CAPITOLO III

Risanare la nascita,
risanare la terra

Il parto è più che un evento individuale e isolato che riguarda una madre e suo figlio. La nascita è un atto di grande forza culturale e politica, il cui dominio rappresenta il dominio del principio femminino. Questo capitolo ci invita a considerare la Nascita un’entità vivente la cui sopravvivenza è a rischio, spingendoci a devolvere la nostra passione, il nostro amore, il nostro abbandono e il nostro potere alla sua salvaguardia. In questo modo, secondo l’auspicio di Jeannine Parvati Baker, risanando la Nascita risaneremo la Terra.


La nascita sta morendo.


Iniziazione primordiale, di inesprimibile forza, unica via verso la maternità per i nostri avi, è stata defraudata, in quest’epoca, della propria dignità e del propria finalità. La nascita si è trasformata in pericolosa patologia medica da curare attraverso livelli e tipologie di interventi tecnologici sempre più rilevanti.


L’aspetto, forse, più drammatico è che l’estasi della Nascita – la capacità di portarci fuori (ex) del nostro stato normale (stasis) – è stata dimenticata; l’ingresso nel sacro mondo della maternità oggi avviene attraverso modalità post operatorie, per non dire post traumatiche, e non con una trasformazione.


Tali deviazioni dall’ordine naturale, il cui sapere è inscritto nel nostro codice genetico, producono conseguenze enormi.


Viviamo in una società in cui le neomamme sono sottoposte, come non mai, a livelli di disagio e di depressione, così come i bambini stessi, che rivelano sintomi eclatanti di stress attraverso coliche, reflusso e disturbi del sonno. Viviamo in una società in cui, a quanto riferisce l’Organizzazione Mondiale della Sanità, ansia e depressione risultano tra le patologie a maggior impatto mondiale; in cui bambini di soli quattro anni ricevono una simile diagnosi; in cui giovani nel fiore degli anni decidono in massa di rifuggire la realtà ricorrendo agli stupefacenti, o di rifuggire definitivamente l’esistenza togliendosi la vita.


Per giunta siamo una specie che, con il depauperamento della madre universale – la Terra –, si è incamminata lungo la strada dell’autodistruzione. Lo scempio da noi perpetrato attraverso spreco e avidità ha molti punti in comune con il trattamento usato alle madri, ai bambini e all’ambiente originario – il ventre materno.


E proprio mentre abbiamo preso a scagliarci contro la Terra, dimenticando la reciproca interdipendenza con essa, abbiamo pure incominciato a scagliare i diritti del bambino contro quelli della madre, concependo una divisione, una competizione, che non esistono, né possono sussistere.


Le ferite inferte alla Nascita e alla Terra sono gravi, tuttavia, come ci svela la dea Igea “La ferita rivela il rimedio”1. È mia convinzione che la nascita soffra di mancanza di passione, d’amore, di abbandono, oltre che di una incomprensione del nostro potere, e sono altresì convinta che questi princìpi sapranno indicarci il rimedio per risanare la Nascita, risanando, al contempo, la Terra.

Passione

La vita di tutti noi ha avuto inizio con un atto appassionato. Il nostro corpo di uomini desidera ardentemente l’intensità e il piacere derivanti dal sesso, e molte culture hanno riconosciuto le capacità curative intrinseche all’atto sessuale. Perché il sesso è tanto potente? Oltre a garantirci la capacità di creare una nuova vita – il potere supremo – il sesso implica esperienze di amore, piacere, eccitazione, tenerezza, e livelli ormonali al culmine. Tali ormoni (i messaggeri chimici del nostro organismo) e le loro funzioni sono esattamente gli stessi della nascita.


In altre parole partorire è, per natura e da un punto di vista ormonale, un atto appassionato e sessuale. Se si guarda all’attività ormonale della madre e del bambino potremmo affermare che la nascita è l’esperienza più appassionata della nostra esistenza.


