capitolo i

La pratica antica del portare

Ad oggi, due terzi dell’umanità, da nord a sud, porta ancora i propri bambini. In Groenlandia e in Siberia, in Alaska, in Africa, in Centro e Sud America, in Asia e in Australia portare è una pratica diffusa, anche se viene praticata, come vedremo di seguito, in molti modi diversi. Esclusi da questo quadro si trovano soltanto il continente europeo e gli USA.


Nell’intento di scattare una fotografia della realtà portata nel mondo, ci si può chiedere se sia una pratica sviluppatasi per semplice necessità e adattamento ambientale. Come si porta tradizionalmente? Che significato attribuiscono i diversi popoli al portare?


E nell’Occidente? Se oggi non si portano più i bambini, forse una volta si portavano? Quali sono le alternative e che significato hanno?


Sulla base del materiale antropologico, etnologico e storico a disposizione, indubbiamente in molte parti del mondo si portano i bambini per semplice necessità. In assenza di strade e nelle zone impervie della terra portare non è una scelta ma l’unico modo (mezzo) di trasporto praticabile e sicuro e quindi una necessità senza alternative finché i bambini non si muovono autonomamente.


Ma osservando le pratiche di maternage nel mondo si nota anche che laddove si è creata una cultura del portare, questa è parte integrante e naturale dei modi di cura nei confronti dei bambini, supportata da valori socioculturali. In questo senso significa che portare è una pratica adatta “a crescere” i bambini e non semplicemente una modalità di trasporto per mancanza di alternative più comode.


Poiché il materiale etnologico è vastissimo e non può essere trattato in modo esaustivo e completo in questo capitolo, perché oltrepasserebbe i limiti ma anche gli obiettivi preposti di questo libro, vi propongo di seguito un’idea della realtà del portare nel mondo e in Europa ieri e oggi, differenziandola nel doppio significato:

a) portare per trasportare e

b) portare come modalità nel modello di cura del bambino piccolo.


Anche se in molti casi si tratta di una differenziazione teorica, perché nel Sud del mondo, dove esistono ampie realtà di cultura del portare, gli aspetti si intersecano e si completano a vicenda, la considero necessaria per una buona fotografia del portare in Occidente.

I.1. PORTARE PER TRAS-PORTARE

La necessità di muoversi e di spostarsi fa parte dell’umanità ed è una caratteristica di tutte le culture; sia nelle società tradizionali, spesso nomadi, di cacciatori-raccoglitori, dove la comunità (e le madri) si spostano di continuo in cerca di cibo, sia nelle società non industrializzate dove comunque gli scambi con altre comunità sono vitali, sia nelle società industrializzate, dove la necessità di spostarsi per qualsiasi cosa (spesa, lavoro, scuola, vita culturale, ferie) è più che mai scontata.

I.1.1 Nel mondo

Nel Sud del mondo e nelle parti remote del nostro pianeta, portare addosso è ancora oggi lo strumento più sicuro e praticabile per spostarsi con un bambino piccolo da un luogo A a un luogo B. I bambini sono trasportati in molti modi diversi; sulle spalle (dove si tengono aggrappati ai capelli dei genitori), sulla schiena seduti in alto o in basso, sul fianco a portata del seno. Sono trasportati in braccio ma molto spesso con un supporto ausiliare, che ha il compito di sostenerli al posto delle braccia e di “incollarli” al corpo del genitore in modo che questo possa avere le mani e il corpo liberi per svolgere altre attività. Un ruolo importante nella modalità di trasporto sembrano avere le condizioni climatiche.

Whiting1 ha analizzato 250 società rispetto alla relazione tra clima e supporti utilizzati per tras-portare i bambini. Conclude che in ambienti climatici freddi sono tipici i supporti contenitori, come culle o cesti, dove il bambino passa la maggior parte del giorno e della notte. In queste società è uso comune fasciare oppure vestire molto pesantemente i bambini. Il contatto corporeo tra i bambini piccoli e i genitori è molto più raro che nelle società con clima caldo (definito con temperature invernali oltre i 10°), dove i bambini passano fino al 90% del giorno (e della notte) a contatto corporeo con un’altra persona. In molte società i bambini non sono portati solo dalla madre, ma anche dal padre, e spesso da fratelli e sorelle poco più grandi, dai nonni e da altre persone della famiglia o tribù.

In queste società predominano supporti come teli, reti o cinture, che permettono di legare il corpo del bambino, nudo o vestito pochissimo, al corpo di chi porta. Lo stretto contatto corporeo è frequente anche durante la notte.


Rispetto alla teoria climatica ci sono alcune eccezioni; infatti gli Inuit dell’Alaska e della Siberia portano i loro bambini a contatto pelle a pelle all’interno della propria giacca di pelle. Questo lascia presupporre che, sebbene il clima possa essere un fattore importante nel modellare il mezzo di trasporto dei bambini e la predisposizione al contatto corporeo, probabilmente ci sono altri aspetti da considerare. Mi sembra un chiarissimo indizio rispetto al fatto che il significato del portare non si esaurisce nel suo aspetto di trasporto, come vedremo di seguito.

Posizioni e supporti tradizionali

Tradizionalmente i bambini sono portati sul fianco e sulla schiena così che la loro pancia si appoggi sempre al corpo di chi porta. Solo occasionalmente sono portati in braccio davanti, per esempio quando vengono allattati o quando l’adulto si dedica al bambino in modo diretto, come nel gioco.


Probabilmente si tratta di posizioni fisiologiche sia per il bambino, sia per chi lo porta. Una modalità di trasporto in una posizione non fisiologica, che a lungo andare avrebbe procurato danni alla postura di un’intera popolazione, sarebbe stata abbandonata presto a favore di pratiche più fisiologiche. Una società tradizionale che conta sul lavoro (fisico) di ogni suo membro non può permettersi lo sviluppo e il mantenimento a lungo di una pratica del portare non fisiologica.2


I supporti ausiliari sono molto vari e diversi fra di loro e rispecchiano cultura, modo di vivere, disponibilità di materie prime, clima, ricchezza o povertà di chi porta, addirittura valori sociali. Se i bambini per esempio sono un sinonimo di fortuna, anche i supporti, di infinita bellezza, sono spesso curatissimi nei dettagli, cuciti e ricamati finemente.3


I portabebè di ieri e di oggi sono fatti di stoffe semplici, di tessuti ricamati o stampati, con lacci lunghi o semplici teli corti, adeguatamente piegati e annodati. Sono reti di canapa o di altre fibre grezze, cesti, zaini più o meno imbottiti. Ci sono portabebè fatti di pelle, di pelo, di cuoio. Sulla schiena i bambini sono adagiati nel supporto a gambe divaricate o in diagonale, tutti fasciati. Sul fianco i bambini seduti a cavallo vengono sostenuti da cinture di fibre naturali o teli corti di cotone. Se le condizioni climatiche lo permettono sono portati a contatto pelle a pelle.4

In molte culture il supporto portabebè tradizionale ha un nome proprio, indice di una cultura del portare. Per citare solo i più conosciuti, si possono incontrare il Mei Tai in Cina, il Podeagi in Korea, l’Onbuhimo in Giappone, il Bambaran in Guinea Bissau, il Pagne in Senegal, il Kanga in Kenya, il Kikoy nelle parti della costa occidentale africana, il Bilum in Papua Nuova Guinea, il Selendang in Indonesia, il Rebozo in Messico, l’Amautik dagli Inuit in Alaska.


In Centro America e nelle Ande i piccoli vengono portati sulla schiena, legati con un telo quadrato piegato a triangolo e annodato davanti.

In Africa i bambini vengono portati sulla schiena bassa con dei semplici teli di cotone della lunghezza di appena 2 yard (180 cm) e senza nodo.
Nelle regioni asiatiche (Cina, Vietnam, Thailandia, Indonesia) i piccoli sono portati con una specie di fascia quadrata (40 cm per 40 cm) a cui sono fissati dei lacci lunghi con cui si annoda il supporto attorno al corpo.

La maggior parte dei portabebè tradizionali sono morbidi e molto adattabili (supporti semi o non strutturati) e permettono di portare “a contatto”. Un’eccezione costituiscono gli indiani pellerossa che portavano i loro bambini non a contatto diretto, ma fasciati sulla schiena (rivolti all’esterno) su una tavola o dentro una culla rigida (cradleboard).

Laddove è possibile e per tratti lunghi, i bambini non solo vengono trasportati sulla propria schiena, ma anche in cesti e culle portatili sul dorso dei cavalli e degli asini o sulle slitte. Trasportare i bambini fino alla loro autonomia motoria è faticoso, ma spesso sono i fratelli più grandi che si fanno carico del piccolo mentre il padre o la madre porta ceste o vasi molto più pesanti.


Tras-portare i bambini addosso in molte parti del mondo è indispensabile perché mancano alternative più comode e ugualmente sicure. Per tratti lunghi o durante il lavoro della madre i bambini vengono portati soprattutto sulla schiena e girati al bisogno sul fianco o davanti per essere nutriti. I supporti ausiliari che legano i bambini in modo saldo al corpo del genitore sono adatti ai bisogni e alle condizioni di vita di ciascuna popolazione. I bambini vengono trasportati finché non camminano da soli e dopo su richiesta, spesso dai fratelli poco più grandi o da altre persone della famiglia disponibili.

I.1.2. In Europa

Oggi, per tras-portare un bambino in Europa, viene proposta una serie di accessori indispensabili (e costosi):

  • carrozzina prime settimane (navicella)

  • passeggino (dopo alcuni mesi)

  • passeggino a tre ruote per le lunghe passeggiate

  • passeggino pieghevole (buggy) per il bambino più grande (fino a 4/5 anni)

  • ovetto per la macchina (fino a 9 mesi)

  • seggiolino per la macchina (dai 9 mesi in poi)

La lunga lista di accessori per il trasporto del bebè lascerebbe presupporre che i bambini siano volentieri e spesso portati “in giro”, ma in realtà non è così. Anzi, parlando con molte mamme, emerge che la loro mobilità con un bambino piccolo è molto limitata. Molte madri fanno fatica a uscire di casa con il neonato perché lo ritengono troppo faticoso. Preferiscono uscire da sole o non uscire affatto.

“In molte parti basta uno strumento per portare il bambino dappertutto, mentre nella nostra società, dove siamo attorniati da una grande quantità di accessori, portare con sé il bambino non è diventato più semplice né considerato naturale”.5


Solo da alcuni anni si aggiungono a tale lista i supporti per tras-portare addosso un bambino, per esempio il marsupio oppure uno zaino per fare delle passeggiate. Nelle riviste e guide all’acquisto per mamme di bebè, il marsupio viene consigliato “a genitori con uno stile di vita attivo” che “vogliono portare il loro bambino con sé”. Il marsupio, “la perfetta alternativa alla carrozzina per uscire”, da usare per “una breve passeggiata” o per “spostamenti in città che prevedono l’utilizzo di mezzi pubblici”. Non manca mai comunque il consiglio di non portare troppo a lungo di seguito, “per dare al bambino la possibilità di muoversi e di sgranchirsi fuori dal prodotto e per fare riposare la schiena dell’adulto”.


