CAPITOLO IV

Tuo il corpo, tuo il bambino, tua la scelta.
Come decidere con saggezza

Il numero di decisioni alle quali le donne, oggi, sono costrette, anche in gravidanze senza complicazioni, è infinito. In questo capitolo elencherò alcuni princìpi generali e fornirò indicazioni utili a operare scelte informate, oltre a dati più specifici per decidere se sottoporsi ai controlli per il diabete gestazionale, al test a termine per lo streptococco di tipo B, e all’induzione in caso di gravidanza “oltre il termine”.


Negli ultimi decenni l’esperienza della gravidanza e del parto è cambiata in modo radicale. Le nostre nonne e bisnonne, ad esempio, avranno pure avuto accesso a cure mediche o ostetriche, tuttavia le loro gravidanze furono esperienze molto più sociali più che mediche, e né i loro corpi, né tanto meno i loro figli saranno stati fatti oggetto dei controlli intensivi e delle complesse decisioni cui assistiamo nelle gravidanze, nei travagli e nei parti del ventunesimo secolo.


La medicalizzazione della gravidanza ha inizio sin dai primissimi giorni e nelle primissime settimane, con una serie di decisioni e di controlli proposti a cadenza regolare per tutti i restanti nove mesi. I genitori di oggi si trovano a dover operare scelte decisive come mai prima d’ora, tra cui:

  • A quale specialista rivolgersi.

  • A quali controlli sottoporre madre e bambino.

  • Che cosa fare qualora il bambino, nel corso della gravidanza, risultasse affetto da gravi anomalie.

  • Dove farlo nascere.

  • Dare o no il consenso all’induzione o al cesareo programmati.


La complessità di tali scelte risulta, ancora oggi, sempre più fitta, dal momento che i ricercatori cercano modalità sempre nuove di prevenire disturbi comuni (e meno comuni) di mamme e bambini. Un obiettivo encomiabile; tuttavia, così come molte altre innovazioni tecnologiche, i nuovi farmaci e trattamenti associati a queste misure preventive rischiano di esporre madri e figli anche a effetti collaterali. In ragione, poi, del delicato equilibrio in cui versa l’organismo di una donna gravida, oltre che dell’estrema vulnerabilità del nascituro, i farmaci e le procedure ostetriche risultano particolarmente suscettibili di provocare danni collaterali duraturi, molti dei quali accertati solo in retrospettiva.


Tra questi l’utilizzo dei raggi X sulle donne gravide a partire dagli anni Trenta, responsabile, come si è scoperto solo nel 1956, dell’aumento del rischio di tumori nei bambini esposti1; la somministrazione di dietilstilbestrolo (DES), prescritto nei casi di minaccia d’aborto tra il 1938 e il 1971, responsabile – come si scoprì – dell’aumentato rischio di disturbi riproduttivi quali infertilità, aborto, travaglio prematuro, carcinomi a cellule chiare nelle bambine esposte, con effetti presenti persino dopo tre generazioni2; la prescrizione, negli ultimi anni, del misoprostol (Cytotec) per l’induzione in donne già cesarizzate, al quale fu riconosciuta la responsabilità dell’incremento vertiginoso dei rischi di rottura uterina soltanto dopo anni di utilizzo. Per di più molti – di fatto la maggior parte – dei farmaci e interventi ostetrici non sono stati sottoposti a test di valutazione degli effetti collaterali a lungo termine, se non relativamente ai difetti congeniti sui feti esposti.


Oggi più che mai è fondamentale che i genitori moderni si impegnino a fondo nelle decisioni da prendere, valutando con attenzione le proposte avanzate dai professionisti ai quali si affidano. Ciò significa interpretare le complesse informazioni ricevute non soltanto con la ragione, ma anche con il cuore e con l’istinto. I genitori di oggi hanno altresì necessità, all’occorrenza, di accesso diretto alla tecnologia ostetrica, per garantire a madri e bambini massimi benefici e minimo danno.


Avere accesso alla miglior assistenza con il minimo danno potrebbe significare dar voce alle proprie aspettative e ai propri desideri al di là dell’assistenza sanitaria o delle “opinioni degli esperti” convenzionali. Potrebbe risultare piuttosto difficile, specie se si è alla prima esperienza con il sistema medico. Tuttavia è bene ricordare che saranno i genitori, e non gli operatori medico-sanitari, a dover convivere con le conseguenze di queste scelte; risulta quindi di importanza capitale che i genitori parlino per sé e per i propri figli.


Questo capitolo propone un modello semplice e utilizzabile in qualsiasi contesto decisionale, oltre ad alcune informazioni riguardo alle tre scelte, e interventi, che vengono più comunemente presentati ai genitori in attesa: la diagnosi di diabete gestazionale; il test e il trattamento dello streptococco di tipo B; l’induzione in caso di gravidanza oltre il termine. Procedure quali ecografie, epidurale, cesareo, clampaggio del cordone ombelicale, raccolta del sangue cordonale e parto in casa saranno trattate in capitoli a parte.

Decidere: il modello BRAN per i futuri genitori

Questo modello si basa su una formula facile da ricordare nel momento in cui si deve prendere una decisione. Quando vi vengono proposti controlli o interventi, il BRAN vi farà presente di chiedere e di considerare “Benefici”, “Rischi” e “Alternative”, oltre a valutare i risvolti, in determinate situazioni, della scelta di non fare “Nulla”.


Di solito non si ha difficoltà a riconoscere i benefici: di fatto sono la prima cosa che gran parte degli operatori sanitari farà presente. Essi dipenderanno, ovviamente, dal vostro stato, e potreste persino scoprire che, in alcune circostanze, le procedure che avevate pensato di evitare si rivelano utili. Ad esempio, come descritto al capitolo IX, alcune complicazioni impreviste a volte costituiscono un buon motivo per accettare di sottoporsi a un cesareo programmato.


In genere gli operatori sanitari informano dei maggiori rischi noti, ma forse dovrete condurre alcune ricerche personali per scoprire tutti i rischi connessi alle varie procedure. In questo libro troverete informazioni che potranno esservi utili anche in tal senso. Potrebbero anche esistere gravi rischi di cui non siamo ancora al corrente, poiché le conoscenze mediche si fondano sul lavoro di ricercatori che pongano le domande giuste e che dispongano di capacità e di fondi per condurre studi di alto livello, in grado di mettere in luce tutti i risvolti di particolari trattamenti. Il che può richiedere molti anni.


È fondamentale poi tener conto che ogni operatore sanitario ha i suoi princìpi e la sua esperienza, a seconda della formazione personale e professionale. Ciò potrebbe comportare che alcuni medici esaltino determinati rischi, sottovalutandone altri. I ginecologi, ad esempio, sottolineeranno la maggior sicurezza del parto cesareo rispetto a quello vaginale, mentre le ostetriche ne enfatizzeranno i rischi; nel caso del parto in casa varrà forse il contrario, con i ginecologi a evidenziarne i rischi e le ostetriche i vantaggi. Per saperne di più, proseguite nella lettura.


I percorsi alternativi possono essere difficili da individuare, poiché in genere l’ostetricia non ha esplorato, né ricercato, molte soluzioni diverse dalla tecnologia avanzata, forse perché si ritiene che la tecnologia rappresenti sempre la miglior risposta per le mamme e per il loro figli. La ricerca ufficiale sui metodi alternativi soffre, sovente, anche di carenza di fondi. Per trovare soluzioni diverse dovrete scavare in profondità.


Avete però la possibilità di attingere all’esperienza e alla conoscenza di altri genitori, oppure di appoggiarvi all’ampia offerta di gruppi di sostegno e di chat frequentate da mamme e papà reperibili su internet. Sappiate che si tratta di informazioni soggettive e probabilmente non scientificamente provate. Potreste anche avere il desiderio di avvicinarvi al vasto sapere ostetrico, sia on-line (per conoscere siti utili si consulti www.sarahjbuckley.com), sia contattando un’ostetrica di zona.


In qualità di esperte della nascita normale, le ostetriche di solito sono dotate di ottime competenze nella valutazione di metodi alternativi e nel prestar consiglio sulle scelte da compiere. Ulteriori professionisti indicati allo scopo sono naturopati, omeopati, osteopati, chiropratici e medici che praticano la medicina tradizionale cinese (TCM).


La “N” di BRAN vi esorta a domandarvi: e se non facessimo nulla? Il più delle volte questa risulta una valida alternativa – anche se, dal momento che in genere la medicina si concentra sul “fare”, una scelta del genere potrebbe apparire scomoda, o persino ignota, al professionista che vi ha in carico. Ripeto: potreste desiderare di avvicinarvi al sapere ostetrico, ad altri specialisti e/o a genitori che abbiano operato questo tipo di scelta.


Decidere di non fare nulla potrebbe servire a riservarvi un margine più ampio per analizzare le scelte a disposizione. Potreste desiderare di verificare se esiste la possibilità, più in là, di cambiare idea. Decidere di non sottoporsi, e di non sottoporre il bambino, a un controllo medico potrebbe contribuire a evitare l’effetto “nocebo” (di cui parlerò più avanti). Gli operatori sanitari in genere difendono il diritto del paziente al “rifiuto informato” delle cure, come illustrerò nel prossimo paragrafo.

Scelta informata

Il modello BRAN è un ottimo strumento per assicurarsi tutte le informazioni utili a una scelta informata. È dovere del vostro medico fornire tali informazioni in maniera comprensibile. Come afferma l’ACOG (American College of Obstetricians and Gynecologists) “I pazienti hanno il diritto di partecipare, con il proprio medico, a un percorso di scelta condiviso”3.


Tenete presente che quello a una scelta informata, compreso il rifiuto informato, è un vostro diritto in qualsiasi situazione e in gran parte dei Paesi del mondo, anche laddove scegliate un percorso che potrebbe mettere a repentaglio la vita di vostro figlio.


La legislazione della maggioranza degli Stati, ad esempio, non costringerebbe una donna gravida a sottoporsi a un cesareo per il bene del nascituro, così come non costringerebbe una madre a sottoporsi a un intervento chirurgico rischioso per la donazione di un organo che potrebbe salvare la vita a suo figlio. Il britannico RCOG (Royal College of Obstetricians and Gynecologists) afferma: “Se una donna nel pieno delle proprie facoltà, anche dopo essersi sottoposta a consulti approfonditi e aver ricevuto tutti i chiarimenti necessari sulle conseguenze a carico del feto, decide di rifiutare il parto cesareo, le sue volontà debbono essere rispettate”4.


Il Comitato Etico dell’ACOG raccomanda, inoltre, ai membri: “In assenza di eventi straordinari, che ad oggi il Comitato Etico non è, di fatto, in grado di prevedere, non sarà possibile ricorrere all’autorità giuridica per l’applicazione di cure volte alla salvaguardia del feto”5. Ciò nonostante vi sono stati, in alcune regioni degli Stati Uniti, casi di cesarei imposti dal Tribunale.


Ecco un commento dell’ACOG in merito al rifiuto informato: “Una volta ricevute tutte le informazioni necessarie in merito ai rischi materiali, ai benefici e alle alternative, oltre che alla scelta dell’astensione, il paziente ha diritto di decidere in piena autonomia se sottoporsi alle cure mediche consigliate, a interventi operatori o a controlli diagnostici, di scegliere le cure, gli interventi o i controlli, oppure di rifiutare di sottoporsi a cure, interventi e controlli”6.

Rischi e “esiti minori”

Il concetto di rischio è arrivato a dominare – ma si potrebbe dire strangolare – il dibattito sulle scelte relative al parto. Il termine “rischio”, in origine utilizzato nel gergo assicurativo commerciale7, oggi rappresenta l’unica giustificazione alla scelta, o al rifiuto, di proposte di assistenza alla maternità quali il parto podalico vaginale o il parto naturale dopo un cesareo (VBAC), per quanto i princìpi del consenso e del rifiuto informati abbiano priorità legale ed etica.


È importante rendersi conto che il concetto di rischio in ostetricia si basa quasi esclusivamente sulla valutazione della mortalità perinatale (PNM): la probabilità che un neonato muoia quasi in coincidenza con il parto. Si tratta, ovviamente, di un esito significativo, ma anche assai limitato: ad esempio, non racchiude eventuali rischi a carico del benessere fisico o emotivo di madre e bambino, né quelli che possano compromettere l’avvio dell’allattamento o dell’attaccamento; processi che per millenni hanno avuto rilevanza cruciale per la sopravvivenza dell’uomo e che restano tuttora fondamentali.


Questi elementi – benessere fisico ed emotivo di madre e bambino, allattamento e attaccamento – sono interdipendenti, e intrinsecamente legati ai processi di travaglio e parto. Come illustrerò al capitolo VI, gli “ormoni dell’estasi” sprigionati durante il travaglio e il parto sono volti a favorire sicurezza, benessere e piacere, oltre che a ottimizzare l’allattamento e l’attaccamento tra madre e figlio. I picchi di epinefrina e di norepinefrina dell’ultima fase del travaglio, ad esempio, donano alla mamma e al bebè, al momento del parto, energia e vigilanza, che predispongono entrambi a un buon avvio dell’allattamento; i picchi di ossitocina nella prima ora dopo la nascita stabiliscono un legame d’amore tra i due, favorendo il successo dell’allattamento.


Non deve sorprendere, quindi, che iniziando a interferire con gli ormoni e i processi di travaglio e parto si rischia altresì di perdere sicurezza, piacere e benessere emotivo. In talune circostanze risulterebbe compromessa anche l’incolumità; analogamente, dal momento che processi a lungo termine quali allattamento e attaccamento sono connessi al sistema congenito del parto estatico, rischiano anch’essi di cadere vittima dell’interferenza ostetrica.


Come spiegherò nei capitoli XI e XII l’allattamento e l’attaccamento sono fondamentali per il benessere psicofisico duraturo della prole, aumentandone le probabilità di sopravvivenza e di raggiungimento della maturità sessuale che consentirà loro di mettere al mondo altri individui che sopravviveranno e cresceranno. Essendo allattamento e attaccamento tanto determinanti per il successo riproduttivo e, quindi, per la sopravvivenza della specie, potremmo affermare che lo scopo naturale (e forse divino) di travaglio e parto, oltre a quello di garantire la salute di madre e figlio, è di assicurarne il perfetto attaccamento e la riuscita dell’allattamento.


