Essere infermiere in neonatologia

Tra le voci degli operatori non poteva mancare una testimonianza del personale infermieristico, che più di ogni altro è quotidianamente a contatto con i piccoli prematuri. Ascoltiamo dunque la voce delle infermiere della Neonatologia di Reggio-Emilia.


E.Balsamo: Cosa significa essere infermiera in un reparto di Neonatologia?


I: Ogni infermiera entrando in un reparto di terapia intensiva non può fare a meno di interrogarsi su quale sia il senso della vita, quando inizi una vita, cosa significhi salute e qualità della vita per i piccoli del reparto, se esista una memoria neonatale e quale sarà il loro futuro.


Ecco che il ruolo dell’infermiera diviene importantissimo nel leggere sguardi, atteggiamenti, pianto, dolore e soddisfazione anche là dove l’espressività nei bambini minuscoli è limitata; ecco che saper assistere il neonato diviene privilegio di pochi; ecco che non basta la scienza, occorrono amore, calore umano, dedizione, pazienza, creatività, tanta professionalità e soprattutto tante cose da inventarsi ogni giorno.


E.B.: Come affrontate il tema della morte ?


I: Ognuno di noi, anche nel lavoro quotidiano in terapia intensiva, risente della propria storia costituita da convinzioni personali, conoscenze e competenze, motivazioni e sensibilità individuale, perchè ognuno di noi ha una propria idea globale della vita e della morte; per alcune di noi, in base alla propria cultura e credo religioso, la vita vale sempre e comunque, per altre invece è necessaria una qualità di vita socialmente accettabile.


Nell’assistere un neonato altamente a rischio occorre prima di tutto aver affrontato il problema della propria morte; da qui le reazioni di paura (“speriamo che non muoia durante il mio turno”), di rifiuto evitando di prendersene cura, delegando ad altri, o di difesa diventando indifferenti a ciò che vediamo per non esserne troppo coinvolte.


Sfidare la natura, vivere o sopravvivere malgrado tutto, cercare di fare del tuo meglio per farli vivere, diventa un tutt’uno con te stessa, una lotta giornaliera, a volte, contro l’evidenza.


E.B.: Che relazione si viene ad instaurare tra l’infermiera e il neonato prematuro ?


I: Poiché nelle azioni umane è sempre in gioco l’affettività personale, accade che gli operatori sanitari che si prendono cura del bambino vivano con lui un rapporto di personale attaccamento.


In alcuni casi esasperati questo rapporto diventa negativo, deleterio, e viene evitato da molti operatori, specialmente in Terapia Intensiva, attraverso l’innalzamento di “muri di difesa”.


Il più frequente e scontato è l’atteggiamento di eccessivo tecnicismo che sfocia in atteggiamenti freddi e distaccati da parte degli operatori nei confronti dei pazienti e dei familiari; questi stessi comportamenti creano un senso di disagio, di insoddisfazione, di malessere, compensabili soltanto con un ulteriore rafforzamento dei “muri di difesa”, quindi ulteriore tecnicismo.


Il meccanismo è circolare. Tutto questo richiede oltre tutto grossi impieghi di energia e la salvaguardia di un’immagine, quella del super operatore che non sbaglia mai e risolve sempre tutto. Questa situazione è abbastanza tipica, abbastanza normale. Non deve in alcun modo essere colpevolizzata dagli altri operatori, né l’operatore deve autocolpevolizzarsi. Semplicemente deve rendersene conto e scoprire che è vittima, prigioniero di un meccanismo che non riesce a controllare.


Non esiste terapia, presidio, metodica assistenziale, per quanto sofisticata o semplicissima possa essere, che riesca da sola ad arginare l’angoscia che si prova nell’assistere un neonato prematuro e i suoi genitori, giorno dopo giorno, con la sensazione che la sofferenza non finisca mai.


E.B.: E il rapporto con i genitori ?


I: L’altro grande problema che dobbiamo affrontare, infatti, è il rapporto con i genitori.


Relazionarsi con loro implica ancora una volta il mettersi in gioco, poiché inevitabilmente traspare il nostro modo di essere.


Apparentemente la cosa più facile sembrerebbe l’accoglienza loro riservata in reparto per la prima volta, se volessimo limitarci ad un aspetto pratico-organizzativo.


Abbiamo invece tentato di definire alcune linee di comportamento comuni tra di noi entro le quali però potersi muovere in base alle domande di assistenza della “famiglia pretermine” per raggiungere il nostro obbiettivo: rendere possibile e rapido il legame affettivo tra madre-bambino-padre.


In genere la prima persona ad entrare in reparto è il papà; nell’accoglierlo gli descriviamo l’aspetto del suo bambino, l’eventuale presenza di tubi, di respiratore, di monitor, di catetere e sondino naso-gastrico. Rimaniamo con lui, vicino all’incubatrice mentre il medico lo informa circa le condizioni fisiche del piccolo: è un momento importante in quanto il padre è un messaggero: ricorderà a lungo le prime impressioni e le riferirà alla mamma se costretta a letto per più tempo.


