazio contenuto dove possano essere ascoltate e accettate. Non solo le emozioni di felicità, ma anche le emozioni negative, quel mare di tristezza che molti dell’attuale generazione di genitori si portano dentro. Portare, nella misura che ognuno permette e sente “giusta”, conduce fisicamente all’ascolto e può essere quindi un’opportunità per i genitori di guarire e di crescere insieme al loro bambino contenuto e contento.


Se è normale incontrare delle difficoltà, il punto cardine diventa come si interpretano e si affrontano. Per esempio, una mamma torna al secondo incontro del corso per portare dicendo: “Ho usato poco la fascia, perché non c’è verso. Lui non vuole starci, non gli piace essere costretto”. Ora, prima di lasciare perdere, può essere utile non tanto interpretare la reazione del bambino, ma interrogarsi sinceramente: come mi sento io? Come mi sento quando lo porto? Che cosa significa per me portare il mio bambino nella fascia? Sono veramente io che lo voglio oppure è mio marito, la mia amica che ne è entusiasta? Sto cercando una bacchetta magica per farlo tacere, mi sento sopraffatta dalla sua esigenza di stare in braccio? Voglio veramente tenerlo a contatto oppure preferirei di gran lunga che fosse un “mangiaedormi”? Sono più preoccupata di avere le mani libere per il mio primo bambino anziché della relazione con il secondo appena arrivato?

Non ci sono giudizi né risposte giuste o sbagliate, ma solo individuali, che possono diventare la chiave per comprendere e in ulteriore conseguenza per sciogliere il nodo. Spesso abbiamo osservato che quando i genitori riescono a trovare le proprie difficoltà e riescono a esprimere ciò che sentono veramente, se osano dire sono proprio stanca o non pensavo che avere un bambino fosse così faticoso”,178 il bambino si rilassa e si rasserena e tutto a un tratto succede il miracolo, “perché ci vuole proprio stare nella fascia”.
II.3.2. Il percorso portato

Un altro aspetto importante della relazione portata è che esplicita lo sviluppo del bambino dalla dipendenza alla sicurezza; un percorso quindi in cui non esiste la posizione che va bene “sempre” o “per sempre”. Le posizioni si adeguano da un lato alla crescita fisica, psichica e mentale del bambino e dall’altro ai bisogni posturali ma anche psichici e mentali di chi porta. Il percorso individuato, che passa dalla posizione davanti alle posizioni sul fianco e sulla schiena, è in linea con il quadro teorico degli elementi portanti della fisiologia del portare.


Proprio l’ottica di un percorso del portare lascia lo spazio all’individualità nella relazione evitando approcci ideologici e fornendo nel contempo una modalità che nutra la vita insieme nel rispetto dei bisogni di entrambi.

  • La motivazione

Alla base di qualsiasi percorso si trovano le motivazioni, che possono essere molte e molto diverse tra di loro e che è utile chiarire. Si vuole portare perché si cerca un mezzo di trasporto alternativo alla carrozzina, spinti dalla comodità di avere le mani libere, oppure si cerca un rimedio efficace per rispondere al bambino che piange, una bacchetta magica per farlo tacere, oppure si desidera semplicemente stare a contatto con il proprio bambino?


Alcune domande per chiarire la motivazione:

Perché desidero portare il mio bambino? È una questione di comoditàpraticità, quindi vorrei avere le mani libere completamente e piena libertà di movimento, oppure cerco un supporto che mi sostituisca completamente il lavoro delle braccia, oppure desidero soprattutto un supporto per poter allattare il bambino senza tirarlo fuori?


Cerco un supporto con cui ogni tanto trasportare il mio bambino oppure cerco un supporto per stare con il mio bambino?


Per me è importante che sia un supporto di facile utilizzo oppure sono disposta a impiegare delle energie per imparare?


Essere diversa rispetto ad altre persone del mio ambiente mi mette a disagio, non mi piace essere guardata “strana” oppure eventuali reazioni da parte dell’ambiente non mi toccano più di tanto?

Queste domande non servono né per giudicare né per spaventare, ma sulla base delle risposte che bisogna darsi serenamente possono essere a priori adatti alcuni supporti e altri meno.179

Ogni percorso portato è caratterizzato da tre fasi:

  • partenza

  • percorso

  • separazione.

Sia la partenza sia la separazione non sono fasi nette, che si implementano da un giorno all’altro, ma segnano un periodo di inizio e un periodo di fine e sono parti inscindibili del percorso portato.

  • La partenza – imparare a fidarsi

La partenza è un periodo sensibile che dura alcune settimane, in cui si fanno le prime esperienze con il portare e l’adulto impara sostanzialmente a fidarsi della modalità alternativa di stare con il bambino. Una fiducia che non è automatica o innata, ma che deve essere conquistata attraverso l’esperienza pratica positiva e ripetuta con il bambino portato addosso.


