Una nuova accoglienza ai neonati

Alessandro Volta è neonatologo e ha lavorato per una decina d’anni nel reparto di Terapia Intensiva Neonatale dell’Ospedale di Parma. Ora è responsabile della Pediatria di Comunità e del Servizio Neonatale di Montecchio Emilia (RE).


Ci siamo incrociati, un po’ di anni fa, a un evento di formazione per operatori e subito mi sono resa conto che avevamo in comune la stessa visione del neonato, sensazione confermata dalla lettura del suo sorprendente Apgar 12, un agile volumetto1 che lancia una proposta tanto interessante quanto accattivante: estendere il punteggio di Apgar (la valutazione che si dà al neonato nei primi 10 minuti dalla nascita) aggiungendo altri due voti, quelli cioè relativi al benessere e alla soddisfazione del neonato che finalmente, superato il trauma della nascita, può sentirsi “a casa”. La trovo un’idea che potrei senza esitazione definire geniale, poiché tanto semplice quanto rivoluzionaria.


Ecco come Alessandro la spiega nel suo libro:


Daremo 11 quando il neonato smette di piangere, la sua mimica faciale risulta rilassata (cioè priva di smorfie) e i movimenti degli arti appaiono assenti (o se presenti appaiono lenti e armonici). Per avere un punteggio di 11 il neonato non potrà che trovarsi avvolto e contenuto, asciutto e in condizioni di temperatura neutra, protetto da stimoli eccessivi. …Una volta raggiunto questo stadio, quello successivo sarà il punteggio 12 rappresentato dalla apertura degli occhi, dalla ricerca attiva del seno, dall’espressione sorridente o “beata”. …Quando riusciamo a dare “12” in pratica misuriamo l’avvenuta conquista dell’equilibrio fisico, mentale e comportamentale e arriviamo a valutare la nascita “definitiva”.


Come a dire che solo in quel momento il bambino può dirsi completamente nato.


Ma Alessandro prosegue:


Per ottenere Apgar 12 a dieci minuti, dovremmo attivarci per formare e sensibilizzare il personale, predisponendo protocolli con questo specifico obiettivo. Se in futuro l’Apgar 12 diventasse routine vorrebbe dire che un neonato tranquillo e soddisfatto già a pochi minuti dalla nascita rappresenta un fatto normale, per nulla straordinario.


E invece, come dice lui, oggi la maggior parte dei bambini sono “malati di nascita”, a causa di tutte le interferenze inutili e dannose che segnano l’evento- nascita.

E.Balsamo: Alessandro, ci puoi dire a questo proposito che cosa pensi del ricorso sempre più massiccio all’epidurale per ridurre il dolore del parto?


A.Volta: L’epidurale è una tecnica analgesica di tipo farmacologico che possiede caratteristiche di invasività; la sua esecuzione richiede l’azione di un operatore che, per la sua competenza specialistica, non può essere considerato un semplice sostegno al travaglio della donna che partorisce. In questa prospettiva l’epidurale sembra collocarsi molto lontano dal concetto secondo cui le madri sanno partorire e i loro neonati sono capaci di nascere; anche la sola presenza dell’anestesista (con ciò che questa figura professionale rappresenta) sembra dimostrare alla donna che da sola non è in grado di mettere al mondo il suo bambino e che non è sufficiente un semplice sostegno per farle terminare questa esperienza con le proprie forze.


Tra le numerose revisioni sistematiche prodotte negli ultimi anni sull’epidurale, una delle più autorevoli è stata pubblicata dalla Chocrane Library. I parti operativi a seguito di analgesia con epidurale sono stati quantificati in una percentuale variabile tra il 7 e il 10% a seconda delle casistiche considerate; anche la necessità di ‘pilotare’ il travaglio con ossitocina sintetica risulta aumentata e particolarmente elevato appare il numero di donne che presentano febbre come effetto collaterale.


Per eliminare (o ridurre) il dolore materno, rischiamo quindi di produrre interferenze significative sul processo fisiologico che la natura ha determinato in maniera ottimale; ciononostante in particolari situazioni (parto di nato morto, psicosi, specifiche patologie materne) limitare drasticamente il dolore della madre può rappresentare un vantaggio e pertanto in questi casi può essere giusto considerare l’opportunità di un’analgesia particolarmente efficace come l’epidurale.

