capitolo iii

Fisiologia del portare applicata

Nel capitolo precedente (Fisiologia del portare) è stata esposta e illustrata teoricamente tramite i quattro elementi contatto, movimento, spazio e legame.


Ora si torna alla pratica di come la fisiologia del portare può essere vissuta concretamente nella realtà. Questo passo è logico quanto indispensabile (qualcuno dirà che finalmente si arriva agli aspetti concreti), perché si tratta di una pratica e la teoria prima esposta è nata da essa e non viceversa.


A questo punto devo fare due avvertimenti per non creare delle aspettative sbagliate nei confronti di questo capitolo e del prossimo. Il primo è che principalmente parlare o scrivere degli aspetti pratici di una pratica costituisce di per sé un controsenso, perché per comprendere veramente il portare bisogna provare, passare dalle proprie esperienze e affrontare praticamente il proprio, personale, individuale percorso. Nessun libro potrà mai sostituire l’esperienza pratica e neppure dare risposte esaurienti e cancellare dubbi e incertezze a priori sulla carta. Inoltre questo libro non è un manuale d’uso e non cercherà di dare risposte semplici e consigli d’uso universali per tutti.


Il secondo avvertimento si riferisce al fatto che la pratica occidentale del portare è una pratica giovane, in fase di sviluppo, che si deve ancora confermare attraverso un vissuto sperimentale più ampio e affermare nel tempo e nei diversi ambiti e ambienti di vita reale. Questo comporta una naturale apertura generale degli aspetti esposti nella discussione. Con il tempo, sulla base dell’esperienza di un numero crescente di genitori che portano, sicuramente ci saranno degli sviluppi ulteriori.


Il capitolo è strutturato in modo tale che nella prima parte III.1. espongo gli aspetti pratici in generale con un’attenzione particolare ai sottocapitoli portare e pianto e portare e sonno. Ho dedicato poi il capitolo III.2. al portare con la fascia lunga, non perché si tratti del supporto migliore, ma perché evidenzia al meglio la fisiologia del portare e perché merita semplicemente un capitolo a sé. D’altronde la mia esperienza si riferisce soprattutto alla fascia lunga e il concetto della fisiologia del portare è nato sulla base di questa. Il capitolo III.3. infine si occuperà di alcuni casi particolari, in cui il portare è indicato come supporto alla prevenzione o alla terapia.

III.1. ASPETTI PRATICI IN GENERALE

III.1.1. Come portare

La posizione

Le posizioni fisiologiche sul corpo del genitore sono sostanzialmente tre: davanti, sul fianco e dietro, mentre per il bambino sono due: sdraiato (orizzontale) o seduto (verticale).


La posizione orizzontale del neonato è largamente ritenuta fisiologica, mentre per la posizione verticale precoce vengono spesso avanzati dei dubbi rispetto alla postura del bambino. Se sembra confermato che non ci siano controindicazioni nel portare un bambino in posizione verticale dalla nascita in braccio e dentro un supporto adatto,1 si presume, anche se mancano studi specifici, che invece una posizione verticale precoce in un supporto non adatto possa potenzialmente essere dannosa per la postura, le anche e i genitali del bambino.

Una corretta posizione verticale del bambino si ottiene:

  • quando il corpo (tronco) del bambino è appoggiato al corpo del genitore e sostenuto dal supporto (non passa la mano tra i due corpi).

  • quando le gambe del bambino sono aperte “a rana”, in modo che le sue ginocchia stiano più in alto del bacino/sedere.

  • quando la testa del bambino può essere sostenuta.

  • quando il sedere del bambino è al livello dell’ombelico di chi porta.


Queste regole valgono per tutte le posizioni, davanti, di fianco e dietro, e per tutti i supporti. All’inizio, una volta indossato il bambino, è sempre bene controllare allo specchio se la posizione è fisiologica o se deve essere corretta.


Sicuro = vicino

Un importante aspetto della pratica occidentale del portare è di tenere conto (e non ignorare) e di accettare il proprio bisogno di sicurezza, misurabile e razionale. Non potendo attingere a un proprio vissuto di contatto portato e alle sensazioni corporee a esso connesse, la sicurezza per chi porta inizialmente non può essere altro che un valore razionale. Ciò significa che bisogna sapere che il supporto tiene, sapere che il bambino non può cadere fuori, che non subisca dei danni dalla postura, che non soffochi. Prima di sentirsi sicuri bisogna sapersi razionalmente sicuri. Per questo motivo un supporto strutturato e le tecniche per annodare un supporto non strutturato devono essere razionalmente sicuri.


Come si arriva alla sicurezza sentita?

Come abbiamo visto precedentemente, per il bambino la sicurezza si esplicita soprattutto attraverso la vicinanza fisica. Solo se è sufficientemente vicino il bambino si sentirà sicuro, mentre se “balla” dentro un supporto si sentirà insicuro e non tenuto adeguatamente, protestando non tanto perché sta stretto, ma perché sta troppo largo.


Il genitore invece deve conquistare il senso di sicurezza un po’ alla volta passando, come detto prima, dal sapere per arrivare al sentire. Anche per lui comunque il grado di sicurezza acquisita sarà commisurato al fatto che riesca a portare il bambino senza avere la sensazione di dover sostenere il corpo del bambino nel supporto. Questo premette l’uso di un supporto adeguato che permetta di legare il bambino così vicino da sentire di avere entrambe le mani libere. Solo in questo momento il sostegno sarà adeguato.

Il controllo visivo

Per controllare all’inizio la posizione è bene guardarsi allo specchio (a casa e nelle vetrine dei negozi per esempio) e munirsi di un specchietto da tasca (per le posizioni sulla schiena), che può fare da retrovisore. Questo sguardo di controllo può fare la differenza per potersi rilassare completamente!


Principio base: portare alto e vicino

Sicuramente, per chi soffre di mal di schiena, scoliosi o altre deformazioni posturali, il pensiero di portare non è allettante. Comunque va detto che è molto più faticoso tenere in braccio un bambino piuttosto che tenerlo in un supporto ausiliario adatto. Chi deve salvaguardare la propria schiena dovrebbe imparare al più presto l’uso corretto di un supporto ausiliario, che distribuisca il peso su spalle e dorso in modo equo e che lasci libere le braccia. Dovrebbe portare il meno possibile in braccio, per evitare affaticamento del trapezio, dei tendini e delle contrazioni muscolari dorsali.


Le esperte del portare non hanno dubbi: l’uso corretto della fascia lunga porta a legare il bambino in alto: “dal proprio ombelico in su”; e vicino: “non deve passare la mano tra i due corpi”. In questo modo il baricentro della madre si sposta in modo non significativo in avanti, il bambino è “incollato” a lei e insieme diventano un corpo unico.

Anche quando il bambino sarà più grande, portato sul fianco e sulla schiena, sarà essenziale legare la fascia così stretta che il bambino aderisca perfettamente al corpo della madre.

Questo principio vale per tutti gli altri supporti; infatti sono validi solo quelli regolabili in altezza e in larghezza.2
III.1.2. Dove portare?

Praticamente non ci sono delimitazioni spaziali; portare si può in casa per fare i mestieri, e fuori, durante una passeggiata in campagna, in città, sull’autobus.


In casa portare permette di vivere e di soddisfare il bisogno di contatto e di stimolazione sensoriale del vostro bambino, lasciando che partecipi alle attività quotidiane. Inoltre permette di occuparsi dell’altro fratello mentre il piccolo si fa una buona dormita lunga.


Fuori si apprezzano passeggiate “leggere” senza l’ingombro della carrozzina o del passeggino, in campagna e in montagna. In città si gode della libertà di movimento per salire e scendere le scalinate, per entrare nei negozi e negli uffici senza difficoltà, per fare meglio la coda e passare tempi di attesa con un bambino tranquillo, per sapere il bambino protetto dai tubi di scarico delle auto e saperlo al sicuro quando si passa sulle strisce pedonali.

Per motivi ovvi di sicurezza e non solo perché lo prevede il codice stradale, l’unico posto dove è assolutamente vietato portare addosso il bambino è in macchina. Si immagini solo la scena di un tamponamento al semaforo a 20 km/h mentre si sta seduti sul sedile posteriore con il bambino nella fascia:3 sarà inevitabile sbattere contro il sedile anteriore usando il bambino come airbag. Ogni altro commento dovrebbe essere superfluo. La macchina è l’unico spazio e momento in cui l’“ovetto” o il seggiolino omologato è indispensabile.
III.1.3. Quanto portare?

Spesso i genitori nei corsi, nelle email e nelle consulenze telefoniche mi chiedono quanto devono portare il proprio bambino. La domanda in sé esprime un approccio che tende a un’“ideologia del contatto”. Grazia de Fiore, nel suo libro Portare i bambini, dedica il secondo capitolo a questa domanda e afferma: “Se desiderate tenere il vostro bambino su di voi 24 ore su 24, sentitevi liberi di farlo”.4 Giustamente cerca di smontare, tramite la raccolta di varie nozioni e conoscenze scientifiche, la credenza e la paura che troppo contatto possa danneggiare o viziare in qualche modo il bambino e che al contrario la cosa più naturale e fisiologica sia di starci continuamente a contatto. Sebbene a livello teorico possa essere d’accordo con lei, credo che realmente sia una cosa improponibile e un approccio destinato a fallire. Nessuna madre può pensare di poter stare continuamente a contatto con il suo bambino senza arrivare, chi prima chi dopo, al limite in cui dovrà staccare il bambino per forza, a volte all’improvviso, procurandogli magari il trauma che avrebbe voluto a tutti i costi evitargli attraverso il suo approccio a contatto continuo.


Abbiamo visto nei capitoli precedenti che per i genitori non è semplice restare in ascolto. Anche un approccio a contatto non automaticamente è un vero approccio ad ascolto.5


La modalità del portare fa riferimento solo all’ascolto reciproco, e l’unico valore costante è che il quanto non è misurabile.6 Inoltre, la parola “dovere” nel contesto del portare è un controsenso irrisolvibile. Non si deve proprio nulla, ma si può!