La grande quantità di prodotti e rifiniture – “dal design innovativo e accattivante” – mostra un mercato in crescita. Infatti gli strumenti per trasportare addosso il bambino in Europa sono in netta crescita e dimostrano quindi una richiesta in aumento, anche se sono ancora prodotti considerati marginali. Nella copia omaggio6 di una guida all’acquisto per mamme troviamo 24 prodotti tra marsupi e zaini descritti, mentre ci sono ben 33 passeggini/carrozzine diversi combinabili e ben 60 passeggini pieghevoli pubblicizzati!


La presenza della carrozzina, così scontata, potrebbe fare pensare che ci sia sempre stata, ma invece si tratta di una invenzione piuttosto recente (rispetto alla storia dell’umanità).

Storia del trasportare i bambini in Europa

Sebbene si possa pensare diversamente, fino al tardo Medioevo anche in Europa tras-portare i bambini piccoli sul proprio corpo era una pratica diffusa e forse addirittura scontata.


Nelle raffigurazioni della Sacra Famiglia si trova l’indizio che la modalità del portare fosse socialmente accettata. In un dipinto medievale di Francken il bambino Gesù viene portato da suo padre Giuseppe dentro una fascia sul fianco. Anche Giotto, nella cappella areniana di Padova, nel tardo Medioevo rappresenta Maria nella fuga in Egitto con il bambino Gesù seduto sul fianco e assicurato da una fascia corta.

Nell’antichità i bebè erano trasportati in ceste fissate sul dorso degli asini o alla schiena dei genitori, ma Sorano di Efeso (98-138 d.C.) consigliava l’uso di una piccola carrozzella fino ai quattro mesi, solo più tardi “la nutrice potrà portare il bambino in braccio e passeggiare a piedi o abbandonarsi al dondolio di un carretto”.7


I supporti per portare i bambini erano diversi, da teli corti annodati per piccoli spostamenti a cesti in vimini o pelle portati sulla schiena oppure fissati sul dorso degli animali da soma. Anche le culle, piccole e maneggevoli, sono contenitori per trasportare i bambini, utili durante il giorno, perché la notte la maggior parte delle madri tiene il bambino piccolo con sé nel letto.


“Succede che gli uomini arrivino a caricarsi la culla sulle spalle e le donne… sulla testa, come un vaso di latte!”8

Nel Rinascimento raffigurazioni del trasporto dei bambini mostrano bambini portati in zaini e strumenti di legno sulla schiena di madri zingare, mendicanti, e comunque contadine e povere. Nei ceti sociali più altolocati il bambino, affidato alla balia, viene portato sulle braccia, adagiato su un grande cuscino.


Nel XVI secolo le bambinaie e le madri cominciano a ricorrere all’uso di piccoli carretti da trainare, di cui all’inizio si servono in casa. Infatti, in assenza di strade spianate e asfaltate, portare a passeggio il bambino su questi carretti avrebbe significato esporlo a eccessivi pericoli. Solo nella seconda metà del XIX secolo nasce la “carrozzina” per l’aria aperta.

La carrozzina

Le prime carrozzine, non più carretti da trascinare ma mezzi a tre ruote da spingere, vengono prodotte nel 1840 in Inghilterra. Nel 1855 il reverendo Armstrong annota nel suo diario: “Le strade di Londra sono piene di carrozzelle, macchine per bambini che non conoscevo, in cui i bebè sono spinti invece che tirati dalle loro balie”.9


Presto la carrozzina è un successo e soprattutto per i ceti altolocati diventa un segnale distintivo di benessere come, del resto, la presenza della balia che la spinge per le strade di Londra. Ma la carrozzina aveva il limite che non era adatta a bambini che non stavano ancora seduti, prima dei sei mesi di età.


Nel 1876 un fabbricante di carrozze costruisce una carrozzella a quattro ruote per portare a passeggio i suoi piccoli, ma la polizia vieta a questo veicolo la circolazione sui marciapiedi perché classificato come vettura fatta per circolare su strada. Questo problema non riguarda solo l’Inghilterra; in Germania, nel XIX secolo, bisognava prendere la patente per passeggino.


Verso il 1880 viene messo a punto un nuovo veicolo che sfugge a queste regole e permette di trasportare i lattanti coricati: un telaio munito di ruote viene adattato a una culla di vimini, importata dalla Francia. Fragili e difficili da pulire questi canestri a rotelle sono stati sostituiti alla fine del XIX secolo da altri costruiti con materiali diversi, tipo legno, cartapesta, pelle spessa. Nei grandi centri abitati dell’Inghilterra si fa a chi esibisce la carrozzina più bella. Illustrate in cataloghi che ne elogiano le qualità le carrozzine sono disponibili in tanti modelli magniloquenti: l’ascot, l’albania, il parigino… Come le carrozze che le hanno ispirate, le carrozzine sono disponibili anche nelle versioni con lo stemma di famiglia dipinto sui fianchi.


A partire dai primi anni del XX secolo i passeggini diventano sempre più sofisticati e i fabbricanti fanno a gara a chi è più ingegnoso. Le invenzioni, utili o strambe, si moltiplicano: carrozzine trasformabili in culla, in girello, in slitta o in altalena; carrozzine con sedia pieghevole incorporata per la balia, ecc.10

Inventata in Inghilterra, la carrozzina prese piede velocemente in tutti i paesi europei, e una volta resa accessibile dal punto di vista economico anche ai meno abbienti, si diffuse rapidamente come unico mezzo di trasporto per bambini piccolissimi e piccoli, anche se non era priva di rischi.


A partire dagli anni Venti, l’eleganza e il lusso cedono il passo alla sicurezza e al comfort. La carrozzina non è più oggetto di rappresentanza: diventa molto più bassa per prevenire le cadute dei bebè, le ruote si rimpiccioliscono ma vengono migliorate le sospensioni e l’imbottitura. Non sono più di legno, in pelle o in vimini ma diventano di acciaio. L’acciaio permette per la prima volta la produzione in serie di carrozzine di qualità a prezzi accessibili. Nei giardini, le madri si sostituiscono poco alla volta alle tate, che si fanno più rare: esplode il boom delle carrozzine pieghevoli, che arrivano dagli Stati Uniti. I manuali per madri in attesa raccomandano l’uso di questo mezzo, ma non senza precauzioni: dopo un piccolo apprendistato per esercitarsi a salire e scendere bene i marciapiedi di città senza fare sussultare il bambino bisogna imparare a evitare per quanto possibile gli scatti e i sobbalzi, che causano vibrazioni che potrebbero dare reali inconvenienti al piccolo. Bisogna camminare sempre molto dolcemente. Infine, ultima raccomandazione da fare: non lasciare mai, nemmeno per un istante, la carrozzina mentre si cammina; la più piccola negligenza può essere causa, soprattutto nelle grandi città, di spaventosi incidenti.11

Oggi, in Europa e nei paesi industrializzati, la carrozzina e poi il passeggino superaccessoriati fanno parte del corredo obbligatorio e indiscusso come mezzi di trasporto per un bambino piccolo. I genitori hanno solo l’imbarazzo della scelta!
Altri mezzi di trasporto

Oltre ai mezzi “a ruote” oggi i genitori possono scegliere anche supporti ausiliari per portare i bambini addosso. Di facile reperibilità nei negozi per la prima infanzia si trovano marsupi e zaini delle maggiori case produttrici per prodotti della prima infanzia; mentre nei negozi specializzati e soprattutto in internet si trovano supporti “alternativi”.


Trasportare un bambino “a ruote” o trasportarlo addosso; in Europa oggi si può scegliere come, se e quando tras-portare il proprio bambino con una soluzione o con l’altra.


Anche se il trasporto a ruote è ancora la soluzione scontata, mentre il trasporto addosso ha l’aria di essere una soluzione “alternativa”, quest’ultima sta conquistando punti per una comodità diversa da quella prettamente fisica-posturale di chi porta. Infatti, nelle giungle delle città, in metrò, sull’autobus, nei negozi stretti, nei centri commerciali, ma anche in montagna oppure in campagna molti genitori cominciano a preferire il marsupio alla carrozzina per motivi di comodità e di libertà di movimento.


Affermare che il marsupio sia sempre la soluzione “più comoda” e “meno faticosa” però è irragionevole, soprattutto quando si tras-porta un bambino che ha superato i sei mesi. Infatti portare non si esaurisce nella sua funzione di mezzo di trasporto ottimizzato. Se fosse solo una questione tale non si spiegherebbe il fatto che molte popolazioni continuano a portare i loro bambini nonostante le loro città abbiano le strade asfaltate.


Si spiega soltanto se portare viene considerata una pratica che si integra nel modello di cura dei bambini piccoli di una popolazione, un aspetto altrettanto importante nel considerare la realtà portata nel mondo oggi.

II.2. PORTARE COME MODALITÀ NEL MODELL O DI CURA

Le pratiche di maternage diffuse nelle diverse parti e culture del mondo sono molto varie e rispecchiano usanze, tradizione, ambiente, clima, stile di vita, situazione economica e sociale di una determinata popolazione. Nello studio trasversale comparativo su 186 società, industrializzate e non, di Murdock e White,12 è emerso che nelle società tradizionali i bambini vengono portati dall’80-90% delle madri, nelle società non industrializzate dal 56%, mentre negli Stati Uniti i bambini passano solo il 25% del giorno a contatto fisico.


Dati confermati anche nello studio di Lozoff e Brittenham,13 che descrivono come nelle società tradizionali e non industrializzate il contatto corporeo del bambino con la madre o un altro adulto durante il giorno è più del 50%, mentre nelle società industrializzate la percentuale è molto più bassa.


In uno studio britannico recente14 è stato rilevato che le madri tengono il loro bambino di 6 settimane in braccio addormentato oppure quando piange per una durata complessiva di 61 minuti nelle 24 ore. A un anno di vita questo tempo si riduce a 17 minuti. Ovviamente, questo è considerato il contatto “in più”, oltre al tempo per l’allattamento, il cambio e il bagnetto. Le madri britanniche, nello studio, spendono 3 ore e 27 minuti per la cura fisica dei loro bambini, mentre a un anno di vita sono 2 ore e 23 minuti nelle 24 ore. In un altro studio15 emergono dati simili, anche se il tempo del contatto corporeo sembra più alto. I bambini a 2 settimane di vita vengono tenuti in braccio per un tempo di 1 ora e 57 minuti al giorno, tempo che si aggiunge al tempo per l’allattamento (4 ore e 12 minuti). A sei settimane il tempo in braccio è aumentato a 2 ore e 11 minuti mentre il tempo per l’allattamento è ridotto a 3 ore e 38 minuti.


Al di là delle differenze tra culture, costumi, tradizioni, nell’etnopediatria16 si suddividono sostanzialmente due approcci nelle cure materne.


Da un lato c’è un approccio, che Balsamo chiama ad alto contatto, che corrisponde al concetto di contatto prossimale17 e al modello pediatrico,18 dall’altro lato troviamo l’approccio a basso contatto oppure distale oppure il modello pedagogico.

Il modello ad alto contatto

Questo approccio mira all’obiettivo di proteggere la salute (e quindi la sopravvivenza) dei bambini, quindi accetta e risponde ai loro bisogni innati.


Il modello ad alto contatto è caratterizzato da uno stretto e intenso rapporto fisico tra madre e bambino che inizia fin dalla nascita.


