La placenta di jacob: una storia d'amore
Nella nostra cultura la placenta viene definita secondina e considerata un prodotto di scarto. Tuttavia essa espleta una miriade di funzioni fondamentali per lo sviluppo del bambino, tanto che in altre culture viene rispettata - e persino venerata. Questo racconto approfondisce il ruolo e il contesto di questo organo straordinario durante la gravidanza e il parto, attraverso la storia prenatale del mio terzo figlio, Jacob.
Il concepimento di Jacob fu inatteso e a noi ignoto per diverse settimane. Eravamo stati in vacanza in Tasmania, isoletta a sud dell’Australia, e sul traghetto di ritorno con noi non c’erano solo Emma (quattro anni) e Zoe (un anno), ma anche il loro futuro fratellino, un piccolo grumo di cellule di appena una settimana dal concepimento. Mentre dormicchiavo in cuccetta, la blastocisti di Jacob, simile a una minuscola mora di 2 millimetri di diametro, era già rotolata lungo le tube di Falloppio, intenta a scavare nella parete, spessa e scura, del mio ventre.
Nelle due settimane successive, il futuro Jacob trasse nutrimento direttamente dalla ricchezza di questo rivestimento, senza che io ne fossi consapevole. Sarà stato quieto, ma non quiescente: proprio in quel momento determinante le cellule di Jacob presero a specializzarsi, iniziando a creare la placenta. Nelle profondità di quella morula alcune cellule si raggrupparono a formare un ammasso cellulare interno che, più tardi, sarebbe diventato il corpo di Jacob, il suo cordone ombelicale e il sacco amniotico. Altre cellule migrarono verso l’alto a costituire il trofoblasto circostante, che si sarebbe trasformato nella placenta di Jacob.
Appena creato, il trofoblasto prese a infiltrarsi più in profondità nel mio ventre, rilasciando enzimi che dissolvessero le cellule uterine e i vasi sanguigni. In questo modo Jacob fece del mio sangue laghi - le lacune placentari - per il proprio sostentamento. Proprio mentre attribuivo il mio ritardo all’intenso allattamento di Zoe durante la vacanza, i villi di Jacob - protuberanze simili a dita che partivano dalla placenta in formazione, ognuno dei quali conteneva un vaso sanguigno appena nato - crescevano e si immergevano nelle lacune, il nostro flusso sanguigno diviso dalla più sottile e permeabile delle membrane.
Attraverso di essa avrei fornito, per il resto della gravidanza, tutti i nutrienti e i fattori di crescita di cui Jacob avrebbe avuto bisogno, riportando a me i suoi scarti. Ancora, questa membrana avrebbe evitato che le nostre cellule ematiche si mischiassero, e che il mio sistema immunitario rifiutasse Jacob come invasore esterno.
Oltre a ciò i villi di mio figlio stavano ancorando la placenta, simili a radici piantate nel solido terreno del giardino del mio ventre, mentre il gambo del suo corpo - il tessuto che più tardi sarebbe diventato il cordone ombelicale - manteneva la sua essenza di embrione in vita e attaccato alla placenta, come la corda a cui si aggrappa l’astronauta in orbita. In quel momento, il corpo di Jacob aveva le dimensioni di un piccolo fagiolo con il primo abbozzo degli arti - le future braccia e gambe.
La placenta in via di maturazione aveva un ulteriore compito, precoce e fondamentale: la produzione degli ormoni placentari, che rivelarono la presenza di Jacob. Sotto l’influsso della gonadotropina corionica umana (HCG), prodotta in quantità crescenti dalla placenta pochi giorni dopo l’impianto, presi ad avvertire una certa nausea. Infine mi resi conto di essere incinta quando la nausea iniziò a cogliermi nel cuore della notte. L’HCG fu pure l’ormone che fece sì che, il giorno dopo, il test di gravidanza desse risultato positivo.
Nelle settimane appena successive avvertii malesseri mattutini intensi e quotidiani. Sarei forse stata più tollerante se avessi saputo che quel cambiamento, che mi tenne lontana dai cibi speziati e amari, così come da tè e caffè, era di fatto imputabile agli ormoni della placenta di Jacob che agivano per proteggerlo dai livelli elevati di tossine naturali contenute in quegli alimenti. Poi, la maggior sensibilità olfattiva - ulteriore stimolante della nausea - garantiva che io mangiassi solo i cibi più freschi, evitando gli aromi pungenti e gli odori della cottura, anch’essi contenenti eventuali tossine inalabili. La nausea iniziò a diminuire con il passaggio di Jacob oltre lo stadio embrionale (all’incirca otto settimane dopo il concepimento), per scomparire quasi del tutto intorno al quarto mese di gravidanza, quando gli apparati erano sostanzialmente completi e, quindi, meno esposti ai danni da intossicazione227.
