CAPITOLO VIII

Lascia che vada come deve andare

La terza fase del travaglio in ottica naturale

La terza fase del travaglio – quella compresa tra la nascita del bambino e il momento in cui la neomamma espelle la placenta di suo figlio – è un momento spesso trascurato, ma critico per la madre e per il bebè. Per entrambi è in corso un passaggio straordinario. Per il piccolo esso comporta mutamenti fisiologici sostanziali affinché si adatti a un ambiente radicalmente nuovo. Per la madre tale passaggio implica la trasformazione, in pochi minuti, da gravida a non gravida. Per fortuna si tratta di cambiamenti generalmente dolci e appropriati per favorire il benessere materno-infantile e la sopravvivenza ottimali.


Questi passaggi e queste trasformazioni possono esser favoriti dalla conoscenza della fisiologia legata alla terza fase, di madre e bambino; dall’assistenza competente che lasci, in sostanza, che “vada come deve an-dare”; e dalla scelta informata. In questo capitolo troverete informazioni che permettono alla madre e al bambino di vivere un passaggio semplice, sicuro e gradevole, oltre a dati utili per decidere in merito a questioni quali la conservazione del sangue cordonale.


La medicalizzazione della gravidanza e del parto si è radicata in profondità nella nostra cultura, tanto che la sua influenza risulta difficile da smascherare e dura a combattersi. L’esposizione, sociale e personale, alla nascita medicalizzata come “la norma” ha fatto sì che molti di noi ignorino, e persino diffidino, dei naturali processi del travaglio e del parto.


E tuttavia si tratta di processi che restano codificati in ogni singola cellula del nostro organismo, in modo tale che la donna moderna risulti progettata in maniera superba per partorire, tanto quanto le nostre progenitrici. Il codice genetico legato alla nascita è ricco e preciso, perfettamente idoneo a rispecchiare i mezzi più efficaci ed efficienti della riproduzione umana, compresi gli esiti ottimali per madre e figlio, nel breve, medio e lungo termine.


Negli esiti ideali intervengono gli ormoni e l’istinto materni, che influiscono sulle emozioni e sul comportamento dal preconcepimento (con la scelta del compagno), e, attraverso la gravidanza, al parto e alla maternità. È il codice genetico, e gli eventi da esso prodotti, a essere, in primo luogo, volto alla creazione di un legame sicuro madre-bambino. Quest’ultimo garantisce il nutrimento ottimale mediante l’allattamento al seno, oltre al miglior accudimento, la miglior protezione e lo sviluppo più idoneo al piccolo in fase di crescita, piccolo che tra tutte le specie è il più immaturo e il più dipendente (per saperne di più sui benefici a lungo termine dell’attaccamento e dell’allattamento si vedano i capitoli XI e XII).


Pur con le migliori intenzioni, la moderna ostetricia non ha rispettato questo codice genetico. Nella corsa alla tutela di madri e bambini contro incidenti ed eventi letali, sono stati ignorati i potenti influssi degli ormoni materni del parto, delle emozioni e dei comportamenti istintivi, per quanto i ricercatori si battano per comprenderne la complessità.


L’indifferenza culturale, e senza precedenti, nei confronti degli aspetti emotivi e istintivi di gravidanza e parto ha gravi ricadute sulle madri e sui loro figli. Nella terza fase del travaglio, quando avviene il primo incontro tra madre e figlio, lo scarto tra istinto e codice genetico, e le modalità di parto praticate di norma nella nostra cultura, risulta particolarmente profondo.


In un momento in cui Madre Natura vuole stupore ed estasi, noi pratichiamo iniezioni, controlli, clampaggio e trazione del cordone ombelicale. In luogo di calore corporeo, contatto pelle a pelle e istinto naturale che conduce il neonato verso il seno, noi proponiamo separazione, panni contenitivi e assistenza esterna per “attaccare” il bambino. Quando il tempo dovrebbe fermarsi davanti ai momenti di eternità del primo contatto, mentre madre e figlio si innamorano, noi abbiamo premura di estrarre la placenta e ripulire per il parto successivo.


Negli ultimi anni la gestione medica della terza fase si è spinta persino oltre, grazie al successo della “gestione attiva della terza fase”. Sebbene gran parte di queste pratiche sia volta a ridurre i rischi di emorragia post partum (o EPP), evento di certo grave, pare che, così come nella gestione attiva, la medicalizzazione del travaglio e del parto determinino, di fatto, alcuni dei problemi che la gestione attiva intende risolvere.


Essa genera difficoltà precise nella madre e nel bambino. Nello specifico, essa rischia di ridurre mediamente di un terzo il volume sanguigno del neonato. Quando si ricorre alla gestione attiva, il sangue extra, che dovrebbe irrorare i polmoni appena entrati in funzione così come altri organi vitali, viene eliminato insieme alla placenta. Tra le possibili conseguenze vi sono difficoltà respiratorie e anemia, specie nei bambini più vulnerabili. Assai probabili anche effetti a lungo termine sullo sviluppo cerebrale.


I farmaci e le procedure previsti nella gestione attiva comporterebbero rischi aggiuntivi per la madre, come vedremo in seguito. Tale pratica produrrebbe, come descritto più avanti, ulteriori rischi per il bambino, dal momento che non conosciamo gli effetti a lungo termine dei farmaci impiegati nel corso della terza fase, i quali potrebbero attraversare la placenta raggiungendo il bambino in una fase di sviluppo cerebrale particolarmente delicata.

Gli ormoni della terza fase

In quanto mammiferi – per la presenza di ghiandole mammarie e del latte da esse prodotto per i piccoli – condividiamo quasi tutte le caratteristiche del travaglio e del parto degli altri mammiferi. In comune abbiamo pure il complesso cocktail di ormoni del travaglio, prodotti in profondità dal cervello (mammifero) medio, che coordina tali processi garantendo, in definitiva, la sopravvivenza e il benessere di madre e figlio.


L’ormone ossitocina, ad esempio, provoca le contrazioni uterine quale segnale del travaglio. Dopo il parto gli effetti di tale ormone sul cervello limbico (emotivo) contribuiscono a instaurare l’istintivo comportamento materno. Le endorfine, gli oppioidi naturali del nostro organismo, producono uno stato alterato di coscienza che aiuta a trascendere il dolore, mentre gli ormoni di attacco o fuga epinefrina e norepinefrina (adrenalina e noradrenalina, noti anche come catecolamine o CA) ci danno la sferzata di energia necessaria a spinger fuori il nostro bambino. La prolattina, ormone della maternità, è fondamentale per l’adattamento del nostro cervello e del nostro corpo, compreso il seno, al nuovo ruolo. Questi ormoni continuano a rivestire un ruolo determinante nel corso della terza fase.


In questo frangente l’utero della neomamma va avanti a contrarsi con vigore e regolarità sotto l’influsso ininterrotto dell’ossitocina. Le fibre muscolari si accorciano a ogni contrazione, con una graduale riduzione delle dimensioni uterine, il che contribuisce al distacco della placenta dalla parete a cui aderisce. Contrazioni uterine efficaci sono poi necessarie a ridurre il sanguinamento laddove è situata la placenta, superficie inizialmente ampia e ruvida. Esse fanno sì che le fibre muscolari intrecciate (dette anche legamenti vivi) si contraggano all’interno dell’utero della neomamma, chiudendo i vasi sanguigni e arrestando il sanguinamento. La terza fase si conclude quando la madre espelle la placenta.


Per lei si tratta di un momento in cui raccogliere i frutti del parto. Madre Natura garantisce un picco di ossitocina, ormone dell’amore, e di endorfine, ormoni del piacere, sia alla madre che al bambino. Il contatto pelle a pelle e i primi tentativi di nutrirsi al seno contribuiscono ad aumentare i livelli di ossitocina1, rafforzando le contrazioni uterine che facilitano il distacco della placenta e la decontrazione dell’utero. In questo modo l’ossitocina (e le interazioni madre-figlio che ne determinano il rilascio) agisce in modo da prevenire le emorragie, oltre a stabilire, di concerto con gli altri ormoni, le prime impressioni positive utili a sviluppare un legame sicuro tra madre e bambino.


Le catecolamine sono anch’esse determinanti in questa fase. Esse vengono, di norma, prodotte in condizioni di paura, stress, ansia, fame e freddo, quando trasferiscono il sangue ai muscoli scheletrici, al cuore e ai polmoni per preparare l’organismo all’attacco o alla fuga. Se la madre in travaglio ha paura o è in ansia, questi sono gli ormoni che rilascerà, riducendo l’apporto di sangue all’utero e al bambino. Di più, è stato dimostrato che epinefrina e norepinefrina agiscono direttamente sul muscolo uterino, rallentando e persino arrestando le contrazioni2.


Durante un parto indisturbato, tuttavia, i livelli di CA nella madre aumenteranno in maniera significativa con il passaggio dalla prima alla seconda fase (di spinta), conferendole un surplus di forza che le consenta di mettersi in piedi e spingere fuori il bambino. Paradossalmente si è scoperto che, ad alti livelli, le catecolamine aumentano la forza delle contrazioni uterine3, il che, insieme a un picco di ossitocina, contribuisce a far sì che la madre partorisca in fretta e facilmente. L’effetto dell’emissione di questi ormoni è stato nominato riflesso di eiezione del feto4, che si ritiene essere il tipico meccanismo di nascita di altre specie. Alti livelli di catecolamine assicurano che, al momento del primo incontro con suo figlio, la neomamma sia vigile e a occhi ben aperti.


Entro pochi minuti dalla nascita tali livelli iniziano a calare5 e, con questi valori ridotti, le catecolamine tornano, come in origine, a influire negativamente sull’utero6. Un’atmosfera di calore e tranquillità è necessaria a far sì che i livelli di catecolamine continuino a scendere e quindi a mantenere l’utero ben contratto.


Se la neomamma ha freddo e paura (forse a causa della separazione dal bambino) i suoi livelli di CA resteranno alti abbastanza da ridurre la capacità uterina di contrarsi e arrestare il sanguinamento in questa fase critica. Tremerà, segnalando tale pericolo, tanto che si renderà necessario un intervento urgente per scaldarla. Livelli elevati di catecolamine in questa fase sono stati associati a maggior rischio di EPP7,8 e, in uno studio ridotto, le donne con valori minori di ossitocina presentavano una maggior probabilità di incontrare difficoltà nella terza fase del travaglio9. Negli scorsi decenni, per prevenire le emorragie post partum, sono stati utilizzati con successo farmaci che neutralizzavano gli effetti dell’epinefrina10.


Appena dopo il parto la madre beneficia del continuo aumento della prolattina, principale ormone di sintesi del latte materno che, tra l’altro, adatta l’intero sistema metabolico materno all’allattamento, e il cervello alla neomaternità11. I valori dell’“ormone della tenerezza materna” si mantengono alti fino a sei ore dopo il parto, secondo le rilevazioni ematiche12, mentre i livelli cerebrali rimarrebbero tali persino più a lungo.


Nei minuti successivi alla nascita anche il bambino presenta livelli ormonali di picco, tra cui innalzamento dell’ossitocina, delle beta-endorfine e delle catecolamine. Così come nella madre, valori elevati degli ormoni di attacco o fuga al momento della nascita assicurano che il neonato, al primo incontro con la madre, sia vigile e a occhi ben aperti. Tuttavia i livelli di epinefrina scendono nei minuti successivi. Ciò corrisponde a una riduzione dello stress neonatale e all’aumento degli ormoni riduttori dello stress quali ossitocina e beta-endorfine, influenzati dal contatto pelle a pelle tra madre e figlio.


Studi condotti su neonati che avevano goduto di questo tipo di contatto appena dopo il parto riscontrarono sintomi sensibili di minore stress, tra cui un ritmo respiratorio rallentato, una maggior glicemia, e un minor eccesso di basi (indice di stress metabolico ridotto), rispetto ai neonati allontanati e posti in culla13. Uno studio ha mostrato che i miglioramenti fisiologici nel neonato durano per molte ore dopo la nascita, con temperatura del piede più alta (sintomo di livelli di CA più contenuti) a ventitré ore di vita nei bimbi tenuti a contatto di pelle dopo il parto, rispetto ai neonati posti in culla. I ricercatori suggeriscono che il contatto pelle a pelle ridurrebbe gli effetti negativi dello stress legato alla nascita14.


È facile dimenticare che, durante la terza fase, la neomamma è ancora in travaglio e di fatto, da un punto di vista ormonale, potremmo dire che mai come in questo momento madre e figlio siano più “travagliati”. I picchi ormonali presenti nella madre e nel neonato dopo il parto sono riflesso del proseguimento dei processi del travaglio e degli adattamenti cruciali per la sopravvivenza di entrambi. Inoltre si tratta di uno stato ormonale unico, che mai più si verificherà in quella madre e nel suo bambino, e rappresenta la nostra migliore possibilità di garantire la riuscita dell’attaccamento e dell’allattamento, e quindi della sopravvivenza della specie.