Il parto avviene in ambiente domestico, il neonato rimane per un lungo periodo a contatto pelle a pelle con la mamma, l’allattamento avviene a richiesta del bambino e per periodi prolungati. La notte il bebè dorme nello stesso letto con la madre o nelle immediate vicinanze e durante il giorno viene portato sulla schiena della mamma, che accompagna in tutte le attività quotidiane. I bambini godono dunque di un’esistenza da piccoli marsupiali che li immerge fin da piccolissimi nella vita degli adulti, alla quale partecipano attraverso tutti i loro sensi. I lattanti africani passano solo il 10% del loro tempo sdraiati. Appena sono in grado di muoversi e manipolare vengono lasciati liberi di esplorare l’ambiente che li circonda e gli oggetti che vengono loro offerti sono quelli reali, tipici dell’universo domestico.


La risposta al pianto dei bambini da parte degli adulti è immediata. (…) In questo contesto rientra il concetto di cure condivise, per cui l’impegno della crescita dei bambini non grava solo sulle spalle dei genitori, ma è suddiviso tra l’intera comunità.19

Riassumendo, il modello ad alto contatto prevede:

  • nascita in ambiente domestico

  • riposta immediata e diretta (tramite contatto corporeo) ai bisogni del bambino e quindi:

  • allattamento a richiesta

  • contatto pelle a pelle

  • portare

  • cosleeping

  • cure materne condivise

Il modello ad alto contatto è più frequente nelle società tradizionali, organizzate come cacciatori-raccoglitori, nelle società non industrializzate, nelle zone di clima caldo della terra, ed è diffuso in tutti i continenti.


La pratica del portare assume, in questo contesto, il significato di una modalità integrata nel modello di maternage ad alto contatto.

Il modello a basso contatto

Il maggiore obiettivo di questo approccio dovrebbe essere di insegnare ai bambini a diventare precocemente indipendenti dai loro genitori dal punto di vista emotivo, e di sviluppare spiccate capacità cognitive.


Il modello a basso contatto invece è caratterizzato da una relazione mamma-bambino basata prevalentemente sullo sguardo e sull’espressione verbale.


La nascita quasi sempre avviene in strutture altamente medicalizzate in cui si fa un notevole ricorso alla tecnologia. Il taglio del cordone ombelicale è immediato e il neonato viene per lo più separato dalla madre per essere sottoposto alle procedure di routine.


I lattanti occidentali passano il 70% del loro tempo sdraiati in un lettino o in una carrozzina, vengono nutriti per lo più al biberon e se al seno solo per i primi mesi di vita.


La notte i bambini dormono nel loro lettino e spesso anche in una camera separata da quella dei genitori. Di giorno passano da un contenitore all’altro: infant-seat, seggiolone, box, girello, etc. Più diventano autonomi nel movimento e più vengono limitati nelle loro libere attività.


Il modello a basso contatto, essendo prerogativa delle famiglie mononucleari, è infine caratterizzato da una non condivisione delle cure materne, tale per cui tutto l’oneroso impegno di accudimento del bambino grava unicamente sulle spalle della madre, solo sporadicamente supportata dal partner.20

Riassumendo, il modello a basso contatto prevede:

  • nascita industrializzata – separazione madre bambino

  • risposta ai bisogni del bambino non immediata e per lo più “indiretta” (tramite surrogati)

  • allattamento al seno minimo, spesso artificiale

  • interazione diretta visiva e verbale con il bambino

  • durante il giorno in contenitori vari

  • sonno solitario

  • famiglie mononucleari – cure materne non condivise

Si può riassumere che questo modello si basa soprattutto sulla separazione corporea del bambino dalla madre per una gran parte del giorno e della notte, mentre prevede una forte interazione verbale e visiva con il piccolo in concomitanza con una risposta al pianto certo non immediata.21
Il modello a basso contatto è un modello “inventato” nel corso dell’industrializzazione e quindi relativamente recente (200 anni circa). Ancora oggi è il modello di maternage riconosciuto e di riferimento delle società industrializzate, la base della nostra cultura visiva.
I.2.1. Portare nelle società ad alto contatto

Molte, ma non tutte le società tradizionali e non industrializzate sono società ad alto contatto. Ci sono tante testimonianze importanti rispetto alle pratiche del portare, che impressionano sempre di nuovo antropologi, etnologi, giornalisti e missionari europei, provenienti da una cultura a basso contatto e dei quali riporto qualche impressione:

Le madri in Zimbabwe mi hanno più volte confermato che ogni bambino dopo la sua nascita per tre anni ha il diritto di vivere in groppa a sua madre. Questa “groppa” non è un termine spregiativo: si tratta della rupe sulla schiena del mondo. Nei linguaggi Bantu viene descritta con una propria parola, perché si tratta di una parte importante della schiena. Il bambino si trova “incollato” sul continente schiena in groppa, in quel luogo, che serve per spiccare il volo, nel luogo di partenza nel viaggio della vita.22


I bambini nelle società ad alto contatto non piangono quasi mai, vivono immersi nel ritmo della vita della loro tribu, i loro bisogni primari vengono soddisfatti prontamente.


La famiglia africana è immancabilmente il quadro entro il quale il bambino scopre progressivamente il mondo. (…) Per un tempo assai lungo, e cioè fino a che possa camminare da solo, il bambino rimane a contatto strettissimo con la madre. Si può dire che la cultura fornisca un sistema di “nascita progressiva”, in un certo modo attenuando il trauma del passaggio dalla vita intrauterina a quella autonoma, almeno in senso psicologico. (…) Soddisfatto e confortato dal contatto fisico con la madre e dal senso di sicurezza che ne trae, sopporterà di buon grado durante il giorno tutte le scosse anche violente provocate dalla spesso dura attività materna (basti pensare alla molitura del miglio nel mortaio di legno), durante la quale non mancherà di fare anche i suoi pisolini, mentre dal suo sicuro marsupio potrà anche farsi una prima ma larga idea visiva del mondo esterno, nel villaggio, per la strada, al mercato, senza peraltro doversi direttamente impegnare.23


Secondo l’osservatore si spiega così una percentuale di malattie mentali estremamente bassa.


Anche le osservazioni di Bateson e Mead su Bali riportano lo stile ad alto contatto:

Il bambino balinese è portato liberamente sul fianco, come nella maggior parte dei villaggi di pianura, sia dentro un’imbracatura, come a Bajoeng Gede, ma anche dove la mano della madre è sostituita dall’imbracatura, il bambino si adatta lo stesso, passivo e con totale flessibilità, ai movimenti del corpo della madre. Può anche dormire con il capo dondolante alla cadenza del pestello con il quale la madre batte il riso nel mortaio.24

Portare, nell’approccio ad alto contatto, è una modalità per stare con i bambini ed è fisiologica, normale attività integrata. Una madre ad alto contatto non si aspetta di mettere giù il bambino al più presto per avere le mani libere e non si lascia neanche bloccare nelle sue attività quotidiane dal bambino al centro delle sue attenzioni. Si aspetta che il bambino stia con lei, addosso a lei, e lo porta con sé.
Valore simbolico attribuito al portare

Nelle società ad alto contatto esiste quindi una cultura del portare, che si esprime oltre che nella ricchezza dei supporti ausiliari anche nel linguaggio, in cui si trovano termini specifici per la pratica del portare i bambini.


Ma il suo significato non è solo implicito. Lo psicologo Oumou Diodo Ly in Les rituels du coucher de l’enfant, spiega il significato simbolico del supporto per portare il bambino:


In Senegal si utilizzano due pezzi di tessuto (pagnes), ognuno dei quali riveste un ruolo preciso. Il primo pagne è quello che lega il bambino alla madre, viene tessuto artigianalmente e preparato, appena nato il bambino, dalla mamma o da una donna della famiglia materna. Servirà a portare il neonato fino al momento del distacco dal seno e poi passerà in eredità ai suoi fratelli minori. Esso rappresenta il ventre-utero materno ed è per questo che apparterrà anche agli altri bambini che vivranno nello stesso luogo del corpo materno. Questa pelle comune al bambino e alla madre è importante quasi quanto il bambino stesso ed è perciò oggetto di attenzioni particolari: non deve per esempio mai essere lasciata fuori di notte perché potrebbe essere utilizzata per esercitare il malocchio nei confronti del bambino, che potrebbe ammalarsi e anche morire. Il secondo pagne invece è una specie di coperta – e come tale viene anche utilizzata – che viene posta sopra al primo pezzo di tessuto: è un dono della famiglia paterna ed appartiene esclusivamente al bambino, che lo porterà con sé anche quando sarà cresciuto e lascerà la famiglia per andare a studiare lontano da casa. Questo secondo pezzo di tessuto rappresenta il processo di differenziazione e separazione del bambino nei confronti della madre e degli altri fratelli e svolge la funzione di pelle rinforzata e invulnerabile.25

Globalizzazione e perdita della pratica del portare

Sulla scia della globalizzazione e nella rincorsa dei paesi del Sud del mondo ad adeguarsi ai valori occidentali, sembra che la pratica del portare stia sparendo. Al Imfeld lo constata con rammarico: “purtroppo il mondo visto dalla groppa sta scomparendo e di conseguenza anche lo sguardo e l’inizio spirituale diverso della vita”.26


Nelle grandi metropoli in Cina (Shanghai, Pechino) non si porta più da tempo; portare i bambini è rimasta una tradizione radicata nelle remote campagne. Ma ci sono anche altri esempi:

In un articolo pubblicato sul “Washington Post” viene riportato che la vendita dei passeggini a Nairobi, capitale del Kenya, è decisamente un flop. Anche se i passeggini hanno fatto il loro ingresso ormai in tutte le grandi metropoli africane, sono considerati scomodi, non adatti e addirittura dannosi per i bambini e la relazione madre-bambino. Frank Njenga, uno psichiatra infantile di Nairobi, afferma: “La carrozzina è il mezzo per spingere il bebè via dalla madre. Il bambino sulla schiena invece segue la madre al caldo e al massimo comfort. I bambini si sentono più sicuri e persone più sicure sono persone più felici”. Anche Carol Mandi, una manager africana, non ha dubbi: “Ci sono tradizioni antiche che gli africani oggi lasciano perdere. Ma portare sulla schiena, allora questo è proprio una tradizione meravigliosa, che rende il bambino stabile emotivamente e la madre legata. Non possiamo smettere di essere donne africane anche se siamo state catapultate nel mondo moderno. Cosa succederà dopo? Che ci diranno di non allattare più in pubblico? Non esiste!”27

Migrazione e portare

Le donne provenienti da una società ad alto contatto e immigrate nell’Occidente cambiano le loro cure nei confronti dei bambini, si adeguano al nostro modello oppure mantengono il loro approccio ad alto contatto? Generalmente sembra che riescano a mantenere il proprio stile di maternage. Ma la loro vita, indubbiamente, subisce dei grandissimi cambiamenti, che possono anche influire sulle cure materne.


Probabilmente il maggiore cambiamento che affrontano è quello della mutata struttura famigliare. Se nel paese di origine le donne potevano contare su una famiglia estesa e condividere la cura dei bambini, in Italia spesso si trovano sole, ridotte alla famiglia minuscola, spesso in condizioni di isolamento sociale, senza il sostegno della comunità. Nel caso in cui la donna debba lavorare fuori casa si pone il problema della custodia, e spesso le madri sono costrette a separarsi dai figli e riportarli nel paese d’origine dove se ne occuperanno i membri della famiglia estesa al suo posto. Se invece sta a casa, insieme al bambino, spesso continua le cure tradizionali nei suoi confronti, continua a tenere il bambino a contatto, a portarlo in casa e fuori.28 D’altronde si nota che soprattutto la pratica del portare è soggetta a cambiamenti. Probabilmente perché in Italia esiste una scelta di mezzi alternativi per contenere e trasportare il bambino proposti come più comodi e dalle donne avvertiti come più adatti al modello sociale vigente.