Il traguardo dei due mesi (equivalente a dieci settimane dall’ultima mestruazione) segnò, per Jacob, l’inizio della vita da feto. Allora il suo corpo aveva raggiungo i quattro-cinque centimetri di lunghezza e, grazie al nutrimento fornito dalla placenta, il peso era salito a onorevoli quattro grammi, 220.000 volte il peso al momento del concepimento228. Il trofoblasto che, in origine, lo circondava adesso aveva formato, da un lato, una placenta quasi matura, e, dall’altro, una bolla protettiva - il chorion - che alla fine avrebbe costituito una parte dei due strati delle membrane di Jacob.
Nei successivi due mesi la placenta crebbe e si espanse. Verso la metà della gravidanza essa copriva circa metà della parete uterina, ed era più pesante del corpo di Jacob. Più avanti lui sarebbe cresciuto di più, tanto che alla nascita la placenta avrebbe avuto circa un sesto del peso del suo corpo. La versatile placenta di Jacob era pure in grado di spostarsi nel corso della gravidanza, muovendosi lentamente verso la miglior fonte di sangue, lontano da quelle scarseggianti (si ritiene che tale meccanismo, noto come trofotropismo, spieghi molte irregolarità nella forma e nella struttura della placenta, così come il benefico spostamento verso l’alto di gran parte delle placente situate in basso - placenta previa - a inizio gravidanza229). Per quanto esterna al suo corpo, la placenta costituiva l’organo principale di Jacob, deputato a tutte le funzioni che l’intestino, i polmoni, il sistema immunitario, i reni, il fegato e la pelle - immaturi - non erano in grado di svolgere all’interno del mio ventre.
Facendo le veci dell’intestino, la placenta permetteva a Jacob di estrarre tutto il nutrimento di cui aveva bisogno dal mio sangue, nell’esatta quantità - e gli ormoni placentari sapevano garantire che vi fosse disponibilità di quanto necessario. Se, ad esempio, l’apporto di sangue era insufficiente al suo fabbisogno, lui sapeva, producendo gli ormoni giusti, ordinare al mio organismo di aumentare la pressione sanguigna, facendo aumentare il quantitativo di sangue da inviare alla placenta. In modo analogo se Jacob aveva bisogno di più glucosio, sapeva come richiederne - e, come effetto collaterale dell’aumento della mia glicemia, avrei finito per ricevere una diagnosi di diabete gestazionale230. La placenta di Jacob - così come quella di ogni bambino - era difensore indefesso della sua salute e del suo benessere231.
Con i polmoni pieni di liquido amniotico, senza accesso all’aria, Jacob non poteva ovviamente respirare all’interno del mio ventre, e tuttavia era in grado di ottenere tutto l’ossigeno di cui necessitava attraverso il mio sangue ossigenato, che gli giungeva tramite la placenta. Insieme al mio ossigeno, Jacob assumeva pure qualsiasi tossina io inalassi nel circolo sanguigno, gran parte delle quali venivano convogliate attraverso la placenta con la stessa efficienza usata per i nutrienti presenti nel mio sangue. Le mie nausee precoci lo avevano protetto ancora una volta, rendendomi refrattaria all’aria inquinata e facendomi desiderare con forza aria fresca e pulita. Più avanti con la gravidanza, quando decidemmo di togliere i tappeti in camera - la nostra versione di nidificazione - mantenemmo fresca l’aria per Jacob scegliendo una cera per il pavimento che non producesse esalazioni tossiche.
Il forte attaccamento di Jacob a me - il più forte che possa mai verificarsi nel corso dell’esistenza - presentava difficoltà che la placenta era in grado, almeno in parte, di risolvere. Se un qualsiasi batterio avesse invaso il mio organismo di gestante, trovando accesso alla mia circolazione sanguigna, essa avrebbe saputo, in qualche misura, filtrarlo ed espellerlo. Particelle più piccole, quali quelle della toxoplasmosi e virus come quello della rosolia e dell’herpes, tutti potenzialmente pericolosi per Jacob a causa dell’immaturità del suo sistema immunitario - avrebbero avuto più probabilità di infiltrarsi attraverso la barriera placentare. Per fortuna la placenta di Jacob consentiva altresì l’accesso ad alcuni dei miei anticorpi, fornendogli una pronta immunità contro quasi tutte le patologie da me incontrate nel corso della vita.