III.1.4. Portare e pianto

Tutti i neonati, in tutte le culture, anche nelle società ad alto contatto, piangono. L’unica cosa che cambia, e in modo significativo, è la durata degli intervalli tra un pianto e l’altro e la risposta da parte delle persone che se ne prendono cura. Nella maggior parte delle società tradizionali ad alto contatto i bambini piangono meno di cinque minuti al giorno,7 mentre oggi in Europa il pianto dei primi tre/quattro mesi è il maggiore problema con cui i pediatri si devono confrontare e che non sanno curare.8 Sembra una vera emergenza. Dal 2002 le parole infant crying (pianto del neonato, colica del neonato) sono al primo posto delle parole più digitate nei motori di ricerca per arrivare al sito di portareipiccoli.it.


Ma qual è il significato del pianto? Perché piangono i bambini? Perché ci sono bambini che piangono più di altri e cosa significa?

Il significato del pianto dei bambini

Come delineato nel concetto biologico del portare, il pianto è una modalità di comunicazione molto forte, un segnale di allarme, che indica una situazione di stress del bambino, e che richiede l’immediato intervento da parte dei genitori che si prendono cura di lui. Questa modalità comunicativa non dovrebbe essere considerata normale, ma eccezionale.9 Non è affatto vero che un po’ di pianto non ha mai danneggiato nessuno. Questo pianto impegna e disperde molte energie del bambino, riducendo sensibilmente l’ossigenazione sanguigna con effetti negativi sull’ossigenazione cerebrale, ed è un’esperienza limite che può essere considerata potenzialmente dannosa per l’organismo del bambino.10 È il pianto che nella persona di riferimento porta a una reazione biochimica di allerta che la spinge ad agire immediatamente e a prendere il bambino in braccio!11

“Appena lo metto giù si sveglia e piange. Lo prendo in braccio e si riaddormenta serenamente. Ecco che ha preso il vizio!” Affermazioni di questo tipo sono molto frequenti tra i neogenitori. Spesso sono espressioni di disagio e di enorme fatica di fronte al figlio che esige di stare in braccio.


Ma sono bambini realmente molto esigenti? E se avessero solo un comportamento del tutto fisiologico perché stare vicino ai propri genitori è la condizione più naturale e che corrisponde ai loro bisogni innati?


Prendere il bambino in braccio, portarlo vicino significa rispondere in modo naturale ai suoi bisogni fisiologici. Mai si dovrebbe lasciar piangere un bambino!

E se il bambino in braccio continua a piangere?

Qui approdiamo al problema del pianto dei primi mesi, che comunemente viene chiamato “colica”, ma sebbene sia un termine utilizzato nella letteratura medica non indica prevalentemente un sintomo organico-fisico (cioè mal di pancia), ma è il termine per una sintomatologia clinica tipica di pianto eccessivo. Infatti meno del 5% dei bambini che piangono in modo eccessivo soffrono di un sintomo organico, problemi di digestione, allergie e di effettive coliche gassose, mentre la maggioranza (95%) piange per motivi sconosciuti.12 Questo non significa che non ci sia un motivo reale perché non si debba ascoltare; anche cause “sconosciute” sono sempre da considerare seriamente.

Il pianto eccessivo

Per definire il pianto eccessivo la regola dei 3 di Morris Wessel si è rivelata valida fino a oggi: un bambino piange in modo eccessivo quando piange per più di tre ore al giorno per più di tre giorni alla settimana per più di tre settimane di seguito.


Questa quantità di pianto è associata a una serie di caratteristiche tipiche:13

  • inizia a 2 settimane e finisce verso i quattro mesi

  • il picco di maggior pianto si registra a circa 2 mesi (6 settimane)

  • i bambini sono inconsolabili

  • l’intervallo di pianto dura da 30 a 40 minuti o di più

  • il pianto può sorgere all’improvviso senza motivo apparente

  • il pianto è soprattutto serale (ore 17-24)

  • il bambino ha un’espressione di dolore, tira le gambe, inarca la schiena, rilascia aria.

La differenza tra un bambino con pianto eccessivo e uno con pianto normale sta soprattutto nella durata del pianto e non nella frequenza. I bambini “normali” sono più consolabili, si lasciano confortare quando vengono presi in braccio, mentre i bambini con coliche una volta che piangono difficilmente si lasciano consolare, anche se hanno una madre attenta e sensibile.


Sono state avanzate molte teorie per spiegarne le cause, l’origine, i fattori di rischio e la letteratura scientifica sul tema è ampia e diversificata. Tuttavia, ad oggi, non si è trovata una spiegazione certa delle cause del pianto eccessivo né dei metodi di trattamento specifici, ma si crede che il pianto dei primi tre mesi abbia la funzione fisiologica di scaricare la tensione del sistema nervoso immaturo del bambino, sovraccarico a fine giornata.

Sembra che i bambini che piangono in modo eccessivo non abbiano necessariamente un carattere difficile oppure dei problemi organici (allergie al latte, reflusso gastroesofageo), ma abbiano maggiori difficoltà ad adattarsi alla vita extrauterina. Infatti sono più sensibili, hanno reazioni più intense e tendono a reagire “a scatto”, hanno una minore capacità di autoregolarsi, hanno bisogno di maggiore aiuto dall’esterno per regolare le diverse fasi durante la giornata; dal sonno alla veglia, dallo stato di attenzione a uno stato di rilassamento interno,14 tutto questo dovuto a un’immaturità neurologica fisiologica, che nella maggior parte dei casi si risolve nei primi quattro mesi.


L’ipotesi che il pianto eccessivo fosse un sintomo di un’interazione non ottimale tra genitori e bambini non ha trovato conferma definitiva, anche se in alcune ricerche sono stati determinati degli squilibri nei fattori psicosociali delle situazioni con pianto eccessivo.


Uno studio15 eseguito a Monaco nella Münchner Sprechstunde für Schreibabies (“sportello per bambini con pianto eccessivo”) con 63 bambini che piangono in modo inconsolabile e 43 bambini nel gruppo di controllo dimostra che nel gruppo dei bambini con pianto eccessivo c’era un accumulo significativo di rischi psicosociali e organici, inclusi un alto livello di stress prenatale, stati ansiosi della madre e conflitti con il partner. Le madri del gruppo di bambini che piangevano si sentivano meno competenti e avevano forti sentimenti di esaurimento, depressione, stati d’ansia, propri vissuti infantili pesanti e problemi di coppia. Un’origine organica (per esempio intolleranza ai latticini) si trovava solo in pochi. Dal punto di vista neurologico, più della metà (51%) dei bambini che piangevano evidenziavano problemi, contro un 22% degli altri. Un’immaturità della regolazione del ritmo sonnoveglia, degli stati di eccitazione e degli stati “tranquilli” dei bambini con pianto eccessivo era considerevole. Si conclude che nel campione esaminato si trovava un’alta concentrazione di fattori psicosociali. I pediatri potrebbero, attraverso una diagnosi precoce e una consulenza adeguata (l’invio a competenze specializzate), prevenire futuri problemi relazionali ed evolutivi.


Un altro studio recentissimo16 dimostra che effettivamente i bambini di madri che hanno subìto traumi o eventi negativi in gravidanza piangevano di più durante i primi sei mesi di vita, particolarmente a 3 e 5 mesi (e non necessariamente nelle primissime settimane). Si conclude che lo stato emotivo della madre in gravidanza dovrebbe sempre essere considerato e se necessario dovrebbe ricevere un supporto professionale adeguato.


Ma non c’è dubbio che a volte la relazione madre-bambino soffre proprio in seguito al pianto eccessivo del bambino. Detto senza indugio: i bambini che piangono molto portano i genitori al limite della sopportazione. La percentuale di bambini scossi e percossi è di 25-40 su 100.000. La causa numero uno per lo scuotimento, provocando la morte o danni irreversibili, è il pianto inconsolabile.17 Tutti gli esperti si trovano d’accordo nel sostenere che famiglie con bambini che piangono in modo eccessivo hanno bisogno di supporto e di aiuto professionale per reggere lo stress della situazione.

Nella lingua tedesca negli ultimi anni si è affermato il termine Schreibaby per un bambino che piange eccessivamente, e a Berlino, a Bremen, a Monaco e in altre parti della Germania esistono sportelli (cosiddetti Schreiambulanz) a cui si possono rivolgere genitori disperati con bambini ad alto bisogno che piangono, che non dormono e che hanno problemi di alimentazione, e dove ricevono supporto emozionale che aiuti ad abbassare il livello di stress e di tensione e a riequilibrare la relazione di sofferenza.

E in Italia?

Purtroppo i dati non sono confortanti; centri specifici per ricevere aiuto con un bambino che piange in modo eccessivo sono ancora rarissimi.18 Anche se il tema del pianto è onnipresente, troppo spesso ancora viene avanzata la teoria organica (intolleranze, allergie, mal di pancia) e prevalgono i trattamenti meccanici oppure farmacologici. Un’informazione adeguata e aggiornata rispetto al pianto eccessivo da parte dei pediatri, le figure di maggiore riferimento dei neogenitori, sarebbe molto importante.


Un buon indirizzo a cui rivolgersi possono essere i consultori familiari, dove le ostetriche del distretto sono disponibili per madri e bambini nei primi mesi dopo il parto e in caso di necessità sapranno dare indicazioni su dove chiedere ulteriore supporto specifico. Mai si dovrebbe esitare a chiedere aiuto in una tale situazione e a rivolgersi a una persona di fiducia!

Portare per rispondere al pianto eccessivo

Nel suo famoso e omni citato studio randomizzato,19 il pediatra svizzero Urs A. Hunziker, insieme a un gruppo di scienziati, ha voluto comprendere se i bambini portati (per due ore al giorno in un supporto ausiliario) piangessero meno dei bambini non portati. Allo studio hanno partecipato 99 coppie di madri con bambini che piangevano nelle misure normali.


