appendice

Esperienze im-portanti

Ho sempre guardato con ammirazione le donne ecuadoriane che con abilità si mettevano i loro bimbi sulla schiena e, nei primi anni, li portavano ovunque con sé.


Quando è nato mio figlio avevo bisogno di molto contatto con lui, di sentirlo vicino al mio corpo quando uscivamo così come in casa. Portare poi in una città come Catania, ingolfata dal traffico e senza marciapiedi (dal momento che sono occupati dalle macchine in sosta), diventa, più che una scelta ideologica, una questione di sopravvivenza e praticità.


Il mio primo bambino non è stato portato con sistematicità, sebbene spesso. Non disponevo, o non avevo cercato/trovato, degli strumenti adatti. Il marsupio nei primi mesi, lo zaino in telaio metallico per portare dietro, il seggiolino nella bicicletta, alcune stoffe prestate (una fascia base africana e la fascia sul fianco con l’anello) per un viaggio di circa due mesi sulle Ande ecuadoriane quando Andrea aveva quasi due anni. E proprio dopo questo viaggio ho finalmente capito che per portare ci vogliono degli strumenti adeguati, che distribuiscano meglio il peso del bambino sul genitore. Il rischio è quello di rinunciare, di negarsi delle possibilità, di individuare questioni oggettive che impediscono di coltivare i propri desideri e bisogni.


A un convegno a Catania nel 2003 scopro l’esistenza della fascia lunga… Sentii che era lo strumento giusto per me e le mie esigenze. Quando mia figlia stava per nascere avevo preso contatti per imparare a usarla, e ho così avuto modo di utilizzare la fascia lunga poco dopo la sua nascita.


Non è stato facile familiarizzare con una fascia di circa 5 metri, tirare gli orli il giusto per una buona posizione, superare la paura che la bimba non respirasse così a stretto contatto con il mio corpo, costruire con la fascia una relazione di intimità e familiarità, ignorare gli inviti degli altri a posarla nella culla per evitare “brutte abitudini” e per “farla stare più comoda nel suo lettino”.


Mia figlia adesso ha più di due anni e la porto solo occasionalmente, quando serve, quando lei ne ha voglia.


Parte della relazione di crescita reciproca è stato anche l’ascolto delle sue esigenze, che ha portato a una diminuzione progressiva del portare man mano che lei conquistava i suoi spazi di autonomia.


Del portare con la fascia lunga ricordo le sensazioni di forza, sicurezza, bellezza, tranquillità che mi trasmetteva il contatto stretto e comodo con la mia bambina. Ricordo le lunghe passeggiate, i viaggi in aereo, la libertà di poter lavorare con lei addosso e di uscire con facilità anche sotto la pioggia, la relazione speciale che si creava tra noi e tra noi e il mondo. Così come ho ben presente il sudore, l’ingombro della fascia nel momento in cui la bimba voleva scendere, i momenti di stanchezza e di scomodità quando la fascia non era legata bene.


Credo sia stata per me un’esperienza fondamentale che mi ha rafforzata, una fonte di crescita, di conoscenza dei bisogni dei bambini appena nati oltre che di scoperta di altre possibilità del mio corpo.


Tiziana

Ho incontrato la fascia lunga molto prima della nascita dei nostri figli. Un colpo d’amore.


Tre anni dopo è nato nostro figlio che è stato portato fin dall’inizio. Uscendo dall’ospedale lo portava il papà. Mentre entrando in ospedale io l’avevo portato nella mia pancia, mi sembrava giusto che il papà avesse la priorità per la prima uscita. Cosi siamo tornati a casa.