E.B.: Qui si entra nel grande tema della paura del dolore del parto…


A.V.: Il problema del dolore nel parto rappresenta un tema complesso perché ha per oggetto un dolore non patologico e alla fine rimane soltanto la strada, difficile e forse non molto scientifica, di ragionare sul significato che ogni donna decide di dare a questa percezione fisica e mentale. La complessità del dolore del parto viene inoltre nascosta e banalizzata quando poniamo come alternativa all’analgesia farmacologia la completa assenza di analgesia, mentre sarebbe più onesto e corretto prendere in considerazione le numerose tecniche di analgesia non farmacologia (bagno caldo, massaggio, sostegno emotivo, movimenti e posizioni libere, agopuntura, ecc.). Su questo tema sono già disponibili revisioni sistematiche che dimostrano un variabile ma significativo effetto analgesico a seconda delle metodiche considerate; il grande vantaggio di queste tecniche consiste nell’assenza – praticamente totale – di effetti collaterali negativi e nel sostanziale rispetto dei processi fisiologici della nascita.


E.B.: E per il neonato l’epidurale può presentare dei rischi?


A.V.: Dall’analisi della letteratura scientifica emerge che le possibili interferenze dell’epidurale sull’attività neuro-comportamentale del neonato nei primi giorni dopo il parto sono state poco indagate; ancora più scarso risulta il monitoraggio di eventuali effetti a distanza. Bisogna riconoscere che queste ricerche non sono facili perché richiedono ampie casistiche per eliminare le inevitabili variabili confondenti; forse c’è anche poco interesse a condurre questi studi, essendo molto più comodo e veloce minimizzare il problema e raccontare alle madri che “non sono noti effetti negativi sul neonato”.


Secondo me va ricordato anche però che intervenire con farmaci e manovre, quando non strettamente necessario, significa non avere fiducia nelle competenze del bambino e impedire, almeno in parte, l’espressione delle sue risorse; significa sostituirsi a lui e relegarlo in una situazione passiva, in un contesto per lui ingestibile e quindi incomprensibile.

E.B.: Finora abbiamo parlato essenzialmente di accoglienza al neonato e di interferenze mediche in un processo di parto, se non proprio fisiologico, perlomeno a termine.


Quali concreti strumenti sono oggi disponibili per favorire invece il benessere di un neonato prematuro e dei suoi genitori?


A.V.: Le pratiche a mio avviso oggi più importanti, perché basate su evidenza scientifica e applicabili in qualunque contesto, indipendentemente dalle risorse disponibili, sono due: la prima si chiama KMC, la seconda NIDCAP. Per chi non ama le sigle, si tratta della Kangaroo Mother Care e della Newborn Individualized Developmental Care and Assessment Program2. Cominciamo dalla prima: KMC può essere tradotto in italiano con “assistenza con il metodo marsupio”. Si tratta di una pratica assistenziale adottata oltre vent’anni orsono in Colombia che utilizza il contatto pelle a pelle tra i genitori e il neonato, con tempi e modalità variabili in base alle condizioni cliniche del bambino e alla disponibilità dei genitori (ma è necessaria anche la disponibilità di medici e infermieri).


Il metodo è applicabile a ogni pretermine stabile (soprattutto dal punto di vista respiratorio), indipendentemente dal peso e dall’età gestazionale.


Sono numerosi gli studi che mostrano la fattibilità di questa pratica, l’assenza di rischi (soprattutto di quelli infettivi) e i benefici per la mamma e il bambino. In particolare sono documentati i vantaggi nei confronti dell’allattamento al seno, della crescita del neonato e della sua stabilizzazione termica; rimangono da definire meglio gli effetti metabolici a breve termine e quelli neurologici a lungo termine. Sono documentati i benefici nei confronti del processo di attaccamento, anche se gli effetti psicologici e relazionali sui genitori e sul neonato richiedono ulteriori approfondimenti. Questa modalità assistenziale è senz’altro in grado di contribuire fortemente all’umanizzazione delle cure, sia nei Paesi a basso reddito sia in quelli ricchi.


Attraverso questa pratica (indipendentemente dalla modalità di utilizzo, in forma continua o intermittente) una mamma (ma anche un papà!) può partecipare in misura maggiore alle cure del suo bambino, limitando la delega al personale e attivando proprie risorse fisiche ed emotive. Un contatto quotidiano madre-figlio può favorire la loro conoscenza e migliorare l’equilibrio del loro rapporto; ansia, insicurezza e impotenza materne possono essere contenute e la mamma può imparare presto a fidarsi delle grandi risorse e competenze del suo bambino.