L’ossitocina, ormone dell’amore, cresce durante il travaglio per raggiungere il culmine al momento della nascita, inducendo sentimenti di amore e di altruismo tra madre e figlio. Le endorfine, ormoni del piacere e della trascendenza, toccano anch’esse il culmine con la nascita, così come epinefrina e norepinefrina (adrenalina e noradrenalina). Gli ormoni responsabili del riflesso di allarme e fuga proteggono il bambino dall’assenza di ossigeno nelle fasi finali del parto, facendo sì che, al primo contatto, sia lui sia la madre siano entrambi a occhi ben aperti e in uno stato di euforia. La prolattina, ormone della maternità, ci aiuta ad arrenderci ai nostri figli, donandoci in cambio tutta la tenerezza del sentimento materno.


Tuttavia gli ormoni della passione non sono semplici accessori del benessere. In realtà essi dirigono i processi fisici del parto (e dell’attività sessuale), favorendo la sicurezza, l’appagamento e il piacere di madre e bambino. Oltre a ciò questo cocktail di ormoni ricompensa le partorienti facendo provare loro estasi e realizzazione che le induce a desiderare di tornare a partorire. Tutti i mammiferi condividono, in sostanza, lo stesso crescendo ormonale durante il parto, il quale costituisce un requisito della maternità, essenziale nella maggioranza delle specie, oltre a innescare l’istinto materno.


Partorire con passione non significa per forza partorire senza dolore (per quanto questo possa accadere ad alcune donne). Mettere al mondo è un evento maestoso, da un punto di vista fisico ed emotivo, che richiede all’organismo uno sforzo pari, ad esempio, a quello della partecipazione a una maratona. Quando, tuttavia, la donna si sente fiduciosa nel proprio corpo, adeguatamente sostenuta e capace di esprimersi senza inibizioni, il dolore che sentirà potrà diventare sopportabile e una delle tante componenti del processo. Essa quindi saprà reagire in modo istintivo attingendo alle proprie risorse, compresi gli strumenti principali e più accessibili di cui dispone: respiro, suono e movimento.


Il problema del nostro tempo è che la passione della nascita non viene né riconosciuta, né assecondata. Il parto si è trasformato in un freddo evento medico, che di solito ha luogo in un contesto che scoraggia qualsiasi espressione emotiva. Se dobbiamo rivendicare la passione della nascita, ci dobbiamo permettere di partorire in modo appassionato, scegliendo il luogo e chi ci assisterà tenendo bene a mente questo concetto. Partorire con questi presupposti risulterà più immediato, grazie a un rilascio ormonale più efficace e alla minor necessità di intervento, così da favorire un ingresso nella nuova dimensione di madri più dolce e fiducioso.


La passione, secondo la mia sensibilità, è l’opposto della disperazione e della depressione, e un antidoto contro entrambe le condizioni. Ciò risulta chiaro sia da un punto di vista fisiologico che ormonale. Se partoriamo, e nasciamo, nella passione, quanto sarà diversa la nostra prima impronta emotiva? E la chimica cerebrale, in via di definizione persino al momento del parto? Alcuni studi hanno messo in relazione l’esposizione a farmaci e a procedure mediche durante il parto con un rischio maggiore di tossicodipendenza, suicidio e comportamenti antisociali nel corso della vita. Altri osservatori hanno suggerito che disturbi tanto attuali quali i problemi di lettura e l’ADHD2 sarebbero anch’essi riconducibili ai farmaci assunti, e agli interventi subiti, al momento del parto.


Da partoriente sono stata testimone e ho goduto dell’enorme passione che può erompere dalla nascita e che può alimentare sia una maternità appassionata, sia una vita di lavoro a sostegno delle madri, dei bambini e della Terra. Vi chiedo “può la nostra specie permettersi di nascere – e di far nascere – senza passione?”.

Amore

Quello tra amore e passione è un connubio potentissimo tanto alla nascita quanto nella sessualità. Al momento della nascita poi, così come nel sesso, dalle profondità del nostro cervello viene rilasciata ossitocina, l’ormone dell’amore, in ingenti quantità. Di nuovo gli ormoni ci conducono verso esperienze di estasi perfetta, ma si tratta, tuttavia, di un sistema estremamente vulnerabile alle interferenze.


