- Secondo e terzo allattamento
Allattare Emma durante la mia seconda gravidanza non fu sempre facile. I capezzoli erano sensibilissimi, sebbene trovai sollievo intorno alla ventesima settimana. Fu duro, ma necessario, ridurre le poppate di Emma, ma notai quanti più alimenti solidi prese a magiare. Di certo continuava a ricevere abbondante nutrimento dalle sue cinque o sei poppate giornaliere.
La nascita di Zoe fu assai più ardua. Come Emma, nacque posteriore (faccia in su) e io, al termine del travaglio, trascorsi alcune ore di difficoltà (per conoscere la storia di Zoe si veda al capitolo III). Zoe era una bimba placida e assai tranquilla che visse in fascia - il suo utero esterno - per diversi mesi. Anche con lei l’allattamento non presentò problemi: Emma, due anni e dieci mesi, era grande abbastanza da attendere il proprio turno, e ne apprezzai l’aiuto vista la sovrabbondanza di latte dei primi giorni. Notai con sorpresa che la maggiore poppava con più delicatezza dell’ingorda sorellina.
Quando Zoe aveva solo quattordici mesi, restai di nuovo - e inaspettatamente - incinta, durante una vacanza in Tasmania con tutta la famiglia. Ci misi un po’ a capire di essere in stato interessante - ero convinta che il ritardo del ciclo fosse dovuto all’allattamento intenso di Zoe, la quale non era stata bene per tutta la vacanza tra otiti, febbre e vomito.
Continuai a nutrirla al seno durante la terza gravidanza, sostenendo il mio organismo con la medicina tradizionale cinese e una buona alimentazione. Verso il termine della gestazione, quando avvertii seriamente il bisogno di spazio, cessai di allattare Zoe di notte, trasferendola a dormire in un altro letto con Nicholas e Emma. La mia secondogenita aveva appena festeggiato il suo secondo compleanno, Emma non aveva ancora cinque anni quando, entrambe, assistettero al meraviglioso parto in acqua del fratello, illuminato dalla luce del retro di casa nostra, davanti al giardino (si veda il racconto di Jacob al capitolo X).
Avere tre figli a distanza tanto ravvicinata, allattati così intensamente, fu un grosso carico per il mio organismo, e grazie a questa esperienza imparai molto sul prendermi cura di me. Una delle abitudini più rinvigorenti fu quella di riposare il pomeriggio. Quest’ora o due a letto (o almeno a gambe sollevate) donava ristoro, e qualche volta anche sonno, al corpo, e silenzio in casa. I miei bambini, troppo grandi per dormire, potevano intrattenersi con giocattoli speciali, ascoltare cassette, o leggere libri a letto con me. Il riposo pomeridiano mi semplificò la vita, sapendo che le incombenze maggiori restavano confinate al mattino, oltre a garantirmi l’energia necessaria per arrivare a sera.
Anche i massaggi regolari divennero una consuetudine, e uno splendido strumento per ringraziare il mio corpo dell’intensità e della solerzia delle cure materne offerte ai miei bambini.
Jacob fu, pure lui, un bimbo docile e tranquillo, adorato dalle sorelle maggiori. Nutrirlo era gradevole, ma siccome ero sfibrata dal contemporaneo allattamento di Zoe, mi vedevo spesso costretta a rifiutarle la “puppa”. Intorno ai cinque mesi di Jacob, Zoe smise di chiedermi di essere allattata con regolarità, sebbene continuai a farlo in modo saltuario finché ebbe su per giù quattro anni. Allora me ne dolsi, ma avevo davvero bisogno di prendermi cura di me.
Avevo un bel lavoro al quale tornare: la collaborazione con un medico di famiglia specializzato in parti a domicilio e con la moglie. Potevo scegliere i miei orari, portare Jacob con me, contare sulla fortuna di una magnifica tata per Zoe. Tuttavia la mia attività si fece sempre meno interessante, a causa dell’organizzazione e della presa di coscienza necessaria a diventare un bravo medico. Alla fine, per i nove mesi di Jacob, tornai a lavorare una mezza giornata ogni due settimane, portando il bimbo con me, rallegrandomi del fatto che il nostro progetto di trasferirci in un’altra regione mi consentì, quando il bimbo aveva venti mesi, di smettere di lavorare.
Ci trasferimmo da Melbourne a Brisbane appena prima dei due anni di Jacob, facendo nel frattempo un mese di vacanza in campeggio. Trascorsi gran parte di questa transizione allattandolo e portandolo e appena entrammo nella nuova casa riuscii a staccarlo dal seno. A quel punto interruppi pure l’allattamento notturno (quando capì “niente puppa fino a domattina”), dopo di che andò a dormire in un letto a due piazze con le sorelle.
L’anno successivo fu tra i più duri della mia vita di madre. Ci eravamo stabiliti alla periferia di Brisbane, dove non avevo amici, né conoscenze e mi sentivo fisicamente a terra, dopo otto anni di allattamento ininterrotto e tre gravidanze. Ebbi la fortuna di trovare alcuni naturopati molto bravi, che mi aiutarono, con un’alimentazione corretta e i giusti rimedi, a ricostituirmi nel corpo (assunsi molta sepia, rimedio omeopatico per gli organismi esausti!). Pian piano trovai un gruppo di mamme e famiglie con la mia stessa sensibilità e ritrovai la vitalità.