All’inizio siamo stati tanto tempo insieme nel letto a incontrarci, la vita fuori dai miei confini era molto, troppo rumorosa e agitata per me e il mio cucciolo. L’avevo aspettato tanto tempo questo piccolo, che avevo bisogno d’incontrarlo con tranquillità e serenità. Utilizzavo la fascia durante la giornata a casa, ma specialmente alla fine del pomeriggio perché avevo scoperto che così mi sentivo meno insicura nell’attesa del pianto serale. Mi ricordo la prima passeggiata con mio figlio nella fascia. Siamo andati al parco vicino a casa nostra per cinque, dieci o forse quindici minuti, che mi sembrarono un’eternità, così siamo tornati a casa presto. La sera ero molto fiera di essere riuscita a uscire per un periodo cosi breve. Pian pianino è arrivata la sicurezza e abbiamo fatto tanti giri insieme nella fascia. Il passeggino era parcheggiato davanti a casa e non è mai servito fino a un anno e mezzo, quando ero incinta di sei mesi della nostra bambina. Anche lei è stata portata fin dall’inizio. Era una bambina un po’ più esigente rispetto al maschio, aveva bisogno di più vicinanza, di più contatto. Quando è stata più grande ha avuto anche bisogno di più contenimento. E questo lo trovava anche nella fascia sulla schiena. Per due bambini cosi vicini abbiamo avuto la fascia e le spalle, o due fasce o la fascia e il passeggino.


La fascia l’ho utilizzata senza conoscerne la filosofia, non avevo letto tanto, ma la sentivo giusta per me e i miei figli. Il mio bambino doveva essere vicino a me, questo sentimento era giusto. Mi ha dato anche la sicurezza che mi mancava come a molte neomamme, che sentono l’insicurezza della novità di un incontro tanto bello ma tanto sconosciuto.


Dopo ho letto, ho imparato e ho capito che le cose che avevo sentito avevano i loro motivi. Dare sicurezza, serenità ai nostri figli attraverso la vicinanza, il sentire, l’ascoltare, il contatto. Sono stata molto fortunata ad aver avuto la possibilità di portare i miei figli tanti anni con tanta felicità e orgoglio, perché so che questo non è scontato, dipende tanto dalla nostra personale storia di vita.


I nostri figli erano contentissimi nella fascia, il nostro bambino ancora a quattro anni faceva la nanna nella fascia sulla schiena ed era molto comodo per lui godersi le passeggiate senza camminare. Nostra figlia l’amava tanto come posto sicuro specialmente in città o quando era malata. Tutti e due hanno anche portato le loro bambole a passeggiare nella fascia.


La fine della fascia è suonata il 22.12.2006, quando mia figlia aveva tre anni e mezzo. Quel giorno era malata. Di solito, quando non stava bene, la portavo di più, perché lei stessa mi portava la fascia, come per dirmi: “portami.” Ma quel giorno, quando ho voluto prenderla sulla schiena, lei ha fatto un passo indietro e ha detto: “Mamma non sono più un bebè!” E cosi fu…


Il mio cuore ha pianto tanto, e ho dovuto imparare a trovare delle nuove strategie senza fascia. La fascia mi aveva dato un tempo per imparare, un tempo di sollievo. Con la fascia ho trovato con i miei figli vicinanza, incontro, serenità, tranquillità, sicurezza, contenimento, fierezza, forma fisica e praticità.


Isabelle

Conoscemmo la fascia nel 2002, ad un incontro alla festa della Rete Lilliput a Villa Buri (VR). Io e mio marito Emanuele ne rimanemmo entusiasti, ma ancora non avevamo figli e quindi era solo una “bella idea”.


Quando nell’agosto 2004 nacque Anna, facemmo il corso e usammo la fascia per portare la nostra bambina in casa, nelle passeggiate, ovunque ci spostassimo: sul lungolago, al museo, in montagna, al mare, al supermercato, in visita ai parenti, alla sagra parrocchiale, a Messa.


Tenere Anna nella fascia è stato un modo per coccolarla, per tenercela vicino, in intimità con noi, insomma per amarla.


Tante volte ci siamo detti la fortuna di aver conosciuto la fascia, chissà se senza avremmo provato le stesse emozioni!