Separazione madre-neonato

Sono in aumento le evidenze scientifiche che documentano i danni a lungo termine attribuibili alla separazione madre-figlio dopo il parto, in tutti i mammiferi, compreso l’uomo.


L’allontanamento del neonato dalla madre produce un’iniziale reazione di protesta/ipervigilanza (paura-terrore) che coinvolge gli ormoni di attacco o fuga, con attività neonatale (movimento, rumore) tesa ad attirare l’attenzione materna. Se non ha luogo il ricongiungimento, alla paura-terrore fa seguito la disperazione-dissociazione, con arresto metabolico, chiusura emotiva e silenzio, associabili a elevati livelli di oppioidi intorpidenti, sebbene il sistema di attacco e fuga resti in massima allerta15,16. Queste reazioni potenti, progettate per migliorare la sopravvivenza della prole perduta nella natura selvaggia, interferiscono con lo sviluppo cerebrale previsto in questo periodo; la disperazione-dissociazione, in cui l’allerta attacco o fuga e l’arresto metabolico si sovrappongono, può essere particolarmente dannosa per il cervello in sviluppo17,18 (vedi anche il capitolo XI).


Gli effetti a lungo termine della separazione tra madre e neonato, documentati dagli studi su animali, riguardano le anomalie strutturali e funzionali del cervello19,20,21 e le reazioni amplificate allo stress nel corso della vita22. Nils Bergman, medico del servizio sanitario nazionale sudafricano nonché sostenitore del contatto pelle a pelle, nota che, da una ricerca su animali, la capacità del neonato di tollerare la separazione dalla madre è quantificabile in minuti, e suggerisce che i piccoli d’uomo risulterebbero persino più sensibili alla deprivazione materna23.


Sebbene tale vulnerabilità non sia stata formalmente sperimentata con studi sull’uomo, si potrebbe guardare alla separazione routinaria tra madre e neonato – integrata a partire dall’istituzionalizzazione del parto dello scorso secolo – alla stregua di ampio esperimento non controllato con gravi conseguenze psicologiche, e forse fisiologiche, su gran parte della popolazione. Bergman e altri scienziati perinatali fanno corrispondere questo fenomeno alla “violazione di un programma innato”24.


Ci si potrebbe altresì chiedere se la moderna epidemia di stress (termine applicato per la prima volta all’uomo dai ricercatori negli anni Cinquanta) e di patologie ad esso connesse nella nostra cultura non sia un ulteriore frutto della separazione tra madre e figlio dopo il parto. Esistono prove scientifiche sempre più numerose che suggeriscono come il nostro asse ipotalamo-ipofisi-surrene (HPA), che interviene nella reazione a breve termine di attacco o fuga così come in quelle, a lungo termine, allo stress, e nelle funzioni immunitarie, risulterebbe deprogrammato in modo permanente dai livelli costantemente alti degli ormoni dello stress, a seguito della separazione routinaria dei neonati dalla madre. Bergman ritiene che le attuali patologie epidemiche, tra cui la diffusissima sindrome metabolica, sarebbero programmate dalla separazione precoce25.


Carter commenta: “Esistono evidenze sempre più numerose della regolazione o programmazione dei sistemi neuronali [cerebrali/nervosi] attraverso le esperienze precoci, in alcuni casi mediante ormoni endogeni [interni] o esogeni [esterni]”26. Il concetto di vulnerabilità, nei primi stadi della vita, alla deprogrammazione permanente delle funzioni del sistema nervoso centrale dovuta a esperienze estranee al nostro piano genetico, viene sostenuta dagli studi di Csaba sull’imprinting ormonale (vedi anche il capitolo VI).


Le ricerche condotte, tra gli altri, da Jacobson e colleghi27,28,29, oltre che da Raine e colleghi,30 suggeriscono che tragedie contemporanee quali suicidi, tossicodipendenze e crimini violenti sarebbero imputabili a difficoltà incontrate nel periodo perinatale, ad esempio l’esposizione a farmaci, parto con complicanze e separazione, o rifiuto, materni.


Si tratta di dati a sostegno di esperti quali Joseph Chilton Pearce, che ritengono il contatto materno-infantile fondamentale dopo la nascita, e che l’allontanamento del neonato dalla madre determini la mancata attivazione di funzioni cerebrali specifiche previste da Madre Natura per quel frangente31. Michel Odent sottolinea come in quasi tutte le culture esistenti siano messe in atto procedure a disturbo della primissima fase postnatale – il più delle volte mediante la separazione di madre e figlio – affermando che questo tipo di routine abbia prevalso perché instillava tratti di aggressività, e quindi di maggior predominio e successo, nella prole e nella cultura. I futuri guerrieri spartani, ad esempio, pare venissero scaraventati a terra appena nati32 (per saperne di più sulla separazione madre-figlio dopo il parto si veda il capitolo VI).


Ci si deve pure interrogare sugli effetti sul neonato maschio, e sulla nostra società, della pratica postnatale della circoncisione, che per il bambino implica uno stress estremo e ponderabile, persino con l’uso di anestetici.33,34,35


Ciò compreso diventa chiaro il ruolo degli assistenti al parto nelle ore successive alla nascita. Esso consiste nel garantire un contatto senza fretta e senza interferenze tra madre e figlio, nel regolare la temperatura affinché mamma e bebè siano al caldo, nel favorire il contatto pelle a pelle, occhi negli occhi, e il comportamento di preallattamento e di allattamento immediato senza altre aspettative, e nel tenere uniti madre e figlio, se non in caso di estrema urgenza. Tali pratiche possono comprendere modalità di osservazione sensibile e di rianimazione (praticabili accanto alla madre o, nei neonati con cordone ombelicale ancora integro, sulla coscia materna) e altre misure di sicurezza.


Priorità ragionevoli, intuitive e sicure che contribuiscono a sincronizzare i nostri sistemi ormonali con il nostro programma genetico, garantendo alla coppia, nella fase critica di avvio dell’accudimento, il miglior risultato e la massima gratificazione.

Il bambino e la trasfusione placentare

Il compito principale del bambino nella terza fase del travaglio è adattarsi alla vita fuori dal grembo materno. In utero la placenta compie in modo mirabile le funzioni dei polmoni, dei reni, dell’intestino, della pelle e del fegato del feto. L’afflusso sanguigno agli organi nominati è minimo fino a un momento dopo il parto, quando hanno luogo enormi trasformazioni nell’organizzazione del sistema circolatorio del neonato. Nell’organismo del bambino il sangue, in una manciata di minuti, inizia a scorrere al di fuori del cordone ombelicale e della placenta e non appena i polmoni si riempono d’aria, esso viene risucchiato all’interno della circolazione polmonare36. Madre Natura garantisce una riserva di sangue, contenuta nel cordone ombelicale e nella placenta, che fornisce la quantità extra necessaria all’irroramento del sistema polmonare e degli altri organi. Questo fenomeno è noto come trasfusione o ridistribuzione placentare. Il trasferimento (trasfusione) della riserva ematica dalla placenta al bambino avviene in maniera progressiva.


Secondo la ricerca condotta da Dunn37, nel corso della seconda fase del travaglio 66 millilitri di sangue passano dal bambino alla placenta, dove restano trattenuti a causa, forse, della compressione, e dell’occlusione temporanea, dell’arteria ombelicale (che rinvia il sangue dalla placenta al feto) durante il passaggio del bambino attraverso la vagina. Il volume extra rende la placenta più piena e rigida, il che contribuirebbe a farla aderire all’utero materno nei minuti successivi al parto, nonostante la riduzione repentina delle dimensioni uterine, continuando così a ossigenare il neonato fino all’avvio della corretta respirazione. Una volta che il bambino è venuto alla luce, tale pressione cessa di essere esercitata, permettendo a un bolo di sangue placentare, caldo, ossigenato e a pH equilibrato, di irrorare il neonato negli attimi successivi al parto.


La trasfusione aumenta con ciascuna delle contrazioni della terza fase, forti tanto quanto quelle del travaglio. A ogni contrazione la placenta viene compressa all’interno dell’utero, pompando sangue all’organismo del bambino. Tra una contrazione e l’altra, rilassandosi l’utero, è possibile che un po’ di sangue ritorni dal neonato alla placenta attraverso l’arteria ombelicale ipotesa. Alcuni studi hanno documentato graficamente il processo, registrando l’aumento di peso del neonato nei minuti successivi alla nascita38,39. Secondo quanto osservato da Gunther il pianto rallenta l’apporto di sangue al bambino40, regolato dalla compressione dei vasi presenti all’interno del cordone. Entrambi questi fattori implicano che il neonato sia in grado di regolare la trasfusione in base alle esigenze individuali.


Gran parte della trasfusione placentare è, di norma, trasferita al neonato nel giro di tre minuti, tuttavia essa può richiedere più tempo, o altrimenti, completarsi in soli sessanta secondi41, con una trasfusione più veloce a seguito della somministrazione di farmaci ossitocici per far contrarre l’utero42, come vedremo in seguito.


Anche la gravità può influire sul trasferimento ematico, che avviene più velocemente se il neonato si trova a livello dell’utero, o appena al di sotto43. Tuttavia è possibile che la posizione del bambino sia determinante solo se tenuto molto al di sopra dell’utero prima del clampaggio, o se il cordone viene clampato prima che smetta di pulsare: un neonato tenuto a contatto di pelle con il cordone ombelicale ancora integro è in grado di proseguire nella ridistribuzione del volume sanguigno, ricevendolo o ritrasferendolo alla placenta fino al raggiungimento di un volume sanguigno ideale.


Questo sistema, elegante e collaudato nel tempo, che garantisce il trasferimento di un quantitativo di sangue ottimale, anche se non standard, viene reso inoperativo dall’odierna pratica di clampaggio precoce del cordone ombelicale, in genere dopo trenta secondi dalla nascita, spesso entro i primi dieci44.

Il bambino e il clampaggio precoce

Il clampaggio precoce è stato adottato in modo diffuso dall’ostetricia occidentale come parte del protocollo noto come gestione attiva della terza fase, e volto a ridurre il rischio di emorragia materna dopo il parto. La gestione attiva comprende l’utilizzo di un agente ossitocico – un farmaco che, come l’ossitocina, produce violente contrazioni dell’utero –, in genere somministrato tramite iniezione nella coscia della madre appena il bimbo viene alla luce, il clampaggio precoce del cordone e la trazione controllata dello stesso, la quale implica l’estrazione del cordone affinché la placenta venga espulsa prima possibile.


I sostenitori della gestione attiva ritenevano che il clampaggio immediato del cordone fosse necessario in quanto, se il cordone non viene clampato prima che abbia inizio l’effetto ossitocico, il bambino rischia di essere esposto a un flusso eccessivo di sangue dovuto a contrazioni uterine più violente. Si tratta di un aspetto poco indagato. Uno dei primi studi, che prevedeva l’utilizzo del farmaco ergotico metilergometrina (metilergonovina), suggerì che l’impiego di un ossitocico accelerasse la trasfusione placentare del neonato, passando da tre a un minuto. Tuttavia, nello stesso risultava che il volume di sangue e globuli rossi fosse equivalente nei bambini esposti e non esposti a ossitocina45. Per contro Dunn scoprì che i bimbi nati da madri sottoposte a sintometrina (combinazione di ossitocina ed ergometrina/ergonovina) e a clampaggio del cordone a tre minuti dal parto, ricevevano in media 40 millilitri in più della normale trasfusione placentare46.


Una recente revisione ha preso in esame gli esiti materno-infantili rispetto al momento del clampaggio del cordone in base alla somministrazione di farmaci ossitocici (clampaggio prima e dopo ossitocico), senza riscontrare differenze47. Ciò sarebbe indicativo della capacità del neonato di evitare l’iperirrorazione attraverso il rinvio, fintanto che il cordone non viene clampato, di sangue alla placenta. Si tratta di un piano condiviso da tutti i mammiferi, nessuno dei quali, com’è ovvio, clampa il cordone prima dell’espulsione della placenta. Rassicurante per le recenti pratiche che incoraggiano l’impiego di farmaci ossitocici appena dopo il parto, accompagnato dal clampaggio ritardato48. Esisterebbero, tuttavia, altri effetti negativi per il neonato qualora alla madre venga somministrato un ossitocico prima del clampaggio del cordone (vedi la parte successiva dedicata al bambino e all’ossitocina sintetica).


Poi, per quanto l’obiettivo della gestione attiva sia quello di ridurre il rischio di emorragia materna, “la diffusa accettazione della pratica non fu preceduta da studi che valutassero gli effetti della deprivazione, per il neonato, di un significativo volume di sangue”49.


Usher stimò che il clampaggio precoce priva il neonato da un minimo di 54 a un massimo di 160 millilitri di sangue50: nei limiti massimi equivale a quasi la metà del volume sanguigno totale del bambino alla nascita. La trasfusione placentare media è di 100 millilitri (quasi una mezza tazza), ossia un quarto/un terzo del volume medio sanguigno totale – 350 millilitri – del neonato. I nati prematuri rischiano, con il clampaggio precoce, di perdere una porzione ancora maggiore del proprio sangue, in quanto la placenta ha dimensioni relativamente maggiori rispetto a quelle del bambino, e contiene più sangue.