La fine dei due anni di Jacob fu piena di trattative sulla “puppa”, e la regola da me imposta era “puppa al mattino, puppa per il pisolino, puppa per la nanna” - ritornello ripetuto più tardi con Maia. Nel mio caso il seno è stato abbandonato con naturalezza man mano che i miei bambini crescevano, in parte per l’interesse sempre maggiore verso il mondo esterno e in parte per il mio bisogno di riprendermi spazio (e seni).
Mi dedicai all’allattamento di Jacob fintanto che non ebbe quattro anni, continuando con gioia a nutrirlo al seno più o meno due volte al giorno. Andare via per uno o due giorni non presentava difficoltà poiché eravamo entrambi flessibili sulla questione.
Pochi mesi prima del suo quarto compleanno Jacob annunciò: “Ora puoi smettere di darmi la puppa, mamma”.
“Va bene”, risposi, “Ma che succede se cambi idea?”.
“Dimmi di no e basta”, precisò.
La volta successiva feci quindi come mi aveva detto, al che lui protestò: “Non intendevo questo, mamma!”.
Il suo quarto compleanno fu il limite che mi diedi, sebbene seguirono forse una o due poppate. Inoltre stavo concentrandomi sull’eventualità di un altro figlio. Un mese dopo lo svezzamento di Jacob concepii Maia Rose: fu una gioia per i bambini, specie per Jacob, che mi confessò: “Bello mamma che fai un altro bambino”.
Quella di Maia fu una gravidanza molto bella. Ci sentivamo tutti in uno stato di grazia: le uniche tensioni scaturivano dalle trattative tra me e Nicholas circa il mio desiderio di avere un parto non assistito (si veda “La nascita di Maia: una festa in famiglia”, capitolo VI). Fui felice della pausa dall’allattamento e presi a chiedermi se davvero desiderassi tornarvi. Tuttavia dopo il parto estatico di una bambina meravigliosa fui grata di ogni istante.
Anche le prime settimane con Maia furono piene di gioia; riposai molto, e per sottolineare quest’importante tregua restai in pigiama per due settimane, mentre Nicholas, tutti i giorni, mi portava il pranzo a letto. Sapevo per esperienza che accudimento e riposo mi avrebbero garantito l’equilibrio per tutto l’anno a seguire. La prima uscita fu quella per portare Maia a “far vedere” alla scuola di Jacob.
In quel periodo ebbi diverse difficoltà con la piccola Maia, che a tratti, e in modo irregolare, si mostrava inquieta. Grazie all’aiuto di un’amica - consulente in allattamento materno nonché madre di cinque figli - alla fine compresi che avevo un problema di iperproduzione: il mio latte, cioè, fuoriusciva troppo violentemente e in quantità troppo abbondante per il sistema digestivo da neonata di Maia. Una volta modificata la tecnica di allattamento - nutrirla in posizione verticale risultò particolarmente efficace - le cose si misero a posto.
A quel punto allattarla diventò semplice e piacevole. Avviai la pratica dell’elimination communication (non utilizzo dei pannolini) che aggiunse un’ulteriore dimensione al rapporto con Maia, migliorando il legame intuitivo con lei (per saperne di più su questa meravigliosa pratica educativa si veda l’articolo all’indirizzo www.sarahjbuckley.com). Mia figlia era una bimba sempre “in braccio” che di rado, nei primi sei mesi, misi giù. Di giorno la portavo nel tradizionale marsupio asiatico, mentre mi sdraiavo accanto a lei durante i pisolini diurni e il sonno notturno.
Smisi di allattarla di notte intorno ai due anni, così come per Jacob, iniziando a ridurre a tre-quattro le poppate diurne. I riposini pomeridiani non presentavano difficoltà dal momento che, in genere, dopo pranzo Maia non vedeva l’ora di “prendere la puppa e andare a nanna”. Anche il sonno notturno non creava problemi, dal momento che tutta la famiglia si coricava intorno alle 20,30.
A quattro anni - età in cui gli altri figli si erano svezzati - Maia continuava, di tanto in tanto, ad attaccarsi al seno, in genere all’ora della nanna. Continuammo a dormire insieme, e la bambina mostrava un’acuta consapevolezza della mia presenza (o assenza), proprio come da lattante. Con il tempo il bisogno di succhiare diminuì e, verso i cinque anni, poppava una volta ogni tanto. L’ultima poppata risale a poche settimane dopo il suo settimo compleanno.
Per me l’allattamento è stata un’esperienza di meditazione e di piacere, che ha contribuito enormemente a una maternità consapevole. Esso mi ha regalato dolcezza, presenza, abbandono; a ogni poppata ho avuto consapevole esperienza della dissoluzione del mio io: “il cuore si scioglie e fluisce nel mio bambino attraverso il mio latte”, secondo le eloquenti parole di Jeannine Parvati Baker.
I miei seni, negli anni, hanno assunto ogni forma e dimensione, e oggi, al volgere della mia carriera d’allattatrice, essi si presentano ancora diversi: più morbidi ed elastici, più rilassati, come notò garbatamente Emma, specie gli amati capezzoli. I miei seni sono stati fonte di piacere e nutrimento per i miei bambini, da cui io stessa ho tratto piacere e nutrimento.
L’allattamento al seno ci ricorda la verità universale dell’abbondanza: più diamo, più ci riempiamo, e il nutrimento divino - fonte a cui tutti ci abbeveriamo - è, come il seno di una madre, sempre pieno, e sgorga sempre abbondante.