I risultati erano impressionanti: i bambini portati piangevano complessivamente il 48% del tempo in meno dei bambini non portati. Alla sesta settimana, i bambini portati per due ore avevano un tempo di pianto ridotto del 43% complessivo (un’ora) mentre il pianto serale addirittura si era ridotto del 51%. Il sonno e la durata delle poppate invece rimanevano invariati.


Gli scienziati avevano concluso lo studio affermando che la pratica del portare soddisfa il bisogno di contatto del bambino piccolo e che il non portare invece potrebbe predisporlo al pianto e alle coliche.


Nel 1991, in uno studio successivo20 effettuato su bambini che invece piangevano in modo eccessivo, si cercava di individuare se portare avesse lo stesso effetto di ridurre il pianto eccessivo. Alla sesta settimana, quando ci si aspettava la maggior riduzione, i bambini che venivano portati oltre due ore in più del gruppo di controllo piangevano solo 3 minuti di meno degli altri. Pertanto si è concluso che portare non riduce il pianto eccessivo dei bambini. Questo potrebbe dipendere dal fatto che i bambini con pianto eccessivo hanno maggiori difficoltà nella regolazione dei propri stati.


Successivamente, in altri due studi,21 non è stata confermata neppure l’efficacia del portare rispetto al pianto dei bambini “normali”.


Portare quindi non può essere considerata una terapia efficace per evitare il pianto o per rispondere al pianto eccessivo. Ma discussione scientifica a parte, chi è passato dall’esperienza di un bambino che piange molto sa che si cerca di fare qualsiasi cosa per rasserenarlo e per consolarlo. È decisamente molto difficile sopportare il proprio bambino che piange!


Aletha Solter,22 psicologa americana e fondatrice dell’Aware Child Institute, propone una visione diversa del pianto dei bambini affermando che il pianto può essere un importante meccanismo per sciogliere tensioni e per scaricare stress. Dal punto di vista biochimico significa che nelle lacrime ci sono ormoni e neurotrasmettitori che si trovano nel nostro corpo quando deve reagire a una situazione di stress. Quando la situazione di stress si è risolta, queste sostanze hanno bisogno di essere buttate fuori altrimenti manterrebbero il corpo in uno stato di eccitazione e di tensione. Il pianto aiuterebbe il corpo a riequilibrarsi dopo una situazione di stress. Frey23 ipotizza che la repressione del pianto potrebbe portare a una maggiore fragilità per problemi psichici e fisici. Crepeau24 conferma che persone sane piangono molto di più e dimostrano un atteggiamento più positivo nei confronti della vita rispetto a persone che soffrono di ulcere e coliti. Bambini traumatizzati migliorano in modo significativo la loro situazione nelle terapie che favoriscono il pianto.25


Sembra che la capacità di piangere sia un meccanismo di guarigione innato e fisiologico per gli esseri umani. Ma presumiamo che sia così, lo è già per i neonati, che tra l’altro piangono senza lacrime? Si può affermare che il pianto abbia lo stesso valore per loro?


Solter propone di “ascoltare” i bambini, tenendoli a contatto, vicini, ma senza fare altri interventi attivi di diversivo o di consolazione (ciuccio, seno, camminare, cullare). Importante sarebbe dare al bambino il pieno permesso di piangere! Secondo la Solter, molti genitori non riescono ad ascoltare il pianto dei loro bambini perché anche loro da piccoli sono stati “taciuti” tramite gli schemi di controllo26 e non accolti nell’espressione del loro dolore (per esempio per una gravidanza difficile o un parto traumatico).


Di recente il pediatra spagnolo Gonzalez27 ha criticato aspramente la teoria della Solter perché secondo lui ripropone con un vestito nuovo ma altrettanto crudele la vecchia formula “lasciare piangere per farsi i polmoni”. Giustamente possiamo chiederci come la madre possa sapere perché il suo bambino piange; ha bisogno di sfogarsi per qualcosa che ha subìto oppure ha un altro bisogno non soddisfatto? Se partiamo dal presupposto che il bambino piange per segnalare un disagio e per richiamare l’attenzione del genitore e per chiedere aiuto, allora l’ascolto non deve essere passivo.

Credo che il tema del pianto sia un tema molto delicato, dove è pericoloso dare ricette di “cosa fare se piange il bambino”. Non dobbiamo mai dimenticare che il pianto del bambino, innanzitutto, commuove internamente e fa reagire di conseguenza con altrettante emozioni. In questo senso sono convinta che ascoltare il bambino, lasciare che si possa esprimere e accettarlo non significa lasciarlo piangere. Cercare di consolarlo non significa cercare di farlo tacere perché non si sopporta il suo pianto.


In questo contesto ho sperimentato, e come me molti genitori, che portare è un ottima modalità di “mediazione” proprio nei momenti del pianto; perché dà un contatto che conforta, un movimento che aiuta a equilibrarsi, uno spazio dove il bambino può essere se stesso e che il genitore è in grado di ascoltare e di rispettare.


Portare non sarà una terapia scientificamente efficace per “risolvere” il pianto, ma può essere ritenuta senz’altro un’ottima modalità per ascoltare e supportare il bambino quando piange senza lasciarsi sopraffare dalle proprie emozioni. Portare permette di stare vicino al bambino accettandolo in pieno anche in quel particolare momento.

III.1.5. Portare e sonno

Addormentarsi addosso

La maggior parte dei bambini neonati portati addosso si addormenta in un tempo sorprendentemente veloce. (Questo rapido addormentamento ha contribuito molto alla fama della fascia lunga di essere “magica”.) Sembra che le condizioni di contatto, movimento e contenimento spaziale addosso al corpo caldo del genitore siano estremamente favorevoli per abbassare tensioni muscolari e per il rilassamento del bambino. Una madre racconta: “Il mio bambino finora si è addormentato solo al seno, ma ora piomba nel sonno appena dentro la fascia”.

Dormire addosso o metterlo giù per dormire?

“Il mio bambino si addormenta profondamente nella fascia, ma quando lo metto giù, anche se molto piano, si sveglia e piange. Se lo infilo nuovamente nella fascia continua a dormire. Sbaglio qualcosa?”


Innanzitutto va detto che è fisiologico che nei primi mesi di vita il bambino che si è addormentato a contatto (in braccio o nella fascia) si svegli dopo poco che viene messo giù. La sua natura di portato lo sveglia, registrando di non trovarsi più nella condizione sicura e protetta vicino al corpo del genitore e mettendolo in uno stato d’allarme. Questo spiega perché si riaddormenta tranquillamente quando viene rimesso nella fascia.

Dal punto di vista posturale non ci sono problemi se il bambino dorme addosso. Se invece si preferisce metterlo giù c’è un altro aspetto da considerare che ho imparato grazie all’approccio del Infant Handling.28


Quando si mette giù un bambino neonato, spesso lo si fa in modo sbagliato, cioè provocandogli involontariamente il risveglio perché si fa scattare il suo sistema d’allarme interno. Infatti qual è la modalità con cui si mette giù il bambino? Lo si tira fuori dal supporto e lo si posa piano piano nella sua culla, tenendolo come un vassoio davanti a sé.

Purtroppo, in questo modo si simula una caduta libera che è lo stimolo che fa scattare il riflesso di Moro e il risveglio.


Per dare al bambino almeno una possibilità di continuare a dormire bisogna tenerlo il più possibile ancora a contatto sporgendosi nella culla; quindi posarlo sulla superficie del materasso in modo che tocchino prima i piedi e le gambe, poi il sedere, poi la schiena e infine la testa. È la stessa modalità che usiamo anche noi adulti quando ci sdraiamo sul letto!


Se il bambino si è addormentato sulla schiena è più semplice metterlo giù in questo modo. Basta sedersi sul letto, avvicinare il proprio busto al materasso (fa bene agli addominali) e sfilare le bretelle della fascia; così il bambino “tocca terra” naturalmente (con la sequenza descritta) e continua a dormire. Ora si può slegare il nodo davanti e coprire il bambino con la fascia.


Vorrei invitare tutti i genitori ad avere pazienza se all’inizio (i primi sei/ otto mesi) il bambino si sveglia quando lo si mette giù. Probabilmente non è ancora pronto per dormire a lungo nel suo letto da solo, perché ha ancora bisogno della conferma della vostra presenza. Abbiamo comunque osservato che all’anno di vita la maggior parte dei bambini si lascia mettere giù tranquillamente, perché stanno nella fascia solo per addormentarsi, ma poi apprezzano anche il loro letto per farsi una bella dormita in pace. È tutta una questione di tempi in linea con lo sviluppo del bambino. Nessun bambino ha continuato a dormire nella fascia per sempre!

Portare di notte?

I neonati non fanno differenza tra il contatto durante il giorno e quello durante la notte, e giustamente non capiscono perché di notte non dovrebbero stare vicini ai loro genitori. Ci sono neonati che sono molto irrequieti e di notte faticano a dormire (si svegliano e piangono anche dopo la poppata); non gli basta neppure stare accanto ai genitori nel lettone, ma sono sereni (e si addormentano profondamente) solo a contatto completo, sulla loro pancia. In questi casi può essere un aiuto tenerli per alcune settimane anche la notte nella fascia lunga.


“Ma se ora dorme solo così, come andrà finire fra qualche anno?” Questa paura attribuisce al tempo un valore totale ma del tutto irrealistico. I bambini, con la loro spinta fisiologica a crescere e a diventare individui indipendenti, rimarranno vicini ai genitori solo finché ne sentiranno il bisogno. Poi se ne andranno. Questo succede anche con il sonno. Il bambino chiederà di essere rassicurato finché ne sentirà il bisogno, infine quando sarà maturo comincerà a dormire tutta la notte, apprezzando anche il proprio letto. Sono le nostre aspettative che spesso non combaciano con quelle del bambino e con i suoi tempi di maturazione.