Allattamento e attaccamento risulteranno utili anche al benessere della famiglia. Il piano di Madre Natura prevede che madre e figlio continuino a condividere felicità, appagamento, allattamento immediato, duraturo e senza intoppi; e una reciproca, continua e piacevole dipendenza, il tutto rafforzato dagli ormoni dell’estasi – ossitocina, beta-endorfine e prolattina – rilasciati grazie al contatto fisico e all’allattamento. La ricetta di Madre Natura garantirà l’avvio ideale della vita familiare, procurando benessere e piacere anche al neopapà e agli altri membri della famiglia.


Ciò nonostante l’importanza dell’allattamento e dell’attaccamento continua a non essere riconosciuta in contesti medicalizzati di assistenza alla maternità, dove vige scarsa attenzione e interesse riguardo la responsabilità degli interventi medici sugli “esiti minori” sovra descritti. Ed è ancor più scarsa la ricerca intorno alle ripercussioni del parto medicalizzato (compreso il cesareo) sul benessere emotivo di madre e figlio, tra cui eventi gravi quali, ad esempio, la depressione post partum (DPP).


Si noti come, da un punto di vista storico e transculturale, l’assistenza alla maternità abbia sempre privilegiato il benessere emotivo della donna, dalla gravidanza al post partum, ponendo l’accento soprattutto sull’assistenza e sul sostegno amorevoli al travaglio e al parto. Alcune tradizioni hanno persino preso in esame gli esiti delle pratiche ostetriche sul neonato, attore consapevole ed estremamente sensibile dei processi summenzionati8.

Ulteriori informazioni sulla mortalità perinatale

È bene anche ricordare che il PNM indica semplicemente quanti saranno i bambini a morire (e quanti a sopravvivere) nelle settimane a ridosso del parto. Le cifre (indicate come PNMR, “tasso di mortalità perinatale”) non rivelano i rischi connessi a ulteriori disturbi fisici o comportamentali gravi, di medio o lungo termine, a danno di madre e figlio, riconducibili agli interventi ostetrici subiti durante il parto. Si tratta di possibili esiti scarsamente indagati, nonostante che gli studi in materia finora pubblicati diano motivo di preoccupazione: a tale proposito vi rimando al capitolo VI e al ragguardevole contributo di Michel Odent.9,10,11


I genitori poi devono intendere il PNMR come parametro strettamente epidemiologico basato su studi demoscopici che stabiliscono la mortalità in relazione a diversi contesti e trattamenti. Tali studi possono dare un’idea generale dei rischi e, di solito, costituiscono il fondamento dei consulti ostetrici; essi però non sono in grado di prevedere l’esito di situazioni specifiche. Sebbene, ad esempio, il PNMR tenda ad aumentare dopo la quarantaduesima settimana, come spiegherò di seguito, ciò non significa che una donna che in quel momento rifiuti l’induzione metta a repentaglio la vita del figlio, come capita le venga detto.


Oltre a ciò nei Paesi ad alto reddito il PNM ha raggiunto livelli irrisori, tanto che la possibilità di eventuali interventi ostetrici di ridurne ulteriormente il valore è piuttosto ridotta. Oggi, nel mondo occidentale le principali cause di morte perinatale sono la nascita di un feto morto e la prematurità, eventi che l’attuale ostetricia non riesce a evitare (e che, in alcuni contesti, registrano un effettivo aumento). Di conseguenza un piccolo miglioramento del PNM comporterà, come vedremo più in dettaglio, un numero considerevole di interventi su pazienti sane.


Tali considerazioni non intendono negare l’importanza del PNM come evento ostetrico; tuttavia, oggi come oggi, è necessario prendere in considerazione parametri più ampi di valutazione degli esiti dell’assistenza alla maternità. In quanto madre desidero per i miei figli più che la mera sopravvivenza alla nascita; auspico per loro la maggior integrità, fisica e mentale, possibile senza interferenze nello sviluppo programmato in ogni neonato umano, così che ognuno di loro possa diventare l’individuo completo, felice e amorevole previsto dal diritto di nascita dell’uomo.


In ragione di quest’ottica incentrata, in misura preponderante ed estremamente restrittiva, sul PNM – nucleo della sopravvivenza infantile – e del relativo disinteresse verso gli esiti “minori” e le conseguenze a lungo termine, i quali possono avere effetti di enorme portata sulla madre, sul bambino e sulla famiglia, si rende necessario indirizzare l’informazione medica sulla sicurezza e sui rischi applicando criteri più ampi, piuttosto che accettando definizioni mediche standardizzate.


Consiglio alle madri, ai padri e alle famiglie che si trovino a dover operare scelte informate di raccogliere le informazioni necessarie attenendosi al modello BRAN, oltre a:

  • dare la priorità alle proprie sensazioni e al proprio istinto;

  • tener presenti le conseguenze sul benessere emotivo proprio e del bambino;

  • pensare a lungo termine;

  • considerare le ripercussioni sull’allattamento e sull’attaccamento.

L’effetto nocebo

Per “effetto nocebo” si intendono gli effetti collaterali e indesiderati di una diagnosi o di una terapia medica. Esso riveste un’importanza particolare in ostetricia in quanto spesso il benessere emotivo delle madri viene, come si è visto, trascurato. Michel Odent afferma: “L’effetto nocebo è insito nell’assistenza prenatale convenzionale, costantemente rivolta ai potenziali problemi. Ogni visita è occasione per ricordare tutti i rischi connessi alla gravidanza e al parto”12.


Oltre ad aumentare le preoccupazioni delle donne in attesa, l’effetto nocebo rischia di provocare reazioni avverse poiché fa crescere i livelli degli ormoni dello stress13. Elevati livelli di ormoni dello stress durante la gravidanza determinano un rischio maggiore di prematurità e di basso peso alla nascita, e possono contribuire a provocare danni dello sviluppo cerebrale risultanti in disturbi quali l’ADHD e i disturbi dell’apprendimento, con probabili ripercussioni sull’intero arco della vita del nascituro14.


L’effetto nocebo ci ricorda quanto sia importante custodire il benessere emotivo in gravidanza, e scegliere professionisti che, durante l’attesa, ci facciano sentire più felici, invece di alimentare timori e preoccupazioni. Odent, che sottolinea l’importanza della gioia in gravidanza, raccomanda ai medici di “creare un rapporto tale per cui la gestante, dopo una visita prenatale, si senta ancor più contenta di quanto non lo fosse prima… se non altro meno in ansia.”15. Un ottimo principio pratico attraverso cui valutare l’assistenza alla maternità e i professionisti che la prestano.


Possiamo fare in modo di contrastare l’effetto nocebo praticando attività che procurino gioia e benessere fisico: massaggi regolari in gravidanza, ad esempio, ridurranno lo stress e persino il rischio di parto prematuro16,17. Molto utili anche il riposo, la distensione e l’esercizio fisico regolare, mentre sintonizzarsi con il bambino spesso rassicura dalle preoccupazioni.

Come avvalersi del modello BRAN

È possibile ricorrere a questo modello per qualsiasi decisione ed è di particolare rilevanza nel contesto dell’assistenza alla maternità. Quanto segue è un esempio di adozione del modello a supporto di decisioni informate in materia di:

  • diagnosi di diabete gestazionale;

  • screening per lo streptococco di tipo B;

  • induzione del parto in gravidanze “oltre il termine”.


Vi faccio notare che a questi dati ho aggiunto alcune mie inclinazioni: la fiducia nei processi naturali per la grande maggioranza delle donne; lo scetticismo nei confronti dei vantaggi ottenibili sottoponendo un numero considerevole di madri, e di bambini, a interventi di un certo peso per la prevenzione di disturbi assai rari; la personale esperienza di una gravidanza oltre il termine previsto in origine di ben tre settimane, con la scelta di non sottopormi né a controlli, né a induzione; la decisione di ricorrere, per il tampone positivo allo streptococco di gruppo B al termine della gravidanza, a una terapia alternativa.

Diagnosi di diabete gestazionale

Si definisce diabete mellito gestazionale (GDM) l’elevato livello di glucosio (il principale zucchero del nostro organismo) nel sangue con insorgenza in gravidanza. È probabile che vi si chieda di sottoporvi al controllo del diabete gestazionale verso la seconda metà della gravidanza e che dobbiate decidere se accettare o no.

Contestualizzazione

Una diagnosi di diabete in genere segnala che l’ormone insulina non funziona efficacemente nell’organismo, dove ha il compito di prelevare il glucosio dal flusso sanguigno e di trasportarlo all’interno delle cellule per il suo utilizzo come fonte energetica. Quando l’insulina non sopperisce più a tale funzione, a causa di livelli insufficienti o perché ne vengono in qualche modo neutralizzati gli effetti (insulinoresistenza), il glucosio nel sangue si accumula. Al di fuori della gravidanza, livelli elevati di glucosio nel sangue (iperglicemia) possono provocare danni a carico dell’organismo, specie se essi risultano molto alti o se se ne registra un aumento costante, da lieve a moderato, negli anni.


Tuttavia il diabete gestazionale è, di norma, uno stato poco preoccupante: si sviluppa soltanto negli ultimi mesi e presenta livelli glicemici che in genere non sono sufficienti a produrre gravi effetti a breve termine sulla gestante, e che di solito non danno sintomi. Inoltre il diabete mellito gestazionale è, per definizione, circoscritto, tanto che le donne affette da questa forma di diabete non risultano esposte agli effetti a lungo termine.


Nondimeno, le gestanti che hanno ricevuto diagnosi di diabete mellito gestazionale hanno, come si vedrà, una maggior probabilità di sviluppare il diabete negli anni successivi. È anche possibile che alcune delle donne che ricevono la prima diagnosi di diabete in gravidanza ne abbiano, in realtà, sofferto in forma leggera e non diagnosticata prima dell’attesa, e che esso si sia “svelato” a causa degli effetti insulino-resistenti prodotti dagli ormoni della gravidanza. Sappiate altresì che questa lieve iperglicemia è un adattamento normale e importante durante l’attesa determinato dai summenzionati effetti ormonali. L’aumento dei livelli di glucosio nella madre fa sì che un apporto ottimale di questo carburante essenziale attraversi la placenta con facilità, rifornendo di energia il bambino in crescita.


I punti più controversi della questione sono le possibili ripercussioni del GDM sul bambino – durante la gravidanza, nel periodo perinatale e nel corso della vita – e l’eventualità che il trattamento della gestante affetta da diabete gestazionale sia o no vantaggioso per il bebè in ognuna delle fasi descritte. I possibili vantaggi devono altresì essere valutati a fronte dei costi (medici, economici e personali), dei controlli e delle terapie.


Si tratta di un ambito in cui è difficile decidere, poiché gli esperti hanno pareri molto discordanti sull’importanza della diagnosi e della cura del diabete mellito gestazionale, in merito alle quali le evidenze mediche sui possibili vantaggi sono ancora ragionevolmente poco convincenti. Sul tema del diabete gravidico gravano controlli e definizioni eterogenei, oltre all’assenza di studi seri e approfonditi.

Screening del diabete mellito gestazionale

In medicina per screening si intende il controllo in assenza di tratti o sintomi di un particolare stato, finalizzato a individuare gli individui ad alto rischio. A tutte coloro il cui screening avrà dato esito positivo, indicando un elevato rischio diabetico, verrà proposto un test in grado di dare una diagnosi certa, il quale tuttavia è di solito più oneroso e, a volte, più rischioso dello stesso screening.


Questo esame di solito comporta l’assunzione di una bevanda iperglucidica contenente da 50 a 100 grammi di glucosio, l’equivalente di 10/20 cucchiaini di zucchero. Il livello di glucosio nel sangue viene rilevato più o meno nell’ora seguente. Esistono metodi diversi che prevedono carichi di glucosio diversi, diverse tempistiche e diversi valori limite.


Se il valore risultante è elevato (screening positivo), in genere si richiede di sottoporsi al test di tolleranza a carico orale di glucosio (OGTT) per la diagnosi definitiva di GDM. Esso prevede un digiuno di otto ore e l’assunzione della bevanda a base di glucosio standard, con un prelievo di sangue prima e due-tre ore dopo l’assunzione. Molte donne ottengono un risultato positivo allo screening, ma meno di una su cinque risulterà, dopo il test di tolleranza a carico orale di glucosio, affetta da diabete gestazionale18. Alcuni metodi prevedono il ricorso all’OGTT sia per lo screening che per la diagnosi, sebbene soprattutto in caso di donne ad alto rischio.

Controversie sollevate da screening e diagnosi

Si noti come il carico di glucosio (50, 75, 100 grammi) previsto per l’OGTT e i valori limite per la diagnosi del diabete gestazionale non abbiano uno standard internazionale, il che solleva grosse difficoltà sui criteri di diagnosi e nel confronto tra ricerche. Nel 1998, ad esempio, l’Organizzazione Mondiale per la Sanità (OMS) diffuse alcune raccomandazioni secondo cui anche una glicemia lievemente superiore alla norma (precedentemente definita alterata tolleranza al glucosio o IGT) dovesse essere riconosciuta come diabete mellito gestazionale19. I criteri redatti dall’OMS risultano meno rigidi di altri, facendo rientrare un 50 per cento in più di donne nella categoria delle pazienti affette da diabete gestazionale, senza – a detta di alcuni esperti – alcuna prova valida di eventuali vantaggi per la madre e per il bambino20.


Da uno studio risultò che, nelle donne sottoposte a screening per GDM, il tempo trascorso dall’ultimo pasto aveva una rilevanza sostanziale ai fini dei risultati, con la rilevazione di livelli di glicemia del sangue minori qualora l’ultimo pasto fosse stato consumato due-tre ore prima del test21.


Secondo l’ostetrica e autrice Anne Frye anche la dieta abituale della donna è in grado di influire sulla risposta glicemica al grosso carico glucidico del test. Frye raccomanda alle donne che non sono solite assumere ingenti quantità di zuccheri semplici (dolciumi e cibo spazzatura) di aumentare l’apporto di carboidrati di buona qualità (naturali, ricchi di fibre e a basso indice glicemico, come vedremo più avanti) nei giorni precedenti, in modo da aumentare la risposta insulinica22.