La produzione di ossitocina nella madre in travaglio subisce, ad esempio, un drastico calo se si ricorre all’analgesia epidurale – motivo per cui l’epidurale prolunga il travaglio. Persino al termine dell’effetto dell’analgesia il picco di ossitocina, che provoca le fortissime contrazioni finali programmate per far nascere il bambino presto e senza difficoltà, risulterà ancora sensibilmente ridotto, con il risultato che la madre correrà un rischio maggiore di vedersi estrarre il bambino con il forcipe.


L’ossitocina (Syntocinon), definito il farmaco più abusato in ostetricia, è anch’essa sotto accusa. Corrispondente sintetico dell’ormone ossitocina, viene utilizzata per l’induzione e per il potenziamento (o accelerazione) del travaglio. Per queste due ragioni alla maggior parte delle donne che partoriscono negli Stati Uniti tale farmaco viene somministrato in dosi massicce durante il travaglio.


Quando, nel corso del travaglio, a una donna si inietta ossitocina in endovena per molte ore, i recettori dell’ossitocina del suo organismo perdono la sensibilità e la reattività a tale ormone. Sappiamo che, in queste circostanze, la partoriente è a rischio di emorragie post-parto, rischio che si rende necessario contrastare ricorrendo a ulteriori quantità di ossitocina (vedi capitolo VI).


Non sappiamo, tuttavia, quali conseguenze a lungo termine comporti, per le madri, i loro bambini e per il futuro della relazione, l’interferenza con il sistema ossitocinico. I modelli animali suggeriscono che interferenze ormonali a ridosso del parto provocherebbero devianze ormonali e comportamentali per il resto della vita.


Vissi con grande intensità l’esperienza dell’ossitocina come ormone dell’amore durante il travaglio della mia quarta figlia, Maia Rose. Mentre le onde del travaglio montavano mi sorpresi a guardare l’amore mio negli occhi, ripetendogli, ogni volta che l’onda mi travolgeva: “Ti amo, ti amo, ti amo…”. Questa esperienza estatica ha fatto scaturire più amore nel mio cuore, nel nostro legame e nella nostra famiglia, insegnandomi, con grande fisicità, che far nascere è anche fare l’amore.

Abbandono

L’abbandono non è virtù ben considerata in Occidente. Al contrario la nostra cultura lo legge sovente come debolezza; siamo, piuttosto, spinti ad essere attivi e padroni di noi stessi. Questo atteggiamento molto yang e mascolino ci tornerà utile in alcune circostanze, ma non possiamo mettere al mondo i nostri figli per pura forza di volontà: abbiamo bisogno di apprendere il linguaggio più delicato – eppure ugualmente forte – dell’abbandono.


Percepisco che, nella donna moderna, il disagio nei confronti dell’abbandono forse riflette la mancanza di fiducia nel proprio corpo femminile. Nulla di cui sorprendersi, dal momento che la società mostra diffidenza verso l’ordine naturale, in generale, e verso il corpo della donna in particolare. Visione che trova ulteriore conferma nel modello ostetrico, con gli elenchi infiniti di tutto ciò che potenzialmente può andare storto con il nostro corpo procreatore e le miriadi di rimedi tecnologici ideati per salvarci da questi rischi tanto esagerati.


L’abbandono può risultare particolarmente problematico per le donne che, nel passato, abbiano subìto forme di violenza o di abuso, specie di natura sessuale. Donne con storie di questo tipo hanno bisogno di un’assistenza particolarmente sensibile e amorevole durante il travaglio e il parto, così da permettere loro di sentirsi abbastanza al sicuro da potersi abbandonare.


Oltre ad aver dimenticato questa forza, impressionante ma naturale, del nostro corpo femminile, abbiamo perduto anche le patrone del parto: dee e sante che, per millenni, guidarono le donne durante tale passaggio, in cui il velo tra la vita e la morte si fa più sottile. Oggi questa guida ci giunge, se e quando lo desideriamo, nella forma umana dell’ostetrica: colei che ha promesso di “stare davanti” (ob-contro, stetrice-che sta) alla donna che partorisce. Una brava ostetrica, con la sua presenza, riesce a farci ricordare che siamo geneticamente portatrici dei parti riusciti delle nostre antenate e che sappiamo già come partorire.