Morely commenta:


Il clampaggio del cordone precedente il primo respiro del neonato comporta privare altri organi di sangue affinché avvenga l’irrorazione polmonare [apporto di sangue ai polmoni]. Nel caso in cui il bambino presenti già ipovolemia [ridotto volume sanguigno] esso potrebbe determinarne il decesso.51


Peltonen filmò le funzioni cardiache in un neonato, sottoposto a clampaggio precoce, che iniziava a respirare52. Le immagini mostravano che, per alcuni cicli cardiaci successivi al primo respiro, la parte sinistra del cuore del neonato non riceveva sangue a sufficienza. Peltonen conclude:


Sembrerebbe che l’interruzione della circolazione ombelicale [clampaggio del cordone] prima che si sia stabilita la ventilazione polmonare risulti essere una pratica altamente antifisiologica da evitare53.


Negli ultimi decenni si pratica il clampaggio precoce per ottenere sangue cordonale su cui svolgere analisi sui gas ematici e i valori del pH (acido-basico). Il fine è trovare (o escludere) evidenze dell’assenza di ossigeno (ipossia) durante e prima del parto. Si tratta di una procedura con implicazioni medico-legali, sebbene, a quanto conclude uno studio revisionato: “Non abbiamo rilevato evidenze per cui queste valutazioni risultino necessarie all’adozione di eventuali terapie”54.


Secondo Wiberg è possibile estrarre campioni di sangue cordonale per la rilevazione dei gas immediatamente dopo il parto, con successivo clampaggio ritardato del cordone55. Questi ricercatori hanno altresì documentato le variazioni relative ai gas ematici e ai valori del pH nei neonati sottoposti a clampaggio ritardato, utili a definire i “valori nella norma” quando si rende effettivamente necessario il prelievo dei gas ematici56.


Ironia della sorte, i bambini in pericolo durante il travaglio e/o alla nascita sono quelli ad avere più bisogno di sangue e ossigeno extra, garantiti dal clampaggio ritardato57, oltre ad avere maggior probabilità di esser sottoposti a prelievo di sangue, il che sottolinea l’importanza, per chi presta assistenza, di elaborare politiche e procedure che consentano, per i prelievi di sangue cordonale con valutazione dei gas ematici, il clampaggio ritardato.


Si noti poi che il cordone nucale – ossia attorno al collo del feto – non necessita di clampaggio se non in casi estremi. Il cordone nucale si presenta nel 20-30 per cento dei parti, e di solito viene sbrogliato senza difficoltà, oppure, come descrive Mercer58, facendo fare una ‘capriola’ al bambino. Il taglio del cordone nucale, privando il neonato dell’apporto di sangue e ossigeno, rischia di avere ripercussioni devastanti nel caso in cui il bambino presenti un ritardo nella respirazione dovuto a distocia di spalla o ad altre difficoltà del parto59,60.

Figli del cesareo

Quando il bambino, prima del clampaggio, viene sollevato ben al di sopra dell’utero – ad esempio durante un cesareo – l’utero materno non è in grado di pompare il sangue fino a quell’altezza, tanto che il sangue del piccolo rischia persino di tornare verso l’utero materno per via della gravità. I bambini nati con cesareo sono poi privati dell’effetto, appena descritto, di irrorazione mediante pressione, grazie al quale, alla nascita, vengono smistati ulteriori 66 millilitri di sangue placentare; in più, hanno maggiori probabilità di subire il clampaggio e taglio immediato del cordone, come di routine. Tutti questi elementi contribuiscono a rendere particolarmente improbabile che i nati con cesareo ricevano il dovuto volume di sangue, tantomeno la trasfusione plancentare61. La conseguenza potrebbe essere un maggior rischio di crisi respiratoria. Diversi studi hanno mostrato che, nei bambini nati con cesareo, tale disturbo sarebbe evitabile mediante trasfusione placentare completa62,63.


Il pediatra britannico Peter Dunn consiglia di non clampare il cordone dei neonati con cesareo, che, una volta usciti dall’utero materno, egli raccomanda di lasciare allo stesso livello della placenta finché il cordone non smetta – in cinque-dieci minuti – di pulsare, permettendo al piccolo di equilibrare il volume ematico finale64. Il bambino nudo con placenta (avvolta) può altresì essere posto sul petto della madre. Anche Morley esprime raccomandazioni simili per i nati con cesareo65. Un’altra ricerca individuò effetti positivi sulle funzioni respiratorie derivanti dall’appendere la placenta dei bimbi nati con cesareo alla stregua di sacca trasfusionale fintanto che il cordone non smettesse di pulsare66.


Nell’assistenza alla trasfusione placentare dei nati con cesareo è possibile sfruttare pure la gravità, aumentando il trasferimento di sangue se il bambino viene tenuto sotto il livello della placenta. La trasfusione placentare di un bimbo nato con un parto cesareo risulta altresì favorita se si consente al piccolo di respirare ripetutamente prima del clampaggio67. In modo analogo Weeks consiglia a chi presta assistenza di “aspettare un attimo” prima di clampare il cordone ombelicale di un nato con cesareo e di porre il piccolo al caldo sulle gambe della mamma68.


Si tratta di tecniche importanti specie per i prematuri nati con cesareo, la cui sopravvivenza sarebbe enormemente favorita se si consentisse loro una trasfusione placentare completa69.

Ridotta riserva di ferro e altre conseguenze del clampaggio precoce

Il bimbo che subisce il clampaggio precoce perde pure il ferro contenuto nel sangue cordonale. In media una trasfusione placentare contiene dai 30 ai 35 milligrammi extra di ferro, l’equivalente del ferro presente in 100 litri di latte materno70.


Non c’è da sorprendersi se al clampaggio precoce sia stato imputato un maggior rischio di anemia infantile. Una recente meta-analisi suggerisce che tale pratica aumenta di circa cinque volte il rischio di anemia in prima/ seconda giornata, mentre dal secondo/terzo mese esso risulta raddoppiato, rispetto al clampaggio dopo due o più minuti. Da questa analisi risultava che i bambini sottoposti a clampaggio precoce avevano anche una riserva ridotta di sangue a sei mesi71. Altri studi hanno indicato che i rischi del clampaggio precoce sarebbero addirittura più alti per i figli di madri anemiche72. A questa pratica sono stati associati anche elevati livelli di piombo a sei mesi, conseguenza delle scarse riserve di ferro73.


L’anemia infantile è stata associata a deficit nello sviluppo intellettivo, visivo, motorio e socio-emotivo, persino in bambini in apparenza sani, con probabili effetti permanenti sulla maturazione cerebrale74.


Le conseguenze avverse del clampaggio precoce furono riconosciute già nel lontano 1801, quando Erasmus Darwin scriveva:


Un altro elemento assai nocivo per il bambino è legare e tagliare il cordone ombelicale con troppa premura; esso dovrebbe sempre essere lasciato finché il bambino non solo abbia preso a respirare ripetutamente, ma fintanto che non sia cessata ogni pulsazione del cordone. Perché altrimenti il bambino sarà assai più debole di quanto dovrebbe, dal momento che parte del sangue che doveva trovarsi nel bambino è rimasta nella placenta75.


In uno studio clinico randomizzato i bambini sottoposti a clampaggio del cordone ritardato di soli trenta secondi mostravano minor necessità di trasfusioni, disturbi respiratori meno gravi, migliori livelli di ossigeno e indici di migliori esiti a lungo termine, rispetto a quelli che avevano subìto il clampaggio immediato76.


I prematuri a cui si ritardi il clampaggio sono, inoltre, protetti da emorragia intraventricolare (IVH)77, un forma di sanguinamento cerebrale non rara in questo gruppo. L’aumentato rischio connesso al clampaggio precoce riflette il fatto che tale procedura provoca un improvviso (anche se momentaneo) aumento della pressione sanguigna78, il quale rischia di compromettere in modo particolare il cervello immaturo del bimbo prematuro. Come vedremo più avanti, i piccoli sottoposti a clampaggio immediato soffrirebbero di un conseguente scarso apporto di sangue al cervello, ulteriore fattore di rischio dell’IVH79.


Ci si deve pure interrogare sugli effetti della perdita di un consistente quantitativo di sangue sul cervello del bambino a termine. Alcuni hanno suggerito che alcuni disturbi dello sviluppo infantile quali paralisi cerebrale80, autismo81, e difficoltà di apprendimento82, sarebbero riconducibili alla pratica del clampaggio precoce, diffusasi soltanto nell’ultimo cinquantennio83.


In precedenza, ricercatori quali Jaykka e colleghi84,85,86,87 e, più di recente, Mercer e Skovgaard88, hanno documentato l’elegante distensione dei polmoni del neonato, che ha luogo mentre la trasfusione placentare riempie i piccoli capillari alla base degli alveoli, riducendo la pressione necessaria al bambino per gonfiare i polmoni e garantendo un passaggio sicuro verso la respirazione. Tale paradigma spiega inoltre la maggior probabilità di polmoni bagnati nei bambini nati con cesareo e privati della trasfusione placentare completa. Ecco un’ulteriore ed efficace argomentazione affinché si lasci che la terza fase del travaglio vada come deve andare.

Policitemia e ittero

Alcuni studi hanno rilevato un aumento del rischio di policitemia (aumento del numero di globuli rossi nel sangue) e di ittero qualora si proceda a un clampaggio ritardato. Le ricerche mostrano che i bambini sottoposti a tale pratica presenterebbero un volume dei globuli rossi (VGR) fino al 60 per cento maggiore rispetto ai neonati sottoposi a clampaggio precoce89. La policitemia può risultare vantaggiosa perché un numero di globuli rossi più alto sarà in grado di trasportare più ossigeno agli organi e ai tessuti del neonato. Il livello più elevato di proteine contenute nel sangue extra è, anch’esso, utile a drenare il liquido dai polmoni del bambino (mediante pressione colloido-osmotica, o COP), prevenendo polmoni bagnati e crisi respiratorie90.


L’idea che la policitemia dovuta al clampaggio ritardato renda troppo denso il sangue dei neonati – altrimenti sani – (sindrome di iperviscosità), argomento spesso utilizzato contro il clampaggio ritardato, fu suggerita da uno studio clinico precedente condotto su un numero limitato di bambini, di cui alcuni prematuri. Questi autori descrissero “pletore di sintomatologia neonatale”, indicando fenomeni quali cianosi, difficoltà respiratorie, ipotensione e ipoglicemia91. Dati che non sono stati avvalorati da ricerche92 e revisioni93,94 più recenti e approfondite. Risulta altresì irragionevole, dal momento che un neonato in buona salute riesce senza difficoltà a compensare la maggior viscosità del sangue dilatando i vasi sanguigni95,96. Come in tutti i mammiferi, il sistema circolatorio dei nostri bambini è concepito in modo da equilibrare tale adattamento alla vita fuori dall’utero.


L’ittero è provocato dalla distruzione dell’emoglobina contenuta nei globuli rossi in eccesso, producendo bilirubina, pigmento che genera l’aspetto giallognolo del neonato itterico. Esso si verifica con grande probabilità qualora il bambino riceva l’intero apporto di sangue. L’ittero fisiologico – ossia quello prodotto semplicemente dalla normale distruzione dei globuli rossi in eccesso – si presenta, in qualche misura, in quasi tutti i neonati umani e può perdurare con l’allattamento (da qui la definizione di ittero da latte materno).


Le conoscenze su tale fenomeno sono state approfondite solo di recente, con l’attuale riconoscimento della bilirubina – denominata “pigmento benigno della rinascita”97 – quale importante antiossidante, più potente della vitamina E98. Essa viene prodotta in tutti i mammiferi secondo uno schema complesso, in apparenza intenzionale99, e avrebbe un ruolo cruciale nella protezione del neonato dagli stress ossidativi riconducibili all’adattamento ai livelli di ossigeno nettamente superiori della vita extrauterina. Una recente ricerca conferma che i neonati con ittero lieve o moderato presentano un miglior stato antiossidante che peggiora con il ricorso alla fototerapia per la riduzione dei livelli di bilirubina100, mentre uno studio più datato scoprì che la bilirubina ha proprietà antibiotiche sufficienti a debellare i batteri penumococcici101.


Gli studi non rivelano alcun eccesso di ittero grave (tale da provocare kernittero o danni cerebrali) nei bambini sottoposti a clampaggio ritardato. Due recenti studi, su un totale di oltre un migliaio di neonati sottoposti a clampaggio ritardato, arrivarono entrambi alla conclusione che né fototerapia né trasfusione sostitutiva per il trattamento dell’ittero risultavano più diffuse nei bambini sottoposti a clampaggio ritardato rispetto a quelli sottoposti a clampaggio precoce102,103 (per saperne di più su fototerapia e clampaggio ritardato si veda quanto segue).