Questo vale per lo spazio (culla, lettone, proprio letto) e per il tempo (4 o 18 o 40 mesi). È assolutamente fisiologico che un bambino neonato cerchi il contatto notturno con i genitori e che abbia frequenti risvegli fino a 5 anni di età (e non 5 settimane). L’aspettativa che apprezzi la sua culla a 6 settimane come proprio spazio individuale è un’aspettativa dei genitori; come pure l’aspettativa che dorma tutta la notte a 3 mesi. Purtroppo da parte di molti pediatri viene rafforzata questa visione instillando nei genitori un senso di inadeguatezza per il fatto che il proprio bambino soffre di problemi di insonnia, un disturbo diffusissimo che tra l’altro può essere curato facilmente tramite un semplice metodo che “insegna al bambino a dormire”.29

Senza entrare in merito alle teorie sul sonno né al tema del co-sleeping (dormire insieme), che qui non posso trattare perché oltrepasserebbero la cornice di questo libro, credo che tutte le lotte che instauriamo con il nostro bambino, se vogliamo abituarlo a modelli, situazioni e luoghi che riteniamo giusti noi e che forse sono a nostro vantaggio ma non corrispondono ai suoi bisogni veri, siano delle immense dispersioni di energia per entrambe le parti.

Energie che il bambino deve impegnare per farsi ascoltare (continua a piangere) e che non può più impegnare per crescere, ed energie che i genitori perdono e di cui avrebbero ampiamente bisogno per rimanere in ascolto del loro bambino.


Portare significa ascoltare il proprio bambino, sempre, anche di notte, e rispondere ai suoi bisogni, e ha aiutato e aiuta molti genitori a rivedere le loro convinzioni acquisite sul sonno notturno per fare posto a un vero ascolto e a soluzioni individuali.

III.1.6. Portare e allattamento

“Esiste una posizione per portare allattando o per allattare portando? Il mio bambino vuole stare attaccato al seno sempre, e comunque potrei fare dell’altro mentre lui poppa?” Certamente esistono posizioni valide che permettono di allattare in tutta discrezione anche in pubblico.


A questo proposito invito comunque a riflettere sul fatto che l’allattamento come il portare sono entrambe modalità per nutrire il bambino di contatto, di coccole, di stimoli tattili, di amore. Ne troviamo conferma anche nella realtà osservata, in cui neonati che prima stavano attaccati al seno sempre, nel momento in cui cominciavano a essere portati iniziavano a fare delle pause tra le poppate (normalmente per la gioia della madre). Questo perché prima avevano la possibilità di riempirsi al meglio di contatto, coccole, movimento, calore e stimoli solo quando erano attaccati al seno, dato che nei momenti non-seno erano messi giù.


Allattamento e portare sono quindi due modalità di nutrimento che si completano e si alternano. Il bambino che riceve nutrimento di contatto, movimento, sicurezza addosso al corpo del genitore non ha bisogno di avere continuamente il capezzolo in bocca.

Ma c’è un altro aspetto che differenzia le due modalità. Al contrario del portare, l’allattamento è un momento di nutrimento (e di riposo) per entrambi che esclude altre attività parallele. Durante la poppata anche la madre si siede e si prende il tempo per una pausa.30 Il bambino in questo momento ce l’ha tutta per sé. Questo si osserva soprattutto nei neonati (i primi mesi) che giustamente non vogliono condividere la loro madre durante la poppata neanche con il telefono. Per questo motivo non consiglio di portare abitualmente il bambino nella posizione per allattare al volo.
La posizione dell’allattamento

  • sdraiata

Il supporto ausiliario deve sostenere il corpo del bambino nella posizione dell’allattamento (sdraiata, pancia contro pancia, testa in linea con il corpo, la bocca vicino al capezzolo) in modo che si possa attaccare al seno senza ulteriore sostengo (del seno, della testa). Con qualsiasi supporto si provi ad allattare sarà indispensabile provare e riprovare per prendere la mano. Più piccolo è il bambino più pazienza ci vorrà per trovare la posizione comoda.

  • verticale

Un bambino più grande si potrà attaccare al seno quando è portato sul fianco. Siccome però nella posizione sul fianco sarà seduto troppo “in alto” per prendere comodamente il seno, la posizione deve essere un po’ adeguata: o si tira il seno in alto e lui si ingobbisce per prenderlo oppure si allenta temporaneamente il supporto in modo che si abbassi la sua seduta e riesca quindi a prendere il capezzolo comodamente. Dopo la poppata è importante ricollocare il bambino nella posizione fianco normale.

III.1.7. Portare e clima

D’inverno fa troppo freddo?

Il neonato è più al riparo se viene portato sotto la propria giacca. Meno vestiti ci sono tra i due corpi, meglio funziona la termoregolazione e la temperatura corporea del bambino rimane stabile. Vestirsi poco (con maglietta di cotone) e vestirlo poco (con tutina) è sufficiente se si porta con la fascia che avvolge entrambi i corpi. La giacca o il mantello vengono indossati sopra. Generalmente solo le parti che “spuntano” dalla fascia hanno bisogno di un’ulteriore copertura. Infatti è importante mettere al bambino un cappellino avvolgente per evitare la dispersione di calore dalla testa. I piedi e le gambe invece sono all’interno della fascia oppure vanno protetti da calze o scarpine di lana.

Il bambino più grandicello, da 4 mesi in poi, che viene portato sul fianco o sulla schiena, può stare anche sopra la giacca. In questo caso deve essere vestito con una tuta calda intera (meglio se in lana cotta e non di tessuti sintetici), perché non avviene nessuno scambio termico tra lui e chi porta. Pertanto è indispensabile controllargli al tatto e di frequente la temperatura delle gambe e dei piedi.


Al bambino portato sulla schiena una giacca per due o un mantello con apertura dorsale (per esempio tramite zip) può garantire una maggiore protezione dal freddo e fornisce anche d’inverno un ottimo comfort per entrambi.

D’estate fa troppo caldo?

“Il mio bambino, quando lo tiro fuori dalla fascia, è fradicio di sudore e anch’io sono tutta bagnata. Ho paura che possa prendere freddo e ammalarsi.”

Non ci sono dubbi che quando si porta d’estate si sente di più il caldo e si suda. Chi soffre molto il caldo farà quindi maggior fatica a portare il suo bambino perché si sentirà avvampare, soprattutto nella posizione frontale davanti.


Spesso si tende a responsabilizzare la fascia stessa delle sensazioni di caldo che si provano e del sudore che cola tra i due corpi, e si va in cerca della “fascia fresca”. Ma si tratta di un’impressione. Come abbiamo visto nel capitolo contatto, sono i due corpi impegnati nello scambio termico e nell’intento di tenere stabile la temperatura corporea i responsabili della sudorazione. Quando la temperatura ambientale è alta, per regolare la temperatura corporea la madre cerca di tenere stabile la temperatura periferica del bambino, scaricando l’eccesso di calore tramite la sudorazione, bagnando anche il bambino con il proprio sudore.31 (Infatti i due corpi sono sempre bagnati laddove si toccano e mai dalla parte della fascia sulla schiena). In fondo, pensandoci bene, è un meccanismo meraviglioso, perché il bambino sicuramente non si scalda mai troppo! I bambini infatti se ne curano molto poco, e normalmente non sono disturbati dal sudore, fintanto che il genitore non ne è infastidito e trasmette il suo fastidio al bambino che di conseguenza diventa irrequieto.

Non ci sono controindicazioni a portare i propri bambini anche d’estate quando fa molto caldo. Il sudore, oggettivamente, non fa male né al bambino né alla madre. Se si usa un supporto di cotone (oppure lino, canapa, bambù) al cento per cento è garantita la piena traspirabilità e la pelle non si irrita. Se il bambino nel momento in cui viene tirato fuori dalla fascia è molto bagnato, gli si può cambiare il body tranquillamente senza paura che prenda freddo o che si ammali.

È molto importante invece proteggere dal sole le parti che non sono coperte dalla fascia (gambe, piedi, testa, nuca, braccia). La pelle del bambino sotto l’anno non dovrebbe mai essere esposta al sole diretto (e mai d’estate dalle 11 alle 15), e le parti fuori dalla fascia andrebbero protette con calzini lunghi, magliette a manica lunga e cappellino con protezione per la nuca.

III.1.8. Portare in situazioni particolari

Quando il bambino è ammalato

Tutti abbiamo fatto l’esperienza che quando il bambino si ammala il suo bisogno di contatto aumenta. Abbiamo visto che negli stati febbrili, che sono spesso accompagnati da irrequietezza o da “scatti”, i bambini portati addosso sono più tranquilli e si riposano di più mentre i genitori, che hanno sott’occhio il bambino continuamente, riescono ad affrontare con maggiore fiducia la situazione.


Questo vale soprattutto per il caso di ricovero ospedaliero e per gli esami invasivi.

Una mamma con una bambina di cinque mesi che dalla nascita deve affrontare periodicamente degli esami invasivi mi racconta:


L’ultima volta che abbiamo dovuto affrontare l’esame in ospedale, l’ho portata nella fascia dalla macchina al reparto, abbiamo salito a piedi i cinque piani, le ho cantato la ninna nanna che conosce da quando era in pancia e quando l’ho messa sul lettino le ho tenuto la mano, mi ha guardata fiduciosa e si è lasciata esaminare tranquillamente. Inutile dire che i medici erano sbalorditi.


Portare in questo contesto aiuta a contenere il bambino, se stessi, la situazione, a rassicurare il bambino, a proteggerlo da stimoli invasivi e sconosciuti (odore, luci forti, voci, rumori meccanici, etc.) prima e dopo l’esame e a rassicurare il genitore. Lo spazio portato è uno spazio sicuro, di cui si fidano entrambi; possono così ritrovare “la terra sotto i piedi” anche in situazioni angoscianti.