L’autrice suggerisce un’ulteriore e logica alternativa al test da carico di glucosio: il controllo della risposta glicemica agli alimenti che più si avvicinano alla dieta consueta della donna. Si potrebbe, ad esempio, procedere a una rilevazione postprandiale – a due ore dal pasto – dopo una colazione da 600 calorie costituita da almeno 75-80 grammi di carboidrati complessi (per calcolare l’apporto calorico si possono consultare le tabelle nutrizionali) e consigliando un’attività fisica moderata tra il pasto e la rilevazione23.


Ad oggi non c’è ancora accordo sull’eventualità di proporre lo screening a tutte le donne o solo a quelle che presentino fattori di rischio – elencati di seguito – che le predispongano con maggior probabilità al diabete gestazionale:

  • Sovrappeso: indice di massa corporea [IMC – peso (kg)/altezza (m2)] – superiore a 25, in particolare superiore a 30 (obesità);

  • età superiore ai venticinque anni, in particolare superiore ai quaranta;

  • familiari affetti da diabete, in particolare genitori e fratelli;

  • diabete mellito gestazionale e feto di grosse dimensioni (oltre i 4 kg, in particolare oltre i 4,5 kg) in gravidanze precedenti;

  • individui appartenenti a etnie a rischio, tra cui nativi americani, asiatici, ispanici, islandesi. Da alcuni studi britannici risulta che anche le caraibiche di colore e le mediorientali sono a maggior rischio.


In ogni caso, tale valutazione dei rischi non risulta molto utile, dal momento che circa il 90 per cento delle donne gravide presenterà uno o più fattori tra quelli sopraelencati24. Le linee guida adottate nel Regno Unito suggeriscono che l’età in sé non dovrebbe essere considerata criterio di valutazione del rischio di diabete gestazionale25, il che ridurrebbe la percentuale.


Attualmente la Task Force statunitense per i Servizi Preventivi non raccomanda lo screening di routine26. L’ACOG consiglia a ogni donna di sottoporsi al controllo, sia per la stima dei fattori di rischio, sia per la valutazione della glicemia del sangue. L’American Diabetes Association consiglia l’esame solo alle donne ad alto rischio. Secondo le raccomandazioni della Society of Obstetricians and Gynaecologists of Canada (SOGC) lo screening dei fattori di rischio e quello della glicemia è facoltativo27, mentre nel Regno Unito l’OGTT viene consigliato solo alle donne a rischio, a prescindere dall’età28.


Lo screening di norma viene effettuato dalla ventiquattresima alla ventottesima settimana, se non più tardi, allorché l’aumento degli ormoni della gravidanza inizia a produrre insulinoresistenza. Il diabete diagnosticato prima di questo termine è, con ogni probabilità, giustificabile con uno stato preesistente. La rilevazione in gravidanza di glucosio nelle urine tramite “stick” non costituisce metodo valido e attendibile di diagnosi di diabete gravidico.

Vantaggi per la madre e per il bambino

Se si riceve una diagnosi di diabete mellito gestazionale, l’esito principale, e potenzialmente vantaggioso, è la consapevolezza di avere un rischio maggiore di sviluppare il diabete negli anni a seguire; forse in ragione di un certo grado di insulinoresistenza che si manifesta per effetto dello stress metabolico e degli ormoni della gravidanza29.


Il rischio varia a seconda degli studi e rispetto ad altri fattori quali i livelli iniziali di glucosio (che indicano la gravità del diabete gestazionale), il peso e l’etnia. In generale il programma statunitense per l’educazione sul diabete calcola che le donne affette da diabete mellito gestazionale abbiano dal 20 al 50 per cento di probabilità di sviluppare il diabete nei cinque-dieci anni successivi30.


Alcuni studi mostrano come sia possibile ridurre tale rischio dopo la gravidanza riducendo il peso, di preferenza a un IMC inferiore a 25 (online si possono trovare tabelle di riferimento in chilogrammi o libbre)31 e incrementando l’attività fisica, dedicando a quest’ultima, quando possibile, mezz’ora cinque volte a settimana32,33.


Se siete state affette da diabete mellito gestazionale dovreste controllare la glicemia tra la sesta e la dodicesima settimana dopo il parto, e poi ogni uno/due anni34.


Sembra poi ragionevolmente certo che la diagnosi e il trattamento del diabete mellito gestazionale riduca le probabilità di avere un bimbo di grosse dimensioni (macrosomico, bambino grande per l’età gestazionale – LGA – o di peso superiore ai 4 kg). Secondo alcuni studi ciò ha contribuito a contenere il piccolo rischio di trauma nel bambino dovuto alla distocia di spalla, quando, durante il parto, le spalle del bimbo restano incastrate35 (i bambini di madri affette da diabete mellito gestazionale tendono ad avere dimensioni complessivamente maggiori, compresa l’ampiezza delle spalle, che determina un rischio superiore di distocia di spalla persino rispetto ai feti dello stesso peso di madri non diabetiche36).

Vantaggi non accertati

Alcuni studi hanno paventato la possibilità che le donne affette da diabete gestazionale abbiano un rischio maggiore di sviluppare tossiemia (preeclampsia)37 e ipertensione38, ma non è ancora certo che il trattamento del diabete mellito gestazionale riduca tale rischio. Per i neonati da madri con diabete gestazionale sussiste un maggior rischio di ittero e di livelli ridotti di calcio, riconducibili agli elevati livelli di glucosio in utero39, i quali potrebbero non migliorare con la diagnosi e la terapia40.


Alcuni esperti hanno ipotizzato che i ben noti rischi legati al diabete preesistente, specie di tipo 1 (diabete insulinodipendente o IDDM) si estenderebbero al diabete gestazionale. Tra questi un maggior rischio di feto morto alla nascita che però non è stato, ad esempio, dimostrato dall’ampio studio su iperglicemia ed esiti gravidici svaforevoli (HAPO), condotto su oltre venticinquemila donne41.


In merito ai possibili effetti a lungo termine sulla prole, da uno studio risultò che i bambini nati dopo una gravidanza con diabete gestazionale, e di dimensioni maggiori rispetto all’età gestazionale (LGA), avevano un rischio più alto di presentare i marker della sindrome metabolica (obesità, iperglicemia, ipertensione e ipercolesterolemia) all’età di undici anni42. Secondo altre ricerche tali effetti possono essere determinati anche dall’obesità in gravidanza43,44 e riconducibili forse ai maggiori livelli di insulina in utero. Non è ancora stato accertato in che modo la diagnosi e il trattamento del GDM (o dell’obesità) possano influire su tali rischi.


Per ora le evidenze mediche non sono ancora in grado di dirci se la moderata iperglicemia tipica del diabete gestazionale sia in grado di ledere seriamente la madre e il bambino45 o se la diagnosi e il trattamento del GDM sortiscano, per entrambi, effettivi benefici nel breve, medio e lungo periodo, e se tali benefici riescano a controbilanciare i rischi della diagnosi e della terapia46.

Rischi per la madre e per il bambino

Ecco i possibili rischi della diagnosi e del trattamento del diabete mellito gestazionale:

  • fastidio e disagi legati al controllo regolare della glicemia;

  • possibili rischi dovuti ai farmaci utilizzati per il trattamento;

  • costi e ulteriori risorse utilizzate per la diagnosi e per il trattamento;

  • preoccupazione della madre ed effetto nocebo.


La diagnosi di GDM, poi, può comportare una percentuale più alta di cesarei47 e di induzioni48, probabile indice delle maggiori precauzioni adottate dagli operatori sanitari una volta effettuata la diagnosi49,50.


Per quanto possa apparire vantaggioso un parto per induzione (o cesareo) prima che il feto diventi troppo grosso, e nonostante che alcuni studi ne abbiano dimostrato l’utilità nel prevenire la macrosomia fetale e nel ridurre le possibilità di distocia di spalla51, i neonati da madri affette da GDM possono incorrere in un ritardo nello sviluppo polmonare, specie se la glicemia in gravidanza ha raggiunto livelli molto alti; risulterebbe quindi rischioso partorire prima che il bambino sia pronto per nascere52. Si è stimato che sarebbero necessari oltre quattrocento cesarei su donne affette da GDM per evitare che un feto di peso maggiore di 4,5 chili vada incontro a lesioni nervose (plesso brachiale) permanenti prodotte da un parto traumatico53.


Da un recente studio risulta che i neonati di donne a cui era stato diagnosticato il diabete mellito gestazionale (la maggioranza delle quali affette da diabete gestazionale lieve) avevano maggiori probabilità di essere ricoverati in terapia intensiva neonatale (T.I.N.) rispetto ai figli di madri che non si erano sottoposte a trattamenti per il diabete gestazionale; stando forse a indicare il maggior numero di induzioni nei neonati con madri affette da GDM illustrato nello studio54.


Da notare come le attuali evidenze non mostrino vantaggi complessivi nell’indurre il parto a donne affette da diabete mellito gestazionale la cui gravidanza si sia protratta oltre il termine e che abbiano tenuto sotto scrupoloso controllo la glicemia almeno fino alla ventunesima settimana55,56,57,58. In modo analogo non si raccomanda il cesareo di routine per le donne affette da diabete gestazionale a meno che il peso del nascituro non venga valutato oltre i 5 chili59. Si tenga tuttavia presente che la stima del peso tramite ultrasuoni non ha precisione attendibile60.


I neonati da madri con diabete gestazionale sono esposti a un maggior rischio di ipoglicemia (bassi livelli di zucchero nel sangue) nelle prime ore dopo il parto. L’ipoglicemia, di cui potrebbe soffrire all’incirca un neonato da madre affetta da GDM su cinquanta61, è uno stato potenzialmente grave, per cui è necessario sottoporre i piccoli a rischio al test della puntura del dito e curarli con l’allattamento materno o, nel caso, con l’assunzione di glucosata per via orale o endovenosa. Tuttavia la diagnosi e la cura del diabete gestazionale potrebbero nell’insieme non ridurne il rischio, ma, al contrario, determinarne l’aumento nei bambini le cui madri, affette da GDM, assumano insulina62.


Si tenga anche presente che i bambini nati con cesareo risultano più esposti all’ipoglicemia (non beneficiando del rilascio di catecolamine, come spiegherò nel capitolo VI), ma non sono state fatte verifiche in rapporto al diabete mellito gestazionale. Esiste altresì la possibilità che il rischio ipoglicemico si riduca qualora il neonato abbia costantemente accesso al corpo e al latte materni.


Il trattamento del GDM prevede la rilevazione della glicemia prelevando un campione di sangue dai polpastrelli della madre fino a quattro volte il giorno. Le donne che non riescono a ridurre la glicemia attraverso la dieta dovranno assumere insulina tramite iniezioni quotidiane.


Una tendenza sempre più diffusa nella cura del diabete gestazionale è la somministrazione di farmaci ipoglicemizzanti (per la riduzione della glicemia) per via orale. Sebbene l’insulina venga considerata innocua per il feto, non essendo in grado di attraversare la placenta, qui si tratta di farmaci che non sono stati sottoposti a test rigorosi e che potrebbero comportare, per la madre e/o il feto, effetti collaterali ad oggi ancora ignoti; essi dovrebbero essere valutati in rapporto ai potenziali vantaggi della terapia. Per questi motivi l’uso di farmaci ipoglicemizzanti orali è, ad oggi, considerato sperimentale63,64.


Per quanto riguarda l’effetto nocebo, la Task Force statunitense per i Servizi Preventivi riferisce: “Nelle prime settimane successive allo screening, le donne che sono risultate positive al diabete gestazionale possono denunciare maggiore ansia e disagio psicologico, oltre che una percezione del proprio stato di salute peggiore rispetto alle pazienti con screening negativo.”65


Da uno studio risultarono condizioni di salute migliori e un minor stato depressivo, a tre mesi dal parto, nelle donne affette da GDM e in cura66, per quanto il dato sia stato rilevato soltanto in un gruppo di partecipanti alla ricerca e possa essere riflesso della maggior quantità e qualità dell’assistenza ricevuta (effetto placebo) e non della terapia.

Alternative

Ridurre il peso corporeo fino ai livelli di norma precedenti la gravidanza67 e limitare l’aumento ponderale durante l’attesa, specie se si è già in sovrappeso prima della maternità, contribuirà a mantenere bassa la glicemia durante la gestazione68,69. Secondo le linee guida stilate dall’U.S. Institute of Medicine per le donne in sovrappeso (I.M.C. tra 19,9 e 25) l’aumento ponderale dovrebbe essere compreso tra i 6,8 e gli 11,4 chili, e di 6,8 chili nei soggetti obesi (I.M.C uguale o superiore a 30).


Tuttavia, come fa notare la Frey, un eccessivo aumento di peso risulterà preoccupante (o addirittura prevedibile) solo se la madre avrà seguito un’alimentazione di cattiva qualità (junk food) e molto ricca di zuccheri e grassi. Tale aumento sarà, quindi, meno grave nelle donne che seguono una dieta sana70.


Anche l’attività fisica è determinante poiché favorisce la sensibilità insulinica oltre a contribuire a bruciare calorie. È stato dimostrato come dieta e attività fisica in gravidanza riducano le probabilità di sviluppare il diabete mellito gestazionale, così come di partorire bimbi molto grossi. Anche solo quindici-trenta minuti di attività fisica blanda, come passeggiare, tre volte a settimana, produrranno effetti benefici. 71,72,73


Ecco le modifiche nell’alimentazione che contrastano il diabete gestazionale e, addirittura, ne prevengono l’insorgenza: sostituire gli alimenti a elevato indice glicemico (IG: velocità con cui aumenta la glicemia in seguito all’assunzione di un determinato alimento74) con carboidrati a basso indice glicemico; ridurre i grassi nella dieta a favore dei carboidrati75, e incrementare il consumo di acidi grassi essenziali76.


Molto indicato anche aumentare l’apporto di cromo, magnesio, vitamina E, selenio, vitamina B6 e zinco nella dieta, che contribuiranno a migliorare il metabolismo del glucosio. Alimenti ed erbe altrettanto utili sono aglio e cipolla, aloe vera, ginseng, fieno greco77, fegato in modeste quantità, fresco o essiccato in capsule78.