Quando il neonato è in pericolo

Il clampaggio precoce comporta l’ulteriore svantaggio di privare il bambino dell’ossigeno contenuto nel sangue placentare che serve a sostenere il neonato fintanto che la respirazione non si sia stabilita correttamente. In casi di sofferenza estrema – quando, ad esempio, il bambino ci mette diversi minuti a respirare – tale riserva di sangue ossigenato può salvargli la vita. La pratica standard prevede la recisione immediata del cordone qualora si renda necessaria la rianimazione, che, tuttavia, è possibile effettuare sulla coscia della madre mantenendo intatta la circolazione placentare del neonato.


L’ostetrico inglese Andrew Weeks sostiene la pratica secondo cui un neonato in pericolo di vita possa godere di almeno un minuto di trasfusione placentare, e afferma: “In quest’epoca di progresso tecnologico di certo non va oltre le nostre capacità mantenere intatto il cordone durante il primo minuto di rianimazione neonatale”104.


Garrison, medico di famiglia canadese, racconta di aver rianimato un neonato che era rimasto senza respirare per sette minuti interi a causa del meconio denso, sopravvivendo senza disabilità grazie al cordone e alla circolazione ombelicale intatti105. Altri autori concordano sul fatto che gli scambi gassosi placentari, preziosi da un punto di vista clinico, proseguano per alcuni minuti dopo la nascita, il che risulta importante dal momento che i primi respiri del neonato sono, di fatto, inefficaci al fine dello scambio gassoso106.


Se il cordone è integro e la placenta ancora all’interno dell’utero materno, qualsiasi farmaco somministrato alla madre rischia di passare al bambino, anche durante la terza fase. Garrison descrive un utilizzo benefico di questo canale107. Egli fa notare come il naloxone (Narcan) – a volte somministrato al neonato per contrastare l’effetto sedativo di oppioidi, quali la petidina (meperidina, Demerol), somministrati durante il travaglio – possa essere somministrato alla madre, in modo alternativo ed efficace, per via endovenosa nel corso della terza fase, giungendo al neonato e risvegliandolo in una manciata di secondi. Ciò dà ulteriore conferma della continuità metabolica tra madre e figlio durante tale fase.

Il bambino e l’ossitocina sintetica

Il bambino sottoposto a gestione attiva può subire pure la somministrazione di ossitocina sintetica alla madre nel corso della terza fase. Ciò accade più spesso se vengono seguiti i nuovi protocolli che dispongono la somministrazione precoce di ossitocici accompagnata a clampaggio ritardato108.


Carter e colleghi iniettarono una dose singola di ossitocina sintetica in arvicole di ventiquatt’ore, riscontrando disfunzioni dalla condotta sessuale e genitoriale in età adulta. La ricercatrice suggerisce che minime quantità attraverserebbero la placenta umana o, in alternativa, provocherebbero effetti indiretti109. Quindi avverte: “Il presupposto per cui la manipolazione perinatale di ossitocina non comporti conseguenze non ha quasi alcun riscontro scientifico, per quanto la letteratura sugli animali, limitata ma sempre più ampia, suggerisca che si tratterebbe di un’affermazione senza valore”110 (per saperne di più sull’imprinting ormonale si veda al capitolo VI “Nascita indisturbata”).


Come ultima considerazione l’eventualità che, come avverte Edwards, “per quanto rarissimo, può accadere che le iniezioni vengano scambiate”111. Esistono casi documentati in cui farmaci ossitocici sono stati somministrati per sbaglio a neonati al posto della vitamina K112,113.

Conservazione del sangue cordonale

La recente scoperta delle eccezionali proprietà del sangue cordonale, e delle cellule staminali ematopoietiche (produttrici di sangue) in esso contenute, rafforza la necessità di assicurarne l’apporto completo al neonato. Le cellule staminali ematopoietiche neonatali sono uniche in questa fase di sviluppo: esse migrano verso il midollo spinale del bambino appena dopo la nascita, trasformandosi in diversi tipi di cellule ematiche.


La prima raccolta e conservazione pubblica del sangue cordonale neonatale – che di fatto è la trasfusione placentare – è avvenuta nel 1993 negli Stati Uniti114, a beneficio dei bambini in condizioni, quali la leucemia, in cui le terapie mediche (chemioterapia), volte a distruggere le cellule tumorali, distruggono anche il midollo spinale. Il midollo può essere ripopolato con le cellule ematiche del bambino stesso, tratte dal prelievo di midollo osseo prima della terapia (intervento chirurgico) o dal midollo di un donatore compatibile o parente stretto. Quando ciò non fosse possibile la trasfusione di sangue cordonale può offrire una compatibilità meno precisa. La presenza di banche pubbliche costituite da un ampio numero di donatori ha migliorato le probabilità di trapianto allogenico da donatore idoneo per molti bimbi ammalati.


Oggi, nel mondo, sono disponibili banche del sangue cordonale pubbliche e no-profit in almeno ventitré Paesi. Negli Stati Uniti tali banche vendono il sangue cordonale per il trapianto allogenico su riceventi compatibili a 15-20mila dollari, di solito coperti da assicurazione sanitaria115.

Assicurazione biologica?

In molti contesti le banche private del sangue cordonale cercano di convincere i genitori a pagare ingenti somme di denaro (a partire da 1.000-2.000 dollari con un contributo annuo di 100-150 dollari, a quanto si legge su http://parentguidecordblood.org) per la conservazione del sangue dei loro figli come “assicurazione biologica”, sebbene l’eventualità di utilizzarlo sia, di fatto, assai remota.


Si è stimato, per esempio, che le probabilità che un bambino a basso rischio possa aver bisogno del proprio sangue cordonale conservato (trasfusione autologa) siano di 1 su 15-20mila nella migliore delle ipotesi116,117, mentre un’unica donazione di sangue cordonale ha poche probabilità di efficacia nelle terapie oltre l’infanzia a causa del numero troppo limitato di cellule staminali118.


Il sangue cordonale autologo non è idoneo ai bambini che sviluppano la leucemia poiché può contenere mutazioni preleucemiche e non produrrebbe il benefico effetto di “innesto contro leucemia” riconducibile ai trapianti con cellule staminali allogeniche. Per queste ragioni il trapianto di sangue cordonale autologo è associato a un maggior rischio totale di recidiva leucemica119,120. Il sangue cordonale autologo non ha utilizzo clinico neppure per il trattamento dei tumori solidi (quali quelli cerebrali), né guarisce patologie ereditarie quali talassemia e insufficienza midollare121,122.


Secondo una revisione condotta da Michael Sullivan, ricercatore specializzato in oncologia pediatrica, “nella maggioranza dei casi in cui si consiglia il trapianto di cellule staminali autologhe per il trattamento del cancro, esse possono essere prelevate da midollo spinale o sangue periferico prima dell’intervento e, in tal caso, il sangue cordonale autologo non è superiore, da un punto di vista clinico, alle cellule staminali standard prelevate dal midollo osseo”123.


Fino al 2003 sono stati pubblicati solo tre rapporti sulla terapia con trapianto di sangue cordonale autologo conservato in banche private, tra cui uno relativo a una ragazza guarita dalla leucemia nel 2007 dopo trasfusione con sangue cordonale proprio, alla cui storia paiono attingere generosamente le banche private. Tuttavia, a detta degli esperti, la paziente avrebbe avuto, come minimo, gli stessi esiti con la terapia normale basata sul trapianto di midollo osseo124. Un altro caso riguardava un bambino con insufficienza midollare acquisita, per il quale il trattamento con sangue cordonale autologo è riconosciuto come l’unico inequivocabilmente efficace. Tuttavia si tratta di una condizione rarissima (circa 1 caso su 200.000), guaribile – secondo Sullivan – mediante terapia convenzionale in oltre il 70 per cento dei bambini125.


Il Gruppo europeo sull’etica nelle scienze e nelle nuove tecnologie della Commissione Europea riferisce: “indicazioni sulla conservazione del sangue cordonale alla nascita in vista di un futuro trapianto autologo sono, al momento, pressoché inesistenti”126.


La conservazione del sangue cordonale nelle banche private non è raccomandata dall’Accademia Americana di Pediatria, che con la dichiarazione del 2007 consigliava ai membri di “dissuadere dal donare sangue cordonale qualora esso venga conservato in una banca per il futuro utilizzo personale o famigliare, dal momento che molte patologie che dovrebbero essere alleviate attraverso le cellule staminali contenute nel sangue cordonale sono già presenti nel sangue cordonale del bambino”127,128.


Si noti come molti istituti incrementino la propria attività offrendo incentivi finanziari a sostegno dell’assistenza alla maternità (circa 50 dollari) a ogni famiglia che sottoscriva la raccolta del sangue cordonale. L’American College of Obstetricians and Gynecologists (ACOG) sottolinea: “Medici o altri professionisti che reclutino donne incinte o familiari per la conservazione del sangue cordonale a fini di lucro dovrebbero palesare eventuali interessi finanziari o ulteriori potenziali conflitti d’interesse”129.


Le banche del sangue cordonale utilizzano l’emotività di messaggi pubblicitari con scenari improbabili – suggerendo, ad esempio, che il sangue raccolto sarà utile nel caso in cui il bambino sviluppi patologie quali ictus o Alzheimer nella terza età. Tali prospettive incoraggianti sono virtualmente impossibili dal momento che, secondo recenti ricerche, l’impiego del sangue cordonale in tali situazioni è teorico. Ad oggi un’unica donazione di sangue cordonale è insufficiente per le terapie in età adulta, e non vi è prova che esso possa essere conservato per decenni, specie da parte di strutture private che non sono ancora regolarizzate e che potrebbero non rispondere agli standard di conservazione necessari a garantire la duratura vitalità delle cellule staminali130. Le Banche pubbliche riferiscono che è possibile conservare il sangue cordonale per quindici-vent’anni131.


Inoltre è assai probabile che, nei prossimi anni, verranno sviluppate fonti alternative di cellule staminali, e altre terapie: di recente, infatti, sono state rilevate cellule staminali nel latte materno132.

Le conseguenze sul bambino

Sebbene la raccolta del sangue cordonale sia promossa dagli istituti pubblici e da quelli privati in quanto non pericolosa per il bambino, essa comporta il prelievo della trasfusione placentare del neonato e richiede il clampaggio precoce – in teoria entro trenta secondi dalla nascita – per garantire la raccolta di una quantità di cellule staminali adeguata. Il clampaggio ritardato, che consente il trasferimento del sangue al bambino – come abbiamo visto poc’anzi – rischia di determinare un volume insufficiente di sangue raccolto.


In uno studio, ad esempio, il volume di sangue cordonale ottenuto calò da 75 millilitri, raccolti con un clampaggio del cordone entro trenta secondi dalla nascita, a 39 millilitri con clampaggio avvenuto tra i 30 e i 180 secondi. Un volume ridotto implica un numero di cellule staminali insufficiente alla trasfusione133. Le banche del sangue cordonale pubbliche in genere scartano una raccolta inferiore ai 40 millilitri134, con uno scarto totale di un terzo-metà delle donazioni, soprattutto per la scarsità del volume135,136.


Le banche private, pagate dai genitori per la raccolta e la conservazione del sangue dei loro figli, di solito non rifiutano le quantità raccolte, e alcune attuerebbero protocolli per cui accettano volumi inferiori, sebbene ciò non ne garantisca l’utilità.


Alcuni centri raccolgono il sangue placentare residuo dopo il secondamento, per quanto in genere la quantità sia inferiore a quella ottenuta direttamente dal cordone appena dopo la nascita, e nonostante che una raccolta sufficiente continui ad implicare il clampaggio precoce137. La raccolta placentare implica altresì una maggior probabilità di contaminazione.


Una raccolta di sangue cordonale pari a 100 millilitri da un bambino a termine (quasi un terzo dei 350 millilitri medi del volume ematico di un neonato) equivale alla perdita, da adulti, di 1,7 litri di sangue, o di tre-quattro volte il volume di una tipica donazione di sangue adulto.


L’Accademia Americana di Pediatria afferma:


Se si procede troppo presto al clampaggio dopo la nascita il bambino rischia di essere privato della trasfusione del sangue placentare, il che comporta un minor volume sanguigno e un maggior rischio di anemia nel corso della vita… Forse si è tentati di procedere in modo aggressivo al clampaggio immediato del cordone per aumentare il volume del sangue cordonale eventualmente raccolto per le banche del sangue cordonale. Si tratta di una pratica non etica che dovrebbe essere scoraggiata.138


Gli esperti hanno poi espresso preoccupazioni per le conseguenze legate alla perdita delle cellule staminali ematopoietiche139, suggerendo che “l’ottenimento di sangue cordonale per il futuro trapianto autologo di cellule staminali richiede il clampaggio precoce, e sembra in conflitto con l’interesse del bambino”140.