La placenta di mio figlio non era neppure in grado di filtrare farmaci e altre sostanze chimiche, tanto che tutto ciò che veniva somministrato a me veniva somministrato pure a lui. Fortunatamente per entrambi non ebbi una gravidanza, né un parto, complicati, evitando al mio bambino la prescrizione di medicinali o analgesici di sorta. Tuttavia è assai probabile che le sostanze chimiche presenti nella mia alimentazione - non strettamente biologica - abbiano trovato un varco verso l’organismo di Jacob, così come altre tossine, quali metalli pesanti (ad esempio piombo e mercurio) che posso aver accumulato prima della gravidanza. Nelle ultime settimane in utero, la placenta trasmise un ricca, e benefica, riserva di ferro - metallo fondamentale - che lo avrebbe accompagnato fino all’infanzia.
La placenta era un importante luogo di purificazione e di espulsione degli scarti organici, facilmente reimmissibili nel mio circolo sanguigno per essere eliminati dal mio organismo. Ciò mantenne leggero il carico per i suoi reni e per il suo fegato - organi entrambi immaturi in utero -, appesantendo il mio. Non solo mangiavo e respiravo per lui: gli facevo anche la pipì.
Come tutti i bambini non ancora nati, Jacob aveva difficoltà pratiche per raffreddarsi, avviluppato com’era al calore del mio corpo. La placenta faceva dunque quel che la sua pelle non era in grado di fare: scaricare il calore in eccesso nella mia circolazione sanguigna più fredda. Per fortuna la sua fu una gravidanza invernale e tale calore extra, che irradiai in modo positivo, mi riscaldò durante la notte.
È ovvio tuttavia che né io né Jacob avvertimmo mai la necessità di spendere un pensiero su queste imprese, compiute senza sosta dalla sua portentosa placenta, in modo tanto naturale e necessario, quanto i battiti del suo cuore. La placenta fu per Jacob compagna costante, caldo cuscino che, dolce, lo ninnava a ogni flusso del mio sangue232. Per me essa era un’idea più che una realtà tangibile, e tuttavia parte integrante dell’immagine di lui nel mio ventre e dei quadri che dipinsi durante la gravidanza.
Mentre si avvicinava il termine di Jacob preparammo qualcosa di speciale per la sua placenta. Pianificammo una nascita lotus233, come per sua sorella Zoe, che consisteva nel non recidere affatto il cordone: la placenta di Zoe restò attaccata fintanto che, in sesta giornata, il cordone non si staccò dall’ombelico. Era stato un bellissimo rituale, che permise a Zoe di vivere un passaggio dolce dall’utero al mondo esterno, mantenendoci entrambe in uno spazio sereno e senza tempo. La nascita lotus ci risultò piuttosto semplice: avevo cucito una borsina di velluto rosso che contenesse il cordone e la placenta, tenuta addosso a Zoe per quei pochi giorni.
La data prevista per Jacob arrivò, e passò con diverse revisioni e molta attesa. Mi godetti le presunte tre settimane di ritardo; il mio istinto mi ripeteva che il bambino stava bene. Il mio medico mi propose alcuni test di funzionalità della placenta - in pratica controlli dei livelli ormonali quali quello del lattogeno placentare umano (HPL) e dell’estriolo, prodotti o elaborati dalla placenta - e discutemmo di ecografie e di monitoraggi cardiaci per avere un controllo più diretto del bambino.
Il pensiero comune è quello per cui, superato il termine, la placenta “invecchi”, mettendo potenzialmente a repentaglio la crescita e il benessere del bambino, così come la capacità di affrontare il parto. Tuttavia gli esperti in anatomia della placenta hanno dimostrato che essa continua a espandersi e ad aumentare la propria superficie oltre le quaranta settimane, e che una placenta sana e ben inserita dispone di un’ampia “riserva funzionale”234.
La robusta placenta di Jacob continuava quindi a crescere e a sostenerlo. Per quanto la modalità attraverso cui mio figlio dette segnale di essere pronto a nascere non sia ancora nota con certezza, non v’è dubbio che tale messaggio fu inviato dalla placenta. Uno dei probabili messaggeri è l’ormone di rilascio della corticotropina (CRH), secreto di norma dal cervello ma prodotto, in gravidanza, dalla placenta del feto. La produzione dello CRH placentare aumenta rapidamente al termine della gestazione, quando agisce per preparare i polmoni del feto alla respirazione, e l’utero materno al travaglio235.