Le informazioni circa l’organizzazione del reparto saranno fornite più tardi, in quanto entrambi i genitori, al primo incontro, ci appaiono di solito più propensi a seguire il corso dei loro pensieri che ad ascoltare “parole a fiumi”. Ogni volta invitiamo i genitori a osservare i segnali che manda il piccolo, soprattutto i movimenti degli occhi, a testimonianza di una attività onirica in atto, che ci aiutano a far loro capire che il bambino pensa, quindi è vivo anche se le condizioni sono gravi e l’attività motoria è quasi assente.


Questa circolarità di pensiero intorno all’incubatrice aiuta lo sviluppo emozionale del piccolo in quanto, come afferma la neuropsichiatra spagnola Julia Corominas, “lui migliora quando è pensato”.


Cerchiamo di rispettare i genitori nel loro modo di essere: per esempio li invitiamo a toccare, accarezzare il piccolo, ma non insistiamo in caso di rifiuto, così come, in alcuni casi, dobbiamo invece spiegare loro che eccessive stimolazioni possono essere negative. Nel contatto con i genitori sappiamo spesso di mediare il rapporto con i medici da un lato e con il bambino dall’altro.


Dobbiamo sempre ricordare che i nostri atteggiamenti possono favorire o ostacolare questi rapporti.


E.B.: Cosa vi chiedono i genitori ?


I: Spesso siamo bombardate da domande, anche le più sciocche; la ricerca dei perchè è l’unico modo per i genitori di sopportare quel dolore della nascita prematura che sembra far impazzire.


Il respiratore è macchina salvatrice ma anche minaccia; l’incubatrice con tutti i presidi terapeutici diviene il filo che unisce il bambino, l’équipe e i genitori.


Quando finalmente il piccolo raggiunge un livello di autonomia tale da consentirgli di fare a meno delle macchine e poter uscire dall’incubatrice, anche solo per pochi minuti perchè ancora piccolo, possiamo per la prima volta darlo in braccio alla mamma.


Una mamma un giorno ci disse: “ho partorito oggi”.


È difficile non farsi sopraffare dai sentimenti che evoca questa visione, soprattutto quando si guardano negli occhi.


Sono momenti rari, preziosi, che non si vorrebbe mai interrompere; eppure è nostro dovere farlo.


E.B.: Quali sentimenti il piccolo pretermine evoca con la sua fragilità?


I: Prima di tutto un grande senso di responsabilità professionale, ma anche di protezione, che ricorda proprio il sentimento materno.


E.B.: E da che cosa dovete proteggere questi piccoli?


I: Le aggressioni esterne sia strumentali che ambientali sono innumerevoli. Ricordiamo che il nostro compito è difenderli da questi ma anche e soprattutto dagli operatori stessi.


I numerosi interventi cruenti, se pur necessari, devono essere programmati e concentrati, secondo la tecnica del minimo intervento, in modo da ridurre le fonti di stress; per ottenere questo risultato è ovviamente necessaria la collaborazione di tutta l’équipe assistenziale.


È importante ricreare le condizioni ambientali più vicine possibili all’ambiente uterino; è così che abbiamo adottato tecniche di contenimento posturale, l’oscuramento dell’incubatrice, la riduzione dei rumori, adeguandoci il più possibile alla teoria dello sviluppo sinattivo di Als.


Secondo questa neuropsichiatra americana, i neonati gravemente prematuri hanno bisogno, in una prima fase, di ridurre drasticamente ogni stimolo brusco in modo da favorire la stabilizzazione di un organismo così fragile; successivamente, dopo la 29° settimana gestazionale, interviene una fase di organizzazione in cui sarà possibile introdurre i primi stimoli, quali il massaggio infantile, le prime uscite dall’incubatrice, i primi bagnetti che, soprattutto se proposti e insegnati ai genitori, possono favorire il processo di attaccamento tra loro e il piccolo.


In una terza fase, quella di integrazione, che interviene dopo la 36° settimana di gestazione, si può introdurre l’alimentazione al seno e un maggior coinvolgimento dei genitori nelle cure, preparandoli così alla dimissione.


La relazione che instauriamo con la mamma durante la permanenza in reparto del piccolo è caratterizzata da sentimenti profondamente ambivalenti: complicità da una parte, gelosia e paura dall’altra.


Da un lato vogliamo che il legame con il suo piccolo si consolidi, ma dall’altro ci sentiamo derubate per non poter dare quell’affetto di tipo materno, così gratificante, che abbiamo potuto trasmettere quando le sue incertezze, paure, senso di inadeguatezza facevano sì che la stessa ci affidasse il “suo” bambino ritenendoci le maggiori competenti.


Tanto più la mamma diventa soggetto attivo, tanto più il nostro compito ritorna a essere di tipo tecnico-assistenziale; dopo mesi trascorsi pensando al bambino, alla mamma, dobbiamo scivolare silenziosamente dietro le quinte.