Parlando con le donne di una comunità marocchina in Italia, le giovani non vogliono portare i loro piccoli nel modo tradizionale (con una fascia corta sulla schiena) perché si vergognano delle loro antiche tradizioni, che considerano così arretrate. Pertanto sembra loro più appropriato spingere la carrozzina come tutte le donne italiane. Solo all’interno delle mura domestiche qualcuna ammette sottovoce di mettersi il bambino addosso. Oppure che è la nonna a metterselo sulla schiena quando piange.


Le donne provenienti dall’Africa Centrale invece portano ancora i loro piccoli nel modo tradizionale, anche se ultimamente sembra che molte portino i neonati in un marsupio occidentale, mentre spingono il passeggino con il bambino più grande.


La perdita della pratica tradizionale del portare per le comunità immigrate non solo è un valore perso, ma può mettere a rischio lo sviluppo adeguato del bambino. Spesso queste madri che cercano di adeguarsi al modello a basso contatto non sono abituate a interagire in modo non corporeo con i loro bambini, attraverso l’espressione vocale e l’interazione visiva, tipiche del modello a basso contatto. Se la pratica del portare viene tralasciata, ma non rimpiazzata da un’adeguata stimolazione e un’interazione visiva e vocale, il bambino riceve una stimolazione sensoriale scarsa che può determinare un ritardo nel suo sviluppo senso-motorio. Sarebbe molto importante valorizzare le donne immigrate nelle loro pratiche tradizionali ad alto contatto.

I.2.2. (Non) portare nelle società a basso contatto

Portare non è una modalità in linea con il modello a basso contatto vigente oggi in Europa e in quasi tutte le società industrializzate.29 Così non sorprende il fatto che la maggior parte dei genitori di oggi non conosca questa pratica e il suo significato per il bambino.


Ma se il cambiamento fosse davvero così recente, si potrebbe attingere di nuovo con relativa facilità a un modello a contatto, e farlo rinascere. Questo significherebbe che prima dell’industrializzazione esisteva un maternage a contatto dove il portare era una modalità integrata di questo approccio. Oppure bisogna chiedersi se le radici della separazione sistematica tra madre e bambino, del basso contatto, della relazione distante, siano da ricercare molto più addietro nella nostra storia.


Abbiamo visto che in Europa, fino al tardo Medioevo, trasportare il bambino in modo sicuro da un luogo all’altro in braccio o con l’aiuto di una fascia corta e per tragitti lunghi in zaini e mezzi simili, era indiscusso e normale. Ma all’interno delle case, nelle pratiche di maternage, il portare come modalità di stare con il bambino probabilmente aveva cominciato a cedere da molto tempo il passo ad altre modalità, finalizzate non a fornire, ma a suggerire la presenza materna.


Renggli30 dimostra che quando l’uomo divenne sedentario (circa 10.000 anni fa), assieme all’affermazione dell’agricoltura sistematica, i bambini venivano messi giù e lasciati in contenitori all’interno delle case, considerate sicure. L’uso di contenitori al posto delle braccia era il primo passo per separare in modo sistematico il bambino dalla madre e per abituarlo a sopravvivere senza il contatto corporeo diretto e continuo con la persona che si prendeva cura di lui.

Iniziò allora la lunga epoca dei surrogati materni, che ha segnato con maggiori e minori accenti la cultura occidentale negli ultimi 10.000 anni. Oggi la società a basso contatto si mantiene e si sostiene anche attraverso i surrogati e ne ha creato un mercato molto proficuo con un fatturato annuo complessivo stimato in centinaia di milioni di euro solo in Italia; i prodotti di consumo per la prima infanzia, che contengono il bambino, lo stimolano, lo rassicurano, hanno raggiunto livelli di perfezione a livello estetico e funzionale, tanto da mettere molti neogenitori in crisi prima davanti alla lunga lista di prodotti con cui si devono confrontare quando nasce un bambino e che serviranno per deporlo: culla, lettino con le sbarre per la notte, navicella, box come contenitore diurno, il girello, la sdraietta regolabile, il seggiolino il seggiolone; e poi quando si accorgono che il loro bambino (spesso) non apprezza affatto tutti gli accessori appositamente comprati per lui. Perché gli accessori contenitori che i genitori comprano, preparano, dando per scontato che servano a tutti gli effetti, altro non sono che una sostituzione artificiale dello spazio in braccio, del contatto e del movimento addosso al corpo del genitore.
Contenitori al posto delle braccia

I primi contenitori per bambini neonati risalgono molto addietro nella storia umana.31 Infatti sembra che le prime culle32 siano stati pezzi di tronchi d’albero scavati, e in diverse forme e materiali sono in uso in quasi tutte le parti del mondo, anche nelle società tradizionali. Ci sono culle fatte di corteccia e imbottite di foglie. Le donne spartane usavano gli scudi concavi degli uomini come culla, gli antichi greci e romani avevano le culle profonde “a vasca”, che forse sono le più note fino a oggi. Sono fatte di vimini o di legno. Ci sono culle con cielo e culle aperte, culle feudali con lo stemma di famiglia e culle in legno intarsiato con simboli pagani per proteggere il piccolo dal malocchio.33


Alle culle seguivano altri contenitori per fare fronte a situazioni diurne diverse del bambino in crescita; si incontrano i primi girelli e seggioloni nel medioevo, molto più recente è l’uso del box, che lascia al bambino, entro limiti ben precisi, una certa libertà di movimento a terra.

Storia e significato della culla

La culla è definita un piccolo contenitore aperto che può oscillare e che è di una dimensione tale da poter essere spostato agevolmente da una stanza all’altra. Il significato iniziale dato alla culla era quello del movimento ritmico, che rassicura e rasserena un bambino agitato e lo concilia al sonno. Infatti già nell’antica Grecia la culla era tema e oggetto di pareri di esperti. Così Platone (500 a.C.) scriveva: “Per la salute del corpo e dell’anima di tutti i bambini, sarebbe vantaggioso trovarsi sempre in movimento, di notte come di giorno, come in una specie di oscillazione; in definitiva sarebbe vantaggioso per loro vivere come se navigassero sempre sul mare”.34


Un po’ più tardi, il medico romano Galeno (129-199 d.C.) consigliava per neonati irrequieti di allattare, cullare e cantare ninne nanne. Dai Romani infatti cullare era una vera professione: la cunaria35 o il cunarius erano servi incaricati di cullare36 il neonato!37


Nel medioevo, il filosofo e medico Avicenna (985-1037 d.C.) suggerisce di cullare dolcemente il bambino dopo che sia stato allattato, senza però esagerare il movimento perché il latte nello stomaco potrebbe andare a male.


Fino al tardo Medioevo la culla era rimasta un contenitore diurno, che serviva alla madre per tenere il bambino nelle vicinanze quando sbrigava le faccende. “Perché la notte la madre preferisce tenere il bimbo non ancora svezzato con sé: lo nutre, lo riscalda, lo rassicura. Ma, con il pretesto di lottare contro il soffocamento dei lattanti, la Chiesa si oppone a questa abitudine. Così le madri lasciano, a malincuore, il bebè nella culla di notte”.38


Ma a partire dal Rinascimento, quando i medici cominciano a occuparsi di allevamento e di cura dei bambini, non solo quasi tutti sconsigliano di dormire insieme al bambino, ma molti proclamano che è anche sconsigliabile cullare i bambini, perché il movimento può stordirli, causare una cattiva digestione e creare problemi al loro “tenero cervello”.39


A livello accademico, la discussione attorno alla culla si rese molto accesa. Il filosofo Rousseau, che non riconobbe nessuno dei suoi cinque figli, finiti tutti in orfanotrofio, era contrario alla culla e al cullare, e nel suo Emile,40 uscito nel 1762, condanna duramente questa pratica perché potrebbe corrompere il bambino.


Tuttavia altri medici del XVIII secolo spiegano che cullare è una buona abitudine, perché anche bambini in crisi di pianto si calmano e si addormentano dolcemente. In questo modo, la gente comune continuava fino al XIX secolo a usare la culla e a cullare i bambini.


Solo allora la culla viene definitivamente condannata. “La migliore culla è quella che non può cullare”, dice Pinard, un medico francese.41 Anche in Germania, alla fine del XIX secolo, si consiglia una cesta o un lettino per contenere il bambino, ma assolutamente non una culla e il bambino ovviamente non deve dormire con la madre. La motivazione di tale consiglio è che il bambino potrebbe contrarre un’infiammazione degli occhi, contaminati dal flusso della madre. Importante è una cesta trasportabile che può essere portata dappertutto nei primi mesi.42 Contemporaneamente si ammonisce, per esempio nel Buch der Muetter,43 dal dormire insieme, e anche le culle non sono ben viste perché potrebbero viziare il bambino.


“Cullare è molto in voga presso le nutrici, con questo mezzo calmano facilmente il loro bimbo. È un’abitudine che sarà meglio perdere, poiché il bambino abituato a essere cullato non può più farne a meno; diventa ‘cullomane’ e niente può provare che questo movimento oscillatorio, ripetuto così di frequente, non nuoccia al sistema nervoso, a quell’età delicato”.44


All’inizio del XX secolo un autore consiglia di portare in braccio il bambino, ma poi si legge: “speriamo che tu non abbia una culla. Questo strumento di tortura dovrebbe essere estinto dappertutto. Cullare significa inebriare per via meccanica. Tranquillizza perché inebria”.45


In quel periodo la modalità di sedare i bambini con vari mezzi come l’oppio e l’alcool era molto diffusa e probabilmente la teoria che la culla inebri era anche un modo per sensibilizzare i genitori rispetto al problema. Dopo questo periodo, nei libri per genitori, la culla e il cullare non furono neanche più presi in considerazione nelle pratiche per la cura dei neonati.46


Oggi in Italia la culla, contenitore piccolo, mobile e oscillante, sembra aver lasciato lo spazio ad altri contenitori multifunzionali; lettini fissi con nidi incorporati o direttamente la carrozzina (navicella), che funge da culla anche in casa. Quest’evoluzione viene considerata una perdita da molti esperti perché, considerando la nostra cultura a basso contatto, ritengono la culla un buon mezzo per suggerire la presenza materna al bambino, “per rasserenarlo attraverso il movimento oscillante” e per procurargli di conseguenza l’importante stimolazione vestibolare.47


Ma vediamo ora la fasciatura del neonato come un altro esempio di pratiche tradizionali per suggerire la presenza della madre.

Storia e significato della fasciatura

Già nell’antichità, nei primi mesi di vita il bambino veniva fasciato stretto dal collo ai piedi. “Il bambino deve essere fasciato perché venga data al suo corpo la figura dritta che è la più decente”, così l’ostetrico Mauriceau nel XVII secolo esprime il pensiero che il corpo molle del bambino facilmente potrebbe deformarsi.48 Condivisa dai medici fino al XVIII secolo, questa convinzione resterà radicata nella cultura contadina fino al dopoguerra. Una signora oggi settantacinquenne veronese mi racconta come faceva con i suoi bambini: “Ho fasciato tutti e tre i miei bambini. Era il modo per tenerli caldi tra una poppata e l’altra – non esistevano le camere riscaldate – e la comare mi diceva che la fasciatura serviva per fare crescere le gambe dritte. Ho partorito tutti i miei figli a casa”. La fasciatura aiutava a riscaldare il neonato in stanze prive di riscaldamento e quindi a proteggerlo dall’ipotermia, ma anche a farlo stare tranquillo tra una poppata e l’altra (circa ogni 3-4 ore). Le braccia all’inizio finivano dentro la fasciatura, mentre con l’età crescente lo si fasciava solo dalla pancia in giù. Le gambe, per crescere dritte, dovevano essere stirate.