La KMC è stata descritta dettagliatamente da una linea guida dell’OMS che ne ha definito le basi scientifiche (ricordiamo che a questo documento hanno collaborato Adriano Cattaneo e Riccardo Davanzo); sulla KMC la letteratura è ormai tanto ampia da aver già prodotto alcune revisioni sistematiche. Nel 2006 la Società Italiana di Neonatologia ha pubblicato e diffuso la linea guida della KMC promuovendone l’applicazione nelle UTIN del nostro Paese (auspicandone l’inclusione nei curricula formativi di base). L’adozione di questa modalità assistenziale è però ancora poco uniforme e la sua applicazione non costante, dimostrando quanto è difficile modificare le prassi abituali di cura. L’aspetto interessante della KMC è la sua assenza di costi, sia in termini di denaro che di tempo: il personale anziché occuparsi di un neonato in incubatrice interviene su un bambino in braccio alla mamma.


Ricordiamo che la KMC può essere praticata tranquillamente anche dai papà, soprattutto nelle situazioni nelle quali la madre è impedita o non disponibile.

E.B.: Sì, anche in questo caso emerge chiaramente come a volte la soluzione sia da cercare nella semplicità… E la NIDCAP?


A.V.: La NIDCAP è una pratica più complessa della MKC perché necessita di personale specificamente formato e addestrato alla sua applicazione. Non si tratta di una semplice pratica assistenziale, ma di “un programma personalizzato di sostegno ambientale e di assistenza allo sviluppo, basato sulla lettura dei segnali comportamentali di ciascun neonato pretermine”; l’obiettivo finale è “la formulazione di un piano di cura atto ad accrescere e promuovere le potenzialità del neonato e a sostenerlo nelle aree di sensibilità o vulnerabilità”. La NIDCAP nasce un paio di decenni orsono a Boston dal lavoro di Heidelise Als, psicologa e allieva di Berry Brazelton. Nel corso degli anni gli studi e le evidenze scientifiche sulla utilità e sulla efficacia di questo approccio sono aumentate e si sono consolidate.


I benefici a carico del neonato riguardano la funzionalità polmonare (con riduzione dei tempi di ventilazione e di ossigenodipendenza), la crescita e il comportamento alimentare, la riduzione del periodo di degenza; ancora più interessante è risultato il miglioramento neurocomportamentale e il livello di maturazione delle strutture neurologiche (documentato anche in maniera strumentale tramite EEG e RMN). I benefici sono stati valutati fino all’età di sei anni, con vantaggi nei confronti del linguaggio e delle altre attività cognitive.


Effetti positivi sono stati misurati anche sui genitori, che mostrano maggiori competenze e minori livelli di stress, e sul personale di assistenza, in particolare le infermiere, che appaiono più abili nel valutare il neonato e adattare le cure in maniera mirata. È rilevante segnalare che, come nel caso della KMC, anche questa pratica assistenziale non si accompagna ad alcun effetto negativo.


Per i dettagli pratici si rimanda alle pubblicazioni specifiche3; mi interessa però evidenziare che la NIDCAP promuove una visione dell’ambiente di cura partendo dalla prospettiva dell’esperienza del neonato e mette al centro del processo assistenziale i genitori (considerati i principali coregolatori dello sviluppo del bambino). In definitiva la proposta è passare da un pratica basata su protocolli standard a un’assistenza personalizzata che minimizzi i fattori di stress e favorisca l’autoregolazione del neonato durante la relazione con l’ambiente e il caregiver. Questo approccio parte dalle competenze neurovegetative, motorie e di stato del neonato, attraverso l’osservazione fine del comportamento spontaneo durante le interazioni; in quest’ottica il neonato prematuro viene considerato un individuo complesso, attivo e reattivo agli stimoli sociali e sensoriali.


Questa modalità assistenziale richiede agli operatori intuito e sensibilità, capacità di relazione e di riflessione, impegno a non sostituirsi al genitore; per questo è necessario un percorso formativo lungo e articolato, con supervisione e tutoraggio almeno nelle fasi iniziali del processo.


Dal 2005 il gruppo di studio per la care neonatale della Società Italiana di Neonatologia ha iniziato l’approfondimento della NIDCAP, promuovendola e sviluppandola in alcune importanti UTIN nazionali; la speranza è che anche questa esperienza, come la KMC, possa diffondersi e consolidarsi, trasformandosi in prassi assistenziale in tutti i centri di cura neonatali del nostro Paese.