I ricercatori hanno scoperto altri elementi ed effetti benefici del sangue cordonale, che ne sottolineano ulteriormente il valore per il neonato. Tra questi le neurotrofine che proteggono le cellule cerebrali dalla morte per mancanza di ossigeno141 e che contribuiscono a riparare le aree cerebrali danneggiate142; le cellule progenitrici epiteliali che riparano i tessuti lesi e generano nuovi vasi sanguigni143; la stimolazione, da parte delle cellule staminali, del fattore di crescita dell’endotelio vascolare (VEGF) che protegge e ripara le cellule cerebrali144; infine la formazione di cellule gliali e astrociti a partire dalle cellule staminali145, che riparano le lesioni alla materia bianca del cervello e possono proteggere dalla paralisi cerebrale. Le cellule staminali neonatali svolgerebbero, in più, una generale azione benefica sulla cicatrizzazione dei tessuti danneggiati146.


Ironico come di recente si sia indicato il sangue cordonale come terapia per l’autismo147, condizione che alcuni esperti ritengono, almeno in parte, imputabile al clampaggio precoce richiesto per la raccolta del sangue cordonale148.

Visione internazionale sulla conservazione del sangue cordonale

Le banche private, e a fini di lucro, per la conservazione del sangue cordonale sono presenti in gran parte dei Paesi europei, con un “giro d’affari basato sulla speranza”149 che si diffonde a livello mondiale dalle regioni più evolute a quelle in via di sviluppo150.


Il Gruppo europeo sull’etica nelle scienze e nelle nuove tecnologie, tuttavia, afferma: “Si dovrebbe mettere in dubbio la legittimità delle banche del sangue cordonale a uso autologo poiché vendono un servizio che, a tutt’oggi, non ha utilizzo effettivo tra le scelte terapeutiche… L’attività di tali banche suscita gravi critiche di ordine etico”151. Il Comitato europeo per la salute del Consiglio d’Europa raccomanda che le banche del sangue cordonale private non ricevano il sostegno degli Stati membri, né dei loro servizi sanitari.


In modo analogo il Royal College of Obstetricians and Gynaecologists del Regno Unito “non è convinto dei benefici legati alla conservazione del sangue cordonale presso banche private da parte di famiglie che non abbiano chiare motivazioni di ordine medico”152 e sottolinea “La raccolta del sangue cordonale rischia di compromettere la salute della madre o del bambino”153.


La FIGO - Federazione Internazionale Ginecologia e Ostetricia, Comitato per gli aspetti etici della riproduzione umana e della salute delle donne, nel 1998 giunse alla seguente conclusione:


Ad oggi le informazioni ricevute dalle madri a cui viene richiesto il consenso (alla raccolta del sangue del cordone ombelicale) consistono nell’affermare che il sangue placentare non ha più alcuna utilità per il bambino, e che tale “sangue di scarto” servirebbe a salvare la vita a un altro individuo. Si tratta di informazioni insufficienti che impediscono il consenso informato. Il clampaggio precoce del cordone ombelicale dopo un parto vaginale rischia di privare il neonato di almeno un terzo del normale volume sanguigno in circolo, provocando inoltre un disturbo emodinamico. Questi elementi possono tradursi in grave morbilità [patologie]. Per un consenso informato sarebbe necessario descrivere i danni provocati dal clampaggio precoce del cordone e rassicurare la madre che la raccolta del sangue cordonale non comporterà il clampaggio precoce. In sintesi il consenso alla raccolta del sangue cordonale per la sua conservazione non dovrebbe comportare il clampaggio del cordone prima di 20-30 secondi dopo la nascita del bambino.154


Riassumendo, la conservazione del sangue cordonale comporta il prelievo di una cospicua quantità di sangue alla nascita (necessaria a una transizione ottimale e alle riserve di ferro) e una spesa di migliaia di dollari per il suo stoccaggio, con eventualità assai remote di utilizzo da parte del bambino o della famiglia. Forse la conservazione del sangue cordonale in banche pubbliche trova maggior giustificazione, tuttavia in entrambi i casi si ha la perdita di circa un terzo del volume ematico del bambino, con – come spiegato in precedenza – conseguenze negative che perdurerebbero durante l’infanzia. Secondo le conclusioni di Diaz-Rossello “Tutte le evidenze dimostrano che la miglior banca per quel sangue è il bambino”155.

La gestione attiva per la madre

La gestione attiva (farmaci ossitocici, clampaggio precoce e trazione controllata del cordone) costituisce un’ulteriore tappa dell’interferenza sulla terza fase, iniziata alla metà del XVII secolo, quando assistenti maschi al parto confinorano le donne a letto e venne introdotto il clampaggio del cordone ombelicale per risparmiare le lenzuola156.


La trazione del cordone ombelicale fu consigliata per la prima volta dal francese Maureceau nel 1673, per timore che l’utero si richiudesse prima dell’espulsione spontanea della placenta157. In effetti la posizione orizzontale della donna stesa a letto, sempre più adottata con l’assistenza medica, comportava una minor probabilità di espulsione spontanea della placenta. La posizione verticale, utilizzata tradizionalmente dalle donne e dalle ostetriche, spinge la placenta a uscire grazie alla gravità.


Il primo ossitocico ad essere impiegato in medicina fu l’ergot, estratto da un’infezione fungina della segale. Esso veniva utilizzato nel XVII e XVIII secolo dalle levatrici europee, in maniera tuttavia limitata per via della sua tossicità. Negli anni Trenta venne raffinato in forma di ergonovina (ergometrina) e sul finire degli anni Quaranta alcuni medici lo utilizzavano in via preventiva, oltre che terapeutica, per le emorragie postparto158.


Possibili effetti collaterali imputabili ai derivati dell’ergot comprendono un rialzo della pressione sanguigna, nausea, vomito, emicrania, palpitazioni, emorragia cerebrale, arresto cardiaco, convulsioni, fino alla morte. Essi non dovrebbero essere somministrati a donne già sofferenti di ipertesione.


I derivati dell’ergot avrebbero poi ulteriori effetti collaterali, tra cui la soppressione della prolattina, ormone della sintesi del latte materno. Secondo Jordan “le ostetriche dovrebbero tener presente che la sintometrina [che combina l’ergonovina/ergometrina con l’ossitocina/Sintocina] potrebbe avere conseguenze negative sull’allattamento”159. Notare che anche il farmaco soppressore della lattazione bromocriptina è un derivato dell’ergot160.


È un parere sostenuto dai risultati di uno studio clinico randomizzato, condotto in Irlanda, in cui si metteva a confronto la gestione attiva con utilizzo di ergometrina/ergonovina e la gestione fisiologica. Sebbene i livelli di prolattina in seconda giornata fossero analoghi per entrambi i gruppi, un numero consistente di donne a cui era stata somministrata ergonovina/ ergometrina aveva interrotto l’allattamento al termine della prima settimana. Gran parte delle madri che avevano smesso prima delle sei settimane portavano come motivazione “il bambino affamato/l’insufficienza di latte”.161,162,163


Secondo Hale, il derivato dell’ergot metilergonovina (metilergometrina, metilergonovina meleato, MEM, Metergina) non produrrebbe lo stesso effetto164, per quanto uno studio precedente evidenziò livelli di prolattina inferiori appena dopo la somministrazione in terza fase165, mentre un’altra ricerca rilevò che la somministrazione quotidiana e postnatale del farmaco aveva ripercussioni negative sulla lattazione e sulla produzione di latte166.


La scarsità di ricerche sugli effetti dei farmaci della terza fase sulla lattazione è sconcertante, data la preoccupazione suscitata dai derivati dell’ergot e il fatto che l’ossitocina sia anche uno dei principali ormoni dell’allattamento. Anche le più importanti revisioni sui farmaci impiegati nella gestione della terza fase hanno omesso questo dato significativo.167,168,169


L’ossitocina sintetica, nel suo utilizzo nella terza fase, riproduce gli effetti dell’ossitocina naturale sull’utero. Fu messa in commercio per la prima volta negli anni Cinquanta e ha ampiamente sostituito l’ergometrina/ ergonovina nella terza fase, sebbene nel Regno Unito la combinazione sintometrina trovi largo impiego. Il Syntocinon provoca l’aumento dell’intensità delle contrazioni, mentre l’ergonovina determina contrazioni frequenti e ad alta pressione, definite da Dunn “fibrillazioni uterine”170, che aumenterebbero il rischio di incastrare la placenta. L’ergonovina/ergometrina inter-ferirebbe persino con il processo di separazione placentare, con un maggior rischio di separazione parziale171.


Di recente si sono svolte ricerche anche sul misoprostolo, una prostaglandina sintetica, e il suo utilizzo nella terza fase. Essendo economico e assumibile per bocca, esso risulta appetibile in contesti in cui si dispone di scarsi mezzi. Le evidenze scientifiche suggeriscono che esso ha minor efficacia profilattica, con maggiori effetti collaterali quali nausea, vomito, diarrea, febbre e tremore172. Tuttavia può risultare un utile farmaco nel trattamento d’urgenza dell’EPP, e, rispetto ai derivati dell’ergot, minori quantità del farmaco passano nel latte materno173. Prima di raccomandarne l’ampio utilizzo, sono necessarie ulteriori ricerche.

Studi clinici sulla gestione attiva

La gestione attiva è stata definita dalla britannica e influente Cochrane Collaboration “la gestione di routine scelta dalle donne in attesa di un singolo bambino con parto vaginale in ospedale”174, soprattutto in ragione dei risultati dello studio clinico Hinchingbrooke175 del 1998 che metteva a confronto la gestione attiva con quella di attesa (non attiva, o fisiologica).


Nello studio, che prendeva in esame 1.500 donne a basso rischio di emorragie, la gestione attiva era associata a un tasso di emorragia post partum (perdita di sangue superiore ai 500 millilitri) del 6,8 per cento, rispetto al 16,5 per cento della gestione di attesa. Le percentuali relative a emorragie gravi (perdite di sangue superiori ai 1000 millilitri) risultavano contenute in entrambi i gruppi: 1,7 per cento per la gestione attiva, 2,6 per cento per quella di attesa.


Gli autori sottolineano come, sulla base di tali cifre, occorre che dieci donne siano sottoposte a gestione attiva per prevenire una sola EPP, e commentano:


Alcune donne… registrerebbero un rischio personale minimo di EPP di scarso valore se confrontato con un intervento in un travaglio altrimenti normale, mentre altre desidererebbero adottare tutte le misure volte a ridurre il rischio di EPP.176


Dalla lettura di questo documento ci si deve chiedere come mai quasi una donna su sei perda sangue dopo una gestione fisiologica, e se uno o più elementi delle pratiche ostetriche occidentali possano, di fatto, aumentare il tasso di emorragie.


Botha, che in oltre dieci anni ha prestato assistenza a più di ventiseimila donne Bantu, riferisce: “Si assisteva di rado a una ritenzione di placenta… Non si è mai resa necessaria alcuna trasfusione di sangue per emorragia post partum.”177 Le donne Bantu partoriscono bambino e placenta accucciate, e il cordone ombelicale non viene toccato fintanto che la placenta non viene espulsa grazie alla gravità.

La madre e l’emorragia post partum

Alcune evidenze suggeriscono che il clampaggio del cordone, pratica non in uso nelle culture tradizionali (né presso altri mammiferi), contribuisca sia all’EPP, sia alla ritenzione della placenta per via del sangue trattenuto all’interno di quest’ultima. Ciò aumenta le dimensioni placentari per cui l’utero non è in grado di contrarsi (e decontrarsi) in maniera efficace, il che comporta una maggior perdita ematica178.


Una recente revisione della Cochrane Collaboration ha preso in esame il drenaggio del sangue cordonale (ossia clampaggio e recisione del cordone e drenaggio materno al fine di ridurre le dimensioni della placenta). I revisori scoprirono che tale pratica riduceva la durata della terza fase, caldeggiando ulteriori ricerche179.


Altre pratiche occidentali che contribuirebbero all’EPP sono l’uso di ossitocina per l’induzione e l’accelerazione del travaglio180,181,182,183, l’analgesia epidurale184,185,186,187, l’episiotomia, il trauma perineale, il ricorso al forcipe, il cesareo e i cesarei precedenti, che aumentano il rischio di problemi placentari quali distacco di placenta e placenta previa.188,189,190


L’epidurale aumenta l’eventualità di una seconda fase prolungata e dell’utilizzo del forcipe, oltre a ridurre il picco ossitocinico al momento del parto191, il che aumenterebbe il rischio di EPP. È stato dimostrato che l’uso prolungato di ossitocina durante il travaglio (per l’induzione o l’accelerazione) desensibilizza l’utero della madre agli effetti dell’ossitocina, riducendo il numero di recettori dell’ossitocina materni192.


Come si è già notato, le pratiche occidentali non facilitano la produzione di ossitocina nella madre, né sono volte alla riduzione dei livelli di catecolamine nei minuti successivi al parto, aspetti entrambi auspicabili per migliorare in maniera fisiologica le contrazioni della neomamma, riducendone così le perdite ematiche. La pratica routinaria di separare madre e figlio priva la donna di un’occasione decisiva per incrementare il rilascio di ossitocina naturale193. Kennell e McGrath sottolineano: “Prima dell’avvento di farmaci quali la ossitocina, il tocco del neonato era, forse, cruciale per la sopravvivenza della madre, aumentando i livelli di ossitocina e determinando contrazioni uterine forti e continue che prevenivano emorragie letali”194.