Ma a livello accademico già all’epoca del Rinascimento la fasciatura veniva giudicata una pratica crudele e barbara. Rousseau, ancora in Emile, si esprimeva chiaramente per “la libertà del bambino”:

Niente fasce strette, niente bende; fasce larghe e fluttuanti che lasciano in libertà le membra e che non siano né così pesanti da impedire i movimenti né così calde da far mancare l’aria. Mettetelo in una grande culla bene imbottita dove possa muoversi a suo agio e senza pericolo… Paragonatelo a un bambino ben fasciato della stessa età: sarete stupiti della differenza dei loro progressi.49


Rousseau non fu il primo a condannare questa pratica: già nell’antichità classica Plinio il Vecchio si opponeva a questa abitudine: ”Il bambino appena liberato dalla sua prigione e già gli si danno nuovi intralci; questo re degli animali, piedi e mani legate, piange e geme; la sua vita comincia nei supplizi”.50


Sono soprattutto filosofi e medici (uomini) ad accusare le nutrici di fasciare i bambini a loro carico per comodità e per negligenza. In effetti un bambino fasciato normalmente sta tranquillo, lo si può lasciare immobile nella sua culla, o anche appendere a un chiodo o a un albero mentre la madre o nutrice lavora nei campi, ed è meno faticoso portarlo in braccio rispetto a un bambino che si muove liberamente. La condanna della fasciatura come pratica barbara a partire dal XVIII secolo ha un suo effetto solo nei ceti sociali agiati e urbani, mentre in campagna rimarrà praticata ancora per quasi due secoli.


In alcune popolazioni la fasciatura del neonato fa parte dei metodi tradizionali di infant-care, come per esempio dagli indiani del Nord America. In uno studio condotto con madri Cree, che vivono stabilmente in una riserva Cree in Canada, emerge che la fasciatura applicata tradizionalmente e la posizione supina del bambino durante la notte prevengono la morte in culla (SIDS51), mentre la fasciatura in ambienti riscaldati e il fumo in gravidanza potrebbero incrementarne il rischio.52 Questo rischio viene confermato da uno studio olandese pubblicato nel 2002,53 dove si cita il caso di una coppia di gemelli – un maschio e una femmina – che furono fasciati per molti giorni e tenuti così in una stanza ben riscaldata, come lo sono oggi molte case con impianto di riscaldamento. Al loro ricovero in ospedale soffrivano di gravi sintomi di ipertermia e di conseguente insufficienza respiratoria. Per la bambina non ci fu più nulla da fare, mentre il bambino sopravvisse. Si conclude che i genitori che fasciano i loro bambini devono essere informati rispetto ai potenziali rischi di ipertermia.

Un altro rischio connesso alla fasciatura è che può favorire malformazioni delle anche (displasia, lussazione) se le gambe vengono costrette in una posizione non fisiologica, cioè se vengono stirate. Popolazioni che fasciano tradizionalmente i loro neonati hanno un’incidenza di displasia e lussazione delle anche maggiore rispetto a popolazioni che portano i loro bambini addosso al corpo con le gambe ben divaricate. In Africa, dove i bambini vengono portati sulla schiena a gambe divaricate, la displasia e la lussazione delle anche sono malformazioni sconosciute.

Da alcuni anni si riconsidera la pratica della fasciatura, in modo più dolce e con fasce meno strette, come modalità nella cura del bambino occidentale. La medicina antroposofica consiglia di fasciare il bambino nei primi mesi di vita. La dottoressa Giovanna Gigli, del Centro Arte Medica di Milano spiega i perché della fasciatura:

Fasciare significa avvolgere, sostenere e contenere il neonato come faceva l’utero prima del parto. (…) La fasciatura, con i suoi vari strati di cotone e di lana, protegge l’organismo dai repentini cambiamenti di temperatura dell’ambiente e, insieme alla cuffia, contribuisce alla maggiore tranquillità del bambino. Oltre a fornire calore e un’esperienza di contatto, di sentirsi “tenuto insieme”, la fasciatura permette anche di sperimentare il peso del proprio corpo, il senso della gravità (pensiamo a come il contatto con le coperte ci predispone favorevolmente al sonno).54


Ma se questo approccio sembra essere in controtendenza con il modello vigente, una serie di studi e ricerche indica un interesse nella pratica della fasciatura soprattutto per il suo effetto calmante e contro il pianto eccessivo dei primi mesi. Secondo uno studio americano recente55 i bambini fasciati dormono più profondamente e più a lungo sulla schiena rispetto a quelli non fasciati. Questo è un dato importante perché attualmente la posizione supina è considerata la migliore per la prevenzione del SIDS. Molti neonati non amano dormire in posizione supina, ma se sono fasciati fino al collo gli arti sono contenuti. Questo riduce notevolmente i sussulti e i soprassalti causati per esempio da rumori forti e improvvisi, e i bambini si calmano più facilmente. Un altro studio recente56 conferma che la fasciatura può essere un aiuto per calmare e proteggere un neonato di meno di 8 settimane da troppi stimoli, mentre per il bambino più grande questo effetto calmante in risposta al pianto eccessivo non esiste più.


In un altro studio condotto per capire l’effetto che la fasciatura possa avere sul sonno e sulla soglia per rumori ambientali è emerso che i bambini fasciati dormono più a lungo (con meno risvegli frequenti dei bambini non fasciati) ma si svegliano nella fase REM all’esposizione di rumori molto meno forti. I ricercatori concludono che la fasciatura provoca sì un sonno più prolungato ma potrebbe aumentare la sensibilità rispetto a rumori ambientali.57


Andrea Savady, nel suo libro Baby Gami uscito nel 2005 in Italia, propone con tono leggero “la scienza del fagotto” (fasciatura) insieme al portare: “Non abbiate paura. Quello che ogni neonato desidera è di venire fasciato senza alcuna via di scampo e starvi appiccicato tutto il tempo possibile. Tutto ciò è molto dolce, oltre che scientificamente provato, anche se purtroppo neppure la scienza può tenerli lì per sempre”.58

A questo punto ritengo importante distinguere chiaramente tra le due pratiche: “fasciare” e “portare con la fascia”. Entrambe sono pratiche antiche ma se portare è una pratica a contatto, la fasciatura del neonato è chiaramente un surrogato di contatto e quindi una pratica che aiuta a tenere il bambino buono e distante dal proprio corpo. Sebbene entrambe le pratiche tengano conto del bisogno primario di contatto e contenimento del bambino, la qualità della risposta da parte dei genitori è decisamente diversa.


Fatto sta che oggi nell’ambiente culturale occidentale è molto più semplice e normale proporre, anche con tono leggero, dei surrogati di contatto al posto del contatto “originale”. Proviamo ad analizzarne i motivi.

L’uso dei surrogati nel corso della storia occidentale

Come abbiamo visto, nella storia della culla e della fasciatura fino al tardo medioevo l’uso di surrogati insieme a un contatto corporeo (notturno) con la madre o la balia era socialmente accettato. In questo modo comunque si teneva conto, ancora parzialmente, dei bisogni dei bambini di essere a contatto, contenuti, cullati.

Solo nel Rinascimento e con l’epoca dell’industrializzazione, quando furono condannati i surrogati, l’uso della culla e della fasciatura, del pollice e del ciuccio, e le madri furono costrette a non dormire più con i loro bambini, poté nascere la società a basso contatto, che ha cominciato a negare ai bambini i loro bisogni primari di contatto, movimento e contenimento, privandoli di conseguenza anche della soddisfazione di questi bisogni. Un’intensa interazione diretta e visiva, che sostituisce il contatto corporeo nel modello a basso contatto, è una modalità recente. Il prezzo pagato durante quell’epoca di negazione quasi totale dei bisogni primari dei bambini probabilmente è più alto di quanto si osi immaginare. Come conseguenze visibili e dirette si possono elencare sicuramente le vittime della strana malattia chiamata marasma. Nel XIX secolo in America più della metà dei bambini sotto l’anno si spegneva a causa di questo “deperimento progressivo”, di cui allora si ignoravano le cause. Ancora nei primi anni venti del XX secolo in America il tasso di mortalità dei bambini sotto l’anno in orfanotrofio era quasi del cento per cento!59


A quell’epoca il pediatra americano Emmett Holt, con il suo libretto La cura e l’alimentazione dei bambini (pubblicato nel 1894 e arrivato alla quindicesima edizione nel 1935), era riconosciuto come un’autorità assoluta sull’argomento. L’autore raccomandava l’abolizione della culla, suggeriva di lasciare giù il bambino quando piangeva, di nutrirlo a ore fisse, di non viziarlo con troppe coccole e sebbene l’allattamento al seno fosse preferibile non escludeva quello artificiale.60

Un cambiamento di pensiero, a livello accademico, si nota solo dopo la seconda guerra mondiale (!), quando si cominciano a studiare le conseguenze della privazione emotiva nei bambini della guerra. Si scoprono le cause del marasma come deperimento per mancanza di contatto e relazione. Si riscoprono “scientificamente” i veri bisogni dei neonati di contatto, movimento, contenimento e legame. Sebbene oggi a livello accademico, in psicologia, etologia e nelle neuroscienze ormai sia indiscussa l’importanza del contatto corporeo, della relazione viva, del contenimento e della soddisfazione dei bisogni primari dei bambini per un loro sviluppo ottimale, nella realtà e nella vita di tutti i giorni il contatto corporeo diretto e continuativo con il bambino non è scontato né accettato. Troppo spesso si sentono ancora voci che “piangere fa bene ai polmoni” oppure “un po’ di pianto non ha mai fatto male nessuno” oppure “lascialo giù perché altrimenti lo vizi”. Infatti oggi continua la diffidenza sociale verso una disposizione al contatto diretto e “originale” con i bambini, mentre l’uso dei surrogati, culle, ciucci, fasciatura, contenitori vari che simulano il contatto, il movimento, e che producono una sorta di contenimento, è riammesso nelle modalità di cura dei bambini in Occidente.


Ciò significa che si sono riscoperti i bisogni primari dei bambini, ma la discussione è tuttora accesa su come soddisfare questi bisogni. Indubbiamente la cultura occidentale a basso contatto continua a invitare i genitori a usare surrogati per rispondere ai bisogni dei bambini. Il bambino viene dondolato in culla, spinto nella carrozzina, mosso nella sdraietta. Gli si danno il ciuccio e il biberon (con l’acqua o la tisana) quando piange fuori dall’orario dei pasti, lo si avvolge nelle coperte in modo che si senta contenuto.


Ma non tutti i bisogni dei bambini si “coprono” facilmente con i surrogati, soprattutto nei primi tre mesi, così i genitori attenti al pianto dei loro bambini si vedono “costretti” a tenerli in braccio, perché sembra l’unico posto dove stanno veramente bene. Probabilmente è proprio quest’esperienza di arrivare al limite del surrogato e della sua “efficacia” che apre ai genitori occidentali le porte verso il portare, come pratica originale e diretta, a contatto.