Mi aspettavo un travaglio notturno - avevo avuto alcuni “falsi allarmi” nelle nottate precedenti - che infatti ebbe inizio intorno all’una di notte, avanzando lento e con dolcezza, e concedendo a Jacob un ampio margine di ripresa tra una contrazione e l’altra, ognuna delle quali, comprimendo la placenta, interrompeva a tratti il rifornimento di sangue. Per fortuna Jacob, così come tutti i piccoli di mammifero, era predisposto in maniera superba ai periodi di scarso rifornimento di ossigeno (ipossia) del travaglio e del parto, come provava la rapida ripresa del battito cardiaco dopo ogni contrazione.
Dopo all’incirca undici ore Jacob venne alla luce nell’acqua, in una vasca posta in una stanza sul retro, assistito dalle sorelle estasiate. Una mezz’ora più tardi mi misi in piedi per espellere la placenta in una bacinella di plastica. Il cordone integro di Jacob, e la placenta ad esso attaccata, crearono qualche piccola difficoltà: il mio medico si trovò in difficoltà nel raccogliere un campione di sangue cordonale (per verificare il gruppo sanguigno del bambino), oltre al problema di tenere a galla la bacinella con la placenta quando Emma e Zoe piombarono nella vasca.
Dal momento che non clampammo, né tagliammo, il cordone, Jacob ricevette l’ultimo dono della sua placenta: la trasfusione di altri 100 millilitri circa del proprio sangue, immagazzinato all’interno dell’organo per assisterlo al momento della nascita, riempendo i vasi sanguigni dei polmoni, del fegato, dell’intestino, e della pelle - organi inutilizzati all’interno dell’utero - con sangue saturo di ossigeno. La trasfusione placentare di Jacob rappresentava altresì una rete di salvataggio, capace di soccorrerlo nel caso non si fosse stabilita subito la respirazione.
Se avessimo clampato il cordone subito dopo la nascita, Jacob avrebbe perso pure la quota extra di ferro - il rifornimento di circa un mese - contenuta nella trasfusione placentare, oltre al ricco apporto delle proprie cellule staminali, che più tardi si sarebbero trasformate in sangue e cellule immunitarie nuove. Altri esperti del settore aggiungerebbero che avremmo assicurato a Jacob una protezione contro la paralisi cerebrale, i deficit attentivi, forse persino l’autismo, permettendo al suo cervello di ricevere l’intera scorta di sangue prevista per lui da Madre Natura236.
Tutti gli altri mammiferi, e assistenti nelle culture più tradizionali, aspettano a tagliare (o mordere) il cordone ombelicale fintanto che non sia stata espulsa la placenta, e a ragione. La trasfusione placentare di Jacob ridusse le dimensioni della placenta di 100 millilitri, e il mio utero fu in grado di contrarsi più efficacemente intorno ad essa, diminuendo così il rischio di emorragie. La placenta ridotta di Jacob fu più semplice - e più gradevole - da espellere (per ulteriori informazioni su clampaggio ritardato e trasfusione placentare vedi il capitolo VI).
Dopo essere usciti dall’acqua demmo un’occhiata più da vicino alla placenta di Jacob, ancora attaccata a lui. Un placenta piena, bella, rotonda: rossa e scura da un lato - quello dei villi, aderente alla parete dell’utero - argentea e brillante dal lato di Jacob, per le membrane che la rivestivano. Distendendole, riuscimmo quasi a ricreare la sacca ermetica che aveva avvolto e protetto Jacob per nove mesi. Dalla forma sarebbe quasi stato possibile indovinare da quale parte la placenta avesse aderito al mio ventre. Rimanemmo meravigliati del cordone a tre vasi di Jacob, circa 60 centimetri dal pancino alla placenta, che si diramava da sotto le membrane placentari come il tronco del suo “albero della vita”, nome conferito alla placenta.
A misurare la placenta di Jacob, avrebbe avuto 20-25 centimetri di diametro (appena inferiore a un piatto), circa 2,5 centimetri di spessore e una massa di 500 grammi. Facemmo un controllo per accertarci che fosse integra, prima di asciugarla delicatamente per porla, con garbo, in un setaccio a lasciarla sgocciolare qualche ora. Se frammenti di placenta fossero rimasti in utero avrei potuto incorrere, nelle ore e nei giorni seguenti il parto, in un’emorragia o in un’infezione.