Da ostetrica e scrittrice, Jeannine Parvati Baker ci ricorda che partorire è una pratica femminile e spirituale che richiede “Forza, flessibilità, salute, concentrazione, abbandono e fede puri”3. C’è persino chi ha detto che la presenza consapevole al parto equivale a sette anni di meditazione. Quando partoriamo consapevolmente, accantonando l’imponente mente razionale per permettere alla nostra natura istintiva di dominare, riusciamo ad accedere alla saggezza espressa da tutte le tradizioni spirituali: che l’ego è nostro servo, non nostro padrone, e che la via verso l’estasi e l’illuminazione implica la resa dei nostri egoistici princìpi di controllo. Questo livello di abbandono ci tornerà altresì utile per i lunghi anni della maternità.


Quando abbandoniamo il controllo cosciente, lasciamo anche affiorare i nostri ritmi innati e più profondi: si tratta di un’esperienza che, per la donna che partorisce, può risultare molto intensa. Lasciando che il travaglio segua i propri tempi, senza pressioni o interferenze, la donna impara a fidarsi del proprio ritmo naturale, e di quello del bambino. Questa fiducia è un ulteriore dono; un’ulteriore via attraverso cui Madre Natura garantisce la migliore maternità e la massima sopravvivenza dei piccoli.


Abbandonandoci alla nascita impariamo pure quale sia il nostro ruolo sulla Terra: non siamo né i sovrani, né gli architetti della creazione. La vita si manifesta attraverso di noi, con semplicità e dolcezza, quando noi lo permettiamo.

Potere

È facile affermare che le difficoltà del parto derivino dall’eccessivo potere del sistema sanitario e dei suoi soggetti e dalla mancanza di potere nella partoriente. Credo, tuttavia, che si renda necessaria un’analisi più approfondita, poiché è tempo di fugare l’idea di uno squilibrio di potere e di affermare la nostra innata autorità nel parto.


Viviamo in un’epoca che dà valore, e piena fiducia, alla tecnologia. Premiamo chi, come i medici, la padroneggia – e, di fatto, siamo fortunati a poter usufruire di tali competenze quando ve n’è bisogno. Per quanto, poi, possiamo desiderare meno tecnologia nella nascita, assistiamo a un numero sempre maggiore di cause contro ginecologi e ostetriche, accusati quasi sempre di non esservi ricorsi a sufficienza.


Oltre che alla tecnologia, diamo valore anche all’informazione. Durante la gravidanza e il parto essere informati equivale a essere responsabili, qualità entrambe fortemente incoraggiate dalla cultura; ma a un prezzo. Potremo reperire tutte le informazioni del mondo, ma non sapremo mai predire quale sarà la nostra esperienza di parto. Per giunta indeboliamo la nostra autorità su parto e maternità – esautorandoci con le nostre stesse mani – quando riponiamo più fiducia nelle informazioni che giungono dall’esterno (controlli, ecografie, opinioni altrui) che non nel sapere interiore del nostro corpo e del nostro bambino.


La verità è che i nostri piccini ci inviano continue informazioni sui loro bisogni, sui loro desideri e sul modo più giusto di occuparsi di loro. Si tratta di una verità fisiologica: la placenta comunica costantemente con il nostro corpo, trasportando sangue e nutrienti, oltre che producendo gli ormoni placentari che programmano il nostro organismo e la nostra psiche affinché garantiscano l’accudimento ottimale e specificamente richiesto dal bambino. Allo stesso modo le voglie, i desideri, i sogni e le inclinazioni della gravidanza possono essere messaggi del nostro bimbo, a dimostrazione di un sapere più profondo, più ricco e più vero – benché meno corredato da cifre e dettagli – rispetto alle informazioni esterne, ad esempio i controlli medici.


Difatti, sin dal primo istante, non appena abbiamo il sospetto di una vita che si sta formando nel nostro ventre, possiamo ricorrere a questo antico sistema, invece che a un test di gravidanza, lasciando che sia il nostro corpo a informarci. Spesso la verità si rivelerà gradualmente, dandoci lo spazio per apprendere e adattarci secondo i nostri ritmi, oltre che la possibilità di riflettere e di sognare.