In gravidanza è consigliabile garantire un buon apporto di antiossidanti, utili alla prevenzione della tossiemia (preeclampsia) e un regime alimentare ideale per la madre e per il bambino. Per fare scorta di antiossidanti sarà sufficiente abbondare nel consumo di frutta e verdura.

Non fare nulla

Alcuni esperti ritengono che il GDM sia un disturbo grave e che ogni donna dovrebbe sottoporsi allo screening79. Altri sostengono che quella di diabete mellito gestazionale sia una “diagnosi in cerca di malattia”80,81,82 poiché l’iperglicemia in gravidanza altro non è che il normale effetto degli ormoni placentari, che mantengono i livelli di glucosio nel sangue materno elevati in modo tale da rendere disponibili, come ho già spiegato, buone quantità di questo carburante fondamentale per il bambino83.


Michel Odent mette in discussione l’utilità della diagnosi di GDM poiché tale etichetta rischia di produrre un forte effetto nocebo84. Se una diagnosi di diabete mellito gestazionale produce, nella madre, elevati livelli di tensione e di preoccupazione, gli ormoni dello stress da essa prodotti rischiano di aumentare e di essere trasmessi al bambino, aumentando il rischio, come abbiamo visto in precedenza, di crescita insufficiente e di parto prematuro.


Di recente la Task Force statunitense per i Servizi Preventivi ha revisionato tutti gli studi in materia, concludendo che: “Sebbene lo screening e il trattamento precoce del diabete gestazionale riducano la macrosomia, e sebbene uno studio clinico suggerisca l’eventualità di ulteriori vantaggi per la salute, le evidenze nella loro totalità non sono sufficienti a stabilire se le complicazioni a livello materno o fetale risultino ridotte grazie agli screening85. Ancora, la Task Force sottolinea il disagio di questo tipo di diagnosi oltre all’ulteriore spesa sanitaria derivante da screening e OGTT.


Odent e altri sostengono, in aggiunta e a ragione, che i consigli pratici rivolti alle madri a cui viene affibbiata la diagnosi di “diabete gestazionale” sono gli stessi a vantaggio di tutte le donne incinte: alimentazione corretta, dieta povera di zuccheri semplici quali saccarosio e glucosio e ricca di carboidrati complessi a basso indice glicemico; attività fisica costante, che aiuta l’organismo a bruciare glucosio e a migliorare gli effetti dell’insulina86.


Secondo un importante rapporto britannico, tali indicazioni risultano efficaci nel controllo della glicemia per l’80-90 per cento delle donne affette da diabete mellito gestazionale87.

Riassumendo

Dovrete valutare tutte le conseguenze del sì al test per il diabete mellito gestazionale, specie l’effetto nocebo e il possibile maggiore rischio di interventi superflui. I vantaggi, per madre e bambino, derivanti dai controlli, dalla diagnosi e dal trattamento del diabete gestazionale non sono ancora stati provati, sebbene sia probabile una riduzione del rischio di avere un bambino di grosse dimensioni.


Doveste mai ricevere una diagnosi di questo tipo, potrete apportare molte modifiche alla vostra alimentazione e all’attività fisica praticata così da ridurne i rischi e gli effetti. Oltretutto tali modifiche saranno nel complesso a vantaggio del benessere e della salute vostri e del vostro bambino.

Screening e trattamento dello streptococco beta emolitico di gruppo B (SGB)

Lo streptococco di gruppo B (SGB, streptococco beta emolitico) è un batterio che si trova nell’intestino e/o nella vagina come parte della normale flora batterica, sia nel corso, sia al di fuori della gravidanza. Da un terzo a un decimo delle gestanti è portatore dello streptococco beta emolitico di tipo B, sebbene si tratti di un batterio che si presenta a più riprese nell’intestino e nella vagina di gran parte delle donne.


Durante il travaglio e il parto, il feto rischia di essere esposto allo streptococco di tipo B in utero (in genere dopo la rottura delle membrane) oppure tramite il contatto con la flora batterica vaginale o intestinale della madre al momento del parto. In alcuni di questi bambini, lo streptococco colonizza (moltiplicandosi) la pelle e le pliche cutanee. In casi ben più rari, il batterio riesce a entrare nell’organismo del neonato provocando gravi infezioni, tra cui infezioni polmonari (polmonite), ematiche (setticemia) e cerebrali (meningite).


Sebbene lo streptococco beta emolitico di gruppo B sia tra le principali cause di gravi infezioni nel neonato (infezione da SGB a esordio immediato che colpisce il neonato nella prima settimana) e nel lattante (infezione da SGB a esordio tardivo che colpisce il bambino tra la seconda settimana di vita e il terzo mese), il numero effettivo di casi è ridotto. Al giorno d’oggi, negli Stati Uniti, meno di un neonato su duemila contrae un’infezione da SGB a esordio immediato (la cifra rimane la stessa anche per le infezioni da SGB a esordio tardivo), e un neonato su venticinque muore a causa dello streptococco di gruppo B, per un totale di circa ottanta morti neonatali l’anno a causa di infezioni da SGB a esordio immediato. Prima degli anni Novanta del XX secolo, quando si iniziarono ad adottare alcune misure preventive, i casi di infezione a esordio immediato erano all’incirca tre volte più diffusi (1,5 per mille), e moriva circa la metà dei neonati colpiti88.


Percentuali simili sono rilevabili nel Regno Unito, anche in assenza di programmi preventivi: un neonato su duemila l’anno, di cui circa uno su dieci muore a seguito di infezioni da streptococco di tipo B. Anche il tasso di donne gravide portatrici di streptococco di tipo B è simile a quello statunitense89. Percentuali inferiori sono state registrate in Paesi quali la Thailandia, la Birmania, le Filippine e lo Zimbabwe90.

Screening e antibiotici nella prevenzione delle infezioni da SGB a esordio immediato

Negli ultimi anni è diventata una prassi, e in alcuni contesti quasi obbligatoria, sottoporre le donne in gravidanza al test per lo streptococco di gruppo B; o almeno informare le donne di questa possibilità. Il test consiste in un tampone vaginale e rettale praticato in gravidanza, in genere tra la trentacinquesima e la trentasettesima settimana. Prima di allora il tampone non risulta attendibile nel prevedere se la madre sarà portatrice dello streptococco di tipo B al momento del travaglio, poiché, ripeto, la presenza dello streptococco può essere transitoria.


Per ottenere risultati attendibili la tecnica è fondamentale: ciò implica l’utilizzo di strumenti idonei e il corretto trasporto dei tamponi. Altrimenti è possibile lasciare che sia la donna stessa a ritirare il tampone nelle modalità più indicate. Grazie al test è possibile rilevare la colonizzazione dello streptococco di gruppo B in almeno l’85 per cento delle donne91.


Se il tampone risulta positivo, di solito si raccomanda la somministrazione di antibiotici durante il travaglio al fine di debellare il batterio dall’organismo della madre e del bambino. In genere viene somministrata penicillina in endovena ogni quattro ore fino al momento della nascita. Si può ricorrere anche ad altri tipi di antibiotico ad ampio spettro, quali ampicillina, eritromicina e clindamicina, il cui utilizzo contro lo streptococco di gruppo B non viene però raccomandato di routine poiché responsabili dell’eliminazione di uno spettro più ampio di batteri, tra cui gran parte dei batteri amici presenti in vagina e nell’intestino, e della possibile proliferazione di microrganismi potenzialmente nocivi quali la candida. Sarà necessario prendere in considerazione battericidi ad ampio spettro alternativi per le donne allergiche alla penicillina92.


La questione se sottoporre tutte le donne al tampone per lo streptococco di gruppo B e al relativo trattamento in caso di risultato positivo (approccio universale), o se adottare un approccio basato sul rischio, secondo cui vengono sottoposte a trattamento soltanto le donne i cui figli hanno un elevato rischio di contrarre infezioni da SGB a esordio immediato, ha innescato un dibattito a livello internazionale.


Ecco i principali fattori di rischio:

  • gestazione inferiore alle trentasette settimane;

  • rottura delle membrane avvenuta da oltre diciotto ore;

  • temperatura superiore ai 38°C durante il travaglio;

  • casi pregressi di figli colpiti da infezioni da SGB;

  • urinocultura positiva allo streptococco di gruppo B in gravidanza.


Negli Stati Uniti i CDC (Centri per la prevenzione e il controllo delle malattie) raccomandano lo screening universale, stimando che questo tipo di approccio sarà in grado di prevenire un 50 per cento in più di infezioni da SGB a esordio immediato rispetto alle misure basate sul rischio. Questo perché circa la metà dei neonati che contraggono lo streptococco di gruppo B non presenta alcuno dei fattori di rischio summenzionati93. Lo screening universale viene giudicato economicamente redditizio, considerato il risparmio sulle cure per il trattamento delle infezioni da SGB94. Applicando l’approccio universale durante il travaglio verrebbero somministrati antibiotici al 30 per cento delle donne gravide.


Anche le linee guida canadesi raccomandano lo screening e il trattamento universali95, al contrario della Nuova Zelanda96 o del Regno Unito97,98 dove, a tutt’oggi, il NICE (National Institute of Health and Clinical Excellence) non trova giustificazione allo screening per lo streptococco di gruppo B poiché l’efficacia da un punto di vista clinico e la redditività restano incerte99.


Secondo le raccomandazioni dei CDC le donne che abbiano programmato un cesareo dovrebbero sottoporsi allo screening, nell’eventualità che il travaglio abbia inizio prima dell’intervento. Tuttavia, nei casi di parto cesareo senza travaglio, non si consiglia la somministrazione di antibiotico100. Se il travaglio ha inizio prima del termine senza essersi sottoposte al tampone, gli antibiotici sono raccomandati101. Si tenga presente che i risultati del tampone sono disponibili in circa quarantottore.

Vantaggi dello screening e del trattamento per lo streptococco di gruppo B

Nel complesso si è stimato che lo screening universale (rispetto alla terapia in base al rischio somministrata durante il travaglio) sia in grado di prevenire le infezioni da SGB a esordio immediato nell’80-90 per cento dei neonati a rischio, evitando – ogni anno negli Stati Uniti – ottocento casi di infezione e salvando la vita a quaranta bambini102. Tuttavia, dal momento che i risultati di laboratorio non sempre sono affidabili né la pratica clinica sempre conforme alle linee guida, il tasso di efficacia reale si attesterebbe intorno al 60-70 per cento103.


Per le donne che non presentino fattori di rischio i CDC stimano una riduzione delle infezioni da streptococco di gruppo B – grazie allo screening e alla terapia antibiotica durante il travaglio – da un caso su duecento a uno su quattromila104: per conoscere gli ulteriori rischi da SGB senza terapia antibiotica si veda oltre al paragrafo “Non fare nulla”.


Nel Regno Unito l’RCOG (Royal College of Obstetricians and Gynaecologists) stima che, per salvare un neonato dalla morte per infezione da SGB a esordio immediato, si renderebbe necessario sottoporre circa ventiquattromila donne allo screening e settemila alla terapia antibiotica; e suggerisce che i vantaggi dello screening universale (e della terapia su oltre duecentomila portatrici di streptococco di gruppo B) non troverebbero giustificazione nei rischi, per lo meno nel Regno Unito105.


Si noti che né lo screening, né la terapia sono in grado di prevenire le infezioni da SGB a esordio tardivo. Il tasso annuo di tali infezioni negli Stati Uniti si è stabilizzato intorno a circa un caso su duemila nonostante la diffusione, negli ultimi anni, degli screening e della terapia antibiotica106.

Rischi dello screening e del trattamento per lo streptococco di gruppo B

È indubbio che, negli Stati Uniti, l’incidenza di casi di neonati affetti da streptococco di gruppo B sia calata grazie alla pratica dello screening universale, ma è necessario che tale vantaggio venga valutato sulla base dei rischi effettivi ed eventuali a carico della madre e del bambino. Tra essi il costo e il disagio dello screening, l’effetto nocebo derivante dall’esito positivo, i rischi per le donne con gravi allergie agli antibiotici, il possibile aumento del rischio di contrarre infezioni da SGB a esordio tardivo, un maggior tasso di resistenza agli antibiotici oltre agli effetti sulla flora intestinale del neonato. Potrebbero esistere altri rischi ad oggi ancora ignoti.


Ogni anno lo screening universale, raccomandato dai CDC, fa gravare l’impegno, la spesa, forse il disturbo del tampone di routine su oltre quattro milioni di gestanti statunitensi. Quelle risultate positive al test trascorreranno settimane di preoccupazione per sé e/o per il proprio bambino, specie se non hanno ricevuto una corretta informazione circa i rischi, relativamente contenuti, a cui vanno incontro. Si tratta di aspetti che producono un rilevante effetto nocebo.


Le donne che desiderino partorire al di fuori di un contesto ospedaliero (e in assenza dei relativi operatori) avranno difficile accesso alla terapia antibiotica endovenosa; questione rispetto alla quale le indicazioni fornite dai CDC risultano scarse, così come per altre scelte di assistenza alternativa.


Si è stimato che il tasso di donne con un’allergia mortale (anafilassi) alla penicillina sia da quattro su diecimila a quattro su centomila. Secondo i CDC ciò non costituirebbe di norma motivo di preoccupazione, dal momento che gli antibiotici vengono somministrati in un contesto ospedaliero con possibilità di soccorso immediato107. Ciò nonostante l’RCOG stima che, se nel Regno Unito si introducessero lo screening e la prevenzione universali, ogni anno morirebbero due donne a causa della fatale reazione anafilattica alla penicillina108.


Il 10 per cento circa delle donne allergiche alla penicillina potrebbe an-dare incontro a reazioni crociate ad altri antibiotici della famiglia delle cefalosporine, utilizzati in alternativa. Diventa fondamentale, quindi, essere molto precisi, preferibilmente prima del travaglio, rispetto all’esatta natura e ai precedenti di allergie agli antibiotici di cui si sia a conoscenza.


La diffusa somministrazione di penicillina e altri antibiotici a un vasto numero di donne rischia di provocare lo sviluppo di ceppi batterici di questo streptococco resistenti a questi farmaci di uso comune. Se finora ciò non si è verificato per le penicilline, tale resistenza si è sviluppata nei confronti di altri antibiotici, con effetti maggiori laddove i medici non seguono le raccomandazioni espresse dalle linee guida all’uso della penicillina, e rischia di aumentare nel tempo109.