Le recenti ricerche neurobiologiche mostrano una grande attivazione dell’encefalo del neonato, che velocemente si struttura in base agli stimoli sensoriali sperimentati; questo momento della vita si sta dimostrando strettamente collegato alle caratteristiche del periodo successivo, fino a condizionare l’età adulta. È nostra opinione che in passato sia stata sottovalutata l’importanza del benessere e dell’equilibrio comportamentale del neonato pretermine. È giunto il momento di camminare con decisione sulla strada che alla tecnologia sa unire sensibilità, relazione e sussidiarietà.

E.B.: È proprio così: come afferma l’antropologa Meredith Small, oggi abbiamo la possibilità di “combinare ciò che la moderna tecnologia e la conoscenza scientifica hanno da offrire con ciò che è meglio per la biologia del bambino”; e allora perché non farlo?


Ora, per concludere, ci potresti raccontare invece, attraverso un caso clinico, l’esperienza della nascita pretermine?


A.V.: Per farlo vi racconterò una storia: la storia di Valentina, una bambina nata piccola piccola…


Valentina ormai è in prima media e vorrebbe andare a scuola da sola, come molte sue amiche. La mamma però preferisce continuare ad accompagnarla; ha paura che ancora non riesca a gestire gli imprevisti, e poi la sua bambina è nata in anticipo e quindi rispetto alle amiche è meglio che attenda ancora un po’. Valentina è nata alla 28° settimana di gestazione con un peso di 1100 grammi. La mamma ricorda come fosse ieri il giorno in cui la pancia è diventata dura e poi sono partite le forti contrazioni. Il seguito è come un film: il tracciato, la faccia preoccupata del medico, la successiva difficile spiegazione, la sua mente confusa, l’anestesista con le sue strane domande, poi la luce accecante della sala operatoria… in questa sequenza veloce e spezzata rimane incisa, come un fiore su un muro di pietra, il pianto flebile di Valentina e la sua pelle rossa e pulsante. Dopo il cesareo c’è stato il silenzio e la solitudine della pancia vuota; un attimo prima erano una cosa sola, ma ora Valentina è sparita in un altro mondo. È ancora dolce il ricordo del papà che corre da un piano all’altro: dopo aver ricevuto notizie della piccola si precipita dalla moglie per raccontare e per consolare. Tutto questo era già capitato a due loro amici, ma non immaginavano che la stessa esperienza avrebbe colpito anche loro.


E adesso che fare? I pensieri volano in alto e lontano. Se Valentina sopravvive, come sarà? Potrà laurearsi, sposarsi e avere a sua volta dei figli? E la loro vita di genitori come sarà? Bisogna cancellare tutti i progetti e i sogni, o qualcosa è possibile conservare? Queste domande non hanno risposta, anche perché non vengono formulate e rimangono nascoste dentro (e ogni tanto affiorano nel viso e nello sguardo).


I due giorni passati in ostetricia sono molto difficili, la vita è come sospesa, il dolore del cesareo non viene giustificato da un visetto che ti guarda e che ti succhia. La paura è che per troppa bontà non ti dicano la verità sulle condizioni di Valentina, e poi ogni parente cercando di consolare fornisce la propria versione della situazione e si lancia in pronostici fantasiosi.


Il terzo giorno è un grande momento, in carrozzella la mamma riesce a recarsi in reparto per conoscere la sua bambina. Ma l’incontro è una tempesta di emozioni contrastanti, la situazione è incomprensibile e confusa. Valentina è un bambolotto nudo; al posto dei vestitini ci sono fili e tubicini, sensori e cerotti, solo il minuscolo pannolino permette di ricordare che quello è un mondo per bambini. Durante la visita le parole delicate dell’infermiera si mescolano a quelle difficili del medico, assieme al suono dei monitor e degli allarmi (che il personale sembra neppure sentire) si sente il richiamo di qualcuno che annuncia l’andata in mensa o di un altro che non ha capito se lo sciopero è revocato… ma in tutto questo Valentina dov’è? Cosa fa? Cosa pensa?


Al ritorno dalla visita la delusione è profonda, la mamma era andata per conoscere la sua bambina ma si rende conto che Valentina per lei è più sconosciuta di prima. I giorni successivi vanno meglio, guardandosi intorno si vedono tante altre Valentine e tanti altri genitori come lei. Una mamma, già lì da due mesi, appare particolarmente tranquilla e fiduciosa; racconta di come sono bravi i medici e sensibili le infermiere, e questo incoraggia e alimenta la speranza.