Se scegliamo questo percorso, il percorso battuto dalle nostre antenate, potremo scoprire e rafforzare in noi, e nel nostro corpo femminile, una fiducia e una forza inalienabili. Questa fede profonda è la miglior preparazione alla nascita, oltre che – a mio avviso – la base della vera responsabilità; noi siamo in grado di agire secondo la nostra verità. Impareremo anche a utilizzare la medicina, se vorremo, senza rinunciare al nostro potere.


Al di là di questo, quando entriamo nel sapere delle donne, riusciamo ad aprire canali di comunicazione con i nostri bambini che esaltano i poteri comunicativi voluti da Madre Natura per le madri di ogni specie. La maternità può trasformarsi in meditazione, consapevolezza profonda che appaga tanto spiritualmente, quanto fisicamente ed emotivamente. Ritengo si tratti del progetto della natura, e di una possibilità per tutti noi.


Come sarebbe vivere in una società in cui noi tutti, mettendo al mondo e venendo al mondo, fossimo in possesso del nostro potere e del nostro sapere profondo? In cui scienza e tecnologia siano nostri strumenti, non già nostri padroni? Quanto diversamente tratteremmo i nostri figli? Quanto diversamente ci tratteremmo? Quanto diversamente tratteremmo la Terra?


La Nascita sta morendo, ma, come cellule del suo organismo, abbiamo tutti il potere di rianimarla e di farla risorgere nella sua gloria. Quello che ci vuole, ne son convinta, è la passione, l’amore, l’abbandono e il potere collettivi che spandiamo nell’etere nel momento in cui diamo alla luce i nostri figli.


Risanando la Nascita, risaniamo noi stessi, i nostri bambini, la Terra.


La nascita di zoe - sfida e trasformazione

Ogni nascita è un evento unico, una reazione alchemica tra le energie più profonde, più vere e più intense della madre e del bambino, del padre, della famiglia, degli amici e di chi accudisce. La nascita, poi, come la chimica, è più che la somma delle sue parti: in un pugno di ore madre, padre, figlio possono trasformarsi per sempre. Di tutti i miei parti quello di Zoe, mia secondogenita, fu il più difficile ma anche quello che mi trasformò più radicalmente. La nascita di Zoe mi cambiò in una maniera che non riesco ancora a comprendere, e rivelò il mistero supremo della nascita e la sua perfezione facendo di me la madre di cui Zoe aveva bisogno. Con quel parto fui grata di trovarmi a casa, dove fui padrona delle difficoltà che dovetti affrontare, senza che venissero nascoste da farmaci o da interventi medici. Nel dare alla luce Zoe ebbi il privilegio di conoscere nuove competenze del mio corpo che procrea e di accrescere la fiducia nella mia capacità di abbandono: attitudini che mi son tornate utili nei parti successivi e nei lunghi anni di maternità.


Ogni anno, per il loro compleanno, racconto ai miei figli la storia della loro nascita. Per quanto la storia venga loro ripetuta di anno in anno, il piccolo festeggiato resta, ogni volta, assorbito dalla narrazione, dai fatti, e dal ruolo rivestito da ciascun personaggio al suo primo ingresso nel mondo.


Tuttavia la storia non è sempre la stessa. La mia versione dei fatti cambia con la scoperta – di madre e figlio – di nuovi aspetti che riguardano noi e il nostro rapporto. Il ricordo che i miei figli serbano della nascita, poi, netto e vivido nei primissimi anni, tende ad affievolirsi con il passare del tempo, facendo sì che il loro contributo sia ogni anno diverso.


La storia della nascita di Zoe, raccontatale più di recente per i suoi quattordici anni, è forse la più misteriosa ed elusiva. È un racconto, come lei, donchisciottesco, indefinibile, difficile da riassumere, catalogare o intitolare. Il tempo, tuttavia, ne ha svelato sempre nuove ricchezze, la preziosa trama e l’insegnamento, e io sono riuscita a coglierne meglio il significato e la responsabilità nel rendermi la madre di cui Zoe aveva – e ancora ha – bisogno per sbocciare in tutto il suo splendore.