Inventarsi una pratica antica portare in Europa oggi

Infatti, nonostante non ci sia mai stata in Occidente una vera e propria tradizione del portare come modalità ad alto contatto, e solo pochissimi individui possano fare leva sull’esperienza di essere stati portati da piccoli, da alcuni decenni si nota lo strano fenomeno della nascita di una pratica occidentale del portare. In testa a questo movimento si trovano gli Stati Uniti e il Nord Europa, dove il portare fu introdotto sull’onda del movimento hippy e praticato da allora da madri di un’estrazione sociale molto “alternativa”. In Germania agli inizi degli anni settanta una madre per caso ha “inventato” la fascia europea, quando si trovò nella difficile situazione di avere come terzo figlio due gemelle! Per fare fronte a loro, ai loro bisogni oltre che alla casa, si legava addosso le gemelle con una fascia portata da un viaggio precedente in Sudamerica. Fu un articolo su questa mamma “stramba” in un mensile nazionale che suscitò così tante reazioni e richieste da portarla a fondare la prima azienda produttrice di fasce portabebè in Europa e a diffondere le tecniche per legarsi i bambini addosso.61 Negli ultimi trent’anni altri l’hanno seguita, le tecniche sono state raffinate e adeguate, il Tragetuch è diventata ormai una parola popolare. Anche il mondo scientifico ha cominciato a interessarsi del come e del perché portare, contribuendo alla costruzione di un’informazione oggettiva (e non ideologica) rispetto al tema. (vedi capitolo II.1). Oggi circa il 20 % dei genitori tedeschi e svizzeri hanno una fascia lunga nel loro corredo per la prima infanzia, anche se, secondo le stime, una percentuale molto più bassa la utilizza veramente.

Nel frattempo nei paesi anglofoni e soprattutto negli USA si sta affermando una propria terminologia per il concetto del portare i bambini: da un concetto iniziale di baby carrying (portare il bebè) ora si usa molto di più: baby wearing (indossare il bebè).


La Francia, come l’Italia, è un po’ indietro e solo da un po’ di anni si sta confrontando seriamente con questa pratica. Ma negli ultimi anni anche in Italia si nota un interesse crescente da parte di genitori e operatori rispetto al tema del portare. Anche se non esiste ancora una terminologia recepita univocamente a livello linguistico, si sa cosa siano un marsupio o uno zaino portabimbi. Nuovi termini ed espressioni come “portare i piccoli” o “la fascia lunga”, introdotti da me nel 2002, si stanno rivelando efficaci per comunicare la pratica del portare e vengono utilizzati anche da altre associazioni e dalle aziende commerciali.


L’attualità del tema viene confermata anche dall’interesse dei media. Escono articoli specifici sui quotidiani e sulle riviste del settore. Esce il libro Baby-Gami, già citato prima, che descrive al pubblico italiano per la prima volta metodi di fasciatura e tecniche per portare con la fascia, anche se in modo molto superficiale. Nel 2006 Rai2 gira un servizio sul portare i piccoli. Anche su internet si trova riscontro del crescente interesse: i forum e le liste email sono piene di mamme entusiaste che si scambiano informazioni e si danno sostegno a vicenda, scambiandosi i link che spiegano le tecniche con la fascia lunga, aiutandosi nella ricerca del supporto migliore: più funzionale, più raffinato, più economico.


È evidente che la nascita della pratica occidentale del portare segue le regole della società di consumo: dopo aver letto qualche informazione sui benefici, si passa all’acquisto di un supporto ausiliare, ponendosi il duplice problema del supporto “migliore” quanto quello del “più economico”. Sembra che portare significhi comprare un prodotto, che poi viene applicato, usato, sperimentato e giudicato adatto o meno. Può succedere che il primo supporto comprato ottenga il giudizio personale di “non adatto”. C’è chi lascia perdere, ma c’è chi insiste, perché convinto dei benefici. Facendo una ricerca in internet, si trova una bella gamma di prodotti alternativi diversi. In questo modo si arriva a comprare un supporto dopo l’altro con il rischio di perdersi tra le offerte, sempre in cerca di un supporto ancora migliore.


Un altro aspetto significativo è che, sebbene si tratti sostanzialmente di una pratica antica, il portare in Occidente è oggetto di invenzione, di brevetti, di tutela di marchi. Un esempio curioso lo fornisce una ditta produttrice che cerca di tutelarsi dalla concorrenza brevettando le tecniche per annodare la fascia lunga. Questa non è una barzelletta, ma ci fa capire come il portare in Occidente sia una pratica “inventata” (anche se ispirata ai supporti tradizionali), innovativa, diversa, alternativa, fuori dal contesto culturale tradizionale, che dà impulsi nuovi, che suscita scalpore tanto che ci sono genitori che non osano mettere piede fuori casa con la fascia lunga perché si sentono guardati e soprattutto giudicati da una cultura ancora troppo legata al modello a basso contatto: “Ci guardano come se fossimo degli extraterrestri!”

Posizioni e supporti specifici occidentali per portare

In Occidente il modo più comune di portare un bambino è nella posizione frontale davanti al proprio corpo. I supporti ausiliari sono per lo più supporti strutturati; cosiddetti front pack carrier o più semplicemente marsupi.


In Nordeuropa e negli Stati Uniti sono ormai molto conosciuti anche supporti non strutturati, mentre nel Sud Europa, compresa l’Italia, la conoscenza di supporti ausiliari alternativi al marsupio è ancora molto bassa. Ovviamente i bambini vengono portati vestiti e sopra i propri vestiti, il che permette un contatto pelle a pelle scarso.


Portare con un supporto nella posizione frontale è una modalità singolare in tutto il mondo, che si trova solo nei paesi occidentali, privi di una cultura del portare e di uno strumento tradizionale funzionale.


Perché inventarsi una posizione che dal punto di vista fisico-anatomico sicuramente non è ottimale per la postura di chi porta e forse neppure per chi viene portato? La risposta è semplice. Nei paesi a basso contatto si è sviluppata una cultura visiva mentre il sentire differenziato a livello della pelle è piuttosto sottosviluppato: si sente e si controlla ciò che si vede!


La posizione del portare il bambino davanti è quindi necessaria per permettere al genitore di vedere il proprio bambino mentre è addosso al proprio corpo. Per vedere che respiri, per vedere il colorito della sua pelle, per vedere e quindi sentire e capire che sta bene.


L’altra posizione davanti, esclusivamente di invenzione occidentale, è di voltare il bambino con la pancia al mondo, in modo che possa vedere e quindi godere di maggiori stimoli visivi. Anche qui si rimane in linea con i valori da sviluppare nell’ambiente culturale occidentale.


Oggi i bambini sono portati soprattutto nei primissimi mesi. Bambini più grandi (da sei mesi in poi) invece sono portati addosso solo di rado, per esempio in uno zaino per una passeggiata in montagna. Nella quotidianità la maggior parte dei genitori preferisce trasportare i propri bambini, ormai diventati troppo pesanti per il marsupio, nel passeggino, o tenerli nel box, nel girello, nel seggiolone. Solo pochi genitori, sulla base di una scelta di genitorialità diversa, continuano a portare i propri bambini (per esempio con la fascia lunga) per i primi due o tre anni.


Portare una nuova moda?

I personaggi dello spettacolo, soprattutto americani, aiutano molto ad alzare il livello di approccio fashion o di moda, facendosi ritrarre con i loro pupi addosso. Sicuramente non è sempre garantito un approccio serio a una pratica seria che dai media per lo più viene proposto come una curiosità. Siamo ancora lontani dal poter parlare di una cultura occidentale del portare. Credo comunque, e lo illustrerò nei prossimi capitoli, che ciò che oggi sembra pionieristico fra alcuni decenni potrebbe diventare una modalità riconosciuta, appropriata e adatta per stare con i bambini proprio nell’Occidente, in una società in cambiamento.

Una voce chiara in tale direzione proviene da alcuni decenni da un movimento in crescita che si chiama attachment parenting,62 che significa una genitorialità a contatto e prevede una disposizione di ascolto empatico e una risposta pronta e sensibile dei genitori ai reali bisogni del bambino; tra cui allattamento al seno e a richiesta, portare addosso e co-sleeping.63 Come approccio in netto contrasto col modello tradizionale a basso contatto e per diversi motivi che vedremo di seguito è ancora poco popolare, non tanto perché gli manchino le fondamenta scientifiche, ma perché disegna una relazione dove è il genitore che si addossa la grande fatica di essere disponibile, pronto e sensibile nei confronti del bambino, adattandosi alle sue esigenze e non viceversa.
Questo porta a un’ulteriore riflessione sul senso profondo che un modello di maternage ha nei confronti del bambino e della società in cui cresce. Qual è la relazione tra cultura e modello di maternage? Cambiare il modello di maternage potrebbe cambiare la cultura e i suoi valori?

I.3. RELAZIONE TRA CULTURA E MODELLO DI CURA DEL NEONATO

Ogni cultura ha adottato un suo stile di cura dei bambini finalizzato all’obiettivo che si propone di raggiungere nell’educazione della prole. Così ad esempio il sistema del multiple caretaking dei pigmei (Africa) si addice reLazione tra cuLtura e modeLLo di cura deL neonato a una società di cacciatori-raccoglitrici, il cui valore primario consiste nell’integrazione sociale e nella cooperazione tra i suoi membri; mentre nel sistema americano di infant-care, basato su un precoce addestramento all’indipendenza, è funzionale a una società che mira all’individualismo e alla competizione.64


Franz Renggli65 ha indagato in profondità quanto il modello di maternage possa avere un’influenza diretta non solo sulla personalità dell’individuo ma su tutta la cultura, e come bisogni e angosce collettive impregnino la cultura, la religione, le leggi di una popolazione e siano finalizzati alla loro sopravvivenza.


Anche Montagu66 affermava che proprio per i modi e le modalità delle esperienze tattili dell’individuo all’interno della sua famiglia e specialmente nel rapporto con la madre, che sono influenzati sempre dal modello culturale vigente, ci sono comportamenti così diversi negli individui e nelle popolazioni.


Oggi nell’etnopediatria si parla della nicchia di sviluppo (development niche)67 del bambino, che indica un rapporto dinamico e interattivo tra ambiente e fattori genetici e innati. La nicchia di sviluppo viene influenzata da tre fattori: l’ambiente fisico e sociale in cui il bambino vive, le pratiche di maternage e le rappresentazioni interne che gli adulti hanno della crescita del bambino. Questi fattori interagiscono tra di loro e determinano la nicchia di sviluppo. Così, nelle diverse culture, un bambino viene ritenuto “difficile” o “facile” per motivi diversi e a seconda dei valori vigenti:


I bambini con irregolari abitudini di sonno (dovute al loro temperamento) sono considerati difficili negli Stati Uniti, poiché interferiscono col modo di vivere dei genitori, che apprezzano la propria indipendenza e autonomia. Tra i Kipsigis nel Kenya, Super e Harkness notarono che i bambini dormono con le madri e sono portati a spalla per quasi tutto il giorno.68

Il problema del sonno quindi è eliminato, mentre i bambini considerati difficili dai Kipsgis sono quelli a cui non piace essere portati sulle spalle o essere accuditi da altre persone oltre alla madre.