Valentina supera la fase acuta dell’immaturità polmonare, inizia anche un’infezione che per fortuna viene bloccata sul nascere, comincia e interrompe più volte l’alimentazione con il sondino, ma alla fine riesce a tollerare i pasti; per alcune settimane deve rimanere in incubatrice con un po’ di ossigeno, mantenendo la flebo con tutte le sue pompe attaccate. Una sera i genitori di Valentina sono accolti dal responso funesto di una ecografia cerebrale che ha mostrato un sanguinamento, ma nessuno è in grado di spiegare con precisione quali conseguenze questo potrà provocare; un medico parla di un rischio del 60% ma non è in grado di dire se Valentina appartiene al gruppo che svilupperà danni o a quello che ne uscirà bene. È in questo periodo che la mamma di Valentina non riesce più a spremersi il latte come prima: proprio adesso che la bambina mangia più latte, lei ne produce di meno.


Un giorno la mamma quasi sviene nel vedere Valentina fuori dall’incubatrice. Nessuna l’aveva preparata a questo evento e lei non sa come comportarsi; fino ad ora aveva sempre toccato e accarezzato la bambina tenendo le mani dentro l’incubatrice, adesso invece ha la possibilità di tenerla in braccio, ma alla proposta dell’infermiera rifiuta, ha paura di non essere capace, di fare male, di trasmettere infezioni… Qualche infermiera definisce questo rifiuto un segno di scarsa affettività o di iniziale depressione. Invece il giorno successivo il loro incontro riesce benissimo, si guardano e si abbracciano. Valentina è accoccolata tra i seni della mamma, ha gli occhi chiusi, è concentrata per non perdere nulla di quello splendido momento; tutti i loro sensi sono attivi per riuscire ad assorbire il più possibile l’una dell’altra. A distanza di alcuni mesi la mamma capisce che è stato in quel momento che per lei Valentina è nata; quel giorno finalmente l’ha conosciuta e da quel giorno non ha più smesso di amarla.


Negli anni successivi la mamma rinuncia al lavoro per seguire la bambina, prima per i vari controlli di follow-up e poi per favorire le diverse tappe di crescita. Per lei Valentina rimane sempre un po’ più debole degli altri bambini, ogni problema viene collegato a quella nascita intempestiva, ogni scelta è condizionata dall’esperienza di quei mesi. La mamma continua a sentirsi un po’ inadeguata, come in quei giorni quando Valentina era curata dalle mani esperte delle infermiere; quella paura di sbagliare e di non farcela è rimasta, rendendo più difficili le numerose sfide del diventare grandi.


In realtà Valentina già dal secondo anno di vita si è comportata come qualunque altra bambina della sua età, presentando le normali infezioni e crescendo con lentezza ma regolarmente, mangiando poco, ma manifestando l’energia necessaria e sufficiente. Neurologicamente non ha sviluppato alcun problema, soltanto molta vivacità e un po’ di difficoltà nel concentrarsi a lungo.


Ora che è arrivata alle medie cerca di spiccare il volo, tentando di separarsi un po’ dalla mamma che invece resiste per eccesso d’amore. Non è difficile immedesimarsi in questa mamma che dopo aver tanto sofferto per la prima nascita di Valentina, adesso è restia a lasciarla nascere un’altra volta.

Nato prima del tempo
Nato prima del tempo
Elena Balsamo
Sacralità della nascita e accoglienza amorevole al neonato prematuro.Gravidanza, parto e accoglienza del neonato in una prospettiva emozionale e spirituale, con un’attenzione particolare ai bimbi prematuri. Nato prima del tempo è l’opera di Elena Balsamo dedicata alla perinatologia.La gravidanza, il parto e l’accoglienza del neonato sono qui visti in una prospettiva emozionale e spirituale, visione poco comune tra gli operatori sanitari.L’autrice esplora la dimensione della sacralità neonatale suddividendo il testo in due parti.La prima tratta il tema dell’accoglienza del neonato in condizioni di assoluta normalità, quando tutto procede senza intoppi, aiutando a comprendere appieno l’esperienza della maternità e proponendo vari spunti di riflessione per accogliere il neonato nel miglior modo possibile.La seconda invece è rivolta ai casi più difficili e problematici, quando le cose non vanno per il verso giusto, come i parti prematuri o traumatici, offrendo una nuova visione che apra le porte alla speranza e alla fiducia nel cambiamento. Conosci l’autore Elena Balsamo, specialista in puericultura, si occupa di pratiche di maternage e lavora a sostegno della coppia madre-bambino nei periodi della gravidanza, del parto e dell'allattamento.Esperta di pedagogia Montessori, svolge attività di formazione per genitori e operatori in ambito educativo e sanitario.