La storia ha inizio, com’è ovvio, dal suo concepimento. Dopo sei mesi di “tentativi”, trascorsi cinque giornate di trasformazione a un seminario di Women’s Mysteries4; in quei giorni ero mestruata e concepii Zoe subito dopo il rientro a casa. Seguirono alcune settimane di nausee e di stanchezza, in cui desideravo trovarmi da sola nella foresta e non nella torrida estate australiana con la casa invasa dagli invitati per le feste di Natale.


In quel periodo trascorsi diversi giorni con un dolore al bacino e la preoccupazione di avere un aborto. La mia reazione istintiva fu quella di danzare, ricorrendo ai ritmi brasiliani e roteando il bacino perché quel bimbo ambivalente scendesse, in una spirale, in profondità nel mio bacino, e si attaccasse al mio ventre (sono personalmente convinta che siano i nostri figli a scegliere di restare o di andarsene, anche se in quel caso intuii un margine di influenza). Di tre mesi, durante una vacanza in Nuova Zelanda, sognai di perdere un bimbo minuscolo, senza cordone. Compreso il significato, mi concentrai sulla connessione con quella nuova anima, nonostante la paura di defraudare la mia preziosa Emma, di soli due anni.

Assunto l’impegno nei confronti del mio bambino e di quel percorso, mi sembrò di dover affrontare un grosso lavoro interiore: più di quello affrontato fino ad allora, forse più di quanto non ne avessi mai avuto bisogno. Da prima del concepimento tracciavo con i pastelli grandi mandala – figure circolari – del mio viaggio, dopo di che mi dedicai al body-work e al rebirthing. Durante la gravidanza assunsi pure delle erbe cinesi della Sunrider per alleviare le nausee, e presi la meravigliosa, e permanente, abitudine di sottopormi a massaggi regolari.


In quella gravidanza ero attirata dall’acqua, e andavo a nuotare, in parte come sostituto dello yoga che il mio chiropratico mi aveva consigliato di sospendere (anche se, seguendo un parere più qualificato, avrei potuto modificare gli esercizi per salvaguardare le mie deboli giunture sacroiliache). Iscrissi pure il nascituro ai corsi di nuoto e, con una certa trepidazione, abbandonai la sicurezza della mia attività di medico di famiglia. Acconsentii alla sostituzione da parte di un collega, un medico condotto che assisteva i parti in casa, impegnandomi a portare il bimbo, una volta nato, con me allo studio medico dai tre agli otto mesi dopo il parto.


Durante quell’esplorazione e quel mutamento, mi vidi (e mi rappresentai) come una farfalla luminosa che usciva dal bozzolo. Il mio bambino era sempre verde, pieno di vita, che è poi il significato del nome greco Zoe. Tracciavo disegni molto elaborati della sua placenta, che rappresentavano la consapevolezza e il rispetto crescenti verso tale organo, che decidemmo di onorare con la nascita lotus (lotus birth) cioè la scelta di non recidere il cordone ombelicale (per saperne di più sulla nascita lotus vai al racconto “La placenta di Jacob”, dove si narra come il cordone non sia stato né clampato, né tagliato).


Con un misto di arroganza e di ignoranza pensai che la mia uscita in forma di farfalla – la nascita del mio bambino – sarebbe stata agile e dolce, forse ancor più agile delle cinque ore di parto “dolce e oceanico” vissute per la mia primogenita (rileggi il racconto “La nascita di Emma” al capitolo precedente). Tuttavia, come mi avvertì il medico quando gli confidai la previsione secondo cui il mio vispo pupetto verde sarebbe venuto al mondo il primo giorno di Primavera, “Su certe cose bisogna restare umili”.


In quella gravidanza mi ero preparata ben prima della “data prevista” vista la precedente esperienza di anticipo di un mese. Gustai le ultime, pesanti, settimane perse con Emma, riposandomi, sottoponendomi a massaggi, passeggiando e ballando allegramente con la famiglia al tradizionale ballo del paese.


La settimana prima del travaglio ebbi diversi episodi di contrazioni notturne, che cessavano al mattino. Dopo alcune notti faticose, l’ostetrica mi suggerì di assumere un rimedio omeopatico a base di callophyllum per incoraggiare il “falso travaglio”. Mi chiesi quali profondità interiori mi avrebbe fatto toccare quel bambino.