Nei tre giorni seguenti asciugammo e salammo la placenta di Jacob ogni dodici ore circa, per poi avvolgerla con delicatezza in un pannolino di stoffa e, in seguito, nella borsa di velluto rosso che avevo cucito.
Lo “sbocciare” di Jacob - il periodo tra la nascita e la caduta del cordone - trascorse nella calma e nella quiete, onorandone l’originaria completezza, e rispettandone l’integrità rifiutando la circoncisione. Osservammo il cordone seccare e indurirsi a partire dall’ombelico. Si staccò senza problemi il quarto giorno. Tenemmo la placenta di Jacob in freezer, persino durante uno spostamento da uno Stato all’altro. All’età di quattro anni, scegliemmo un albero di jacaranda sotto cui piantarla.
La nascita lotus è una pratica nuova, descritta solo negli scimpanzè prima del 1974, quando la visionaria Clair Lotus Day iniziò a mettere in dubbio la routine del taglio del cordone. Mentre si trovava a San Francisco, incinta del suo terzo figlio, trovò un’ostetrica in linea con i suoi desideri: Trimurti nacque in ospedale e tornò a casa con il cordone integro. A quanto riferisce la Day esistono numerosi riferimenti a tale pratica nei testi sacri, tra cui la Bibbia, Ezechiele 16:4: “Il giorno che nascesti l’ombelico non ti fu tagliato.”237
Quasi tutte le culture tradizionali hanno credenze e rituali che sottolineano il rapporto con quest’organo straordinario. A Bali, per esempio, la placenta, o ari-ari, si dice sopravviva in forma di spirito, come uno dei quattro fratelli - o angeli custodi - del bambino, invocabile nel momento del bisogno. I piccoli balinesi, al mattino appena svegli, la salutano e la notte la pregano di proteggerli. A ogni luna nuova o piena, e in ogni giorno di festa, vengono poste offerte nel luogo di sepoltura della placenta. Si crede che, dopo la morte, la placenta accompagni l’anima del deceduto in paradiso, a testimoniare che egli abbia compiuto il suo dovere nel corso della propria esistenza238,239.
Il luogo in cui viene sepolta la placenta riveste un’importanza particolare in molte culture. Presso alcune di esse la placenta deve restare nascosta agli spiriti maligni per tutelare il neonato. Altre pratiche di sepoltura sottolineano il legame tra quest’ultimo e la placenta per tutto il corso della vita. Gli abitanti dei villaggi dello Zimbabwe, ad esempio, ritengono che seppellire la placenta nella casa famigliare garantisca che i figli facciano sempre ritorno240. James Frazer, autore dei primi anni Venti, scriveva che “persino in Europa molte persone credono ancora che il nostro destino sia più o meno legato a quello del cordone ombelicale o della placenta”. Egli racconta che le levatrici tedesche consegnavano il cordone seccato al padre, chiedendogli di conservarlo con cura affinché il bambino restasse sano e libero da malattie241. Una sostenitrice della nascita lotus dei nostri giorni, Jeannine Parvati Baker, riteneva che tutti noi manteniamo un legame forte con il luogo in cui vengono sepolti il cordone ombelicale e la placenta242,243.
Il legame con la placenta non termina con la sua eliminazione, che avvenga con il rito di sepoltura o con incenerimento ospedaliero. Il simbolismo che rimanda a questo organo è presente ovunque nella nostra cultura, dalle borse che indossiamo - ove teniamo i soldi, l’agenda e altri oggetti di prima necessità - ai giocattoli morbidi che affollano le culle dei nostri figli. Alcuni ritengono che molta dell’insoddisfazione della nostra cultura, il bisogno impellente di accumulare beni, tra cui quelli già elencati - provenga dal trauma della perdita del nostro primo possedimento: la placenta244. Ogni anno la onoriamo con le candeline accese sulla torta di compleanno - in latino il termine placenta significa “torta, focaccia”.
La placenta di Jacob è stata il canale della vita dal mio al suo corpo. Ora - gemella uterina, àncora originaria - essa è tornata alla terra. Sette anni dopo la sua nascita, mio figlio mi disse “la placenta è come il cuore”, e di qui compresi che attraverso di lei aveva ricevuto più che mero nutrimento fisico. Oltre all’ossigeno, ai nutrienti e a tutti gli altri doni di quest’organo, Jacob aveva ricevuto il mio amore, anch’esso sostegno nel mio ventre, trasmesso in maniera impercettibile ma decisiva attraverso un organo straordinario: la placenta.