Gli studi clinici sulla gestione attiva non hanno tenuto conto di questi determinanti elementi fisiologici. Nello studio Hinchingbrooke, per esempio, solo all’8 per cento delle donne sottoposte a gestione fisiologica e all’1,7 per cento di quelle sottoposte a gestione attiva veniva portato il figlio al seno nei primi dieci minuti dal parto, passando rispettivamente al 57 e al 63 per cento nelle due ore successive195.


Interessante anche notare la scoperta, da parte di Logue, di una significativa differenza nei tassi di EPP forniti dagli operatori196. Nella struttura ospedaliera presa in esame, le percentuali di emorragie post partum andavano dall’1 al 16 per cento per le ostetriche, dall’1 al 31 per cento per le amministrazioni. Logue sottolinea che dottori e ostetriche considerati “dalla mano pesante” detenessero tassi parecchio maggiori.

Clampaggio precoce ed emorragia materno-fetale

Il clampaggio del cordone può comportare ulteriori conseguenze negative. Se avviene immediatamente, esso blocca la trasfusione placentare – circa cento millilitri di sangue – nella placenta che, in seguito, viene compressa dall’utero materno con le contrazioni della terza fase. Con tale aumento di volume persino la pressione di una normale contrazione spingerebbe una cospicua quantità di sangue placentare attraverso la barriera che, in genere, divide il sangue della madre da quello fetale, finendo nel circolo materno197,198. Questo fenomeno è denominato emorragia maternofetale (FMH).


Un FMH immette quindi il sangue del feto, immunologicamente diverso da quello materno, nel circolo sanguigno della madre, dove il sistema immunitario rischia di riconoscerlo come estraneo, costituendo anticorpi che lo distruggano. Ciò avviene quando una madre con fattore Rh negativo – il cui sangue cioè non presenti fattore rhesus D (RhD) – è esposta, attraverso un’emorragia materno-fetale, al sangue Rh positivo (contenente il fattore RhD) del bambino. In questo caso può accadere che la madre produca anticorpi contro il fattore RhD (sensibilizzazione). Esistono molti altri fattori ematici meno diffusi che rischiano, in seguito a FMH, di scatenare sensibilizzazione.


Se l’emorragia materno-fetale ha luogo durante la terza fase non nuocerà al bambino. Tuttavia tali anticorpi possono venir riattivati in una successiva gravidanza con un feto Rh positivo, passando attraverso la placenta e distruggendo le cellule ematiche del bambino (rivestite dal fattore RhD), provocando anemia o addirittura la morte.


Le reazioni più gravi tra madre RhD negativa e figlio RhD positivo possono essere prevenute in maniera assai efficace grazie all’uso di routine, dopo il parto, di prodotti anti-D quali il Rhogam. Essendo, tuttavia, prodotti derivati del sangue, essi comportano un rischio di trasmissione di infezioni ematiche sconosciute.


Tutti gli elementi della gestione attiva possono aumentare il rischio di FMH. Il ricorso a ossitocici, sia in travaglio sia nella terza fase, è stato ricollegato a un maggior rischio di emorragia materno-fetale e a disturbi dovuti a incompatibilità del gruppo sanguigno199,200, poiché la maggior forza delle contrazioni uterine può provocare microfratture nella barriera placentare201. Alcuni casi recenti hanno evidenziato la presenza di FMH dopo essersi sottoposte al test di stimolazione con l’ossitocina in gravidanza202 (che rischia di provocare danni significativi al feto) e a induzione con ossitocina203.


Anche il clampaggio precoce, aumentando le dimensioni della placenta, contribuisce all’FMH. Uno dei primi studi condotti da Dunn rivelò l’aumento della pressione placentare in seguito a clampaggio precoce, ulteriormente aggravato dalla somministrazione di ergometrina (ergonovina), che determinava la rottura di vasi sanguigni placentari visibili204. Un recente studio clinico randomizzato sul “drenaggio placentare” con cesareo osservò un numero minore di FMH, misurando le cellule fetali presenti nel circolo materno, tra le madri la cui placenta era stata sottoposta a drenaggio205, fenomeno che risulterebbe probabile anche qualora si lasciasse “drenare” la placenta nel bambino.


È stato dimostrato che la trazione del cordone lede i delicati vasi sanguigni placentari, aumentando il rischio di FMH206.


È quindi probabile che evitare di ricorrere alla gestione attiva riduca il rischio di FMH e di sensibilizzazione all’RhD e ad altri elementi ematici. La sensibilizzazione all’RhD risulta poi meno probabile nel caso in cui la madre e il bambino si rivelino incompatibili nei gruppi sanguigni AB 0207 (ad esempio madre 0, bambino A, B o AB; madre A, bambino B; madre B, bambino A) poiché la madre ha prodotto anticorpi per cui il suo sistema immunitario distruggerà tutte le cellule fetali che entrino nel suo circolo. Tuttavia, può sussistere un rischio moderato di emorragia materno-fetale (forse intorno al 10 per cento208) persino in circostanze ideali. Per approfondire si consulti l’ottimo testo di Sara Wickham209,210. Si noti come la prevenzione dell’FMH al momento del parto sia stata poco studiata in ragione del largo utilizzo degli anti-D dopo la nascita.


La trazione del cordone comporta ulteriori rischi potenziali. A distacco di placenta non ancora avvenuto, la trazione violenta può strappare il cordone, rendendo più difficile l’espulsione della placenta e più probabile il ricorso alla chirurgia per l’estrazione. Si tratta di una procedura dolorosa per la neomamma che, seppur di rado, rischia di produrre una inversione dell’utero con un violento shock per la madre.


L’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS), nella pubblicazione del 1996 Care in Normal Birth: A Practical Guide, prende in considerazione i rischi menzionati, concludendo:


In una popolazione sana (come nel caso della maggioranza dei Paesi sviluppati), una perdita di sangue post parto fino a 1.000 ml sarebbe da considerarsi fisiologica, senza richiedere trattamenti diversi da quelli con ossitocici…211


Riguardo il ricorso di routine a ossitocici e alla trazione controllata del cordone, l’OMS avverte:


Le raccomandazioni di una tale politica implicherebbero che i benefici di una gestione come questa bilancino, o persino superino, i rischi, tra cui quelli, rari ma gravi, che potrebbero manifestarsi in futuro.212

Recente evoluzione del concetto di terza fase

Negli ultimi anni si è assistito a una gradita evoluzione del concetto e della pratica della terza fase. Alcuni autori statunitensi tra cui Morley213 e Mercer214,215 hanno pubblicato documenti che hanno contribuito ad approfondire la nostra conoscenza della fisiologia neonatale durante la terza fase, oltre ai rischi corsi dal bambino con il clampaggio precoce.


Nel Regno Unito la Cochrane Collaboration ha riesaminato la letteratura sugli esiti materni e neonatali rispetto al momento in cui viene praticato il clampaggio del cordone ombelicale, giungendo alla conclusione che il clampaggio ritardato favorisce le scorte di ferro del neonato, senza rilevanti differenze statistiche, secondo tale revisione, nella percentuale di ittero, tranne un rischio appena superiore di ittero da trattare con fototerapia nei bambini che hanno subìto il clampaggio ritardato (5 per cento contro il 3 per cento dei piccoli sottoposti a clampaggio precoce)216.


Questo dato è discutibile, basandosi sostanzialmente su due studi, di cui uno contava, nel gruppo delle madri che avevano subito il clampaggio ritardato del cordone, il doppio delle donne sottoposte a ossitocina, il che è probabile che determini un aumento dell’ittero nei loro figli217. Il secondo studio, non essendo stato pubblicato, è di più difficile valutazione; tuttavia non trovò di per sé un numero nettamente maggiore di bambini sottoposti a clampaggio ritardato che necessitassero di fototerapia per l’ittero.


Riguardo i bambini prematuri, i revisori della Cochrane si pronunciano in modo inequivocabile: “Ritardare il clampaggio del cordone dai 30 ai 120 secondi, invece di procedere al clampaggio precoce, pare essere ricollegabile a un minor ricorso a trasfusioni e a un minori emorragie intraventricolari”218.


Anche la Canadian Pediatric Society ha raccomandato il clampaggio ritardato del cordone nei bambini prematuri per ridurre la necessità di trasfusioni di sangue219.


Pareri e ricerche su clampaggio precoce in alternativa a quello ritardato nei neonati a termine, pubblicati di recente sulle principali testate giornalistiche, si sono anch’essi schierati a favore della seconda opzione. Le revisione sistematica e meta-analisi di Hutton e Hassan, sul “Journal of the American Medical Association” (JAMA) 2007, concludeva che “Il clampaggio del cordone ritardato di minimo due minuti dopo la nascita reca beneficio al bambino, per tutta l’infanzia”220. Nel 2007, sul “British Medical Journal” (BMJ), Weeks afferma: “Oggi sono disponibili numerose evidenze per cui il clampaggio precoce del cordone non reca beneficio né alla madre né al bambino, ma sarebbe addirittura nocivo”, consigliando un ritardo di tre minuti con il neonato posto sull’addome della madre221.


Sull’influente rivista statunitense “Journal of Perinatal Medicine”, Levy e Bliskstein commentano: “il bilancio dei dati disponibili suggerisce che il clampaggio ritardato del cordone dovrebbe essere il metodo di elezione”222.


È altresì incoraggiante leggere la recente dichiarazione congiunta dell’International Confederation of Midwives (ICM) e della Federazione Internazionale di Ginecologia e Ostetricia (FIGO) che fa parte del progetto Safe Motherhood223. In esso si sostiene la gestione attiva di routine, tuttavia – un grosso cambiamento per l’ICM e la FIGO – oggi vi si raccomanda che il cordone del bambino non venga tagliato prima che abbia cessato di pulsare.

La scelta di una terza fase naturale

La scelta da parte della donna di rinunciare all’ossitocina preventiva, di procedere al clampaggio ritardato (se non a evitarlo del tutto) e di espellere la placenta con le proprie forze richiede preparazione, impegno e la selezione di assistenti al parto esperti e a proprio agio con questo tipo di pratiche.


Una terza fase naturale va, tuttavia, ben oltre. Dobbiamo garantire il rispetto dei processi emotivi e ormonali sia della madre, sia del bambino, tenendo a mente l’unicità e criticità di questo momento. Odent sottolinea l’importanza di non interrompere, neppure a parole, avvertendo che la neomamma, al primo incontro con il proprio bambino, dovrebbe sentirsi inosservata e senza inibizioni224.


Tale livello di assenza di interferenze richiede competenza, esperienza e sicurezza, oltre al sostegno di guide e delle istituzioni. Tuttavia, come sostengo io, per una terza fase naturale e sicura è fondamentale prestare attenzione a questi elementi non medici.


La nascita lotus [lotus birth], in cui la placenta resta attaccata al bambino fintanto che il cordone non si stacchi naturalmente nel giro di qualche giorno, rappresenta un’ulteriore opportunità di “calmare le acque” dopo il parto225, garantendo ai nostri figli tutto il vantaggio metafisico, oltre che fisico, del contatto prolungato con la placenta. Al pari di una brava levatrice, la nascita lotus isola madre e figlio nel corso delle prime ore e dei primi giorni, assicurando loro riposo e limitando al minimo le visite226 (per saperne di più sulla nascita lotus leggi il brano “La placenta di Jacob”, al termine del capitolo).


La terza fase rappresenta il primo incontro tra madre e figlio, che lascia un segno straordinario nella loro relazione. Quando essi sono entrambi tranquilli e non sotto l’effetto di farmaci, del tutto vigili e presenti, vengono risvegliate nuove capacità d’amore e di fiducia per la madre, il bambino, la famiglia e il loro mondo.

Suggerimenti per una terza fase naturale

Per la madre
  • Scegliere assistenti che abbiano competenza, fiducia e sicurezza nel gestire i naturali processi del parto e della terza fase.

  • Vivere un parto indisturbato (vedi capitolo VI “Suggerimenti, rivolti alla donna e a chi l’assiste, per un parto indisturbato”).

  • Assicurarsi che, appena dopo il parto, la stanza sia ben calda (addirittura surriscaldata).

  • Fare in modo che chi presta assistenza segua le seguenti istruzioni.

Per chi presta assistenza
  • Fare in modo che gli strumenti per la rianimazione siano nelle vicinanze della madre appena dopo il parto.

  • Ritardare il clampaggio del cordone preferibilmente fino a che la madre non abbia espulso la placenta, o anche oltre. Se ciò non fosse possibile, attendere uno dei seguenti, in ordine di beneficio crescente:

    • il neonato abbia preso a respirare;

    • siano trascorsi almeno trenta secondi dalla nascita;

    • siano trascorsi circa tre minuti dalla nascita;

    • il cordone abbia smesso di pulsare.