Con la fascia, accudire Anna e ora Maria (che ha un anno di vita) non ci è pesato particolarmente. Ci pare di essere riusciti a calmare i loro pianti, a facilitare il loro sonno e a dar loro quella sicurezza che ora le rende curiose verso il mondo.


In certi momenti siamo stati criticati, però sentire che le bambine stavano bene ci rendeva sicuri della nostra scelta. È pur vero che in molti casi l’uso della fascia ha suscitato invece curiosità, interesse, simpatia in coloro che incontravamo.


Naturalmente ogni scelta genera un senso di appartenenza. Noi non facevamo parte del “popolo della carrozzina”, magari griffata. Ci sentivamo vicini ai milioni di genitori che portano i loro piccoli, soprattutto in Africa e in Sud America.


In un certo senso “portarcele addosso” ha fatto bene anche a noi: ci siamo sentiti noi stessi coccolati dalle nostre bambine.


L’unico inconveniente della fascia è che, essendo essa poco ingombrante, è un attimo partire per un viaggio e dimenticarla a casa. Come quella volta, a Pasquetta, che dopo esserci disperati abbiamo rimediato utilizzando un comune lenzuolo. Anche così funziona.


Luciana

Appunti di diario di una nonna

La prima volta che ho visto la bambina non l’ho proprio vista. Piuttosto ho visto mia figlia, sua madre, che aveva una protuberanza all’altezza del busto, infagottata stretta con un tessuto che sembrava incrociato diverse volte. A guardare bene, in alto c’era una piccola apertura, un’idea di capelli neri.


La bambina della mia bambina. Ciao mamma, disse mia figlia, e tutto a un tratto questo “mamma” mi suonò strano, come se la parola fosse cambiata o meglio avesse acquisito un significato diverso. Mia figlia, che a vent’anni giurò di non avere figli, che a venticinque disse che eventuali figli si sarebbero dovuti adeguare a lei e non viceversa, che andava per strade inconsuete, mia figlia, che se n’è andata di casa e di paese, che da allora ha vissuto la sua vita parlando una lingua che non è quella di sua madre, mia figlia a trentacinque anni portava addosso la sua bambina, era raggiante, anche se attorno agli occhi notavo segni di stanchezza. Intuii che nonostante tutto forse era la cosa più coerente che avesse mai fatto (non detto).


Le tre settimane seguenti le passai con mia figlia, il suo compagno e la loro figlia. La bambina piangeva tanto, preferibilmente di sera. “Anche tu hai pianto tanto i primi tre mesi”, dissi a mia figlia,” tuo padre si chiedeva perché tu non potessi piangere quando lui non c’era. Non sopportava sentirti piangere. Ti portavo in braccio, allora.”


Cinque mesi più tardi andai di nuovo a trovarle. Ora la bambina si vedeva bene. La testa, praticamente senza capelli, spuntava dritta e curiosa dal telo e seguiva i movimenti di sua madre. Le gambe, rotondeggianti, a cavallo, stringevano il fianco di mia figlia, le braccia erano libere e a ogni movimento improvviso la bambina si aggrappava a un lembo di tessuto, del telo o della maglia di sua madre. Rideva e mi guardava incuriosita.


A dodici mesi la bambina mi veniva incontro sulle proprie gambe. A metà strada verso di me però si girava, correva verso sua madre, alzando le braccia. In braccio. Mia figlia rideva. Ciao mamma, disse.


In braccio a sua mamma, la bambina aveva di nuovo l’aria contenta e lo sguardo attento. Mi misurava. Ciao, dissi.


Mia figlia mise la bambina sulla schiena per permetterle di darsi al sonno, disse. Facemmo una passeggiata , all’inizio la bambina guardava a destra e a sinistra, poi a un tratto baciò un paio di volte il collo di sua madre, quindi appoggiò la testa. Qualche attimo più tardi la vidi scivolare nel sonno, mentre io e sua madre parlavamo e ci godevamo l’aria della passeggiata nel bosco. A sedici mesi dormiva accoccolata addosso a sua madre. Da quando ero arrivata non l’avevo ancora sentita piangere.