Proprio nel suo primo periodo di vita il bambino è maggiormente esposto all’influenza culturale della società in cui vive. Ogni cultura ha creato propri modi e modalità nella cura dei neonati. Attraverso ripetuti stimoli precisi, ai neonati e ai bambini viene insegnato a vivere secondo le aspettative della società di riferimento.


A questo punto sembra inevitabile la domanda: quale dei modelli, ad alto o a basso contatto, sarebbe il migliore? Il modello ad alto contatto, come vedremo anche nei prossimi capitoli, propone una cura dei bambini più naturale, più fisiologica, più in linea con le aspettative del bambino quando nasce, e che lo esponga meno, e non sistematicamente, a traumi, frustrazioni e separazione precoce, accogliendolo nella sua vera natura.


Tuttavia ormai è ritenuto errato, in una visione etnocentrica, dare un giudizio rispetto al modello migliore. Sulla base di una grande mole di ricerche, osservazioni antropologiche, studi etnologici emerge che non esiste un modello migliore nel prendersi cura dei bambini piccoli, ma qualsiasi modello (anche quello occidentale!) è sempre funzionale all’obiettivo che si vuole raggiungere.


Per una maggiore comprensione propongo alcuni esempi illustrativi: la ricerca di Richard James de Boer sugli eschimesi Netsilik, le osservazioni di Jean Liedloff sugli indiani Yequana, le osservazioni di Margaret Mead sugli Arapesh e sui Mundgumor in Papua Nuova Guinea e lo studio di Anette Hamilton sugli Anbarra (aborigeni australiani), e poi uno sguardo sull’Occidente (Italia).

I.3.1 Gli eschimesi Netsilik 69

I Netsilik vivono sulla penisola di Boothia, nel nord ovest del Canada artico. Richard James de Poer ha vissuto con loro nell’inverno 1966/67, interessandosi soprattutto del modello di maternage. Anche se vivono in condizioni ambientali durissime, i Netsilik vengono descritti come persone molto equilibrate e serene.

Le madri non si intromettono mai nelle attività dei loro bambini e non li puniscono mai. Dopo la nascita e per il primo periodo di vita i neonati vengono portati nel cappuccio del cappotto della madre, in posizione verticale a contatto pelle a pelle. Il bambino viene portato finché comincia a muoversi autonomamente e poi ancora di tanto in tanto finché ha assunto una maturità mentale che i Netsilik chiamano ihuma. Quando ha fame si fa sentire grattando la pelle della madre che lo porta davanti e lo attacca al seno. Il bambino piange molto poco perché la madre, a stretto contatto corporeo con lui, impara presto a riconoscere attraverso il senso tattile i suoi bisogni. Se il bambino, vestito solo con un pannolino di karibu, fa i suoi bisogni addosso alla madre, essa rimane tranquilla, pulisce lui e se stessa senza farci particolarmente caso. Tra madre e bambino non si sviluppa mai una relazione di potenza-impotenza, infatti il Netsilik adulto vive in grande armonia con il gruppo e si comporta in modo altruistico nei confronti degli altri.


Secondo de Boer, questa modalità serena e amorevole nei confronti dei bambini spiega l’altissima difesa dallo stress dei Netsilik e la loro capacità di far fronte alle difficoltà. È molto raro che i Netsilik si debbano confrontare con situazioni di stress relazionale, ma sono costantemente minacciati dalle condizioni ambientali. Le situazioni pericolose comunque non li sbilanciano a livello emotivo.

I.3.2. Gli Yequana nell’Amazzonia (Venezuela)

Jean Liedloff, per una serie di coincidenze, negli anni sessanta conobbe gli indiani Yequana, che vivono nelle foreste dell’Amazzonia in Venezuela, e visse con loro due anni e mezzo. Nel suo libro Il concetto del continuum – ritrovare il benessere perduto descrive le sue esperienze e ne trae il concetto del continuum, che negli ultimi trent’anni è diventato sinonimo di uno stile educativo occidentale alternativo.


I Yequana sono una popolazione che vive nel cuore dell’Amazzonia. Sono persone piccole ma forti e sanno dosare le proprie energie in modo ottimale. Non le sprecano mai in pensieri o tensioni ma le impiegano sempre per il raggiungimento di uno scopo. I loro bambini non litigano, non vengono puniti e sono molto obbedienti. Per Jean Liedloff i Yequana sono le persone più felici del mondo.


Dopo la nascita il bambino sta a contatto con la madre, che lo porta con sé ovunque finché non comincia a gattonare, lo allatta a richiesta appena dà segni di fame, e dorme con lui fino all’età di tre o quattro anni. La madre e le altre persone che si prendono cura del piccolo sono serene e rilassate. Anche se il bambino è sempre addosso alla madre non riceve quasi mai un’attenzione diretta da parte sua; fa parte del suo mondo ma non è il suo centro. Appena sa gattonare il bambino viene messo per terra e può andare dove vuole, anche avvicinarsi a buche pericolose o a coltelli affilati. Gli adulti si aspettano che sappia badare a se stesso e infatti solo raramente succedono degli incidenti. Gli adulti non giudicano mai i bambini “buoni” o “cattivi”, ma li rispettano nella loro personalità.


Nel linguaggio degli Yequana non esiste la parola “lavoro”, solo per gli scambi con i bianchi hanno riservato una parola simile.

Il portare per Jean Liedloff è un punto cardine per la crescita del bambino e per la sua indipendenza, come pure il fatto che si considerino i bambini degli esseri profondamente sociali a cui si dà la massima fiducia. Sulla base delle sue osservazioni, propone il concetto del continuum per genitori occidentali, definendolo così: “Questo continuum dell’uomo si può definire come la sequenza delle esperienze che corrispondono alle aspettative e alle tendenze della nostra specie in un ambiente consono a quello in cui queste sono formate. Esso prevede un comportamento appropriato degli individui e che questi vengano adeguatamente trattati in quanto parti integranti dell’ambiente”.70
Concretamente Jean Liedloff propone di portare a contatto i bambini, allattarli a richiesta, integrarli nella propria vita di adulti, non metterli al centro dell’attenzione adulta, fidarsi della loro innata socialità. Il concetto del continuum della Liedloff è stato criticato, anche perché le sue osservazioni antropologiche sugli Yequana scientificamente non sono complete. Infatti lei ha descritto soltanto le situazioni e le caratteristiche che sostenevano in pieno il suo pensiero, mentre ha tralasciato e omesso degli altri aspetti che avrebbero riproporzionate (forse) molte delle sue affermazioni. Questo fatto non ha impedito che molta gente si sia entusiasmata per il suo pensiero tanto da creare delle associazioni del concetto del continuum in tutto il mondo. Al di là delle critiche scientifiche, Jean Liedloff ha sicuramente il merito di aver scritto un libro importante, che da trent’anni invita i genitori occidentali a una relazione di maggiore contatto con i bambini, a portarli e a educarli con maggiore fiducia nelle loro capacità sociali.
I.3.3. Arapesh e Mundgumor in Papua Nuova Guinea

Anche nelle società tradizionali, portare non sempre è sinonimo di un approccio amorevole con i bambini. Margaret Mead descrive le pratiche di cura dei neonati di due tribù, gli Arapesh e i Mundgumor, in Papua Nuova Guinea.71

I bambini Arapesh vengono portati in una rete o in una cesta che la madre si appende alla testa. La borsa è molto morbida e imbottita di foglie e il bambino è sdraiato in posizione orizzontale-fetale. La parola per questa borsa è la stessa di utero e secondo gli Arapesh il bambino ci sta bene come nell’utero. La rete è elastica e non costituisce limite tra il bambino e il corpo della madre.


Dai Mundgumor invece i bambini vengono messi in una cesta grezza e dura dove sono costretti a stare sdraiati con le braccia incastrate lungo il corpo, addosso alle pareti dure. La cesta non fa passare il calore del corpo della madre. I bambini vengono portati in giro solo per assenze lunghe, per brevi periodi la cesta viene appesa nella capanna e i bambini sono lasciati soli. Quando è più grande e comincia a gattonare viene messo a terra e lasciato a se stesso. Anche quando è sulle spalle dei genitori non viene tenuto ma deve aggrapparsi ai capelli per non cadere.


Secondo l’antropologa Margaret Mead la pratica di portare con modalità così differenti viene determinata dai diversi valori sociali nelle due tribù: l’uomo e la donna ideale dai Mundgumor sono guerrieri duri e intransigenti e uomini e donne docili non sono accettati dal gruppo, mentre gli Arapesh sono una tribù molto pacifica.

I.3.4. Anbarra in Australia

Un’ulteriore osservazione antropologica ci fornisce lo studio di Annette Hamilton72 sulla tribù degli Anbarra (Aborigeni australiani), dove le pratiche di puericultura sono in stretto legame con la loro vita.

Dopo la nascita i neonati Anbarra vengono considerati a rischio perché la loro pelle non è ancora scura. Adagiati in una culla di corteccia, vengono allattati senza essere presi in braccio. La madre è molto limitata nelle sue attività perché in questo periodo non può andare a raccogliere la frutta. Il bambino in questa fase riceve poco contatto corporeo, ma molti contatti sociali. La culla viene portata da altre persone. Se il bambino piange viene allattato o cullato e riceve molte attenzioni. Viene allattato molto spesso e senza ritmi precisi.


Dopo alcune settimane vengono presi di più in braccio, la loro testa in posizione verticale si appoggia sulla spalla della madre. D’ora in poi la culla non viene più utilizzata e il bambino viene portato sul fianco o sulle spalle, senza che gli venga sostenuta la testa. Impara a controllare il capo a 3 settimane per alcuni minuti e a sei settimane completamente. Sta in braccio a tutti e viene incoraggiato a sorridere. Non è mai solo, dorme solo a intervalli brevi (circa un’ora alla volta) ed è sempre in mezzo alle attività sociali e a molti stimoli. Per accompagnare la madre a raccogliere la frutta, i bambini devono stare seduti sulle loro spalle e tenersi da soli. Riescono a farlo per molte ore a sei mesi, mentre i bambini europei per esempio lo fanno al più presto a 12 mesi.

I.3.5. Una finestra (di domande) sull’Occidente

Siccome una descrizione della nostra società e della nostra cultura porterebbe troppo lontano, credo che tutti noi disponiamo di immagini, pensieri e riflessioni rispetto alla realtà sociale in cui viviamo e che possano essere lo sfondo per meditare su alcune domande:


A quali valori mira il modello a basso contatto? Di conseguenza: quali sono le aspettative sociali di un bambino e di un adulto occidentale? Quali sono i valori a cui si deve adattare e a quale scopo? Posso nominarne alcuni, certo senza la pretesa di essere esauriente: al bambino è richiesta l’autonomia precoce dal punto di vista emotivo, mentre per l’adulto si trovano valori come individualità (ognuno per sé), competitività (ognuno contro tutti) e, da non dimenticare, essere un buon consumatore. Il modello a basso contatto dovrebbe essere funzionale a raggiungere tali obiettivi.


Per capire meglio possiamo riflettere su un esempio ben visibile, chiedendoci come sono nati e cresciuti i genitori di oggi e cosa sono diventati. Si può affermare che siano stati raggiunti gli scopi sociali?