Alle 7 del mattino della “data presunta” avvertii un’improvvisa contrazione mentre allattavo Emma. “Ecco com’è il vero travaglio”, ricordai, e a quel punto il travaglio ebbe inizio. Chiamai Chris, la mia ostetrica, e l’assistente al parto, Ginny, avvertendole che avrei potuto avere bisogno di loro in giornata. Chris giunse subito, pensando che il parto sarebbe stato rapido e senza intoppi.


Tuttavia non fu così. Le contrazioni si mantennero regolari e dolorose per tutta la mattinata, durante la quale ricevetti l’amore e il sostegno di Nicholas ed Emma che mi massaggiavano le spalle. Mi fu d’aiuto anche l’aromaterapia – con una miscela favolosa di olii di rosa e gelsomino – in alcuni momenti di difficoltà e di rallentamento. In tarda mattinata cercai riparo in camera mia, lontano dalla compagnia sempre più numerosa, per concentrarmi sul travaglio. Da quel momento, forse, il parto avrebbe potuto procedere più svelto, ma nel mio cuore non ero ancora pronta a incontrare mio figlio.


Una foto significativa mi ritrae distesa sulla schiena, l’unico istante del travaglio in cui abbia adottato quella posizione, mentre abbraccio Nicholas ed Emma, quasi fosse l’ultima immagine di “famigliola felice”. In quella posizione percepivo mio figlio muoversi; solo più tardi compresi che si era girata in posizione posteriore, rallentando le contrazioni. Sebbene tale cambiamento rese il travaglio più duro e doloroso, esso mi concesse anche il tempo necessario, e forse servì pure a Zoe, che, più tardi, mi rivelò che non voleva scendere.


Anche se, adesso, il piccolo era posteriore, non avvertii dolore alla schiena, e ci rendemmo conto della posizione solo allorquando, nel primo pomeriggio, l’avanzamento risultò lento e doloroso. Chris mi visitò, trovando il bimbo posteriore, con fornice vaginale – un “labbro anteriore” – che gli impediva di scendere. A quel punto trovai sollievo nell’acqua, trascorrendo del tempo sotto la doccia, aggrappandomi – ad ogni contrazione – alle pareti del box (che mio marito, preoccupato, sorreggeva dal lato opposto!).


Chris chiamò il mio dottore, Peter, che giunse intorno alle due del pomeriggio e che dovette togliere le scarpe per visitarmi dentro la doccia, con grande sollazzo di Emma. Peter propose di rompere le acque e io accettai. Uscita dalla doccia, gli lasciai aprire il labbro della cervice mentre io spingevo la testa del bambino attraverso il canale.


Durante quegli attimi tanto intensi il suono fu mio grande alleato: mi aiutò a esprimere le sensazioni del mio corpo e a trovare il giusto abbandono all’ignoto. Fui grata di trovarmi a casa mia, dove avevo la libertà di esprimere, forte e senza inibizioni, la mia libertà e dove ero assistita da persone che conoscevano bene il mio travaglio e non si offendevano neppure quando imprecavo contro di loro! Emma e Ginny, che si occupava di lei, restavano silenziose, specie durante le mie sonore manifestazioni al massimo delle contrazioni, ma fu bello averle vicino. Nicholas fu la mia roccia, appendendomi al suo collo mentre, mezza accucciata, partorivo quella bambina, proprio come avevo descritto nei miei disegni dei mesi precedenti.


Una volta attraversata la travagliata bocca uterina, il dolore s’acquietò e la bimba venne al mondo, a faccia in su (presentazione occipito posteriore, o P.O.P. [persistent occipito-posterior position]) con grande sollievo e solo qualche spinta. La mia ostetrica, Chris, la prese e me la porse attraverso le gambe, quindi crollai a terra. Provai una sorpresa, e un piacere, enormi, che si fusero in estasi, quando ebbi tra le braccia il calore e la morbidezza della mia piccina, bagnata e appena nata. Presto uscì pure la placenta, senza difficoltà e senza essere recisa, di forma perfetta per la borsina da me cucita. Il sesso della piccola fu una sorpresa per tutti (ma non per Emma, che aveva già previsto una femmina). La mia bambina, sul mio petto, percorse la mia pelle giungendo al seno, e lì ci immergemmo nella sua luminosa dolcezza.