Portare e lavoro

In Italia il congedo di maternità obbligatorio è di cinque mesi, di cui uno o due prima e il resto dopo la nascita. Questo periodo può essere esteso fino a 12 mesi con una conseguente riduzione della retribuzione ma senza che ci debbano essere ulteriori conseguenze per l’assenza prolungata. Di conseguenza molte madri rientrano al lavoro dal 3° al 13° mese di vita del bambino.


Ora, le madri si preoccupano molto di questo rientro (anche molti mesi prima) e cercano di limitare il tempo portato o non cominciano neanche. Perché se ora si abitua a essere portato, come farà dopo in mia assenza?”

A questo proposito si può affermare che portare in ogni caso è una risposta ai bisogni innati del bambino, che non li crea o li accresce ma li colma (con il tempo). Pertanto portare non è mai controindicato se si deve rientrare a lavorare, anzi, può diventare un’opportunità per rafforzare il legame e ritrovarsi nella relazione nel tempo che si passa insieme (sera, fine settimana, pause).


L’esistenza dello spazio portato permette al bambino di ritornarci per ritrovare il suo genitore dopo l’assenza, uno spazio dove ha il permesso di potersi esprimere anche quando sente delle emozioni forti “negative”, dove si sente al sicuro per poter piangere e rilassarsi. Se il bambino, in assenza della madre, ha a disposizione una persona attenta e sensibile ai suoi bisogni,32 probabilmente accetterà modalità diverse di accudimento (sta sul seggiolone e nel passeggino, “è bravissimo all’asilo”), ma nel momento in cui rivede sua madre esigerà di essere portato. Sicuramente questo è faticoso per la madre (che forse è stanca quando torna a casa dal lavoro e vorrebbe un po’ di tempo per sé), ma è un’opportunità per mantenere una buona relazione con il bambino e ripaga anche lei del tempo trascorso lontano.


Alcune madri coinvolgono nel portare anche le proprie madri, che possono così apprezzare molto una modalità diversa di stare con i nipoti, soprattutto quando li hanno in carico per molte ore al giorno.


Alcune madri fanno l’esperienza di lavorare insieme al bambino, ma ad oggi sono rare eccezioni e in più è una modalità facilmente praticabile solo i primi mesi. Una madre che svolge un’attività professionale in proprio mi racconta: “Dopo alcuni mesi dalla nascita ho ricominciato a lavorare un pochino, svolgendo qualche appuntamento con la mia bambina addosso che dormiva. Ora ha cinque mesi e davanti non ci sta più. Ho cominciato a metterla sulla schiena, ma sento che questo periodo in cui sta così tranquilla addosso a me e mi segue nelle mie attività è destinato a finire presto.”


Maggiori diventano le esigenze del bambino di muoversi e di “andare e tornare”, meno tempo chiederà di essere portato. Solo chi svolge un’attività lavorativa in cui il bambino può stare sia “per terra” sia “portato” (a seconda delle sue esigenze) può continuare a lavorare in sua presenza.

Limiti: Quando sarà troppo pesante? Quando sarà troppo grande?

Oggi si consiglia di portare il bambino davanti non oltre ai 7 chili di peso per evitare affaticamenti posturali di chi porta. Questo limite di 7 kg coincide spesso con l’età di 4-6 mesi del bambino; un’età in cui si interessa di più al suo ambiente e si prepara a gattonare, ed è di una lunghezza tale che diventa ingombrante davanti. Ma pure bambini piccoli e leggeri attorno ai 6-8 mesi dovrebbero essere portati non più davanti, ma sul fianco o sulla schiena, perché sono le posizioni33 che corrispondono meglio alla loro età evolutiva e agli specifici bisogni.


Sul fianco e sulla schiena il limite di peso invece è individuale. Se si è allenati è possibile portare un bambino di 16 kg adeguatamente legato nella fascia lunga, oppure in uno zaino portabimbi, senza grandi problemi. Infatti se si porta quotidianamente il bambino si rafforza strada facendo il proprio fisico, che fa fronte senza difficoltà al peso crescente, mentre nel momento in cui i muscoli allenati non vengono più utilizzati, atrofizzano. La condizione fisica viene quindi rafforzata e mantenuta per la durata del percorso del portare. Alla sua conclusione e con un nuovo bambino bisogna ricominciare da capo.


III.2. PORTARE CON LA FASCIA LUNGA

La fascia lunga, denominata affettuosamente anche straccio, telo, pezzo di stoffa o semplicemente fascia dai genitori che la usano, è un supporto ausiliario che permette di portare un bambino in modo fisiologico a contatto, in piena libertà di movimento, in uno spazio contenuto, che viene rinnovato, adeguato e adattato di volta in volta. Con la fascia lunga ci si lega letteralmente e fisicamente, evidenziando ed esplicitando la relazione portata.


Infatti la fascia lunga ha la fama di essere “magica”, forse perché al primo sguardo è solo un telo e le sue proprietà si evidenziano soltanto quando è indossata. Per questo motivo non basta acquistarla e usarla come altri supporti, ma si tratta di apprendere una modalità nuova per stare con il proprio bambino. Con la fascia lunga ci si deve mettere in gioco, essere disposti a fare un percorso, passare dalla fatica dell’apprendimento iniziale, continuare a essere flessibili e in ascolto per adattare le posizioni al percorso e alla crescita del bambino e di se stessi.

Il resto è facile.

III.2.1. Darsi il tempo – munirsi di pazienza

La cosa più importante nell’affrontare questa modalità è che la madre si dia il tempo per imparare e si munisca di pazienza con se stessa, il proprio corpo e con il bambino per poi mettersi (letteralmente) in cammino.


Darsi il tempo quando all’inizio ci si sente impacciati e la fascia sembra così lunga e ingombrante. Sono passaggi fisiologici. In Occidente, abituati a vestirci solo con vestiti preconfezionati, maneggiare e indossare un telo lungo più di quattro metri, tirare orli, stirare, lisciare, incrociare lembi non fa parte delle attività abituali.


Munirsi di pazienza, quando non si trova subito la misura giusta per lo spazio portato: la fascia addosso è troppo larga oppure è troppo stretta e si è già bagnati di sudore, quando bisogna ripetere tre volte la tecnica prima di sentirla “giusta” addosso.


Darsi il tempo per sperimentare la fisiologia del portare, in diversi momenti della giornata, mattina, pomeriggio, sera, in casa e fuori, al supermercato e per andare a prendere il bambino più grande alla scuola materna; darsi il tempo per sperimentare momenti di pura felicità, di sollievo, di gioia, di divertimento (“quanto bene stiamo insieme, io e il mio bambino”, “quanto mi sento libera rispetto a prima”), ma anche momenti faticosi (“quanto sono stanca”).


Munirsi di pazienza perché un po’ alla volta, addomesticando la fascia lunga e acquisendo una maggiore manualità nel legare, tirare, annodarla, conoscendo le reazioni proprie e del proprio bambino, trovando la vicinanza giusta e la distanza necessaria, l’uso diventa più fluido e semplice integrandosi nella vita con il bambino.

III.2.2. Farsi accompagnare da una persona (più) esperta

Decisamente tutto diventa più semplice se all’inizio si ha la possibilità di farsi accompagnare da una persona esperta, che fa conoscere le tecniche, i gesti, i movimenti fisiologici, “i trucchi” nel mettere la fascia e che accompagna la coppia madre-bambino senza imporre nulla. Attraverso il linguaggio del corpo, del sentire, avendo a disposizione gesti e movimenti da seguire e non da doversi inventare viene facilitato l’approccio pratico.34 Spesso le istruzioni cartacee o digitali allegate ai diversi supporti, invece, attivano un approccio razionale e quindi sono spesso insufficienti per imparare le tecniche praticamente. Mentre a livello razionale, sulla carta, le tecniche sembrano semplici, “una sciocchezza”, quando si tratta di mettere il bambino in fascia tutto a un tratto sorgono i dubbi; “è sicuramente troppo stretto” (mentre la maggior parte dei genitori che imparano da istruzioni scritte legano la fascia decisamente troppo larga), “ma respira davvero così?” Il bambino, per completare la scena, continua a piangere e poi, dopo alcuni tentativi disperati, la fascia lunga finisce nel cassetto oppure all’asta su ebay, dove viene giudicata “non adatta”.

Per partire meglio c’è chi si lascia spiegare la tecnica da un’amica (che trasmetterà la sua esperienza personale) oppure partecipa a un corso per portare, dove viene favorito l’approccio pratico, sicuro e calmo, dove si possono superare le primissime difficoltà tecniche e alcuni dubbi di fondo. Quest’approccio fa risparmiare molte energie nell’apprendimento delle tecniche, favorendo una partenza “liscia” sulla propria strada del portare.
III.2.3. Il tempo di assestamento

È possibile che, nel momento in cui viene infilato nella fascia, il bambino pianga. È una reazione frequente all’inizio perché il bambino sente l’insicurezza del genitore, ancora impacciato nei movimenti. Una volta che è sistemato nella fascia e il genitore tira un respiro di sollievo – “ci siamo” –, il bambino normalmente si rasserena.


Tuttavia è altrettanto frequente che il bambino sistemato nella fascia lunga pianga e continui a spingere con mani e piedi contro il corpo di chi lo porta. “Non vuole starci” può essere il pensiero di una madre, “mi sta spingendo via” il pensiero di un padre. Prima di considerare la possibilità che il bambino non voglia stare nella fascia, tema che affronteremo dopo, abbiamo visto che è fondamentale considerare il tempo di assestamento.


Questo tempo, limitato a dieci minuti di orologio, serve a) per dare la possibilità effettiva al bambino e al genitore di “accomodarsi” uno addosso all’altro.