Ora ha cinque anni.


Sono grande, dice. La sua mamma non la porta più da tempo. Ma a volte (e non l’ho ancora detto a nessuno), in alcuni momenti, mi sembra di vedere ancora quel telo avvolgere entrambe, madre e figlia.


E devo dire che quella visione mi mette una strana sensazione di dolore e di pace. Dolore se guardo al mio passato da bambina, così diverso, e al passato che condivido con mia figlia da bambina. Pace, forse, perché non tutto e per forza deve ripetersi di generazione in generazione. Perché davvero è possibile scegliere e cambiare.


una nonna

Una storia di …‘fasce’

Penso che portare i piccoli sia un’esperienza fantastica di scambio reciproco. Il tema è anche quello di farsi tras-portare dai bimbi alla scoperta del mondo mentre li aiutiamo a conoscerlo portandoli… in montagna, in città, sui tram, nelle stazioni dei treni, nei boschi, attraverso la natura, nella vita di tutti i giorni, anche a casa, in un gioco di scambio continuo di esperienze ed emozioni.


Qualche estate fa mi sono trovata in Corsica alla scoperta di una spiaggia molto bella, ma un po’ difficile da raggiungere. Ero con la piccola Nicoletta e il mio compagno Fabrizio insieme ad amici comuni con una bimba poco più piccola della nostra. Un trekking di 20 minuti con bimbi di 2 anni e mezzo e quasi 2. Noi avevamo portato la fascia, ma i nostri amici neppure lo zaino porta-bimbi da montagna, lasciato a casa in quanto troppo ingombrante. Eppure ci tenevano così tanto a venire con noi!


Il trekking non era poi così difficile, ma bisognava camminare tra sterpi e qualche dirupo, in salita e in discesa, a tratti sotto il sole e per altri tratti anche all’ombra degli alberi, partendo perlopiù alle 8 del mattino. Era possibile, ma solo portando le bimbe (12-13 kg l’una…) addosso, perché a piedi era ancora troppo difficile per loro.


Ebbene, non avendo altre fasce se non la nostra, ho deciso di proporre ai nostri amici di provare a portare la piccola con un asciugamano da mare, di quelli in microfibra, molto sottile ma resistente e soprattutto a due piazze, quindi abbastanza ampio per tenere la bimba. Però all’africana, cioè come fosse stato un khanga. La mamma se la sentiva e così abbiamo creato insieme il modo e…via!


Che bello è stato! Siamo riusciti a fare il tragitto in maniera esemplare. E le piccole al ritorno si sono addormentate nelle rispettive ‘fasce’. Erano compagne di nido, molto legate tra loro, e si sono divertite un mondo.


L’esplorazione del mondo in quell’occasione è stata fantastica! Un percorso che dopo qualche minuto diventava una discesa verso il mare e poi si apriva e ci mostrava una distesa di sabbia incontaminata… una sabbia a onde descritte dall’acqua, trasparente e pulita come mai, se non in Grecia, avevo avuto modo di vedere.


E le bimbe ci hanno regalato a loro volta la possibilità di vedere il mondo con gli occhi di un bimbo che ti saltella sulla schiena e ti indica con il dito le ragnatele, i fiori, le spine e il mare… e vuole l’acqua, o ‘uaua’ come diceva mia figlia fino a poco tempo fa ancora, e ti fa capire che vuole farsi portare giù dalla schiena per averla.


Uno scambio fantastico di esperienze e di emozioni, da ricordare…


Rosanna Carabellese

Solo un pezzo di stoffa?


“La fascia lunga non è magica, è solo un pezzo di stoffa, è l’uso che se ne fa che la trasforma in un efficace strumento di relazione, di ascolto, supporto e libertà.” Come istruttrice Portare i Piccoli lo ripeto di frequente. Come mamma però non ho mai potuto fare a meno di attribuire a quel “semplice” pezzo di stoffa qualcosa in più: la fascia come complice, salvagente, stampella, qualche volta anche come sacrificio o una complicazione, una camicia di forza o un abito bellissimo che calza a pennello, una bandiera…


A dire il vero le ho attribuito un valore simbolico ancora più intimo: a mio parere ogni stoffa per ogni mamma rappresenta e racconta la relazione con il suo bambino e le sue caratteristiche.