  • Non clampare il cordone se, dopo il parto, il bambino non respira o risulta “senza tono”. Il neonato ha bisogno della trasfusione placentare che può fornirgli, per alcuni minuti, l’ossigeno necessario a proteggerne il cervello e gli altri apparati. È quasi sempre possibile rianimare il neonato sulla coscia della madre a cordone integro.

  • Favorire il contatto pelle a pelle ininterrotto tra madre e figlio, preferibilmente per tutta la prima ora dopo il parto. Durante questo intervallo un neonato che non sia stato esposto a farmaci è in grado di trovare il capezzolo materno e di attaccarvisi.

  • Concedere alla madre almeno da mezz’ora a un’ora di tempo per espellere la placenta. Se non vi sono perdite ematiche non è rischioso attendere oltre.

  • Consentire alla madre di espellere la placenta da sola, accovacciandosi, tossendo oppure, se necessario, soffiando nel collo di una bottiglia.

  • In caso di necessità, e se non si corrono rischi, è consigliabile somministrare ossitocici dopo l’espulsione della placenta.

  • Se lo si desidera è possibile recidere il cordone dopo l’espulsione della placenta. In questa fase il clampaggio è, probabilmente, inutile. Prima di decidere in tal senso è bene che i genitori osservino come reagisce il neonato alla manipolazione del cordone.

  • Nel caso in cui si rendesse necessario un cesareo, appena dopo il parto tenere il corpo del bambino allo stesso livello dell’utero materno, o appena al di sotto, senza clampare il cordone. A quel punto è possibile occuparsi del bambino e della placenta ad esso ancora attaccata al medesimo livello (il petto della madre, il carrello di rianimazione) fintanto che non siano terminate le pulsazioni. Sostenere il contatto pelle a pelle tra madre e bambino (per maggiori informazioni andare al capitolo successivo).


La placenta di jacob: una storia d'amore

Nella nostra cultura la placenta viene definita secondina e considerata un prodotto di scarto. Tuttavia essa espleta una miriade di funzioni fondamentali per lo sviluppo del bambino, tanto che in altre culture viene rispettata - e persino venerata. Questo racconto approfondisce il ruolo e il contesto di questo organo straordinario durante la gravidanza e il parto, attraverso la storia prenatale del mio terzo figlio, Jacob.


Il concepimento di Jacob fu inatteso e a noi ignoto per diverse settimane. Eravamo stati in vacanza in Tasmania, isoletta a sud dell’Australia, e sul traghetto di ritorno con noi non c’erano solo Emma (quattro anni) e Zoe (un anno), ma anche il loro futuro fratellino, un piccolo grumo di cellule di appena una settimana dal concepimento. Mentre dormicchiavo in cuccetta, la blastocisti di Jacob, simile a una minuscola mora di 2 millimetri di diametro, era già rotolata lungo le tube di Falloppio, intenta a scavare nella parete, spessa e scura, del mio ventre.


Nelle due settimane successive, il futuro Jacob trasse nutrimento direttamente dalla ricchezza di questo rivestimento, senza che io ne fossi consapevole. Sarà stato quieto, ma non quiescente: proprio in quel momento determinante le cellule di Jacob presero a specializzarsi, iniziando a creare la placenta. Nelle profondità di quella morula alcune cellule si raggrupparono a formare un ammasso cellulare interno che, più tardi, sarebbe diventato il corpo di Jacob, il suo cordone ombelicale e il sacco amniotico. Altre cellule migrarono verso l’alto a costituire il trofoblasto circostante, che si sarebbe trasformato nella placenta di Jacob.


Appena creato, il trofoblasto prese a infiltrarsi più in profondità nel mio ventre, rilasciando enzimi che dissolvessero le cellule uterine e i vasi sanguigni. In questo modo Jacob fece del mio sangue laghi - le lacune placentari - per il proprio sostentamento. Proprio mentre attribuivo il mio ritardo all’intenso allattamento di Zoe durante la vacanza, i villi di Jacob - protuberanze simili a dita che partivano dalla placenta in formazione, ognuno dei quali conteneva un vaso sanguigno appena nato - crescevano e si immergevano nelle lacune, il nostro flusso sanguigno diviso dalla più sottile e permeabile delle membrane.


Attraverso di essa avrei fornito, per il resto della gravidanza, tutti i nutrienti e i fattori di crescita di cui Jacob avrebbe avuto bisogno, riportando a me i suoi scarti. Ancora, questa membrana avrebbe evitato che le nostre cellule ematiche si mischiassero, e che il mio sistema immunitario rifiutasse Jacob come invasore esterno.


Oltre a ciò i villi di mio figlio stavano ancorando la placenta, simili a radici piantate nel solido terreno del giardino del mio ventre, mentre il gambo del suo corpo - il tessuto che più tardi sarebbe diventato il cordone ombelicale - manteneva la sua essenza di embrione in vita e attaccato alla placenta, come la corda a cui si aggrappa l’astronauta in orbita. In quel momento, il corpo di Jacob aveva le dimensioni di un piccolo fagiolo con il primo abbozzo degli arti - le future braccia e gambe.


La placenta in via di maturazione aveva un ulteriore compito, precoce e fondamentale: la produzione degli ormoni placentari, che rivelarono la presenza di Jacob. Sotto l’influsso della gonadotropina corionica umana (HCG), prodotta in quantità crescenti dalla placenta pochi giorni dopo l’impianto, presi ad avvertire una certa nausea. Infine mi resi conto di essere incinta quando la nausea iniziò a cogliermi nel cuore della notte. L’HCG fu pure l’ormone che fece sì che, il giorno dopo, il test di gravidanza desse risultato positivo.


Nelle settimane appena successive avvertii malesseri mattutini intensi e quotidiani. Sarei forse stata più tollerante se avessi saputo che quel cambiamento, che mi tenne lontana dai cibi speziati e amari, così come da tè e caffè, era di fatto imputabile agli ormoni della placenta di Jacob che agivano per proteggerlo dai livelli elevati di tossine naturali contenute in quegli alimenti. Poi, la maggior sensibilità olfattiva - ulteriore stimolante della nausea - garantiva che io mangiassi solo i cibi più freschi, evitando gli aromi pungenti e gli odori della cottura, anch’essi contenenti eventuali tossine inalabili. La nausea iniziò a diminuire con il passaggio di Jacob oltre lo stadio embrionale (all’incirca otto settimane dopo il concepimento), per scomparire quasi del tutto intorno al quarto mese di gravidanza, quando gli apparati erano sostanzialmente completi e, quindi, meno esposti ai danni da intossicazione227.


Il traguardo dei due mesi (equivalente a dieci settimane dall’ultima mestruazione) segnò, per Jacob, l’inizio della vita da feto. Allora il suo corpo aveva raggiungo i quattro-cinque centimetri di lunghezza e, grazie al nutrimento fornito dalla placenta, il peso era salito a onorevoli quattro grammi, 220.000 volte il peso al momento del concepimento228. Il trofoblasto che, in origine, lo circondava adesso aveva formato, da un lato, una placenta quasi matura, e, dall’altro, una bolla protettiva - il chorion - che alla fine avrebbe costituito una parte dei due strati delle membrane di Jacob.


Nei successivi due mesi la placenta crebbe e si espanse. Verso la metà della gravidanza essa copriva circa metà della parete uterina, ed era più pesante del corpo di Jacob. Più avanti lui sarebbe cresciuto di più, tanto che alla nascita la placenta avrebbe avuto circa un sesto del peso del suo corpo. La versatile placenta di Jacob era pure in grado di spostarsi nel corso della gravidanza, muovendosi lentamente verso la miglior fonte di sangue, lontano da quelle scarseggianti (si ritiene che tale meccanismo, noto come trofotropismo, spieghi molte irregolarità nella forma e nella struttura della placenta, così come il benefico spostamento verso l’alto di gran parte delle placente situate in basso - placenta previa - a inizio gravidanza229). Per quanto esterna al suo corpo, la placenta costituiva l’organo principale di Jacob, deputato a tutte le funzioni che l’intestino, i polmoni, il sistema immunitario, i reni, il fegato e la pelle - immaturi - non erano in grado di svolgere all’interno del mio ventre.


Facendo le veci dell’intestino, la placenta permetteva a Jacob di estrarre tutto il nutrimento di cui aveva bisogno dal mio sangue, nell’esatta quantità - e gli ormoni placentari sapevano garantire che vi fosse disponibilità di quanto necessario. Se, ad esempio, l’apporto di sangue era insufficiente al suo fabbisogno, lui sapeva, producendo gli ormoni giusti, ordinare al mio organismo di aumentare la pressione sanguigna, facendo aumentare il quantitativo di sangue da inviare alla placenta. In modo analogo se Jacob aveva bisogno di più glucosio, sapeva come richiederne - e, come effetto collaterale dell’aumento della mia glicemia, avrei finito per ricevere una diagnosi di diabete gestazionale230. La placenta di Jacob - così come quella di ogni bambino - era difensore indefesso della sua salute e del suo benessere231.


Con i polmoni pieni di liquido amniotico, senza accesso all’aria, Jacob non poteva ovviamente respirare all’interno del mio ventre, e tuttavia era in grado di ottenere tutto l’ossigeno di cui necessitava attraverso il mio sangue ossigenato, che gli giungeva tramite la placenta. Insieme al mio ossigeno, Jacob assumeva pure qualsiasi tossina io inalassi nel circolo sanguigno, gran parte delle quali venivano convogliate attraverso la placenta con la stessa efficienza usata per i nutrienti presenti nel mio sangue. Le mie nausee precoci lo avevano protetto ancora una volta, rendendomi refrattaria all’aria inquinata e facendomi desiderare con forza aria fresca e pulita. Più avanti con la gravidanza, quando decidemmo di togliere i tappeti in camera - la nostra versione di nidificazione - mantenemmo fresca l’aria per Jacob scegliendo una cera per il pavimento che non producesse esalazioni tossiche.


Il forte attaccamento di Jacob a me - il più forte che possa mai verificarsi nel corso dell’esistenza - presentava difficoltà che la placenta era in grado, almeno in parte, di risolvere. Se un qualsiasi batterio avesse invaso il mio organismo di gestante, trovando accesso alla mia circolazione sanguigna, essa avrebbe saputo, in qualche misura, filtrarlo ed espellerlo. Particelle più piccole, quali quelle della toxoplasmosi e virus come quello della rosolia e dell’herpes, tutti potenzialmente pericolosi per Jacob a causa dell’immaturità del suo sistema immunitario - avrebbero avuto più probabilità di infiltrarsi attraverso la barriera placentare. Per fortuna la placenta di Jacob consentiva altresì l’accesso ad alcuni dei miei anticorpi, fornendogli una pronta immunità contro quasi tutte le patologie da me incontrate nel corso della vita.


La placenta di mio figlio non era neppure in grado di filtrare farmaci e altre sostanze chimiche, tanto che tutto ciò che veniva somministrato a me veniva somministrato pure a lui. Fortunatamente per entrambi non ebbi una gravidanza, né un parto, complicati, evitando al mio bambino la prescrizione di medicinali o analgesici di sorta. Tuttavia è assai probabile che le sostanze chimiche presenti nella mia alimentazione - non strettamente biologica - abbiano trovato un varco verso l’organismo di Jacob, così come altre tossine, quali metalli pesanti (ad esempio piombo e mercurio) che posso aver accumulato prima della gravidanza. Nelle ultime settimane in utero, la placenta trasmise un ricca, e benefica, riserva di ferro - metallo fondamentale - che lo avrebbe accompagnato fino all’infanzia.


La placenta era un importante luogo di purificazione e di espulsione degli scarti organici, facilmente reimmissibili nel mio circolo sanguigno per essere eliminati dal mio organismo. Ciò mantenne leggero il carico per i suoi reni e per il suo fegato - organi entrambi immaturi in utero -, appesantendo il mio. Non solo mangiavo e respiravo per lui: gli facevo anche la pipì.


Come tutti i bambini non ancora nati, Jacob aveva difficoltà pratiche per raffreddarsi, avviluppato com’era al calore del mio corpo. La placenta faceva dunque quel che la sua pelle non era in grado di fare: scaricare il calore in eccesso nella mia circolazione sanguigna più fredda. Per fortuna la sua fu una gravidanza invernale e tale calore extra, che irradiai in modo positivo, mi riscaldò durante la notte.


È ovvio tuttavia che né io né Jacob avvertimmo mai la necessità di spendere un pensiero su queste imprese, compiute senza sosta dalla sua portentosa placenta, in modo tanto naturale e necessario, quanto i battiti del suo cuore. La placenta fu per Jacob compagna costante, caldo cuscino che, dolce, lo ninnava a ogni flusso del mio sangue232. Per me essa era un’idea più che una realtà tangibile, e tuttavia parte integrante dell’immagine di lui nel mio ventre e dei quadri che dipinsi durante la gravidanza.