Come abbiamo visto nel capitolo movimento, la possibilità di spingere contro il corpo del genitore permette al bambino di sistemare in modo autonomo la propria posizione corporea per abbassare la tensione muscolare interna. “Un po’ come il gatto che si fa la cuccia”, ha osservato un giorno una mamma. Infatti il bambino semplicemente cerca di mettersi comodo all’interno dello spazio portato. Durante questo intervallo di tempo è fondamentale camminare ritmicamente con il bambino ben sistemato nella fascia, cercando di rilassare il proprio corpo (dorso, spalle, braccia, spina dorsale) e di distogliere l’attenzione diretta dal bambino.


Quando questo momento è accompagnato da un pianto forte, per i genitori è più difficile concedere al bambino questo tempo e spesso lo tirano fuori subito. Tuttavia è fondamentale concederlo al bambino e a se stessi per accomodarsi, per rilassarsi e per scaricare la tensione equilibrando le energie.


b) per i genitori che imparano a fidarsi della modalità di portare con la fascia lunga.


Non sono le informazioni logiche, le ricerche scientifiche e le risposte verbali alle domande che fanno sì che i genitori si fidino della fascia lunga, ma è l’esperienza di superare il tempo di assestamento in cui sperimentano il bambino che spinge, piange e poi si rilassa e si addormenta, che costituisce la differenza.


Dopo un po’ di tempo, quando sono sicuri e si fidano della fascia lunga, i genitori imparano ad ascoltare se il bambino nella fascia piange perché si sta rilassando oppure se piange perché segnala che non vuole starci.

III.2.4. Sta soffocando?

Voci critiche affermano spesso che i bambini portati sono così tranquilli e dormono così tanto nella fascia a causa di una cronica insufficienza d’ossigeno. Per verificare se tale dubbio fosse giustificato, nel reparto di patologia neonatale dell’ospedale pediatrico di Colonia è stato eseguito uno studio35 su 24 bambini pretermine e 12 bambini a termine in cui si misuravano i parametri vitali dei bambini portati nella fascia in posizione verticale e orizzontale rispetto ai bambini sdraiati nelle (termo)culle. Durante il test si registravano l’ossigenazione, il battito cardiaco, il flusso aereo nasale,36 il respiro addominale e i movimenti, osservando la mancanza di cambiamenti statisticamente rilevanti dei parametri vitali. Quindi si può senz’altro continuare a promuovere il portare con la fascia. Anche se non sono mancate delle reazioni critiche a tali risultati,37 a Colonia i genitori con bambini a partire da 1000 grammi e con parametri vitali stabili continuano a essere invitati dal personale medico e d’assistenza a passeggiare nel parco dell’ospedale insieme al bambino nella fascia lunga, mentre per noi significa che portare nella fascia, anche se il bambino viene coperto fino oltre alla testa, non ha effetti negativi sui parametri vitali!

III.2.5. Se il bambino non vuole starci – un pensiero rispetto allo spazio ristretto

Negli ultimi anni ho visto centinaia di coppie con neonati e ho potuto notare che tutti i bambini cercano il contatto e vogliono stare a contatto, anche se i loro genitori fanno più o meno fatica a concederlo. Di contro, ho incontrato qualche coppia con un bambino che effettivamente sembrava rifiutare qualsiasi spazio ristretto, incluso lo spazio portato, mentre stava tranquillamente e volentieri in braccio.


Infatti non tutte le situazioni sono spiegabili con la motivazione relazionale. C’è qualche bambino che effettivamente piange forte ogni volta che si trova nello spazio portato. Ora, anche se non esistono prove o studi su questo aspetto, riteniamo possibile che questa reazione potrebbe essere collegata al vissuto pre e perinatale del bambino.

I bambini negli ultimi mesi di gravidanza sperimentano a fondo lo spazio ristretto attorno a loro come condizione fisiologica (non conoscono altro), che di per sé non dovrebbe costituire un fattore che scatena angoscia. Anche il travaglio (le pareti uterine che si chiudono strettamente addosso al bambino) e la nascita (il passaggio nel canale del parto) sarebbero previsti dalla natura come un processo fisiologico, anzi necessario per un buon adattamento alla vita extrauterina.38 Il bambino ci dovrebbe poter passare senza subire traumi. Ma la nascita è anche un’esperienza limite, forse l’esperienza più profonda e segnante che si possa sperimentare in tutta la vita.39 Ora, da quando si aggiunge il fatto che la nascita nei paesi occidentali è tutt’altro che un processo fisiologico e naturale, ma un evento fortemente medicalizzato, che anche la madre spesso vive in modo fortemente angosciante, sappiamo come il bambino vive questo tipo di esperienza anche se sul monitor non c’è stata nessuna sofferenza? Potrebbe essere che nel bambino che si ritrova nello spazio avvolgente della fascia (un po’ come nell’utero) si riattivino le sensazioni di pericolo e la situazione di stress vissuti durante il parto, disagio che lui segnala piangendo? Potrebbe essere che una fine di gravidanza e/o un parto difficile influenzino il vissuto spaziale del bambino e quindi la sensazione di sicurezza che lui ha all’interno di uno spazio stretto? La psicologia e le neuroscienze sono d’accordo sul fatto che la vita in utero per il bambino non necessariamente è il paradiso, ma è vita a tutti gli effetti (giustamente i cinesi contano l’età umana a partire dal concepimento) e può essere sottoposta a vissuti traumatici, che vengono registrati nel corpo e nella memoria implicita. In questo caso non si dovrebbe esitare a rivolgersi a persone competenti per aiutare il bambino (e spesso la madre) a riconoscere, elaborare e superare il trauma vissuto.40
III.2.6. Si può portare troppo nella fascia lunga?

Susanne Didierjean-Jouveau conclude, alla fine del suo libro sui vantaggi e benefici del porter bebè,41 che “portare sia un ‘trattamento’ da utilizzare senza moderazione, che non ha controindicazioni e i cui effetti dipendono dal dosaggio: più un bambino viene portato più grandi saranno i benefici e le gioie”. Per molto tempo mi sono trovata d’accordo con lei, e generalmente credo ancora che sia proprio così. In una relazione sana, che si basa sull’ascolto, non si porta né troppo né troppo poco, ma il giusto, individualmente, per entrambi.


Ma cosa significa portare troppo? Se una bambina di quindici mesi vuole stare in braccio alla mamma (o nella fascia) quando vanno insieme al mercato settimanale, possono esserci persone che disapprovano: “questa bambina è sempre in braccio… ormai sarebbe grande. Beh, questa madre è veramente simbiotica, dato che la porta ancora nella fascia…”.42 La madre per fortuna sa che non è vero, perché a casa la bambina non ci sta quasi più nella fascia ed è anzi molto autonoma, ed è solo in questo ambiente che vuole stare nello spazio portato perché non si sente ancora abbastanza sicura per affrontare da sola il mondo aperto. Questa madre non porta troppo la sua bambina, ma le dà la possibilità di sperimentare la base sicura senza spingerla a crescere troppo in fretta e a far fronte da sola a situazioni a cui non si sente pronta. In una relazione sana, in cui per la bambina e per i genitori è intatta la spinta a crescere, non si porta mai troppo nella fascia. Il tempo nella fascia si autoregola rispetto alle esigenze e a seconda dell’età evolutiva.

Ciò premesso, ci sono per fortuna pochissime eccezioni in cui si potrebbe pensare che un bambino viene portato troppo. Come ho accennato nei capitoli precedenti, la fascia lunga, per le sue caratteristiche non strutturate, leganti, avvolgenti e stimolanti, è uno strumento di relazione, che mette in luce ed evidenzia chiaramente la relazione reale e attuale tra genitori e bambino e lo fa anche nel momento in cui la relazione ha un carattere squilibrato. Supponiamo il caso che il genitore sia sbilanciato psichicamente e non riesca a stare in ascolto del bambino vero, ma usi la fascia per continuare a tenere il bambino “nella pancia”, per non farlo crescere, per non riconoscerlo come essere vivente distinto da se stesso con una vita, un’individualità e uno sviluppo suo. Ora, il bambino (finché è piccolo) probabilmente si adatterà allo spazio che gli viene concesso, perché non può fare altro essendo la parte più debole. Ma portato a contatto con il centro del genitore assorbirà frontalmente anche le sue problematiche. La fascia, in questo caso, oltre a evidenziare la relazione non sana potrebbe anche aiutare a sostenerla. Pertanto in questi casi sarebbe tendenzialmente sconsigliato portare il bambino.


Tuttavia non è facile stabilire quanto la fascia lunga evidenzi una relazione patologica e quanto la sostenga effettivamente. Probabilmente ci sono entrambi gli aspetti da considerare. Sicuramente la modalità di portare troppo è legata a uno squilibrio psichico dei genitori, ma in tutti questi anni ho visto solo due casi in cui si correva questo rischio.


Tutto questo discorso per ricordare un’altra volta che la fascia lunga dovrebbe sempre essere considerata una modalità seria e importante che va a toccare la relazione individuale tra genitori e bambino; pertanto non va mai presa alla leggera e proposta in modo indiscriminato, magari spinti da buoni propositi e un grande entusiasmo, a tutti e in tutte le situazioni.

III.3. PREVENZIONE E TERAPIA

Se la maggior parte dei genitori può scegliere liberamente, sulla base di proprie motivazioni, se portare o no i propri bambini, alcuni genitori si avvicinano al tema perché hanno bambini con esigenze particolari, dove portare è una modalità consigliata e confermata anche da parte degli esperti.

III.3.1 Bambini nati prematuri

Quando un bambino nasce prematuro (prima delle 34 settimane) o pretermine (prima delle 37 settimane), il suo sviluppo non è completo; a volte è troppo immaturo per assolvere alle funzioni vitali. Al calore e al supporto del corpo materno si sostituisce il supporto tecnologico: una culla termica o un’incubatrice collegata a macchine che provvedono a supportare la respirazione, l’alimentazione e il mantenimento della temperatura. L’incubatrice è un luogo sterile, asettico, illuminato al neon, dove il bambino rimane solo e separato dai suoi genitori che a loro volta si sentono esclusi.