L’ho osservato con lo sguardo da psicomotricista , l’ho sentito toccando e usando le fasce dei miei bambini, l’ho potuto confermare con i racconti di diverse mamme sul loro modo di percepire la fascia: colore, elasticità, morbidezza o ruvidezza, malleabilità, resistenza, comodità,… rispecchiano il modo di sentire la relazione con il cucciolo portato, una persona nuova, simile o diversa, facile o difficile, desiderata o inaspettata, riconosciuta o una quotidiana sorpresa!


Il mio primogenito è profondo e tenero come la sua fascia arancione, intenso e affidabile ma lento a “mollare gli ormeggi”; la piccola invece è fresca e luminosa come la sua fascia in lino bianca e come questa ruvida e difficile da legare! …e tanti altri neonati ricevono gli stessi aggettivi delle loro fasce…o viceversa: leggeri, difficili, “lunghi” o ingombranti, allegri, “tosti”, unici, delicati, complicati, cedevoli, soffocanti o ariosi, e mille altri usciti dalle parole delle mamme.


Perdere tempo per scegliere e acquistare una fascia dà spazio a considerazioni apparentemente banali (Piacerà anche a papà? Avrò caldo? Cambierà umore al mio bimbo una fascia nera? Però è elegante…) ma che esprimono anche la nostra attenzione di mamme-portatrici e raccontano della coppia mamma-bebè. In tantissime culture in fondo i supporti per portare sono vere opere d’arte cucite o decorate a misura per il nuovo nato, perchè non dovrebbe essere così anche per noi?


E anche una fascia prestata o regalata o comprata d’occasione porta un suo significato: come i figli non sempre sono come li immaginavamo, o possiamo non sentirli così “nostri” ma ospiti “in prestito” in attesa di diventare grandi, possono essere “regali” d’amore, o venire accolti/accettati per quello che sono…anche se non proprio del “nostro” colore…!


Silvia Cavalli

La mia esperienza con la fascia

Sono mamma di due splendidi bambini, Valerio e Tiziano. Per noi il contatto è sempre stato fondamentale.


Prima di avere il mio primo figlio immaginavo le mie passeggiate con lui, dove avrei spinto con amore la carrozzina che lo conteneva. Quindi abbiamo ordinato la carrozzina più bella, per noi era un gesto d’amore verso il nostro bimbo. Poi è nato Valerio. La carrozzina non l’abbiamo mai utilizzata, lui piangeva appena lo mettevo giù, e io comunque non riuscivo ad andare in giro per i marciapiedi di Milano con quel transatlantico, era difficile da muovere e poco sicuro.


Un amico di famiglia mi ha consigliato il marsupio, e finché ho potuto l’ho portato con quel supporto. La scomodità del marsupio era compensata dalla felicità che provavo nell’averlo vicino e dal fatto che Valerio amava essere portato. Tre anni dopo è nato Tiziano, e per caso ho sentito parlare della fascia come modalità per portare i bambini. È stato amore a prima vista. Entrambi i miei bambini mi hanno fatto capire da subito il loro bisogno di contatto, e io stessa avevo bisogno di sentirli vicini. La fascia mi ha permesso, in maniera molto più completa e “coinvolgente/avvolgente” rispetto ad altri supporti (come il marsupio, appunto) di soddisfare questo nostro bisogno. Portare Tiziano in fascia mi ha aiutato a creare con lui uno scambio molto profondo. Da subito sono entrata in sintonia con lui e riuscivo a capirlo molto bene, e la cosa era reciproca! Siamo entrati in simbiosi, e questo scambio, questa relazione avveniva anche quando era fuori dalla fascia.