Mentre si avvicinava il termine di Jacob preparammo qualcosa di speciale per la sua placenta. Pianificammo una nascita lotus233, come per sua sorella Zoe, che consisteva nel non recidere affatto il cordone: la placenta di Zoe restò attaccata fintanto che, in sesta giornata, il cordone non si staccò dall’ombelico. Era stato un bellissimo rituale, che permise a Zoe di vivere un passaggio dolce dall’utero al mondo esterno, mantenendoci entrambe in uno spazio sereno e senza tempo. La nascita lotus ci risultò piuttosto semplice: avevo cucito una borsina di velluto rosso che contenesse il cordone e la placenta, tenuta addosso a Zoe per quei pochi giorni.


La data prevista per Jacob arrivò, e passò con diverse revisioni e molta attesa. Mi godetti le presunte tre settimane di ritardo; il mio istinto mi ripeteva che il bambino stava bene. Il mio medico mi propose alcuni test di funzionalità della placenta - in pratica controlli dei livelli ormonali quali quello del lattogeno placentare umano (HPL) e dell’estriolo, prodotti o elaborati dalla placenta - e discutemmo di ecografie e di monitoraggi cardiaci per avere un controllo più diretto del bambino.


Il pensiero comune è quello per cui, superato il termine, la placenta “invecchi”, mettendo potenzialmente a repentaglio la crescita e il benessere del bambino, così come la capacità di affrontare il parto. Tuttavia gli esperti in anatomia della placenta hanno dimostrato che essa continua a espandersi e ad aumentare la propria superficie oltre le quaranta settimane, e che una placenta sana e ben inserita dispone di un’ampia “riserva funzionale”234.


La robusta placenta di Jacob continuava quindi a crescere e a sostenerlo. Per quanto la modalità attraverso cui mio figlio dette segnale di essere pronto a nascere non sia ancora nota con certezza, non v’è dubbio che tale messaggio fu inviato dalla placenta. Uno dei probabili messaggeri è l’ormone di rilascio della corticotropina (CRH), secreto di norma dal cervello ma prodotto, in gravidanza, dalla placenta del feto. La produzione dello CRH placentare aumenta rapidamente al termine della gestazione, quando agisce per preparare i polmoni del feto alla respirazione, e l’utero materno al travaglio235.


Mi aspettavo un travaglio notturno - avevo avuto alcuni “falsi allarmi” nelle nottate precedenti - che infatti ebbe inizio intorno all’una di notte, avanzando lento e con dolcezza, e concedendo a Jacob un ampio margine di ripresa tra una contrazione e l’altra, ognuna delle quali, comprimendo la placenta, interrompeva a tratti il rifornimento di sangue. Per fortuna Jacob, così come tutti i piccoli di mammifero, era predisposto in maniera superba ai periodi di scarso rifornimento di ossigeno (ipossia) del travaglio e del parto, come provava la rapida ripresa del battito cardiaco dopo ogni contrazione.


Dopo all’incirca undici ore Jacob venne alla luce nell’acqua, in una vasca posta in una stanza sul retro, assistito dalle sorelle estasiate. Una mezz’ora più tardi mi misi in piedi per espellere la placenta in una bacinella di plastica. Il cordone integro di Jacob, e la placenta ad esso attaccata, crearono qualche piccola difficoltà: il mio medico si trovò in difficoltà nel raccogliere un campione di sangue cordonale (per verificare il gruppo sanguigno del bambino), oltre al problema di tenere a galla la bacinella con la placenta quando Emma e Zoe piombarono nella vasca.


Dal momento che non clampammo, né tagliammo, il cordone, Jacob ricevette l’ultimo dono della sua placenta: la trasfusione di altri 100 millilitri circa del proprio sangue, immagazzinato all’interno dell’organo per assisterlo al momento della nascita, riempendo i vasi sanguigni dei polmoni, del fegato, dell’intestino, e della pelle - organi inutilizzati all’interno dell’utero - con sangue saturo di ossigeno. La trasfusione placentare di Jacob rappresentava altresì una rete di salvataggio, capace di soccorrerlo nel caso non si fosse stabilita subito la respirazione.


Se avessimo clampato il cordone subito dopo la nascita, Jacob avrebbe perso pure la quota extra di ferro - il rifornimento di circa un mese - contenuta nella trasfusione placentare, oltre al ricco apporto delle proprie cellule staminali, che più tardi si sarebbero trasformate in sangue e cellule immunitarie nuove. Altri esperti del settore aggiungerebbero che avremmo assicurato a Jacob una protezione contro la paralisi cerebrale, i deficit attentivi, forse persino l’autismo, permettendo al suo cervello di ricevere l’intera scorta di sangue prevista per lui da Madre Natura236.


Tutti gli altri mammiferi, e assistenti nelle culture più tradizionali, aspettano a tagliare (o mordere) il cordone ombelicale fintanto che non sia stata espulsa la placenta, e a ragione. La trasfusione placentare di Jacob ridusse le dimensioni della placenta di 100 millilitri, e il mio utero fu in grado di contrarsi più efficacemente intorno ad essa, diminuendo così il rischio di emorragie. La placenta ridotta di Jacob fu più semplice - e più gradevole - da espellere (per ulteriori informazioni su clampaggio ritardato e trasfusione placentare vedi il capitolo VI).


Dopo essere usciti dall’acqua demmo un’occhiata più da vicino alla placenta di Jacob, ancora attaccata a lui. Un placenta piena, bella, rotonda: rossa e scura da un lato - quello dei villi, aderente alla parete dell’utero - argentea e brillante dal lato di Jacob, per le membrane che la rivestivano. Distendendole, riuscimmo quasi a ricreare la sacca ermetica che aveva avvolto e protetto Jacob per nove mesi. Dalla forma sarebbe quasi stato possibile indovinare da quale parte la placenta avesse aderito al mio ventre. Rimanemmo meravigliati del cordone a tre vasi di Jacob, circa 60 centimetri dal pancino alla placenta, che si diramava da sotto le membrane placentari come il tronco del suo “albero della vita”, nome conferito alla placenta.


A misurare la placenta di Jacob, avrebbe avuto 20-25 centimetri di diametro (appena inferiore a un piatto), circa 2,5 centimetri di spessore e una massa di 500 grammi. Facemmo un controllo per accertarci che fosse integra, prima di asciugarla delicatamente per porla, con garbo, in un setaccio a lasciarla sgocciolare qualche ora. Se frammenti di placenta fossero rimasti in utero avrei potuto incorrere, nelle ore e nei giorni seguenti il parto, in un’emorragia o in un’infezione.


Nei tre giorni seguenti asciugammo e salammo la placenta di Jacob ogni dodici ore circa, per poi avvolgerla con delicatezza in un pannolino di stoffa e, in seguito, nella borsa di velluto rosso che avevo cucito.


Lo “sbocciare” di Jacob - il periodo tra la nascita e la caduta del cordone - trascorse nella calma e nella quiete, onorandone l’originaria completezza, e rispettandone l’integrità rifiutando la circoncisione. Osservammo il cordone seccare e indurirsi a partire dall’ombelico. Si staccò senza problemi il quarto giorno. Tenemmo la placenta di Jacob in freezer, persino durante uno spostamento da uno Stato all’altro. All’età di quattro anni, scegliemmo un albero di jacaranda sotto cui piantarla.


La nascita lotus è una pratica nuova, descritta solo negli scimpanzè prima del 1974, quando la visionaria Clair Lotus Day iniziò a mettere in dubbio la routine del taglio del cordone. Mentre si trovava a San Francisco, incinta del suo terzo figlio, trovò un’ostetrica in linea con i suoi desideri: Trimurti nacque in ospedale e tornò a casa con il cordone integro. A quanto riferisce la Day esistono numerosi riferimenti a tale pratica nei testi sacri, tra cui la Bibbia, Ezechiele 16:4: “Il giorno che nascesti l’ombelico non ti fu tagliato.”237


Quasi tutte le culture tradizionali hanno credenze e rituali che sottolineano il rapporto con quest’organo straordinario. A Bali, per esempio, la placenta, o ari-ari, si dice sopravviva in forma di spirito, come uno dei quattro fratelli - o angeli custodi - del bambino, invocabile nel momento del bisogno. I piccoli balinesi, al mattino appena svegli, la salutano e la notte la pregano di proteggerli. A ogni luna nuova o piena, e in ogni giorno di festa, vengono poste offerte nel luogo di sepoltura della placenta. Si crede che, dopo la morte, la placenta accompagni l’anima del deceduto in paradiso, a testimoniare che egli abbia compiuto il suo dovere nel corso della propria esistenza238,239.


Il luogo in cui viene sepolta la placenta riveste un’importanza particolare in molte culture. Presso alcune di esse la placenta deve restare nascosta agli spiriti maligni per tutelare il neonato. Altre pratiche di sepoltura sottolineano il legame tra quest’ultimo e la placenta per tutto il corso della vita. Gli abitanti dei villaggi dello Zimbabwe, ad esempio, ritengono che seppellire la placenta nella casa famigliare garantisca che i figli facciano sempre ritorno240. James Frazer, autore dei primi anni Venti, scriveva che “persino in Europa molte persone credono ancora che il nostro destino sia più o meno legato a quello del cordone ombelicale o della placenta”. Egli racconta che le levatrici tedesche consegnavano il cordone seccato al padre, chiedendogli di conservarlo con cura affinché il bambino restasse sano e libero da malattie241. Una sostenitrice della nascita lotus dei nostri giorni, Jeannine Parvati Baker, riteneva che tutti noi manteniamo un legame forte con il luogo in cui vengono sepolti il cordone ombelicale e la placenta242,243.


Il legame con la placenta non termina con la sua eliminazione, che avvenga con il rito di sepoltura o con incenerimento ospedaliero. Il simbolismo che rimanda a questo organo è presente ovunque nella nostra cultura, dalle borse che indossiamo - ove teniamo i soldi, l’agenda e altri oggetti di prima necessità - ai giocattoli morbidi che affollano le culle dei nostri figli. Alcuni ritengono che molta dell’insoddisfazione della nostra cultura, il bisogno impellente di accumulare beni, tra cui quelli già elencati - provenga dal trauma della perdita del nostro primo possedimento: la placenta244. Ogni anno la onoriamo con le candeline accese sulla torta di compleanno - in latino il termine placenta significa “torta, focaccia”.


La placenta di Jacob è stata il canale della vita dal mio al suo corpo. Ora - gemella uterina, àncora originaria - essa è tornata alla terra. Sette anni dopo la sua nascita, mio figlio mi disse “la placenta è come il cuore”, e di qui compresi che attraverso di lei aveva ricevuto più che mero nutrimento fisico. Oltre all’ossigeno, ai nutrienti e a tutti gli altri doni di quest’organo, Jacob aveva ricevuto il mio amore, anch’esso sostegno nel mio ventre, trasmesso in maniera impercettibile ma decisiva attraverso un organo straordinario: la placenta.


Partorire e accudire con dolcezza
Partorire e accudire con dolcezza
Sarah J. Buckley
La gravidanza, il parto e i primi mesi con tuo figlio, secondo natura.Un manuale rivoluzionario per le future mamme e i futuri papà che desiderano vivere gravidanza, parto e primi mesi di vita del bambino in modo naturale. Partorire e accudire con dolcezza è un manuale rivoluzionario, nel quale Sarah J. Buckley, esperta di gravidanza e parto apprezzata in tutto il mondo, fa luce sull’evento della nascita e sui primi mesi da genitori, mettendo a disposizione delle future mamme e papà conoscenze attinte sia dalla saggezza antica che dalla medicina moderna.Il libro presenta approfondimenti sulla fisiologia del parto naturale (o, come lo definisce l’autrice, “nascita indisturbata”) che mostrano quanto vada perso quando tale esperienza viene vissuta meramente come evento medico.Nella prima parte, alla scrupolosa descrizione di gravidanza e parto medicalizzati (che prevedono il ricorso a ultrasuoni, epidurale, induzione e cesareo) e delle scelte più naturali (parto in casa, rifiuto dell’epidurale o di farmaci durante la fase espulsiva) si intreccia il racconto dell’attesa e della nascita dei quattro figli dell’autrice, tutti dati alla luce tra le mura domestiche. La seconda parte prende invece in esame gli studi scientifici su attaccamento, allattamento materno e sonno infantile, ed esorta i neogenitori a operare scelte attente e amorevoli durante i primi mesi con il proprio bambino. Conosci l’autore Sara J. Buckley è medico di famiglia e autorità di fama internazionale in materia di gravidanza, parto e genitorialità. Vive a Brisbane, in Australia, con il marito e i quattro figli. Sarah Buckley è preziosa perché bilingue: sa parlare il linguaggio di una madre che ha dato alla luce i suoi quattro figli in casa, e sa parlare dadottore. Attraverso la fusione del linguaggio del cuore con quello della scienza essa impartisce alla storia del parto una direzione nuova, rivoluzionaria e illuminante.Michel Odent, medico chirurgo, autore e pioniere del parto naturale