La tecnologia della terapia intensiva neonatale

Tuttavia da alcuni decenni l’attenzione della TIN non è posta solo sulla tecnologia sempre più sofisticata che mira alla sopravvivenza dei bambini sempre più piccoli e prematuri, ma c’è anche una crescente consapevolezza dell’importanza di una cura e di un’assistenza individualizzata e interattiva con il bambino in TIN e i suoi genitori.

Neonatal Individualized Development Care and Assessment Program (NIDCAP)43


In Germania, nell’ospedale universitario di Colonia, la dottoressa Waltraud Stening, neonatologa, lavora da molti anni in questa direzione. Nel 1998 ha inviato un questionario a 275 reparti di TIN in Germania per monitorare la quantità e la qualità di un’assistenza e cura individuale dei bambini prematuri.44

L’elenco dettagliato delle voci del questionario dovrebbe far capire, implicitamente, cosa possa significare una cura individualizzata. Le domande si riferivano ad aspetti:

  • di spazio: arredamento interno delle incubatrici: amaca, pelle d’agnello, oscuramento, oggetto personale, bambini coperti; e delle stanze: sedie a dondolo, luce individuale a ogni postazione, impianto stereo, arredamento colorato, cassetti di sicurezza;

  • di approccio relazionale con i bambini prematuri: alleggerimento dei trattamenti medici: accettazione del ritmo sonno-veglia, aspirazione solo se necessario, fototerapia nel rispetto del ritmo circadiano, coordinamento delle attività mediche e assistenziali;

  • di stimolazione: succhiotto, stimolazione basale, massaggio infantile, stimolazione auditiva, marsupioterapia;

  • di approccio di relazione con i genitori e parenti: orari di visita, allattamento, associazioni genitori;

  • di coinvolgimento dei genitori nella cura: cambio pannolino, bagno, andare a passeggio, portare nella fascia lunga, prendere il bambino da soli dall’incubatrice, pernottamento in reparto se possibile;

  • di assistenza centrata sulla famiglia: visita di fratelli sotto i 14 anni, visita di parenti (nonni) in reparto;

  • di sostegno psicologico dei genitori: presenza dei genitori alla visita medica, permesso ai genitori di non portare soprabiti;

  • di strutture per stabilizzare il gruppo di personale di assistenza: supervisione, riunioni, formazione congiunta del personale, convegni sull’etica.

Nella discussione del questionario è emerso che molte cliniche hanno introdotto diversi aspetti per il miglioramento del benessere dei bambini prematuri e dei loro genitori, anche se non è verificabile se questi aspetti vengano applicati praticamente o se esistano solo come potenzialità. Solo in 12 cliniche (6%) esiste una stesura sul concetto di lavoro per la cura individuale dei prematuri. In 7 reparti (3,5%) l’introduzione di questi concetti ha portato a un aumento del personale.


Molte cliniche affermano di implementare un arredamento più adatto nelle incubatrici; il 75% dei bambini è coperto, il 60% delle incubatrici è oscurato, l’84% ha una pelle d’agnello sintetica.


Rispetto all’approccio relazionale con i prematuri spicca il dato che nel 62,5% il ritmo sonno-veglia del bambino viene rispettato, l’aspirazione viene eseguita solo se necessaria (89,5%) ma la bilirubina solo nell’8,5% viene analizzata attraverso l’analisi transcutanea (senza prelievo).


Per quanto riguarda la stimolazione, nell’88% delle cliniche la marsupio-terapia viene implementata di routine.


Riguardo al coinvolgimento dei genitori spicca il dato rispetto alle cure di base (bagnetto 82,5% e cambio pannolino 93%), mentre per azioni che richiedono maggiori responsabilità, come prendere il bambino da soli dall’incubatrice (6%) e portarlo nella fascia lunga (6%), le iniziative sono più rare. Alcuni reparti hanno esplicitamente evidenziato nei questionari che temono di danneggiare la postura dei bambini utilizzando la fascia lunga. Purtroppo non esistono molti studi per debellare tale paura, ma si potrebbe intanto indicare la posizione culla davanti, dove il bambino è disteso contro la pancia della mamma. In clinica consigliano ai genitori di portare il bambino nella posizione allattamento, disteso pancia contro pancia.


Purtroppo solo poche cliniche prevedono un sostegno psicologico sistematico ai genitori (19%). Questo viene considerato un dato non ottimale, perché la nascita prematura di per sé significa una situazione critica estrema. Ma il sostegno al personale di assistenza è ancora più raro. Solo il 4,5% delle cliniche offre un sostegno (Balint o supervisione). Nel 70% dei reparti non c’è mai stata un’offerta di questo tipo.

Una maggiore apertura di tutto il personale per modificare l’approccio di assistenza e di cura dei bambini prematuri e dei loro genitori può avverarsi soltanto nel momento in cui il personale stesso disponga di risorse emotive e temporali forti. Entrambi gli aspetti, purtroppo, attualmente non vengono considerati.45

Un esempio in Italia

Nel reparto TIN dell’ospedale Bambino Gesù, il prof. M. Orzalesi46 evidenzia come molte procedure assistenziali per l’umanizzazione delle cure siano state implementate. Infatti i genitori godono di un accesso libero al reparto anche se ci sono sempre alcune limitazioni di orario durante le visite mediche. Si offre un sostegno psicologico per aiutarli a partecipare attivamente alle cure del bambino, e implementando la marsupio-terapia si cerca di favorire un buon attaccamento e l’inizio e il mantenimento dell’allattamento materno.


Anche il neonato viene tenuto in considerazione; ha il suo “nido” nell’incubatrice e gli stimoli luminosi e rumorosi sono tendenzialmente ridotti, mentre per le procedure invasive sono stati predisposti e implementati protocolli per la limitazione del dolore. Tuttavia Orzalesi ammette che “incombe sempre il pericolo che questi aspetti importantissimi dell’assistenza individualizzata vengano ‘sottovalutati’ o ‘dimenticati’ in un ambiente, come quello della TIN, in cui predomina l’emergenza e vengono privilegiati gli interventi tecnici e tecnologici, peraltro necessari per garantire la sopravvivenza di neonati spesso in condizioni critiche e in pericolo di vita.”47


La marsupioterapia

A più di vent’anni dai primi successi del metodo marsupio, l’OMS ha pubblicato nel 2003 una guida per la marsupioterapia. (vedi capitolo Contatto: portare integralmente)


La storia di questo approccio, in controtendenza alla sempre maggiore fiducia che si pone nella tecnologia, ha le sue origini in Colombia, dove nel 1978 due pediatri (Rey e Martinez) di Bogotà, seguendo una loro intuizione e spinti dall’emergenza materiale (avevano poche incubatrici a disposizione), cominciarono a invitare le madri a portare i loro bambini nati prematuri a contatto pelle a pelle 24 ore su 24. La madre diventava così la termoculla del suo bambino. I primi risultati furono esaltanti: i bambini addosso alle madri non morivano più di infezioni, non soffrivano di bradicardie e apnee, avevano una crescita ponderale migliore degli altri, mantenevano la temperatura corporea e si riduceva la percentuale di abbandono da parte delle madri.


Oggi è un movimento mondiale che promuove il contatto pelle a pelle con i prematuri e non solo con i prematuri. Ci sono organizzazioni come la Fondazione Canguro che promuovono il metodo mamma canguro nel mondo.48


Come abbiamo già visto nel capitolo contatto, una grande quantità di studi effettuati per verificare la sua efficacia a breve e a lungo termine confermano che questo contatto pelle a pelle gioca un ruolo importantissimo nel legame genitore-bambino, nell’accrescere la competenza genitoriale, ed è fondamentale per la crescita ponderale del bambino, per la gestione stabile dei parametri vitali, come per la temperatura corporea, la respirazione e l’attività cardiaca regolare, e per lo sviluppo neurologico del bambino.49


In sempre più reparti italiani TIN, la marsupioterapia viene proposta ai genitori quando il loro bambino prematuro è stabile. Per i genitori sono momenti molto belli e importanti perché possono iniziare a “sentire” il loro bambino.50

Una volta tornati a casa la terapia finisce?

Purtroppo abbiamo visto che non tutti i genitori continuano a portare i loro bambini quando tornano a casa. Una mamma mi diceva: “La marsupioterapia? Il mio bambino, nato di 1600 grammi, per fortuna non ne aveva bisogno.” Probabilmente il termine marsupioterapia suggerisce appunto un intervento mirato in risposta a una situazione patologica del bambino e nel contesto della fisiologia del portare è fuorviante. Un termine molto più appropriato, che fa riferimento alla fisiologia, è quello di portare integralmente, cioè pelle a pelle, il proprio bambino.


Portare integralmente è fisiologico e consigliato per bambini nati prematuri e i loro genitori anche quando tornano a casa e iniziano la vita normale. I genitori, segnati dall’esperienza, hanno bisogno di tempo per sentirsi veramente competenti nei confronti del loro bambino e devono imparare a fidarsi di lui e dei suoi segnali. Il bambino, reduce dall’esperienza ospedaliera delle settimane o mesi passati, piano piano impara a fidarsi dell’ambiente nuovo e tranquillo di casa.


Non è più un bambino prematuro considerato un paziente, ma è un bambino neonato, che ha bisogni primari e prioritari di contatto, vicinanza, protezione, di crescere, quindi di essere portato come tutti i bambini.


A casa, quando è ancora molto piccolo, può essere portato integralmente sotto la propria camicia. Generalmente si propone di “fissare” il bambino con un telo che viene annodato attorno al tronco della mamma, ma credo che questa modalità sostenga troppo poco il bisogno di sicurezza del genitore che non si sentirà libero e autonomo nel mettersi il bambino addosso.