In tali condizioni si sviluppa resistenza perché gli antibiotici ad ampio spettro distruggono i batteri sensibili (non resistenti) presenti nell’intestino materno e in vagina, consentendo la proliferazione di quelli antibioticoresistenti, che rischiano di passare al bambino al momento del parto. Il crescente ricorso, durante il travaglio, agli antibiotici per prevenire le infezioni da streptococco di gruppo B ha determinato l’aumento dei casi di infezioni neonatali (da streptococco beta emolitico e altri) resistenti agli antibiotici110, in percentuale crescente tra i vulnerabili prematuri111.


La somministrazione antibiotica di routine nel periodo precedente e durante il parto predisporrebbe il neonato a infezioni più tardive derivanti da organismi diversi dallo streptococco di gruppo B. Da uno studio statunitense risultò che i bambini a termine esposti, durante il travaglio, ad antibiotici ad ampio spettro per la prevenzione di infezioni da SGB a esordio immediato avevano un rischio quintuplicato di andare incontro a sepsi batteriche gravi e più tardive rispetto ai bambini non esposti ad antibiotici. I bimbi contraevano infezioni batteriche con una probabilità maggiore di risultare resistenti all’ampicillina – antibiotico utilizzato di prassi, in certi contesti, per la prevenzione dello streptococco di gruppo B durante il travaglio. La percentuale di infezioni non-SGB a decorso tardivo nei bambini americani nati a termine è di 1,6 casi per mille112.

È stato altresì espresso timore riguardo gli effetti della somministrazione di antibiotici durante il travaglio sulla flora batterica che per prima colonizza il tratto gastrointestinale del neonato. Tale flora viene acquisita dall’intestino e dalla vagina della madre durante il parto, e i batteri che per primi colonizzano l’intestino del neonato (sterile fino alla nascita) vi permarranno, con effetti significativi e duraturi sulla salute del suo intestino oltre che sul sistema immunitario, compresa la predisposizione alle allergie.


Gli antibiotici somministrati alla madre durante il travaglio rischiano di distruggere alcuni dei batteri benefici presenti nel suo organismo, consentendo a quelli meno benefici (tra cui gli antibiotico-resistenti) di passare al bambino, predisponendolo a disturbi a breve e lungo termine, quali disfunzioni immunologiche e allergie113.


Conseguenze del genere risultano più probabili con l’utilizzo di antibiotici a largo spettro, responsabili dell’eliminazione di un maggior numero di batteri intestinali. L’ampicillina, ad esempio, esercita un effetto blando sulla flora intestinale mentre i danni provocati dalla clindamicina e dall’eritromicina sono assai più gravi, poiché determinano la scomparsa di ceppi batterici intestinali benefici (lactobacillus e bifidus) favorendo la proliferazione di specie pericolose quali il clostridio. Per quanto le conseguenze prodotte dagli antibiotici a spettro limitato siano ben più contenute, anche la penicillina è in grado di determinare, nelle donne predisposte, la proliferazione della candida in vagina114.


Ad oggi esiste un unico studio, limitato, ad aver preso in esame la flora intestinale dei neonati esposti ad antibiotico (nello specifico all’amoxicillina per endovenosa) durante il travaglio, in cui fu rilevato un maggior ritardo nella colonizzazione intestinale dei bambini esposti ad antibiotico a tre giorni di vita, sebbene i risultati dello studio fossero troppo circoscritti per assumere rilevanza statistica. Preoccupa il fatto che nella flora intestinale sia dei neonati esposti, sia di quelli non esposti erano presenti batteri antibiotico-resistenti, il che ne indicherebbe la colonizzazione all’interno dell’ambiente ospedaliero115.


Da questi studi risultò altresì che nascere in ospedale, ambiente batteriologicamente estraneo alla madre e al bambino, corrisponde a un ritardo nella colonizzazione intestinale (anche nei neonati non esposti ad antibiotico)116 e alla colonizzazione da parte di batteri meno opportuni117. È probabile che tali effetti siano imputabili alle procedure di sterilizzazione e ai lavaggi antibatterici, oltre che alla colonizzazione da parte di batteri trasmessi al bambino dal personale ospedaliero. Come sottolinea Bedford Russel, neonatologo britannico: “Al giorno d’oggi molti neonati vengono colonizzati da modelli batterici probabilmente unici nella storia dell’uomo”118.


Sono molto probabili le ripercussioni sul sistema immunitario. Aggiunge Russell: “Aumentano sempre più rapidamente le evidenze sperimentali secondo cui la prima colonizzazione intestinale ha valore decisivo per la salute a lungo termine, lasciando una traccia indelebile nell’omeostasi immunitaria e sistemica”119. Secondo alcuni studi condotti su animali i modelli allergici e autoimmuni (di reazione dell’organismo contro se stesso) sono determinati dalla flora intestinale nelle prime settimane, per quanto le patologie allergiche e autoimmuni possano manifestarsi soltanto molti anni dopo.


Nonostante la scarsità di ricerche in merito, è possibile che le alterazioni nella colonizzazione della flora intestinale abbiano conseguenze simili sull’organismo umano. Da un ampio studio, per esempio, risultò che i bambini esposti ad antibiotico durante il parto avevano, rispetto ai bimbi non esposti, un 20 per cento di probabilità in più di soffrire d’asma nei primi due anni di vita, e un 40 per cento di probabilità in più di presentare asma persistente a 6-7 anni120.


Allo stesso modo, uno studio a lungo termine e ben documentato, condotto nel Regno Unito, mostrò come i neonati accuditi, in quanto sani, in nursery durante la prima nottata avessero maggiori probabilità di soffrire di raffreddore da fieno all’età di ventisei anni rispetto ai piccoli che non erano stati separati dalla madre. Dalla ricerca emerge che anche interventi minori responsabili di una maggiore esposizione a batteri anomali influirebbero sul sistema immunitario incrementando la suscettibilità alle allergie121.


Alcune donne, a livello personale, hanno riferito che i figli, esposti ad antibiotico, avevano manifestato disturbi intestinali durante le prime settimane e i primi mesi di vita, imputabili a una flora batterica tutt’altro che ottimale e con le possibili conseguenze a lungo termine di cui sopra.


Studi condotti su animali mostrano che una flora intestinale sana sarà determinante sul fronte della disintossicazione. Da uno studio risultò che l’escrezione di mercurio da parte di ratti adulti veniva drasticamente ridotta dalle alterazioni della flora intestinale prodotte dalla somministrazione di antibiotici122. Uno studio circoscritto, condotto sull’uomo, rivelò maggiori livelli di mercurio nella dentatura da latte dei bambini affetti da autismo, i quali avevano, oltre a ciò, subìto una maggior esposizione agli antibiotici durante il primo anno di vita123.


Le alterazioni della flora intestinale sono state altresì associate a diabete124,125,126, cancro, patologie infiammatorie intestinali (morbo di Chron, colite ulcerosa)127 e obesità128, tutti disturbi in crescita nelle società occidentalizzate.


Per riassumere, la medicina si è concentrata sugli effetti a breve termine del debellamento dello streptococco di gruppo B, ignorando una visione a lungo termine, soprattutto in merito alle possibili conseguenze sulla flora intestinale. Come sottolinea un esperto: “La pratica diffusa della somministrazione di antibiotici alle madri e ai neonati non è quasi per nulla oggetto di studio se non nel breve periodo”129.

Alternative

Le alternative allo screening universale consistono nell’approccio basato sul rischio, come descritto di seguito. Se lo screening risulta positivo allo streptococco di gruppo B, esistono anche altre opzioni per la sua eliminazione che, tuttavia, non sono state testate scientificamente.


Si noti come non sia indicato curare lo streptococco, se identificato dal test, con antibiotici (a meno che ad esso non si associ un’infezione urinaria) poiché esiste la probabilità che si ripresenti una volta terminato il trattamento130. In modo analogo, qualora la terapia antistreptococcica alternativa venga applicata in gravidanza, è fondamentale ripetere il tampone prima del termine per accertarsi che il batterio non sia tornato a insediarsi. In teoria bisognerebbe sottoporsi al tampone entro le cinque settimane che precedono il parto131.


I rimedi alternativi volti a eliminare lo streptococco di gruppo B dall’intestino e dalla vagina garantiscono con maggior probabilità benefici più duraturi (prevenendo eventuali recidive prima del parto) e mirano a un generale miglioramento della flora intestinale.


Eliminare lo streptococco nelle prime fasi della gravidanza è, se possibile, opportuno poiché da alcuni studi è risultato che le portatrici di SGB sarebbero più esposte al rischio di parto pretermine. Da altri studi non sono stati rilevati ulteriori rischi. Ad oggi la questione resta, quindi, incerta.


Ecco le terapie suggerite da Anne Frye132:

  • maggior introduzione di alimenti fermentati nella dieta: yogurt, kefir, miso, kombucha, crauti;

  • integratori probiotici per bocca e/o in vagina;

  • introduzione di uno spicchio d’aglio inciso in vagina per tutta la notte, ripetendo l’operazione con un nuovo spicchio per almeno quattro notti;

  • assunzione di un estratto di semi di pompelmo (tipo Fem-Cleanse) per bocca o tramite irrigazioni;

  • generale rinforzo del sistema immunitario con assunzione di vitamina C, propoli, aglio ed echinacea.


Preciso che la sicurezza in gravidanza di gran parte degli integratori naturali non è stata testata scientificamente (perché complesso e costoso), sebbene sia probabile che il ricorso, nelle ultime settimane di attesa, alle terapie anti SGB suggerite non sia pericoloso. Maggiori informazioni sono reperibili sul web133.


Diversi studi hanno dimostrato che, durante il travaglio, lavande vaginali a base di clorexidina sarebbero in grado di ridurre la colonizzazione da streptococco di gruppo B dell’organismo del neonato, per quanto ad oggi – forse in ragione della portata limitata delle indagini134 – non vi siano prove di un’azione protettiva generale contro le infezioni neonatali da SGB. Frye suggerisce di aggiungere un cucchiaio (12,5 millilitri) di Hibiclense a una tazza d’acqua (200 millilitri) e di utilizzare la soluzione ottenuta per irrigazioni vaginali, oppure, durante il travaglio, per tamponare, con una garza di cotone, l’interno della vagina ogni sei ore fino al momento del parto. In caso di massiccia colonizzazione la soluzione può essere utilizzata anche per detergere il neonato135.


Infine se si somministrano antibiotici contro lo streptococco di gruppo B è preferibile ricorrere alla penicillina, tranne che per le donne gravemente allergiche, dal momento che essa risulta meno dannosa per la flora intestinale di madre e neonato.

Non fare nulla

In gravidanza la donna può scegliere di evitare lo screening, decidendo di sottoporre se stessa (e il proprio bambino) alla terapia soltanto nel caso in cui sussistano fattori di rischio. Si consulti l’elenco dei fattori di rischio – riportato più sopra – certificato nel Regno Unito come giustificazione del ricorso agli antibiotici per la prevenzione dello streptococco di tipo B.


Secondo Schrag e colleghi, sul cui studio del 2002 si basano le raccomandazioni dei CDC, sottoporre a cura antibiotica soltanto le madri che presentino fattori di rischio (garantendo tuttavia il trattamento a tutte le madri a rischio) esporrebbe i neonati a un rischio generale di infezioni da SGB a esordio immediato pari allo 0,44 per mille (circa un caso su 2.250); appena più alto dell’1 su 3.125 (0,32 per mille) previsto per i nuovi nati da madri sottoposte a screening universale per lo streptococco di tipo B e trattate con antibiotico in caso di esito positivo136.


Per coloro il cui test risulti positivo, secondo le stime dell’RCOG britannica, il rischio di contrarre infezioni da streptococco di gruppo B nei neonati le cui madri non sono state sottoposte a cura antibiotica è di uno su cinquecento. Esso si riduce qualora il tampone sia stato eseguito prima della trentacinquesima-trentasettesima settimana (nel qual caso il batterio potrebbe essere scomparso spontaneamente) e in assenza di altri fattori di rischio. L’RCOG non raccomanda l’assunzione di antibiotici di routine neppure per le donne gravide risultate positive allo streptococco di gruppo B ma non portatrici di ulteriori fattori di rischio – se non nel caso di presenza del batterio nelle urine, sintomo di massiccia colonizzazione che comporta maggiori rischi137.


I CDC calcolano che i nati da madri positive allo streptococco di gruppo B, e che non presentino ulteriori fattori di rischio, hanno all’incirca una possibilità su duecento di venire infettati dal batterio, secondo le cifre riportate da uno studio del 1985138. Da notare, tuttavia, come lo studio di Schrag – datato 2002 – citato poc’anzi parlasse di un rischio di infezione da SGB a esordio immediato pari a uno su settecentocinquanta per i piccoli nati da madri a basso rischio positive al test non trattate con antibiotico durante il travaglio139. Secondo una ricerca canadese la possibilità di infezioni da SGB per i nati da madri positive allo streptococco era appena inferiore a una su cinquecento140.


L’infezione da SGB si manifesta per di più appena dopo il parto, con un 90 per cento dei neonati interessati che mostra sintomi quali letargia e difficoltà ad alimentarsi, entro le prime dodici ore. Con ogni probabilità questi bambini sono stati aggrediti dallo streptococco in utero, per via della risalita del batterio dalla vagina nel corso del travaglio. È altresì possibile che l’infezione avvenga prima del travaglio, in alcuni casi persino senza rottura delle acque.


Sarebbe quindi auspicabile, per coloro che intendano evitare l’assunzione di antibiotici, evitare pure, laddove possibile, manovre mediche che causino il propagarsi dei batteri dalla porzione inferiore della vagina alla cervice e all’utero. Le manovre risultate più a rischio di infezione (anche non specificamente da streptococco di gruppo B) sono le visite ginecologiche (specie se frequenti e/o ripetute); visite o manovre che prevedano l’apertura forzata della cervice e l’ingresso nel collo dell’utero – quali la rottura artificiale delle membrane – e l’applicazione di un elettrodo fetale del cuoio capelluto141, piantato nella testa del bimbo, che rappresenta un potenziale veicolo di batteri dalla vagina della madre all’utero e al bambino. Anche lo scollamento delle membrane può favorire l’ascesa dell’infezione, sebbene gli studi attuali non dimostrino l’esistenza di ulteriori rischi da streptococco di gruppo B per madre e bambino142. C’è anche la possibilità che partorire in posizione eretta ostacoli la risalita delle infezioni.