Nelle primissime fotografie il mio viso non esprimeva il minimo dolore, mentre Nicholas aveva un aspetto tirato e sfinito, il che mi ricorda che anche il ruolo di assistente al parto è pesantissimo, senza però possibilità di sfogo dell’energia e della paura attraverso i suoni e i movimenti.


Per quanto la nascita di Zoe non aveva presentato complicazioni, e richiesto solo un minimo intervento medico, l’esperienza ebbe su di me un effetto devastante. Nei giorni, nelle settimane e nei mesi a seguire annegai in un mare di lacrime e di prostrazione, che trascinarono via buona parte dell’antica me.


La presenza terrena di Zoe mi dette profondo sollievo in quel momento. Era dotata di una energia fulgida e tranquillizzante, e lei stessa, più in là, mi rivelò di esser stata felice di essere un bebè. Anche nei mesi frenetici in cui ripresi l’attività di medico di famiglia e di assistenza ai parti in casa, la bambina si dimostrò felice ed equilibrata tra le mie braccia, o nella fascia, e al seno.


Guardando indietro mi accorgo degli enormi cambiamenti operati in me dalla nascita di Zoe. Prima di lei ero una creatura diversa, protetta da una scorza più dura, intessuta di pensieri e timori. La nascita di Zoe vi aprì uno squarcio, seppur con dolcezza e compassione. La sua nascita e costante presenza mi portarono i doni della mite resistenza; il cammino dell’abbandono e non della fatica; la capacità di accogliere punti di vista opposti; senza dimenticare la sensazione di volare, libera.


Stupisce forse che Zoe, che si sta facendo donna, mi confessi che la tecnica circense da lei preferita sia la “lira” (cerchio aereo) con la quale poter volare in alto con gioia, agilità e audacia?

Partorire e accudire con dolcezza
Partorire e accudire con dolcezza
Sarah J. Buckley
La gravidanza, il parto e i primi mesi con tuo figlio, secondo natura.Un manuale rivoluzionario per le future mamme e i futuri papà che desiderano vivere gravidanza, parto e primi mesi di vita del bambino in modo naturale. Partorire e accudire con dolcezza è un manuale rivoluzionario, nel quale Sarah J. Buckley, esperta di gravidanza e parto apprezzata in tutto il mondo, fa luce sull’evento della nascita e sui primi mesi da genitori, mettendo a disposizione delle future mamme e papà conoscenze attinte sia dalla saggezza antica che dalla medicina moderna.Il libro presenta approfondimenti sulla fisiologia del parto naturale (o, come lo definisce l’autrice, “nascita indisturbata”) che mostrano quanto vada perso quando tale esperienza viene vissuta meramente come evento medico.Nella prima parte, alla scrupolosa descrizione di gravidanza e parto medicalizzati (che prevedono il ricorso a ultrasuoni, epidurale, induzione e cesareo) e delle scelte più naturali (parto in casa, rifiuto dell’epidurale o di farmaci durante la fase espulsiva) si intreccia il racconto dell’attesa e della nascita dei quattro figli dell’autrice, tutti dati alla luce tra le mura domestiche. La seconda parte prende invece in esame gli studi scientifici su attaccamento, allattamento materno e sonno infantile, ed esorta i neogenitori a operare scelte attente e amorevoli durante i primi mesi con il proprio bambino. Conosci l’autore Sara J. Buckley è medico di famiglia e autorità di fama internazionale in materia di gravidanza, parto e genitorialità. Vive a Brisbane, in Australia, con il marito e i quattro figli. Sarah Buckley è preziosa perché bilingue: sa parlare il linguaggio di una madre che ha dato alla luce i suoi quattro figli in casa, e sa parlare dadottore. Attraverso la fusione del linguaggio del cuore con quello della scienza essa impartisce alla storia del parto una direzione nuova, rivoluzionaria e illuminante.Michel Odent, medico chirurgo, autore e pioniere del parto naturale