Una modalità molto più pratica, comoda e sicura è usare la fascia lunga e specialmente la fascia elastica con la tecnica del triplo sostegno (modalità spiegata nel capitolo IV.2.2. fascia elastica). In questo modo la madre avrà completa libertà di movimento e potrà acquisire sicurezza nella modalità a contatto. Dopo alcune settimane, quando il bambino sarà ulteriormente cresciuto e darà i segnali di essere pronto, si prosegue con il portare davanti come per i bambini nati a termine.

III.3.2. Bambini gemelli

Teoricamente è possibile portare gemelli contemporaneamente, ma è faticoso fisicamente, soprattutto nel momento in cui i bambini insieme raggiungono un peso davanti che supera i 7 chili.


Se sono molto piccoli si può usare una fascia lunga per portare entrambi i bambini; più avanti ci sarebbe la possibilità di portare con due fasce lunghe un bambino davanti e l’altro dietro oppure entrambi su ciascuno dei fianchi.


Genitori con gemelli comunque normalmente preferiscono portare un bambino alla volta e piuttosto coinvolgere altre persone.


Vorrei ricordare che portare non significa addossarsi tutto da solo e sopportare l’impossibile. Portare dovrebbe rimanere un piacere anche per chi porta e non essere una modalità sofferta. Pertanto credo che per portare gemelli durante tutto il percorso sia indispensabile essere in due!

III.3.3. Bambini con sindrome Down

I bambini con sindrome Down51 spesso hanno la caratteristica di un tono muscolare basso (ipotonia) e sono maggiormente soggetti a displasia dell’anca perché in posizione supina le loro gambe si aprono completamente (“a rana”).


Hilke Engel-Majer, fisioterapista di lunga esperienza, afferma e sottolinea l’importanza di portare i bambini con sindrome Down nella fascia lunga.52 Infatti nella posizione divaricata seduta le gambe vengono “fissate” nell’angolatura ottimale (vedi displasia dell’anca), e addosso al corpo del genitore la loro intera muscolatura viene stimolata e rafforzata. Per questi bambini inoltre, che generalmente hanno uno sviluppo più lento, la stimolazione sensoriale integrata acquista ulteriore importanza.

Gli esperti comunque sottolineano l’importanza di legare bene e stretta la fascia lunga in tessuto. (La fascia elastica non è adatta a bambini con ipotonia perché cede troppo e sostiene troppo poco).


In linea generale non ci sono controindicazioni dal punto di visto neurologico o ortopedico nel portare un bambino con sindrome Down, anzi: portare favorisce il suo sviluppo motorio, muscolare, una adeguata stimolazione sensoriale e l’attaccamento tra genitori e bambino.


A livello tecnico-pratico sono consigliate le tecniche che offrono un triplo sostengo davanti per i primi mesi, poi sul fianco e dietro. È importante che il bambino venga sostenuto bene e che aderisca perfettamente al corpo del genitore. In questo caso consiglio fortemente di farsi aiutare da una persona esperta per imparare a legare nel modo corretto la fascia lunga e per superare più facilmente le difficoltà fisiologiche iniziali.

III.3.4. Bambini con displasia dell’anca

Bambini con anche immature e displasia dell’anca (tipo IIa) beneficiano in modo particolare del portare, che da un numero crescente di ortopedici viene considerato un approccio terapeutico adeguato.


Oggi, alla nascita, la frequenza di displasia dell’anca in Europa è del 2-4%, mentre la percentuale di lussazione5354


A livello etnologico si è osservato che dove i bambini vengono tradizionalmente fasciati come per esempio dagli indiani pellerossa, la percentuale di lussazione dell’anca è quasi del 5% mentre in Africa, dove i bambini dalla nascita vengono portati con le gambe ben divaricate, questa patologia è sconosciuta. In uno studio55 eseguito presso gli indiani del nord del Canada i bambini tradizionalmente fasciati avevano un’incidenza di displasia dell’anca del 12,3% contro un 1,2% dei bambini non fasciati.


Il medico giapponese Niagura, già nel 1940, aveva fatto notare un possibile collegamento tra le modalità di cura e la displasia. Fino alla fine del 1800 in Giappone i bambini venivano portati nell’onbuhimo con le gambe divaricate; infatti la lussazione era pressoché sconosciuta. Quando si sono adeguati i modelli di cura tradizionali ai modelli occidentali è aumentato anche il numero delle anche lussate. Niagura, invece di procedere subito con l’intervento chirurgico per reinserire la testa del femore nell’acetabolo, invitava i genitori a portare i loro bambini di nuovo nell’onbuhimo. La testa del femore di 9 bambini si reinserì spontaneamente e non fu più necessario l’intervento chirurgico.56

Oggi sappiamo che ci sono diversi fattori genetici, ormonali e meccanici che influiscono sulla displasia e/o la lussazione, a cui si aggiungono ulteriori fattori di rischio quale familiarità con la displasia, nascita prematura, nascita podalica e anomalie dello scheletro.


La diagnosi viene eseguita nelle prime settimane attraverso la manovra di Ortolani, attraverso l’ecografia e se necessario attraverso la radiografia.


Si distinguono 3 tipi di anche:

Tipo I: anca normale

Tipo IIa: anca immatura fisiologica, acetabolo sufficientemente stabile


La terapia convenzionale proposta per il tipo IIa è il pannolino rigido e il divaricatore, mentre per il tipo IIc si applica in Svizzera un gesso secondo Fettweis. Le tipologie III, D, IV invece sono anche lussate che necessitano di intervento chirurgico.

Nella ricerca dati eseguita a Zurigo dal 1993 al 2003 su 7417 bambini esaminati in 34-42 settimane, sono state diagnosticate 74,5% anche normali del tipo I; 23, 2% di anche immature del tipo IIa e 2,5% di anche del tipo IIc,III, IV, D che necessitano di intervento medico (gesso, intervento).57

Portare e displasia

Andreas Krieg, medico ortopedico all’ospedale universitario di Basilea, afferma che portare nella fascia lunga, nella posizione corretta e con particolare attenzione alla posizione corretta dell’anca, ha un effetto terapeutico per l’anca di tipo IIa. Per la tipologia IIc invece, dove è stata avviata la terapia convenzionale (divaricatore oppure gesso), il bambino può essere portato assieme al divaricatore o al gesso adeguando la tecnica per aumentare il comfort di chi porta.58


Come supporto si propone solo la fascia lunga in tessuto, che permette un ottimo sostegno e dove le gambe vengono “fissate” nella posizione corretta.


Le tecniche che si possono usare sono quelle verticali, mentre le posizioni sdraiate con le gambe chiuse sono assolutamente da evitare.


L’angolatura proposta dalla letteratura ortopedica in materia di displasia è una divaricazione o apertura che va da 30° a massimo 60° in concomitanza con una flessione maggiore di 100° (fino a 120°). Le ginocchia del bambino stanno quindi sempre in una posizione più alta rispetto al sedere.


Anche Ewald Fettweis, medico ortopedico, afferma che la posizione nella fascia lunga è ottima per il bambino, perché la muscolatura dei glutei, se viene contratta nella posizione addosso, non provoca un raddrizzamento delle gambe ma fa sì che la testa del femore venga premuta con maggiore forza nell’acetabolo, dove questa pressione aiuta a ossificare le parti ancora cartilaginose.59

Spesso i bambini che hanno il divaricatore vengono automaticamente privati del contatto corporeo, perché l’interazione a contatto con il bambino è più complicata. Spesso la terapia ortopedica diventa un percorso di forte sofferenza per entrambi e i genitori si angosciano quando è il momento di prendere in braccio il loro bambino per la paura che gli possano fare del male.


Forse la possibilità di portare serenamente addosso il bambino anche con il divaricatore può aprire nuovi scenari nella terapia della displasia dell’anca. La terapia anche convenzionale non preclude più un approccio di contatto con il bambino, che ne ha, inutile dirlo, ancora più bisogno di un bambino senza difficoltà di questo tipo.


In caso di immaturità o displasia dell’anca si consiglia fortemente di farsi aiutare da una persona esperta nell’uso della fascia lunga per essere sicuri del corretto posizionamento delle gambe.


Portare i piccoli - 2a edizione
Portare i piccoli - 2a edizione
Esther Weber
Un modo antico, moderno e… comodo per stare insieme.Tecniche, consigli e suggerimenti per portare i bimbi in fascia o nel marsupio, per stare insieme e rafforzare il legame con i piccoli fin dalla nascita. Da diversi anni, la modalità di portare i bambini addosso è un fenomeno in crescita anche nel nostro Paese.L’autrice Esther Weber, svizzera e madre di due bambine, è socia fondatrice e presidente dell’associazione Portare i piccoli, che promuove in Italia la cultura del portare attraverso l’informazione e la formazione ad operatori della prima infanzia.Il libro Portare i piccoli chiarisce che portare, oltre a essere una pratica antica tuttora presente in molte parti del mondo, è una modalità rispettosa e adatta alla relazione tra genitori e figli anche nella realtà occidentale, e lo fa rispondendo in maniera pronta e sicura ai molti quesiti pratici di chi porta, offrendo una disamina oggettiva sia sui supporti ausiliari reperibili (fasce porta bebè, marsupi, zaini porta-bambini), sia sulle tecniche più semplici che le neomamme e i neopapà possono adottare. Conosci l’autore Esther Weber, svizzera tedesca, è madre di due bambine e vive in Italia dal 1995.Dal 2001, anno della nascita della prima figlia, si dedica al tema del "portare i piccoli". Ha progettato e realizzato interamente il sito indipendente di informazione www.portareipiccoli.it.È socia fondatrice dell’associazione “Portare i piccoli”, che promuove in Italia la cultura del portare attraverso l'informazione accurata e indipendente e una formazione di qualità. Tiene incontri informativi e corsi per genitori. È consulente per la formazione al portare a operatori della prima infanzia.