Qualunque sia l’età del bambino quando si inizia a portare, si è visto che in questa fase in cui la fiducia deve essere conquistata sono efficaci solo posizioni davanti o al limite sul fianco, ma non sono efficaci le posizioni dietro.


Quando iniziare?

Ricordando le fasi della costruzione del legame, teoricamente è possibile iniziare a portare nel primo anno di vita, anche se dopo i sei mesi, quando il bambino si rivolge di più all’ambiente e comincia a esplorarlo gattonando, le difficoltà sono un po’ maggiori; infatti i genitori si devono munire di una dose extra di pazienza per riuscirci. Dopo l’anno di vita del bambino invece è veramente difficile iniziare. Ho avuto molte volte la conferma che i tempi per iniziare a portare corrispondono a grandi linee ai tempi evolutivi del legame e ai bisogni fisiologici del bambino nei diversi stadi della sua età evolutiva.


  • Durante il percorso

Superata la fase di partenza si comincia a entrare nella sostanza del portare giorno per giorno, sperimentando la libertà di movimento, ma anche la fatica, il bambino contento ma anche il bambino che ieri dormiva nella fascia e oggi sta sveglio e vuole guardare dappertutto. “Non ci sta più bene? Sta diventano pesante?”


Anche se sarebbe bello riposarsi sulle proprie conquiste e continuare il percorso senza ulteriori disturbi, questo cambia chi lo sta facendo. Cambia il bambino per motivi fisiologici di sviluppo esigendo passo per passo maggiore autonomia, mentre il cambiamento del genitore è più interno. Così si aprono inevitabilmente scenari nuovi e sorgono nuove domande e dubbi.


In linea generale ci sono almeno 3 momenti critici durante il percorso che chiedono e segnano una situazione di cambiamento nella relazione portata:

  • momento 1: quando il bambino ha raggiunto peso, lunghezza oppure età per cambiare posizione dal davanti al fianco o dietro (3-6 mesi).

  • momento 2: quando i genitori si sentono pronti a portare il bambino sulla schiena (4-8 mesi).

  • momento 3: quando il bambino comincia a camminare e gli intervalli portati diminuiscono (dopo l’anno).

Ogni momento è una piccola crisi,180 dove il percorso rischia di essere interrotto bruscamente. In questo caso, il percorso portato subisce una rottura, ma non si completa.

Momento 1

Il bambino non è più neonato, ma comincia a interessarsi al suo ambiente. “Vuole vedere tutto”, dicono i genitori, notando giustamente questo cambiamento. Spesso questo momento coincide anche con il fatto che ora il bambino davanti pesa, è lungo, comincia a essere “ingombrante”. La madre non ha più tutta la libertà di movimento di prima; il bambino davanti diventa “scomodo”. Ora questo è un momento fisiologico e importante, perché segna un momento di crescita, ma sarebbe precoce pensare che sia finito il tempo portato. Adeguare la posizione e mettere il bambino in un’altra posizione sul corpo, cioè sul fianco, diventa perciò indispensabile. Si tratta di fare un salto, di imparare la nuova posizione, di abituarsi a essa insieme al bambino. L’esito di questo momento critico non è scontato. Molti genitori non fanno il salto e preferiscono interrompere l’esperienza del portare.

Momento 2

Questo momento è vicino al momento 1, ma consiste in un’ulteriore sfida. Mettere il bambino sulla schiena non è scontato né automatico e per i genitori occidentali significa un grosso scoglio da superare, che nella maggior parte dei casi viene superato soltanto se c’è una persona esperta che possa insegnare praticamente i movimenti e soprattutto contenere l’insicurezza iniziale. D’altronde portare il bambino dietro apre nuovi scenari; c’è chi dice che “il vero portare inizia sulla schiena”,181 ma è una libertà che deve essere conquistata.

Momento 3

Nel momento in cui il bambino comincia a camminare gli intervalli portati diminuiscono molto, ma sarebbe ancora fisiologico mantenerli nella quotidianità. La sfida di questo momento critico consiste nel non smettere bruscamente di portare il bambino, ma nel mantenere lo spazio portato come modalità per confermare e rafforzare il legame, anche se i tempi di allenamento diminuiscono.182


Teoricamente e idealmente, il percorso portato inizia dopo la nascita e finisce nel terzo anno di vita del bambino. La fase di partenza dura alcune settimane, mentre la fase della separazione molti mesi.


Realmente però ed entro certi limiti i tempi portati sono molto variabili e rispecchiano la relazione individuale della coppia genitore-bambino. Così è fisiologico che un percorso intero duri 3 anni, un altro 18 mesi e un altro ancora 4 anni. Anche gli intervalli portati possono differire molto tra una coppia genitore-bambino e un’altra; anche all’inizio, con il neonato, c’è chi porta molte ore al giorno, c’è chi non porta più di un’ora al giorno. Continuando dopo l’anno di vita la durata degli intervalli può variare da cinque minuti a tre ore. Ulteriori differenze si trovano rispetto ai tempi per iniziare; c’è chi inizia subito dalla nascita, c’è chi a uno, due o cinque mesi di vita del bambino.