Considerate inoltre che, a prescindere dalla somministrazione di antibiotici durante il travaglio, i neonati sofferenti saranno sempre ammessi nelle unità di terapia intensiva neonatale (T.I.N.), ove verranno trattati d’urgenza con antibiotici specifici per le infezioni da SGB e da altri gravi agenti infettivi. Il ricovero in terapia intensiva neonatale presuppone il distacco precoce e la somministrazione di antibiotici ad ampio spettro: rischi che i genitori propensi a non accettare terapie antibiotiche durante il travaglio devono tenere presenti. Le moderne terapie sono in grado di evitare il decesso del 90143-96144 per cento dei neonati colpiti da infezioni da streptococco di gruppo B, sebbene i soggetti sopravvissuti a gravi sepsi da SGB rischino di restare segnati da gravi disabilità.

Riassumendo

Per quanto screening universale e terapia preventiva costituiscano i protocolli standard di molti Paesi, resta fondamentale operare scelte informate, ponderando i rischi di infezione da streptococco di gruppo B, a cui vanno incontro i vostri figli, alla luce dei possibili effetti degli antibiotici sulla salute vostra e dei vostri bambini. Per quanto sappiamo che la somministrazione di antibiotici durante il travaglio riduca l’eventualità (ragionevolmente contenuta) di infezioni da SGB, resta tutt’ora ignota l’entità delle conseguenze a lungo termine dell’esposizione dei neonati a tali farmaci.

Induzione del parto “oltre il termine”

Oggi le donne gravide subiscono fortissime pressioni affinché partoriscano da calendario, con la minaccia di indurre il travaglio qualora esso non si avviasse entro una data precisa.


Il tasso di induzione è andato aumentando negli ultimi anni: le stime ufficiali negli Stati Uniti parlano di un 22,8 per cento di parti indotti nel 2005, contro il 9,6 per cento del 1990145. Tuttavia è probabile che anche le cifre attuali, le più alte mai registrate negli Stai Uniti, siano sottostimate: il 50 per cento dei partecipanti all’indagine Listening to Mothers (LTM) del 2005 dichiarò di aver provato – da sé o con l’intervento di chi prestava assistenza – a indurre l’inizio del travaglio, e il 34 per cento rispose di aver subìto un’induzione medica146.


Quantunque le statistiche ufficiali statunitensi non registrino i motivi delle induzioni, i partecipanti all’LTM indicarono la “preoccupazione degli operatori per il superamento del termine” come ragione principale dell’induzione medica in un quarto dei casi riportati147.


Anche la “preoccupazione degli operatori” è andata aumentando negli ultimi anni, alimentata da studi clinici che registrano un esiguo calo della mortalità perinatale nelle nascite indotte oltre il termine rispetto alla “gestione dell’attesa”148. Sebbene per consuetudine il superamento del termine venisse considerato a partire dalla quarantaduesima settimana, le ultime ricerche raccomandavano l’induzione dalla quarantunesima.149,150,151


Come conseguenza di questi studi, di cui parleremo, c’è la forte probabilità che sia proposta l’induzione nel caso in cui la gravidanza superi la quarantunesima o quarantaduesima settimana, insieme a notevoli pressioni per l’accettazione.


Per molte donne tali pressioni hanno inizio anche prima, secondo la personale tabella di marcia di chi presta loro assistenza, in base a timori riguardo le dimensioni del feto, il periodo trascorso dalla rottura delle acque o altre preoccupazioni, passate o presenti, riguardo lo stato di salute.


Quando la donna rifiuta l’induzione, specie se superate le quarantadue settimane, il medico che la segue vorrà quasi sicuramente monitorarne la gravidanza a intervalli regolari fintanto che non abbia inizio il travaglio. In alcuni contesti alla paziente potrebbe non essere concesso, oltre un certo termine, di essere seguita dal medico di fiducia per via delle disposizioni e dei protocolli vigenti. Eventualità, queste, che rischiano di produrre un notevole livello di stress durante quelli che, altrimenti, sarebbero i beati ultimi giorni d’attesa.

La data presunta del parto

Quando si considera di procedere all’induzione perché la gravidanza ha superato la data presunta del parto, è, come ovvio, importante essere sicuri che il termine sia stato calcolato correttamente. In termini ostetrici tale termine (DPP, data presunta del parto) in genere viene fatto coincidere con la quarantesima settimana dal primo giorno dell’ultima mestruazione (DUM), partendo dal presupposto che la donna abbia un ciclo di ventotto giorni e che il concepimento sia avvenuto quattordici giorni dopo la DUM.


Il “calcolo in base al ciclo” sarà più preciso per coloro che conoscono la data esatta del concepimento, dalla quale si calcolano trentotto settimane. In alternativa, specie per chi ha cicli più lunghi, la data presunta dell’ovulazione (e quindi del concepimento) può essere individuata nel quattordicesimo giorno precedente il probabile inizio della successiva mestruazione, in base alla durata media del ciclo: anche in questo caso per determinare la DPP ostetrica si aggiungono trentotto settimane. Tenete presente che, probabilmente, non sarà quello il giorno in cui avrà inizio il travaglio spontaneo, il quale forse incomincerà – come vedremo – un poco oltre la data presunta del parto.


Alcuni studi hanno dimostrato che i calcoli ostetrici basati sulla data delle ultime mestruazioni rischiano di anticipare la data presunta del parto rispetto alle valutazioni ecografiche, comportando un gran numero di induzioni nelle gravidanze, di fatto, non ancora oltre il termine152. Tale discrepanza si spiegherebbe per il fatto che il calcolo convenzionale non tiene conto, come già detto, della lunghezza variabile del ciclo mestruale. Da notare come alcuni sistemi ostetrici calcolino quaranta settimane dal termine, e non dall’inizio, dell’ultima mestruazione153.


Alcuni ricercatori che misero a confronto DUM e date ostetriche di quattordicimila danesi in buona salute che avevano avuto un travaglio spontaneo suggerirono, qualora venisse eseguito il calcolo in base alle mestruazioni, di aggiungere altri due giorni, fissando la DDP al duecentottantaduesimo giorno – quaranta settimane e due giorni dalla data dell’ultima mestruazione. In questo modo si riduce il numero di gravidanze giudicate oltre la quarantaduesima settimana da circa l’8 a quasi il 5 per cento. Fissare una data tramite ecografia intorno alla ventesima-ventiduesima settimana, aggiungendo 282 giorni, farebbe sì che soltanto il due per cento delle gravidanze venga considerato oltre il termine154.


Si consideri che età, etnia e parti precedenti influiscono sulla durata media della gestazione. Uno studio statunitense dimostrò che le primipare di razza bianca e in buona salute avevano gravidanze della durata media di 274 giorni dalla presunta ovulazione, corrispondenti a quarantuno settimane e un giorno dalla DUM155.


Uno studio molto ampio condotto in Norvegia indicò la durata media della gravidanza in 282 giorni, con gestazioni appena più brevi a dicembre (pieno inverno)156. Le donne di colore, quelle di età inferiore a diciannove anni o superiore a trentaquattro, con parti precedenti e in attesa di un maschio tendevano, negli studi in questione, ad avere gravidanze più brevi157,158.

Induzione del parto oltre il termine: i vantaggi

La principale giustificazione dell’induzione nelle donne gravide che abbiano superato le quarantuno-quarantadue settimane è il lieve aumento, oltre questo termine, della mortalità perinatale dei feti ancora in utero. La mortalità perinatale (MP) coinvolge i neonati morti prima del travaglio (morte intrauterina fetale o MIF, nascita di un bambino morto) o nel corso del travaglio o dopo il parto (morte intra-partum e morte neonatale). Nelle gravidanze oltre il termine le morti fetali ante travaglio danno il maggior contributo alla crescita del tasso di mortalità perinatale, con minor chiarezza sugli effetti del superamento del termine sulle morti intra-partum e neonatali159.


La nascita di bambini morti è anche la causa principale del totale delle morti perinatali160 e di certo una tragedia che desideriamo evitare. Essa può avvenire in qualsiasi momento della gravidanza, e il rischio aumenta con il progredire della gestazione. Secondo i dati di uno studio il rischio di dare alla luce un bambino morto con l’andare avanti nelle settimane passa da uno su 3.332 al termine della trentasettesima a uno su 1.148 alla quarantesima; da uno su 644 alla quarantaduesima a uno su 486 superate le quarantatré settimane, quando il numero di donne ancora gravide diventa troppo esiguo per consentire valutazioni statistiche accurate161,162.


È possibile ricorrere a diversi metodi statistici per ricavare le cifre relative ai nati morti da gravidanze oltre il termine. Alcuni prendono come riferimento le nascite della settimana, mentre le analisi più recenti si rifanno al numero di gravidanze in corso. Queste ultime mostrano le cifre più drammatiche relative ai rischi corsi dai nati oltre il termine.163,164,165,166


Il parto elettivo fissato in un momento preciso eviterà l’eventuale nascita di bambini morti. Un vantaggio, tuttavia, da ponderare in relazione ai rischi di un’induzione o di un cesareo per la madre e per il nascituro, quali quello di prematurità – una delle prime cause di morte perinatale. In alcuni casi si potrebbe trattare di rischi giustificati, ma per i genitori operare una scelta informata resta una priorità.


In qualche modo anche le complicanze in fase di travaglio sono più frequenti nei bambini oltre il termine. Sebbene una revisione degli studi più significativi condotta dalla Cochrane Collaboration rivelò un esiguo incremento del rischio di morte perinatale nei feti nati senza induzione oltre la quarantunesima settimana, compreso un rischio aggiuntivo di morte neonatale167, ulteriori ampi studi osservazionali non hanno rilevato maggiori rischi di morte durante il travaglio o nel periodo neonatale nei bambini di età gestazionale compresa tra la trentasettesima e la quarantaduesima settimana168,169. Superate le quarantadue settimane, tuttavia, esiste la possibilità di un ulteriore rischio di morte intra-partum e neonatale (del due per mille circa)170.


I feti oltre il termine più piccoli del previsto (piccoli rispetto all’età gestazionale o SGA – small for gestational age) potrebbero avere minori riserve per sopportare il travaglio, e quindi un maggior rischio di morte171. Nei bambini che nascono oltre il termine essa viene definita sindrome di post-maturità, per quanto in realtà si tratti di complicanze che si possono verificare in qualsiasi momento della gravidanza – fenomeno definito dismaturità o ritardo di crescita intrauterino (IUGR). Si ritiene che si tratti di uno stato prodotto da anomalie dell’attecchimento iniziale della placenta, responsabili di una limitata capacità di quest’ultima di sopperire al crescente fabbisogno del feto in fase di sviluppo.


L’ideale sarebbe, ovviamente, che i professionisti riconoscessero se si tratta di bambini costituzionalmente più piccoli per l’età gestazionale e in salute, oppure post-maturi e a rischio. I controlli standard – tra cui elettrocardiogramma sotto sforzo e a riposo, ecografia e profilo biofisico (che comprende un’ecografia e un elettrocardiogramma a riposo) mirano a individuare i feti a maggior rischio di nascere morti o di morte perinatale e per i quali potrebbe rendersi necessario il parto elettivo.


Si noti come il ricorso all’ecografia per valutare l’oligoidramnios – livelli troppo bassi di liquido amniotico (AF) – non sia in grado, di per sé, di fornire un’indicazione precisa di benessere fetale172, mentre è stato dimostrato produrre troppe diagnosi infauste, con il risultato di tassi di induzione elevati nei bambini sani173,174. Sebbene livelli contenuti di liquido amniotico possano dare complicazioni durante il travaglio, diversi studi suggeriscono che valori del genere a fine gravidanza sarebbero, almeno in alcuni casi,175,176,177,178,179 indice di disidratazione materna risolvibile bevendo di più.


I feti oltre il termine rischiano anche di essere più grossi del previsto (grandi rispetto all’età gestazionale, o LGA – larger for gestational age, di solito oltre i quattro chilogrammi), il che potrebbe determinare complicazioni durante il parto tra cui distocia di spalla e taglio cesareo. Secondo alcuni studi, tuttavia, l’aumento del rischio di mortalità perinatale nei bambini più grossi giunti oltre il termine della gravidanza sarebbe ridotto, o addirittura nullo, rispetto a quello dei feti a termine180, sebbene essi possano determinare complicazioni materne quali il cesareo.


Si consideri che, in genere, l’induzione non viene raccomandata in caso di diagnosi di LGA per i seguenti motivi: la stima del peso tramite ecografia potrebbe non essere precisa; l’induzione comporterà maggiori interventi senza certezza di migliori risultati; aumento del tasso di cesarei, che non necessariamente evitano eventuali complicanze.181,182,183,184 Tuttavia le pressioni per l’induzione saranno forse maggiori nel caso in cui un feto oltre il termine venga stimato più grosso dell’età gestazionale.


Se il bambino è effettivamente grosso è probabile che l’organismo materno sarà dotato, il giorno in cui entrerà spontaneamente in travaglio, della massima flessibilità e morbidezza pelviche (grazie ai livelli di picco di ormoni quali il progesterone), che gli consentiranno di adattarsi al meglio a un bimbo tanto grande, e di partorirlo in maniera ottimale. Coerentemente con quanto detto diversi studi dimostrano che di fatto l’induzione rischierebbe di aumentare le potenziali difficoltà del parto, quali la distocia di spalla185, forse per via di un pavimento pelvico materno tutt’altro che pronto.


In base ad alcune ricerche, tra le complicanze più comuni nei bambini nati oltre il termine figurano infezioni, sofferenza fetale durante il travaglio, distocia di spalla e traumi da parto, asfissia intra-partum e basso indice di APGAR (valutazione del benessere alla nascita), aspirazione di meconio, taglio cesareo, emorragia post partum (EPP)186,187,188, sebbene, come detto in precedenza, si tratti di dati non omogenei che potrebbero essere generati da post maturità e macrosomia piuttosto che da complicanze dovute al semplice superamento del termine.