Con il passare del tempo diminuiva il portare, e Tiziano è diventato presto un bambino autonomo e socievole. Ma la fascia è rimasta una nostra amica, un simbolo della nostra relazione. Ci ha aiutato nei momenti di separazione, quando sono rientrata al lavoro. Uscivo da casa la mattina con il mio bimbo in fascia e lo riportavo a casa in fascia al ritorno dall’ufficio. In pochi minuti ci ritrovavamo e mi sembrava di recuperare le ore di separazione della giornata.


C’è stato un altro effetto che la fascia ha avuto su di me: ha scatenato una serie di emozioni sopite nel tempo, un percorso di autoconsapevolezza che ha lavorato su lacune della mia prima infanzia. Come molte donne della mia generazione, sono stata accudita secondo la teoria del distacco precoce dalla madre e dell’accudimento a distanza (carrozzina, lettino, biberon ecc.); portare i miei bambini mi ha permesso di recuperare e soddisfare il bisogno di contatto che io stessa avevo da piccola.


Dopo aver portato con gioia, e aver visto gli effetti positivi sui miei bambini, ho deciso di diventare un’Istruttrice Portare i Piccoli, per offrire alle mamme l’opportunità di conoscere la fascia e di portare a loro volta i loro bimbi. Credo fermamente che portare in fascia contribuisca a creare le basi sicure nei primi anni di vita. Soddisfare i bisogni primari dei bambini fa sì che diventino adulti consapevoli, capaci di cambiare il mondo e renderlo un luogo di amore e di pace.


Gabriella

La gioia di portare

Quando nacque la mia primogenita non conoscevo assolutamente nulla sul portare con la fascia, ma sentivo che il passeggino e la carrozzina tenevano distante la mia bimba da me. Sentivo invece che doveva stare con me, e che fosse il contatto una cosa naturale. Così cominciai da autodidatta a ricercare nei negozi e in internet qualcosa di “alternativo”. Dopo sei mesi e soldi spesi tra marsupi vari scoprii la fascia lunga. Non sono però mai riuscita a “comprenderla” completamente nonostante le istruzioni cartacee e i vari video amatoriali disponibili in rete. Ho continuato a portare la mia bimba e poi anche Zoe, la seconda, soprattutto con il mei tai, ma non mi sono mai innamorata di questa modalità. La trovavo semplicemente giusta. Proprio per questa mia convinzione ho deciso di partecipare al corso di Esther per diventare istruttrice PIP. E qui sono rinata. Ho compreso la natura che mi muoveva a sostenere questo approccio perché si tratta proprio di ritrovare la naturalezza e la gioia di stare insieme ai propri cuccioli, oltre che offrire loro tutto ciò di cui hanno bisogno per uno sviluppo sano e sereno: i propri genitori, il loro corpo, la loro disponibilità… l’esserci. E questa mia nuova consapevolezza la sto vivendo con le mie bimbe che mi insegnano a stare insieme, che mi chiedono di ascoltarle e io con le competenze “giuste” affronto serenamente e con amore le loro esigenze e la mia gioia incontenibile nel farlo.


Doris de Toni

Il “lavoro” di Istruttrice Portare i Piccoli offre una grande possibilità di arricchimento personale che viene da ogni bimbo, da ogni mamma e dalle loro storie. L’esperienza per me più emozionante fino a ora è stata l’incontro con M. e la sua mamma. Rifiutata durante la gravidanza, abbandonata alla nascita, abbandonata dalla prima famiglia adottiva dopo aver scoperto la disabilità visiva, finalmente accolta, nel vero senso della parola, da una famiglia che ha saputo cogliere le emozioni e l’estremo bisogno di contatto, di rassicurazione, di riconquista della fiducia, di sentirsi amata e accettata di questa splendida bambina dagli occhioni dolci.