  • La separazione

Come descritto nei capitoli precedenti, la separazione fa parte del percorso portato e non può essere evitata, ma idealmente dovrebbe essere vissuta con tatto e nel rispetto dei tempi di entrambi. È una fase più lunga della partenza, che porta passo per passo e dolcemente alla conclusione del periodo portato. Questa fase non deve essere scambiata e confusa con l’interruzione precoce o la rottura del percorso che invece avviene in modo brusco, improvviso e totale. (La rottura del percorso può avvenire per motivi diversi; scelte costrette dei genitori per cause di forza maggiore o per cause interiori, che non intendo mettere in luce qui). La separazione invece è parte integrata del percorso stesso.


Il percorso completo inizia quindi con le posizioni davanti, per passare sul fianco e infine sulla schiena. Mentre la posizione davanti a un certo punto del percorso viene abbandonata completamente, le posizioni sul fianco e sulla schiena si alternano a seconda delle necessità e del momento di entrambi fino ad arrivare alla conclusione del percorso.

II.3.3. Tra fatica e gioia andare per vie nuove

Portare come modalità di relazione conduce senz’altro a percorrere modalità nuove di maternage e di relazione con i bambini piccoli. Oggi non è ancora una modalità alla portata di tutti, perché richiede a chi porta (e alla coppia di genitori) un notevole sforzo e una fatica non solo fisica: i genitori si trovano a dover percorrere una “via nuova”. In assenza di un modello tradizionale di riferimento ci si deve confrontare con i propri limiti fisici e psichici, con la propria storia educativa, spesso così diversa, e pure con un ambiente spesso scettico.


Ma portare è anche una modalità di relazione divertente e gioiosa, che rende il bambino portato felice e che appaga profondamente chi porta. Che cosa c’è di più meraviglioso di un bambino contento/contenuto vicino a sé?


Poi arriva il momento in cui ci si deve separare, quando la modalità del portare lascia gradualmente il posto ad altre modalità di relazione. La relazione portata infatti è limitata ai primi (tre) anni di vita del bambino, mentre il compito genitoriale nell’accompagnare il bambino verso la vita adulta non finisce e dura ancora 6 volte tanto! Ovvero, il periodo sensibile ad alto contatto in ogni caso è limitato ai primi anni di vita del bambino; se non viene vissuto non tornerà comunque mai più. Come una porta che si chiude a un certo punto della vita, la comunicazione con il bambino non sarà mai più così “fisica”.


Crediamo che il percorso portato possa facilitare anche la relazione “dopo fascia”. Nell’aver gettato delle solide basi dove la fiducia reciproca è cresciuta nel rispetto e nell’ascolto, si può sperare che possa accompagnare entrambi nel lungo tempo del “dopo”.

Portare i piccoli - Seconda edizione
Portare i piccoli - Seconda edizione
Esther Weber
Un modo antico, moderno e… comodo per stare insieme.Tecniche, consigli e suggerimenti per portare i bimbi in fascia o nel marsupio, per stare insieme e rafforzare il legame con i piccoli fin dalla nascita. Da diversi anni, la modalità di portare i bambini addosso è un fenomeno in crescita anche nel nostro Paese.L’autrice Esther Weber, svizzera e madre di due bambine, è socia fondatrice e presidente dell’associazione Portare i piccoli, che promuove in Italia la cultura del portare attraverso l’informazione e la formazione ad operatori della prima infanzia.Il libro Portare i piccoli chiarisce che portare, oltre a essere una pratica antica tuttora presente in molte parti del mondo, è una modalità rispettosa e adatta alla relazione tra genitori e figli anche nella realtà occidentale, e lo fa rispondendo in maniera pronta e sicura ai molti quesiti pratici di chi porta, offrendo una disamina oggettiva sia sui supporti ausiliari reperibili (fasce porta bebè, marsupi, zaini porta-bambini), sia sulle tecniche più semplici che le neomamme e i neopapà possono adottare. Conosci l’autore Esther Weber, svizzera tedesca, è madre di due bambine e vive in Italia dal 1995.Dal 2001, anno della nascita della prima figlia, si dedica al tema del "portare i piccoli". Ha progettato e realizzato interamente il sito indipendente di informazione www.portareipiccoli.it.È socia fondatrice dell’associazione “Portare i piccoli”, che promuove in Italia la cultura del portare attraverso l'informazione accurata e indipendente e una formazione di qualità. Tiene incontri informativi e corsi per genitori. È consulente per la formazione al portare a operatori della prima infanzia.