Il quadro (semplificato qui al massimo) ci presenta un’intera generazione, nata negli anni Sessanta e Settanta, che ha subìto in modo radicale e convinto il modello a basso contatto. Sono stati bambini nati “industrialmente”,73 che dopo la nascita sono stati separati per giorni interi dalle loro madri, che non sono stati allattati al seno (c’era il boom del latte in polvere). Una volta tornati a casa, piangevano nelle proprie culle e camerette, perché non dovevano prendere il vizio di stare in braccio. Si tratta di una generazione che fu autonoma precocemente nella prima infanzia, autosufficiente presto, ma che porta dentro di sé, lo sappiamo tutti, l’abbandono primario, la sfiducia nell’altro e un grande senso di solitudine.


A questo punto ci si può chiedere se la spinta all’autonomia precoce sia funzionale e porti all’indipendenza. Secondo uno studio dell’istituto Max-Planck per l’etologia umana non è così. Dallo studio “cross-culturale” a cui partecipavano famiglie delle isole Trobriand sulla costa est della Nuova Guinea, i !Kung San nel Botswana e gli Inuit nel nord dell’Alaska è emerso che sebbene i lattanti e i bambini piccoli dei Trobriandi, !Kung San e degli Inuit godano di un contatto continuo con le loro madri, padri e fratelli, non diventano piccoli tiranni, anzi. Sono indipendenti prima dei loro coetanei in Europa e negli USA.74 E che tipo di adulto diventa il bambino precocemente autonomo?

Ritornando a osservare la generazione dei neogenitori di oggi si nota che molti dipendono psicologicamente, se non materialmente, ancora dai propri genitori, dai loro giudizi e valori da cui si lasciano condizionare e influenzare. Quanti “bambini” stanno ancora “in casa” (cioè dalla mamma) a 35 anni se non sono ancora sposati? Quanti, quando si sposano, si fanno fare la casa dai genitori? Oppure sono forse i genitori che non vogliono lasciare andare i figli cresciuti, perché non li hanno avuti, goduti da piccolissimi?

Potrebbe essere che valori come autonomia e indipendenza non siano valori veri, ma valori “di facciata” in età adulta, perché l’adulto occidentale è tutt’altro che un essere autonomo e indipendente. Ma se l’autonomia precoce non porta all’indipendenza nella vita adulta, qual è il valore che sostiene e sviluppa? Willi Maurer, terapista corporeo, si occupa da molti anni di questo tema e ha le idee molto chiare quando dice:

La stragrande maggioranza delle persone della nostra cultura portano dentro di sé, senza esserne consapevoli, la paura di essere abbandonati. Il senso dell’abbandono poi viene placato con surrogati simbolici: prima il ciuccio, il biberon, la montagna di giocattoli; poi i dolci, le sigarette, la droga, l’alcool e i farmaci, inoltre abitudini di consumo e di moda eccessivi, vacanze il più lontano possibile dalla grigia quotidianità.75


In effetti si tratta di una generazione di ottimi dipendenti, consumatori e consumatrici. Può essere che una società che prevede di soddisfare i bisogni primari dei bambini tramite surrogati materni cresca degli adulti che non conoscono e non sentono sulla propria pelle l’esperienza contenitiva e sostanzialmente soddisfacente del contatto corporeo vivo, e che di conseguenza impareranno a soddisfare i loro bisogni attraverso esperienze orali e vizi vari, prodotti, beni di consumo, pur senza soddisfare mai del tutto il bisogno primario di contatto. Come dice Asperger: “Il percorso dell’umanità (occidentale) è caratterizzato da una perdita crescente degli istinti e dei comportamenti istintivi. Probabilmente questo era necessario per adattare l’uomo, attraverso l’approccio razionale, a un mondo in continuo cambiamento. Ma il prezzo pagato è la perdita della felicità.”76

Anche Erich Fromm, trent’anni fa, nel famoso libro Avere o Essere descrive l’infelicità della società dell’Avere, dove anche il tema del contatto corporeo (e tutta la tematica del sesso) non è certo in equilibrio.77 A livello razionale poi si sa per certo che il consumismo sfrenato, a cui non si pongono ancora freni veri, porterà inevitabilmente al collasso del nostro eco-sistema. Magari non oggi, ma nel futuro delle prossime generazioni, ma per questo non dovrebbe essere meno preoccupante. Se non si può continuare così per sempre, potrebbe essere che ci sia una vera necessità di cambiare valori e obiettivi sociali? Accettando il fatto che un cambiamento sia necessario, da dove si comincerebbe a cambiare? Ci si trova davanti a fatti ineluttabili a cui rassegnarsi – “tanto non si può fare nulla” – oppure è possibile invece, nel proprio piccolo, cambiare qualcosa? Prima di pensare a una risposta chiediamoci invece quali siano le condizioni in cui nascono i bambini oggi, figli dell’appena descritta generazione di genitori.


Purtroppo i dati non sono incoraggianti. A grandi linee in Italia oggi non si può affermare che i bambini nascano, ma piuttosto che vengano fatti nascere. I dati riportati sono molto lontani dal “naturale”; il 35,2% nasce con taglio cesareo (in alcune regioni la percentuale è del 45%),78 e il resto subisce un parto vaginale medicalizzato (episiotomia, epidurale, farmaci). Una volta nati, secondo uno studio pubblicato di recente, il 91% delle madri comincia ad allattare al seno ma a sei mesi sono ancora 47%, di cui solo il 4,7% allatta in maniera esclusiva.79


Il modello della “autonomia precoce” del bambino, sebbene sia privo di fondamenti scientifici e sia più che discutibile per la salute del bambino, è ancora il modello reale di maggiore riferimento per i neogenitori, probabilmente perché è l’unico modello che conoscono e al quale, se non altro, sono sopravvissuti. Questo significa che il bambino deve avere dei ritmi precisi, addormentarsi da solo, dormire da solo, consolarsi da solo quando si sveglia durante la notte, insomma “fare la nanna!”80


Un bambino è considerato “buono” quando non esige di stare in braccio, quando mangia e dorme e quando apprezza tutta l’attrezzatura di contenitori comprata per lui. Nel primo anno di vita è questo il metro comune con cui i bambini (e i genitori) vengono misurati.81 I genitori che si trovano invece con un bambino poco buono, che esige in modo perentorio di stare in braccio, si sentono inadeguati. Invece questi genitori dovrebbero ritenersi molto fortunati perché il loro bambino esigente gli dà l’opportunità di crescere e di cambiare!


Infatti, anche se il quadro di massima non è incoraggiante e nonostante la realtà non sia ancora cambiata molto, una piccola percentuale di genitori della generazione “distante” desidera, seppur assaliti da dubbi e incertezze, un approccio più a pelle, un maggiore contatto con i propri bambini, di allattare al seno, di tenere i bambini con sé, desiderano essere genitori “a contatto”. Anche se sono sottoposti alla stessa forza generazionale,82 probabilmente è arrivato il momento in cui è possibile farsi delle domande nuove e darsi soprattutto delle risposte diverse. Potrebbe essere un inizio chiedersi quanto doloroso si presenti al bambino neonato l’adattamento alla vita (e con quante frustrazioni precoci) e quanto lo stile a basso contatto sia contrario ai bisogni veri del bambino? Potrebbe essere il momento di mettere in dubbio alcuni valori sociali acquisiti e il raggiungimento dei loro scopi.

Forse è arrivato il giorno in cui ci si rende conto che il cambiamento verso un mondo diverso inizia sempre dai piccolissimi. In questa ottica potrebbe essere che la pratica del portare nelle società occidentali oggi sia un tentativo efficace per cambiare il mondo e per crescere i bambini con valori diversi?

I.4. UN APPROCCIO NUOVO A UNA PRATICA ANTICA

Credo non si possa proporre una cultura occidentale del portare senza aver riflettuto sulle eventuali conseguenze che questa pratica in controcorrente con il modello vigente abbia in primo luogo sul bambino e sul suo adattamento socio-culturale futuro e in secondo luogo sulla società stessa. Portare non è una modalità adatta al modello di basso contatto vigente. Quindi potrebbe esserci il rischio di creare dei bambini disadattati all’attuale società, diversi dagli altri e quindi in fondo di crear loro una nuova sofferenza?


Un altro aspetto aperto è che chi porta oggi in Occidente non è stato portato da piccolo e quindi non può fare leva su una propria esperienza corporea di contatto. Ci potrebbe essere il rischio che i genitori, guidati dall’elaborazione razionale dei benefici del portare e dal proprio vuoto dentro, diventino facilmente preda di un’ideologia del contatto, che è priva di ascolto vero come qualsiasi ideologia? Come e con quanti limiti una persona che non è stata portata può portare il proprio piccolo? Come si risolve inoltre il conflitto con il modello tradizionale in vigore e il condizionamento che proviene da esso?


A questo punto non ci possono essere delle risposte, ma forse proprio queste domande possono accompagnare chi prosegue con la lettura nella riflessione sul significato del portare.


Se consideriamo la pratica del portare nel suo aspetto di mezzo di trasporto, a livello globale nel Sud del mondo si perderà sempre di più e lascerà il passo a mezzi più comodi (per l’adulto), mentre in Occidente, alla fine per gli stessi motivi di comodità (per l’adulto), non si affermerà mai come alternativa veramente valida ai contenitori con ruote.


Se le attribuiamo invece un valore come pratica per crescere un bambino, allora sì che si aprono nuovi scenari nella cura dei bambini piccoli e forse la fatica dell’aspetto del trasporto sarà minore al beneficio che entrambi, adulti e bambini, ne traggono. Proprio perché il passaggio a una riflessione più profonda del valore effettivo di questa pratica in Occidente passa, direi inevitabilmente, attraverso un approccio intellettuale, credo sia giustificato un nuovo approccio che chiamo fisiologia del portare, di seguito illustrata a livello teorico e pratico.

Portare i piccoli - 2a edizione
Portare i piccoli - 2a edizione
Esther Weber
Un modo antico, moderno e… comodo per stare insieme.Tecniche, consigli e suggerimenti per portare i bimbi in fascia o nel marsupio, per stare insieme e rafforzare il legame con i piccoli fin dalla nascita. Da diversi anni, la modalità di portare i bambini addosso è un fenomeno in crescita anche nel nostro Paese.L’autrice Esther Weber, svizzera e madre di due bambine, è socia fondatrice e presidente dell’associazione Portare i piccoli, che promuove in Italia la cultura del portare attraverso l’informazione e la formazione ad operatori della prima infanzia.Il libro Portare i piccoli chiarisce che portare, oltre a essere una pratica antica tuttora presente in molte parti del mondo, è una modalità rispettosa e adatta alla relazione tra genitori e figli anche nella realtà occidentale, e lo fa rispondendo in maniera pronta e sicura ai molti quesiti pratici di chi porta, offrendo una disamina oggettiva sia sui supporti ausiliari reperibili (fasce porta bebè, marsupi, zaini porta-bambini), sia sulle tecniche più semplici che le neomamme e i neopapà possono adottare. Conosci l’autore Esther Weber, svizzera tedesca, è madre di due bambine e vive in Italia dal 1995.Dal 2001, anno della nascita della prima figlia, si dedica al tema del "portare i piccoli". Ha progettato e realizzato interamente il sito indipendente di informazione www.portareipiccoli.it.È socia fondatrice dell’associazione “Portare i piccoli”, che promuove in Italia la cultura del portare attraverso l'informazione accurata e indipendente e una formazione di qualità. Tiene incontri informativi e corsi per genitori. È consulente per la formazione al portare a operatori della prima infanzia.