“La storia con la mia bambina è un po’ speciale nel senso che dal sapere che sarei diventata la sua mamma al conoscerla è passata solo una settimana. Appena ho conosciuto la mia piccolina ho immediatamente sentito il bisogno di sentirmi un tutt’uno con lei, ma questa cosa era fisicamente difficile perché prima di tutto eravamo estranee fino a quel momento e poi perché, a causa un ingombrante divaricatore per displasia dell’anca, la sua unica posizione privilegiata era verso l’esterno. Io invece avevo bisogno di sentirla sul mio petto, di sentire il suo respiro, di guardala dormire attaccata a me ed ero convinta che anche lei ne avesse estremo bisogno.


Si è presentata così la possibilità di prendere in considerazione il mei tai. Premettendo che mia figlia odia sentirsi costretta all’interno di qualsiasi cosa e il classico marsupio non lo si poteva nemmeno provare, ero un po’ titubante rispetto al mei tai e invece la sorpresa è stata bellissima perché non ne era assolutamente infastidita e anzi, dalla prima volta che l’ho portata sul mio petto, ha cominciato a lasciarsi andare su di me mentre prima non lo faceva in quanto voleva sempre stare con il viso rivolto all’esterno; il massimo dell’emozione è stato quando si è addormentata stretta a me e finalmente ho potuto sentire il suo respiro e guardarla riposare serena. E lei ha potuto “sentire” me! Da qui l’attaccamento è diventato sempre più sicuro.


Un aspetto non meno importante è relativo al fatto che la mia piccolina è ipovedente e quindi sembra vedere a distanza molto ravvicinata. La posizione viso a viso senz’altro ci permette di avere un contatto visivo importante, anzi fondamentale, gli occhi sono meno sfuggenti in quella posizione e lei sorride ai miei sorrisi, mi osserva, mi tocca il viso.


Sicuramente il portare con il mei tai è stato un grande aiuto per instaurare un legame profondo fatto di contatto e di calore, di desiderio di sentirsi una parte dell’altra pur essendo due persone distinte.


Questa è l’esperienza finora vissuta e ora stiamo a vedere cosa accadrà!


C.


Un esempio a mio avviso di come il portare sia un mezzo, uno strumento per facilitare la relazione e in questo caso un esempio delle capacità di recupero dei bambini, della resilienza che, se accolti e ascoltati anche nella loro rabbia, i bambini sanno mettere in campo.


Serena Pirovano

L’affascinante mondo del portare ha portato a me stessa, come persona, ostetrica e istruttrice Portare i Piccoli, la straordinaria opportunità di offrire un validissimo strumento di supporto relazionale e fisico alle mamme e ai bambini che mi ritrovo ad accompagnare e a sostenere in questo meraviglioso viaggio che è la vita. Come si sa, chi ben comincia è a metà dell’opera e questo direi che è proprio un bel modo per cominciare a sperimentare il mondo dopo la nascita; e la gioia e il benessere che vedo nell’espressione di mamme, papà e bambini è il riscontro più bello per essere ricompensati della passione che si mette nel proprio lavoro e nella propria vita!


Michela Z., Vicenza

Lettera a un bambino portato

L’esperienza con la fascia è arrivata per caso. Iniziò da un’esigenza logistica. In due anni tutti i membri della mia famiglia, me compresa, avevano avuto problemi di salute che avevano messo a rischio l’esistenza di tutti e quattro. Quando mi ritrovai per la prima volta fra le braccia il mio secondo figlio ero già stanca; la primogenita aveva solo due anni e mio marito stava ancora recuperando la sua salute: mi servivano altre due braccia, ma ero sola.


Allora arrivò la fascia lunga, sentii di potermi fidare e quello che mi restituì superò le aspettative, perché era un modo di entrare in ascolto con il mio piccolo e di esprimere la mia essenza di madre che non conoscevo ancora, perché come figlia non avevo ricevuto altrettanto, e quindi non avevo avuto la possibilità di impararlo.


L’istinto materno però c’era, lì da qualche parte nel profondo di me stessa, stava urlando perché voleva essere ascoltato ancora di più rispetto alla mia prima bimba; un istinto che mia madre mi ha trasmesso, ma che lei non ha avuto la possibilità di esprimere, come io ho potuto fare, grazie a quest’esperienza.