Come stabilire il rischio effettivo per i bambini nati dopo il termine

Anche tenendo conto di tutti questi rischi, tra i quali il possibile (ma non certo) aumento delle morti intra partum e neonatali, il numero effettivo di bambini deceduti a causa di un parto oltre il termine resta bassissimo. Da un ampio studio danese che metteva a confronto gravidanze oltre il termine senza induzione (di cui più di seicento gravidanze di quarantaquattro settimane e cinquantacinque di quarantacinque settimane) e gravidanze a termine (tra la trentasettesima e la quarantaduesima settimana) risultò un tasso generale di morti perinatali nei piccoli nati dopo il termine del quattro per mille (289 bambini su 77.956) rispetto al tre per mille (92 bambini su 34.140) di quelli nati a termine189.


Un recente studio ha suggerito che il maggior rischio di partorire bambini morti dopo il termine non riguarderebbe le pluripare (donne che hanno avuto parti pregressi). I ricercatori riscontrarono un rischio di morte perinatale stabile di circa una su mille gravidanze in corso in donne pluripare la cui gestazione raggiungeva, o anche superava, le quarantadue settimane complete (i dati per elaborare stime precise riguardo il superamento delle quarantadue settimane erano troppo esigui) rispetto a un rischio, rispettivamente, dell’1,4 e del 3 per mille alla quarantunesima e quarantaduesima settimana per le primipare. Gli autori mettono in dubbio la necessità dell’induzione di routine alla quarantunesima settimana nelle donne alla prima gravidanza190.


Importante poi notare come, con la moderna ostetricia e gli attuali controlli, molti bambini che incontrerebbero difficoltà a nascere oltre il termine (specie quelli piccoli rispetto all’età gestazionale) vengano facilmente monitorati, proponendo l’induzione persino prima del termine. Ciò significa che i feti giunti oltre il termine sarebbero addirittura a minor rischio oggi che in passato191.

Studi di intervento

Sebbene gli studi citati suggeriscano un debole incremento dei rischi per i feti oltre il termine, rimane per i ricercatori la necessità di dimostrare che accelerare il travaglio e il parto sia generalmente vantaggioso. Questi studi vengono definiti di intervento e ne sono stati condotti diversi.


Uno dei principali problemi legati agli studi di intervento sulle gravidanze oltre il termine consiste nel bassissimo rischio di morte perinatale – dell’ordine dell’uno-due per mille. Ciò significa che sarebbe necessario prendere in esame circa sedicimila donne per dimostrare eventuali vantaggi192.


Dal momento che non esiste studio che abbia mai compreso un numero tanto alto di donne (impresa davvero ciclopica) ne sono stati messi insieme di più circoscritti come metanalisi, sommando cifre statisticamente abbastanza alte da individuare eventuali vantaggi. Secondo l’autorevole revisione sistematica da parte di Cochrane Collaboration di una serie di studi condotti su un totale di quasi ottomila donne, l’induzione riduce i rischi nelle gravidanze oltre il termine, ma sarebbero necessarie cinquecento induzioni per evitare la morte di un bambino di oltre quarantuno settimane. Gli autori riassumono affermando: “Il rischio assoluto è estremamente ridotto”193.


Un’ulteriore, recente, revisione sistematica, che comprendeva studi condotti su seimilacinquecento donne, non rilevò alcun vantaggio statisticamente rilevante nei bambini nati con induzione alla quarantunesima settimana in termini di tasso di mortalità perinatale, ricovero in terapia intensiva neonatale, aspirazione di meconio (inalazione, da parte del feto, delle proprie feci durante il parto), meconio al di sotto delle corde vocali, o indice di APGAR anomalo. Da quest’analisi risultava un leggero decremento del rischio di cesareo nelle donne sottoposte a induzione: un 22 per cento contro il 20 per cento delle donne con avvio naturale del travaglio oltre il termine. Una riduzione di minima rilevanza statistica, indicata dagli autori come unica giustificazione a quel tipo di politica194.


Nel Regno Unito una recente relazione commissionata dal NICE (National Institute for Health and Clinical Excellence), ha rilevato che sebbene esistano minimi rischi aggiuntivi per i bambini nati oltre il termine, non erano state trovate evidenze di esiti migliori nei feti nati oltre il termine con induzione195. In modo simile, studi demoscopici mostrano come il ricorso all’induzione nelle gravidanze oltre il termine, che costituisce un enorme dispendio di risorse destinate all’assistenza alla maternità, abbia prodotto solo benefici molto modesti per i bimbi coinvolti. Da un’analisi canadese, ad esempio, risultò che i feti nati morti alla quarantunesima settimana di gestazione o oltre passarono da 2,8 per mille nascite totali nel 1980 a 0,9 per mille nascite totali nel 1995, anno in cui l’induzione di routine oltre la quarantunesima settimana diventò pratica standard. La parallela riduzione delle morti alla nascita di bambini a termine, registrata nel corso di quegli anni, suggerisce che il 40 per cento circa di tale vantaggio potrebbe essere riconducibile ai progressi nelle cure perinatali, con una possibile prevenzione netta di circa una morte alla nascita su novecento nascite totali, ottenuta grazie a tale politica196.


Questi risultati vanno, per di più, confrontati con l’ingente investimento di risorse spese nell’induzione del 15-20 per cento delle gestanti ancora in attesa alla quarantunesima settimana. Un’indagine canadese denuncia la morte di una gestante in gravi condizioni a causa dell’accesso limitato alle sale travaglio, interamente occupate da donne giudicate oltre il termine e quindi sottoposte a induzione197.


Gli autori inoltre sottolineano i rischi estremamente ridotti di morte perinatale alla quarantunesima settimana – circa una gravidanza su mille anche senza monitoraggi – e la grossa differenza operata dall’eventuale spostamento dell’induzione dalla quarantunesima alla quarantaduesima settimana, con l’esiguo 3-4 percento di donne che, allora, non avrebbe ancora partorito198.


In modo analogo una recente analisi europea ventila che si dovrebbe indurre il parto alla quarantunesima settimana di gestazione in 527 donne per evitare la morte di un solo bambino, cifra che scende a 195 alla quarantatreesima settimana e un giorno. Gli autori commentano: “Il rischio è contenuto, e le cifre necessarie a praticare l’induzione al fine di prevenire una morte fetale o perinatale piuttosto alte”199.

Induzione del parto oltre il termine: i rischi

Gran parte delle ricerche sopracitate si basa sul presupposto che l’induzione non comporti rischi né per la madre, né per il bambino. Come abbiamo visto a inizio capitolo, e come approfondiremo al capitolo VI, questo aspetto non è stato adeguatamente studiato, specie in termini di allattamento, attaccamento, benessere emotivo materno e ripercussioni a lungo termine sui nati tramite induzione. Ecco di seguito gli ulteriori possibili rischi: travaglio precipitoso; scarso apporto di sangue e ossigeno al feto; maggior dolore per la madre con conseguente richiesta di analgesia; aumento del rischio di rottura uterina, di emorragia post partum e di ricorso al cesareo; rischi ricollegabili alla rottura delle acque, tra cui infezioni, compressione delle ossa craniche del feto ed eventuale emorragia cerebrale; rare ma tragiche conseguenze quali prolasso del cordone ed embolia da liquido amniotico.


È altresì possibile che in alcuni degli studi sulle gravidanze oltre il termine, per la maggior parte concentrati sulla mortalità, non vengano debitamente registrati gli effetti collaterali più banali a scapito del bambino, esclusa la morte. Nel più ampio studio clinico in materia, ad esempio, un bimbo nato per induzione mostrava di aver subìto una lesione del midollo, con conseguente quadriplegia, a seguito di una grave sofferenza fetale e all’uso del forcipe imputabili a un travaglio accelerato (precipitoso) indotto con prostaglandine. Esito a quanto sembra mai riportato in alcun rapporto di ricerca200.


Esso poi sottolinea uno degli effetti collaterali più gravi dell’induzione con farmaci, ossia la tendenza a provocare nelle partorienti contrazioni più lunghe, più dolorose e più ravvicinate rispetto a quelle prodotte dal travaglio naturale. In un contesto simile il rifornimento di sangue e di ossigeno garantito dalla placenta durante le contrazioni risulterà più compromesso del normale; il feto, inoltre, avrà meno tempo per ‘ricaricare’ tra una contrazione e l’altra. I bambini più in salute sono perfettamente in grado di sostenere una modesta riduzione di sangue e ossigeno nel corso del travaglio, persino con induzione da farmaci, ma quelli sottoposti a travaglio indotto e precipitoso, e/o i bimbi più vulnerabili potrebbero incorrere in una grave sofferenza fetale che richieda un parto immediato. Si noti come, in uno studio sui nati oltre il termine, il travaglio precipitoso risultò quasi tre volte più frequente tra le donne sottoposte a induzione oltre il termine che non in quelle con gravidanze portate a termine naturalmente201.


La protratta carenza di sangue e ossigeno dovuta ai farmaci usati per l’induzione (tra cui ossitocina sintetica/Sintocina che contribuiscono ad aumentare, o ad accelerare, il travaglio) rischia anch’essa di compromettere la salute del bambino alla nascita, con maggior probabilità di basso indice di APGAR e acidosi tra i neonati esposti ai farmaci somministrati per l’induzione.202,203,204,205 Un ampio studio europeo sull’induzione a termine scoprì che ad aver più bisogno di un ricovero in terapia intensiva neonatale erano i figli di primipare nati con parto indotto e non quelli nati senza induzione206.


Le contrazioni che, a causa dell’induzione, risultano più lunghe, più forti e più ravvicinate saranno pure più dolorose per la donna in travaglio, sopravvenendo prima che essa abbia il tempo di produrre i propri ormoni analgesici: beta-endorfine e ossitocina (si veda il capitolo VI). Per questo motivo molte delle donne sottoposte a induzione richiederanno una qualche forma di sollievo dal dolore, con un numero crescente di ricorsi all’epidurale, la quale, come illustrato al capitolo VII, aumenta ulteriormente i rischi del travaglio per la madre e per il bambino207.


Non sono ancora state svolte ricerche approfondite sulle correlazioni tra induzione e altri interventi ostetrici. Uno studio condotto su pluripare – tra la trentasettesima e la quarantaduesima settimana – dimostrò che le donne sottoposte a induzione avevano un rischio maggiore di oltre un terzo di subire un taglio cesareo208.

Da altre indagini risultò un rischio di cesareo pressoché raddoppiato presso le primipare – donne alla prima gravidanza – sane, a seguito di induzione a termine o oltre il termine.209,210,211,212,213 In uno studio osservazionale solo il 43 per cento delle madri al primo figlio sottoposte a induzione per gravidanza oltre il termine ebbe un normale parto vaginale214.


Sebbene il più ampio studio sugli interventi oltre il termine mostrasse un tasso di cesarei apparentemente minore tra le donne sottoposte a induzione (un 21,2 per cento contro il 24,5 per cento delle donne entrate in travaglio naturalmente215), questo minimo scarto potrebbe essere riconducibile in parte ai diversi metodi di induzione adottati nei due gruppi, e all’alta percentuale di “crossover”: donne randomizzate a induzione entrate in travaglio prima del previsto e gravide randomizzate a travaglio naturale ma, di fatto, sottoposte a induzione.


Dalla revisione di questo studio clinico sulla base degli interventi effettivi, le donne sottoposte a induzione avevano una possibilità raddoppiata di partorire con un cesareo216, coerentemente, come già visto, con altri dati. Si noti che, in gran parte degli studi sulle gravidanze oltre il termine, il tasso di cesarei non è stato valutato secondo un criterio di confronto paritario.


Si ricordi poi che, come ho detto in precedenza, la durata media della gestazione in una primipara è di quarantuno settimane e un giorno, il che la esporrebbe con particolare facilità all’etichettatura di gravidanza oltre il termine, e all’induzione. Da un ampio studio risultò che il 40 per cento delle primipare veniva sottoposto a induzione, in gran parte perché “oltre il termine”, sebbene fossero poche quelle alla quarantaduesima settimana o oltre217. In questa ricerca il rischio di cesareo per le primipare appariva raddoppiato, il che potrebbe essere indice della gestazione prolungata e del ritardo del travaglio.


L’induzione potrebbe altresì accrescere le probabilità di un prolungamento della seconda fase (quella delle spinte), e di parto operativo.218,219,220 Dagli studi risulta altresì un aumento del rischio di emorragie postpartum dopo un parto indotto221,222,223, attribuito a una riduzione (sottoregolazione) dei recettori intrauterini dell’ossitocina a seguito dell’esposizione costante all’ossitocina: si vedano i capitoli VI e VIII.


Tenete presente che la riuscita dell’induzione dipende grandemente dalla maturità (morbidezza, apertura, lunghezza e posizione) della cervice della gestante. Sebbene l’induzione abbia maggiori probabilità di successo qualora essa risulti matura, quest’ultimo aspetto indicherebbe altresì che la donna è vicina al travaglio spontaneo. Da uno studio, ad esempio, risultò che il 95 per cento delle donne con gravidanza oltre le quarantunesima settimana e tre giorni e cervice matura partoriva entro una settimana senza induzione224.


L’induzione tramite prostaglandine, o l’utilizzo di farmaci come questi per ammorbidire una cervice non ancora ‘matura’ prima di ricorrere alla ossitocina, è diventata prassi comune. In alcune donne ciò garantisce un travaglio meno violento che con l’induzione tramite ossitocina. Tuttavia le prostaglandine sono in grado di causare, in modo del tutto inaspettato, contrazioni uterine intense e sofferenza fetale, con un maggior rischio di rottura dell’utero nel corso del travaglio, specie nelle donne che hanno subìto un precedente cesareo. Nello specifico il Misoprostolo (Cytotec, farmaco studiato per i disturbi gastrici) risulta particolarmente pericoloso in casi come questo (si veda il capitolo IX).