Per quanto riguarda la paura, può esserci il timore di perdere il ruolo professionale e l’arricchimento reciproco.


La presenza dei genitori può stimolarci a dare il meglio di noi stesse, ma anche limitare lo svolgimento delle attività quotidiane e il dialogo con le colleghe; i genitori richiedono attenzione senza limite di tempo, ma le nostre mansioni hanno tempi da rispettare.


La mamma è un’osservatrice scrupolosa, arriva a conoscere ogni minima peculiarità del suo piccolo ma, talvolta, il suo restare attaccata all’incubatrice quasi ci impedisce di avvicinarci, di conoscere il piccolo e di parlare con lui sia con la voce che con la mente. E ancora, vogliamo creare un ambiente sereno per i genitori, per quanto possibile, ma la nostra tranquillità sembra svanire.


Talvolta ci sentiamo schierate dalla parte della mamma, ci illudiamo di aver capito la sua sofferenza ma, tutto ad un tratto, ci sentiamo soffocate, fagocitate dalla sua apprensione.


Se è vero allora che abbiamo tante paure, ansie e incertezze, come possiamo acquisire stima in noi stesse per poi trasmettere ai genitori dei nostri piccoli pazienti fiducia, sicurezza e stima nelle loro capacità?


E.B.: Come avete affrontato questa situazione ?


I: All’inizio ognuna di noi cercava nel suo piccolo di affrontare i propri vissuti, i problemi che emergevano in reparto con i mezzi a propria disposizione, avvertendo comunque un senso di inadeguatezza dovuto alla mancanza di un comportamento omogeneo.


Tutto questo portava a momenti di soddisfazione nelle proprie capacità, alternati a momenti di grande sconforto e desiderio di fuga. Poi, grazie alla provocazione di una mamma, qualcosa un giorno è cambiato.


Abbiamo sentito la necessità di dare vita a un gruppo di lavoro interdisciplinare in cui potessimo parlare delle nostre difficoltà.


La condivisione di queste esperienze personali all’interno del gruppo ci ha aiutato a renderci conto che i problemi di uno erano quelli di tutti e questo ci ha facilitato nella ricerca delle risposte.


Solo così abbiamo rimosso quel senso di colpa e di inadeguatezza che ci bloccava.


Ci siamo poste degli obiettivi comuni, consapevoli che le idee, se condivise, sarebbero state attuate al massimo della loro efficacia.


Questo gruppo rappresenta la ricchezza dell’équipe in quanto ognuna di noi può dare molto agli altri portando idee che possono divenire parte di un lavoro comune.


Giorno dopo giorno ci siamo rese conto che da un primo stadio in cui ci scoprivamo con difficoltà, siamo passate a mostrare senza paura tutte le nostre insicurezze.


Il gruppo ci sosteneva e gratificava in quanto, al di là delle difficoltà personali, ognuno di noi aveva elementi positivi da portare che evidenziavano potenzialità nascoste.


Questo non significa che i conflitti siano stati eliminati, che tutte le soluzioni siano state trovate, ma partecipare significa poter poi controllare e verificare il buon funzionamento del lavoro e quindi del reparto.


E.B.: Qual è il messaggio che vorreste lanciare alle vostre colleghe che operano in altre realtà?


I: Che nel nostro campo è indispensabile la più stretta collaborazione di tutta l’équipe assistenziale perchè solo un orientamento comune assicura cure efficaci e coerenti e ci consente di trovare via quelle soluzioni che permettono il miglioramento della qualità di vita dei nostri piccoli pazienti.

Nato prima del tempo
Nato prima del tempo
Elena Balsamo
Sacralità della nascita e accoglienza amorevole al neonato prematuro.Gravidanza, parto e accoglienza del neonato in una prospettiva emozionale e spirituale, con un’attenzione particolare ai bimbi prematuri. Nato prima del tempo è l’opera di Elena Balsamo dedicata alla perinatologia.La gravidanza, il parto e l’accoglienza del neonato sono qui visti in una prospettiva emozionale e spirituale, visione poco comune tra gli operatori sanitari.L’autrice esplora la dimensione della sacralità neonatale suddividendo il testo in due parti.La prima tratta il tema dell’accoglienza del neonato in condizioni di assoluta normalità, quando tutto procede senza intoppi, aiutando a comprendere appieno l’esperienza della maternità e proponendo vari spunti di riflessione per accogliere il neonato nel miglior modo possibile.La seconda invece è rivolta ai casi più difficili e problematici, quando le cose non vanno per il verso giusto, come i parti prematuri o traumatici, offrendo una nuova visione che apra le porte alla speranza e alla fiducia nel cambiamento. Conosci l’autore Elena Balsamo, specialista in puericultura, si occupa di pratiche di maternage e lavora a sostegno della coppia madre-bambino nei periodi della gravidanza, del parto e dell'allattamento.Esperta di pedagogia Montessori, svolge attività di formazione per genitori e operatori in ambito educativo e sanitario.