Per farvi capire meglio, sono solo in grado di tradurre le mie emozioni con questa lettera. La dedico ai miei genitori che mi hanno dato la vita, a mio marito che mi ha reso madre, ai miei figli che mi hanno dato l’opportunità di crescere, e a Esther che mi ha insegnato ad ascoltare il mio istinto materno, come non avevo ancora imparato a fare, per poter esprimere me stessa al meglio:


“Caro cucciolo mio,

portandoti “addosso” sono riuscita a esprimere l’essenza più profonda del mio istinto materno, e ad essere tutto questo:

Sono stata la tua Terra, dove hai imparato i tuoi primi movimenti seguendo i miei.


Sono stata il tuo Tempo, scandito ascoltando il battito del mio cuore.

Sono stata il tuo Nutrimento, alimentandoti con il mio amore e il mio seno.


Sono stata le tue prime Emozioni, attraverso i cambiamenti del mio respiro hai cominciato a conoscere la gioia e il dolore, l’inquietudine e la serenità.


Sono stata la tua Sicurezza, giorno per giorno, in qualsiasi situazione ci trovassimo, il mio corpo diventava un filtro da cui cominciavi a “spiare” il mondo, ti bastava solo starmi accanto.


Sono stata il tuo Spazio, dove percepire i confini del tuo piccolo corpo a contatto con il mio; e infine, amore mio, non ti dirò che sono stata la tua culla preferita, ma permettimi, ti dirò di più: sono stata la Custode dei tuoi sogni, perché solo quando dormivi in fascia assumevi quell’espressione che albergherà per sempre nella mia mente: il tuo volto si trasfigurava nella pace assoluta, eri così vicino a me eppure così lontano, sembrava che in quegli attimi, stessi tornando da quel luogo irraggiungibile da cui sei venuto, sembrava che in quegli attimi, potessi regalarmi un po’ di ciò che sei stato quando ancora non eri mio.


Grazie cuccioli miei per avermi permesso di essere così importante, per sempre, la vostra mamma.”


Beatrice Perinelli

Portare i piccoli - Seconda edizione
Portare i piccoli - Seconda edizione
Esther Weber
Un modo antico, moderno e… comodo per stare insieme.Tecniche, consigli e suggerimenti per portare i bimbi in fascia o nel marsupio, per stare insieme e rafforzare il legame con i piccoli fin dalla nascita. Da diversi anni, la modalità di portare i bambini addosso è un fenomeno in crescita anche nel nostro Paese.L’autrice Esther Weber, svizzera e madre di due bambine, è socia fondatrice e presidente dell’associazione Portare i piccoli, che promuove in Italia la cultura del portare attraverso l’informazione e la formazione ad operatori della prima infanzia.Il libro Portare i piccoli chiarisce che portare, oltre a essere una pratica antica tuttora presente in molte parti del mondo, è una modalità rispettosa e adatta alla relazione tra genitori e figli anche nella realtà occidentale, e lo fa rispondendo in maniera pronta e sicura ai molti quesiti pratici di chi porta, offrendo una disamina oggettiva sia sui supporti ausiliari reperibili (fasce porta bebè, marsupi, zaini porta-bambini), sia sulle tecniche più semplici che le neomamme e i neopapà possono adottare. Conosci l’autore Esther Weber, svizzera tedesca, è madre di due bambine e vive in Italia dal 1995.Dal 2001, anno della nascita della prima figlia, si dedica al tema del "portare i piccoli". Ha progettato e realizzato interamente il sito indipendente di informazione www.portareipiccoli.it.È socia fondatrice dell’associazione “Portare i piccoli”, che promuove in Italia la cultura del portare attraverso l'informazione accurata e indipendente e una formazione di qualità. Tiene incontri informativi e corsi per genitori. È consulente per la formazione al portare a operatori della prima infanzia.