In ogni caso l’induzione comporta, in genere, la rottura delle membrane (rottura artificiale delle membrane, o ARM) che proteggono il feto durante la gravidanza e il travaglio. A volte vi si ricorre come primo passo verso l’induzione, specie se la cervice, morbida e leggermente aperta, si sta preparando al travaglio e se tale manovra lo avvierebbe senza dover ricorrere a farmaci.


Tuttavia la rimozione di questa bolla protettiva espone il feto a maggiori rischi di infezione, soprattutto se durante il travaglio la donna è sottoposta a numerose visite ginecologiche225,226. Ecco perché, dopo la rottura delle membrane, in genere viene calcolato un limite per il parto, di solito dalle dodici alle diciotto ore.


La rottura delle acque non solo “dà il via al cronometro”, ma distrugge anche la morbida imbottitura costituita dalle membrane e dai fluidi al loro interno, che in genere rimane integra fino alle ultime fasi del travaglio227. Il tracciato della frequenza cardiaca dei bambini sottoposti a ARM mostra con maggior probabilità segni di sofferenza, tra cui rallentamenti precoci e i più seri rallentamenti tardivi.228,229,230,231


Ulteriori evidenze suggeriscono che l’ARM, eliminando le “acque anteriori” che fungono da imbottitura del capo del feto, esporrebbe quest’ultimo a una pressione meccanica più forte e irregolare nel corso del travaglio. I ricercatori Schwartz, Caldeyro-Barcia e colleghi ventilarono che tale pressione sulle ossa del cranio prive di protezione potesse procurare tensioni a livello delle strutture cerebrali sottostanti, causando lacerazioni ed emorragia dell’encefalo (emorragia intracranica o ICH)232.


Questa teoria trovò sostegno in un recente studio ecografico su ottantotto neonati sani e partoriti per via vaginale, nel 26 per cento dei quali era stato diagnosticata un’ICH silente. Nel corso di questa ricerca a tutti i bambini erano state rotte le acque durante il travaglio, ma quelli con ICH avevano un intervallo medio tra l’ARM e la nascita più lungo. Quasi tutti i neonati con ICH riportavano ematomi subdurali233 che combaciavano con la pressione subita dalle ossa craniche. Non si dispone di ricerche approfondite sui potenziali effetti a lungo termine della rottura artificiale delle membrane (ed eventuale emorragia intracranica) sul cervello dei bambini234,235,236. La rottura delle membrane può poi aumentare il rischio di prolasso del cordone ombelicale, specie se il capo del feto (o parte presentata) risulta ancora alto rispetto alla cervice materna. Si tratta di un’emergenza ostetrica.


Un’ulteriore complicanza, rara ma catastrofica, dell’induzione è la rottura dell’utero materno in travaglio. Essa si verifica con maggior probabilità nelle donne che abbiano già subìto un cesareo237, ma può presentarsi anche in partorienti con precedenti diversi238,239.


Altri rischi poco frequenti legati all’induzione sono l’embolia da liquido amniotico, che si verifica qualora contrazioni violente spingono il liquido all’interno della circolazione materna. Per quanto rara, l’embolia fetale risulta 3,5 volte più probabile dopo un’induzione che con un travaglio spontaneo240.

Induzione del parto oltre la quarantaduesima settimana: le alternative

Molte donne a cui viene prescritta l’induzione sperano di evitare i rischi medici inducendo il travaglio da sé.


Delle partecipanti all’indagine Listening to Mothers II un quinto circa dichiarò di aver tentato l’auto induzione, per evitare, nel 30% dei casi, l’induzione medica. I metodi più comuni a cui si faceva ricorso erano passeggiare o fare sport (82 per cento); avere rapporti sessuali (71 per cento), potenzialmente efficace in quanto le prostaglandine presenti nel liquido seminale, deposte in prossimità della cervice della gestante, possono contribuire a indurre il travaglio; e la stimolazione dei capezzoli (41 per cento)241, in grado di avviare il travaglio grazie al rilascio di ossitocina.


Sono stati segnalati molti altri sistemi di “induzione naturale”, tuttavia è importante comprendere che il momento del travaglio e del parto – l’avvio del parto – è regolato da una precisa e complessa interazione tra madre e bambino, tutt’ora scarsamente nota. Tranne che nel caso delle nascite premature e in altri rari contesti, il travaglio avrà inizio quando madre e figlio si troveranno nello stato ottimale. Ciò significa che il corpo della mamma è pronto per un travaglio efficace e l’organismo del bimbo in grado di intraprendere i cambiamenti necessari alla vita extrauterina. Processi che possono avere inizio giorni o settimane prima del travaglio.


Per di più non conosciamo ancora tutte le implicazioni legate al tentativo di anticipare un processo tanto delicato attraverso una qualsiasi forma di induzione. Ci dovremmo anche chiedere quale traccia, in termini di psicologia prenatale e perinatale, lascerà affrettare il feto in un momento così critico e, per contro, quali saranno i possibili vantaggi per noi genitori se riporremo la nostra fiducia nei tempi e nei processi propri del bambino.


In breve, qualsiasi metodo che induca il travaglio prima che madre e figlio abbiano manifestato di esser pronti al parto (attraverso l’avvio stesso del travaglio) è innaturale. Come sottolinea Michel Odent: “Non esistono metodi naturali di induzione. Se un metodo si rivela efficace, significa che è innaturale, poiché ha preceduto i segnali trasmessi dal bambino. Oggi sappiamo che il feto partecipa all’avvio del travaglio inviando messaggi che significano ‘sono pronto’”242.


Tuttavia esistono situazioni in cui una gravidanza protratta comporta alcune difficoltà: un’ostetrica potrebbe, ad esempio, non essere più in grado di prestare la propria assistenza oltre un certo termine (sebbene sia preferibile evitare che ciò accada scegliendo un operatore che non sia, se possibile, sottoposto a tale coercizione), oppure potrebbero presentarsi piccoli, o anche grandi, disturbi per cui risulterebbe preferibile provare ad avviare il travaglio.


Per consuetudine si ricorre alle erbe, ma risulteranno utili anche soluzioni alternative quali l’omeopatia, l’agopuntura e la kinesiologia, per quanto la ricerca sui rischi e i benefici di questi sistemi non sia molto approfondita. Anche l’olio di enagra viene utilizzato per far maturare la cervice della gestante, sia per uso orale, sia con applicazione in loco. Rispetto all’assunzione di erbe, che riesce a stimolare il travaglio in poche ore243, questa è una pratica che richiede molti giorni.


Se desiderate tentare l’autoinduzione ricorrendo a metodi non medici assicuratevi di disporre della consulenza e, meglio, della supervisione di un professionista esperto e ben informato. L’olio di ricino o altre erbe utilizzate per avviare il travaglio possono comportare effetti collaterali e rischi seri, tra cui travaglio precipitoso e sofferenza fetale; sarebbe bene ricorrervi con cautela e sotto controllo medico.


Ulteriore alternativa, piuttosto diffusa, all’induzione medica consiste nello scollamento delle membrane a fine gravidanza. È stato dimostrato che lo scollamento di routine riduce la probabilità che la gestazione prosegua oltre il termine, ma che potrebbe comportare alcuni rischi, tra cui la rottura accidentale delle membrane, specie nelle donne con dilatazione cervicale di oltre un centimetro244. Alle donne potrebbe altresì risultare una pratica molto sgradevole245, oltre a non rappresentare, come visto in precedenza, una scelta assennata in caso di SGB.


Lo scollamento a volte indurrà il travaglio in una gravidanza “oltre il termine”, senza dover ricorrere a induzione medica, tuttavia secondo i ricercatori della Cochrane sarebbero necessarie otto procedure per prevenire un’induzione medica246. Essa potrebbe essere una manovra utile se unita, ove necessario, all’induzione medica, contribuendo ad accorciare i tempi del travaglio247.


È altresì possibile che l’ansia nella madre inibisca l’avvio del travaglio, effetto spesso osservato dalle ostetriche. Potrebbe trattarsi di un logico meccanismo di difesa presente nei mammiferi che partorivano in natura, dove la certezza istintiva della madre di essere al sicuro era di vitale importanza affinché il travaglio e il parto avvenissero nelle condizioni più vantaggiose. La condivisione delle paure e delle preoccupazioni legate al travaglio e al parto può aiutare a sentirsi emotivamente pronte, contribuendo all’avvio del processo, qualora per il bambino sia davvero il momento. Anche in questo caso saranno utili metodi naturali quali l’omeopatia e la kinesiologia.

Non fare nulla

Dai dati appena menzionati si evince che per i bimbi oltre il termine forse esistono rischi aggiuntivi; questi, tuttavia, restano contenuti a meno che non siano evidenti ulteriori fattori di rischio. È probabile che, come mostrato in precedenza, il caso della nascita imprevista di un bambino morto si attesti intorno all’uno su mille oltre la quarantunesima settimana, all’uno su seicento dopo la quarantaduesima e all’uno su cinquecento oltre la quarantatreesima.


Restano meno chiari gli ulteriori rischi durante il travaglio e il parto, i quali tuttavia potrebbero limitarsi a quei bambini veramente post maturi piuttosto che semplicemente oltre il termine. È altresì possibile che i rischi risultino ancor più contenuti per le madri e i bambini in buona salute e ben assistiti nel corso dell’intera gravidanza, in maniera tale da escludere complicanze preesistenti. Il buono stato di salute e di nutrizione della madre prima e durante la gestazione potrebbero, con ogni probabilità, rappresentare un ulteriore fattore di protezione248.


Negli Stati Uniti l’ACOG afferma che, nelle donne oltre il termine (dopo la quarantaduesima settimana) a basso rischio e con cervice favorevole, i dati utili a determinare se sia preferibile l’induzione o la gestione dell’attesa risultano insufficienti. Nel caso di gestanti oltre il termine, a basso rischio ma con cervice sfavorevole, secondo l’ACOG sia la gestione dell’attesa sia l’induzione sono associabili a un tasso ridotto di complicanze e a esiti perinatali favorevoli249.


Decidere di non fare nulla contribuirà a evitare i rischi dell’induzione, tra cui quello di incorrere in un cesareo, che nelle donne al primo figlio tende ad essere maggiore. Nel caso in cui ci si trovi alla prima gravidanza vi è l’ulteriore possibilità di ricalcolare la data tendendo conto di una gestazione più lunga. Gli autori del rapporto 2002 della Agency for Healthcare Research and Quality concludono: “… sono necessarie almeno 500 induzioni per prevenire una sola morte perinatale. Non è chiaro se ciò rappresenti un compromesso accettabile sia a livello politico, sia individuale.”


Per tali motivi quella di non fare nulla potrebbe essere un’opzione ragionevole, per quanto potenzialmente sgradevole per gli operatori che prestano assistenza. Tenete a mente il vostro diritto al “rifiuto informato”, di cui si è parlato in precedenza. Se scegliete di non fare nulla, con o senza controlli formali, cercate eventuale sostegno in chi vi assisterà, nella famiglia e/o negli amici. Ricordate che, alla fine, tutte le donne incinte entrano in travaglio.

Induzione del parto oltre il termine: riassumendo

Sebbene per le donne intorno alla quarantunesima settimana di gravidanza l’induzione sia diventata la norma, è importante in questa situazione tener presenti le opzioni disponibili. In particolare sarà bene valutare il rischio aggiuntivo minimo di partorire un bambino morto alla luce dei possibili effetti collaterali dell’induzione.

Tuo il corpo, tuo il bambino, tua la scelta

Il tema di questo capitolo è la scelta informata, che comporta l’esame di tutti i possibili rischi e benefici valutando anche eventuali alternative, tra cui quella di non fare nulla.


Le informazioni non sono affatto complete, quindi vi esorto a cercare altre fonti e risorse (anche sul sostegno emotivo) riguardo la decisione che state valutando.


È bene tener presente che tutto comporta dei rischi – “il parto è sicuro quanto la vita”, come dico nel capitolo II – e che per la gran parte delle madri e dei bambini la gravidanza e il parto risulteranno relativamente semplici e senza complicazioni.


Per finire vi prego di riequilibrare le informazioni articolate e le valutazioni sulle scelte da operare con attività divertenti, così da godere appieno di questo momento tanto straordinario, per voi stesse e per il vostro bambino.

Partorire e accudire con dolcezza
Partorire e accudire con dolcezza
Sarah J. Buckley
La gravidanza, il parto e i primi mesi con tuo figlio, secondo natura.Un manuale rivoluzionario per le future mamme e i futuri papà che desiderano vivere gravidanza, parto e primi mesi di vita del bambino in modo naturale. Partorire e accudire con dolcezza è un manuale rivoluzionario, nel quale Sarah J. Buckley, esperta di gravidanza e parto apprezzata in tutto il mondo, fa luce sull’evento della nascita e sui primi mesi da genitori, mettendo a disposizione delle future mamme e papà conoscenze attinte sia dalla saggezza antica che dalla medicina moderna.Il libro presenta approfondimenti sulla fisiologia del parto naturale (o, come lo definisce l’autrice, “nascita indisturbata”) che mostrano quanto vada perso quando tale esperienza viene vissuta meramente come evento medico.Nella prima parte, alla scrupolosa descrizione di gravidanza e parto medicalizzati (che prevedono il ricorso a ultrasuoni, epidurale, induzione e cesareo) e delle scelte più naturali (parto in casa, rifiuto dell’epidurale o di farmaci durante la fase espulsiva) si intreccia il racconto dell’attesa e della nascita dei quattro figli dell’autrice, tutti dati alla luce tra le mura domestiche. La seconda parte prende invece in esame gli studi scientifici su attaccamento, allattamento materno e sonno infantile, ed esorta i neogenitori a operare scelte attente e amorevoli durante i primi mesi con il proprio bambino. Conosci l’autore Sara J. Buckley è medico di famiglia e autorità di fama internazionale in materia di gravidanza, parto e genitorialità. Vive a Brisbane, in Australia, con il marito e i quattro figli. Sarah Buckley è preziosa perché bilingue: sa parlare il linguaggio di una madre che ha dato alla luce i suoi quattro figli in casa, e sa parlare dadottore. Attraverso la fusione del linguaggio del cuore con quello della scienza essa impartisce alla storia del parto una direzione nuova, rivoluzionaria e illuminante.Michel Odent, medico chirurgo, autore e pioniere del parto naturale