Lettera di un bambino nato per vivere

Cari “adulti”,

è così che vi chiamate, vero? Non ho mai capito esattamente il perché di questo nome che vi siete dati: mi hanno detto che vuol dire “cresciuti” ma a me non pare che corrisponda proprio a verità, a meno che voi non intendiate per “crescere” un semplice aumentare in peso, altezza e dimensioni. A casa mia invece questa parola significa ben altro. Comunque sia, è a voi che mi rivolgo, specialmente se siete di quelli che portano sul loro vestito un’etichetta con su scritto “medico”, “pediatra”, “ostetrica”, “infermiera”.


È per voi che ho deciso di scrivere questa lettera perché ci sono delle cose che dovete assolutamente sapere, che oggi non potete più ignorare. Per tanto tempo sono stato zitto ma ora non posso più tacere. E anche se raccontare ciò che sto per dirvi mi costa non poca fatica, so che devo farlo per impedire che altri bambini come me vivano ciò che ho vissuto io e che mi ha arrecato tanto dolore e sofferenza. Perché io, sapete, sono uno di quelli che è sopravvissuto. Altri non ce l’hanno fatta, si sono arresi, dati per vinti. Oppure non è stata data loro l’opportunità di restare. A me spetta onorare la loro memoria: se sono rimasto non è per nulla, è anche perché a me toccava il sacro compito di narrare l’indicibile e custodire il seme della conoscenza, che una volta annaffiato e protetto dai venti e dalle tempeste può dare vita a bellissimi fiori e frutti di ogni specie. A me spettava il compito di raccontare.


Comincerò pertanto narrandovi la mia storia proprio come si fa con una favola; voi mettetevi comodi, chiudete gli occhi e apriteli all’ascolto:


“C’era una volta un bambino che veniva da molto lontano, forse da qualche sconosciuta galassia, forse dalle stelle, da un mondo fatto di luce, armonia e bellezza: il regno dell’Amore. Un giorno fu chiamato. Doveva partire, mettersi in viaggio, proprio quel giorno, non un altro: così era scritto.


Accettò non senza un po’ di riluttanza perché stava proprio bene là dov’era e in fondo quell’avventura nell’ignoto lo spaventava un pochettino, ma sapeva anche che era una grande occasione per lui e non la poteva sprecare. Così quando scattò l’ora prevista, la più adatta per la realizzazione della sua impresa, si decise e lasciò che una forza immensa e misteriosa lo catapultasse in un’altra dimensione molto più grezza e densa di quella in cui era solito muoversi lui. All’improvviso sentì la ristrettezza dei confini e si ritrovò chiuso in uno spazio piccolo piccolo, quello che voi chiamate “utero”, dalle pareti di soffice seta e morbido velluto. Gli ci volle un po’ di tempo per abituarsi alla nuova vita ma poi incominciò a prenderci gusto: si lasciava cullare dai movimenti della risacca del piccolo mare in cui era immerso e da un lontano suono di tamburo che sembrava scandire i ritmi delle sue giornate senza tempo.


Ma proprio quando aveva finalmente iniziato a godere della sua nuova sistemazione, ecco che successe qualcosa di imprevisto e imprevedibile: un mattino d’autunno si svegliò in un posto strano. La sua mamma era sdraiata su un lettino e buffe sagome verdi si avvicinavano a lei: avevano la bocca coperta e in mano degli strani strumenti appuntiti. Poggiarono qualcosa sul volto di lei e lui cominciò a urlare “Veleno, veleno!” Che cosa le stavano facendo? Perché all’improvviso non la sentiva più? Un forte e metallico “bip-bip” aveva coperto ogni altro suono. “Non mi piace, non mi piace”, continuava a ripetersi senza capire cosa stesse mai succedendo. Poi ci fu un urlo: “Non voglio, non voglio!” e un terremoto parve scuoterlo tutto. Il mare era in tempesta e il tamburo batteva velocissimo: lui si sentiva sballottato e in preda a tutta una serie di fremiti e frulli. La paura cominciò ad assalirlo: forse – pensò – è la fine del mondo. Stava vivendo senza saperlo uno di quegli strani fenomeni che voi siete soliti chiamare “attacchi di panico”. “Qualcuno mi aiuti!” prese a gridare ma nessuno sembrava sentirlo. In realtà nessuno lo vedeva e nessuno lo sentiva. Era come se per gli altri non esistesse nemmeno. Ma lui percepiva ogni cosa: le notizie di cronaca nera che la radio andava trasmettendo, il rumore delle macchine che stavano in quella strana stanza e i commenti ironici degli uomini vestiti di bianco che dicevano cose per lui orribili parlando delle donne e quindi anche della sua mamma – ma come si permettevano? – e poi cosa le stavano facendo? Perché lei non apriva gli occhi, perché sentiva tutto quel dolore? “Sono arrabbiato, molto arrabbiato!” disse stringendo i suoi minuscoli pugni e prese a ruggire proprio come farebbe un leone. Ma nessuno se ne accorse.


“Basta! Non ce la faccio più!”, fu l’urlo del suo cuore ormai in preda al terrore. “Sono troppo piccolo, troppo piccolo, non posso fare niente: qualcuno mi aiuti!”


Ed ecco che all’improvviso qualcosa successe: due mani morbide e calde a forma di coppa, lo sollevarono come in una culla. Due occhi dolcissimi lo guardarono e gli sorrisero con tenerezza mentre una voce sussurrava piano il suo nome… Allora il respiro cominciò a farsi più fondo, più lento il battito del suo piccolo cuore. “Forse qualcuno ha sentito il grido dell’anima mia? La sua mano mi sfiora delicatamente la pelle, una carezza così lieve da ricordarmi il tocco di un angelo…” pensò mentre, proprio come un tenero bocciolo, si apriva di nuovo alla vita.


Ce l’aveva fatta pur così piccolo, pur così solo, ce l’aveva fatta, amici miei, perché Qualcuno aveva tenuto su di lui la sua mano e gli aveva bisbigliato all’orecchio “Sono qui con te, tu sei protetto, tu non sei solo…”. Lui aveva creduto alle sue parole che gli avevavo fatto da appiglio, e a quell’appiglio si era aggrappato e con tutte le sue forze piano piano si era tirato su…


Ma la sua avventura non era ancora finita… Da quel giorno trascorsero per lui alcuni mesi tranquilli fino a quando un mattino d’inverno di nuovo all’improvviso tutto intorno a lui sembrò cambiare. La tensione era palpabile come quando grosse nuvole nere preannunciano l’arrivo del temporale. E infatti la tempesta giunse, tutto d’un tratto, inaspettata. Lui non lo sapeva ma quel giorno era un brutto giorno per la sua mamma, era un anniversario, che portava con sé il ricordo di qualcuno che l’aveva preceduto e che ora non c’era più.


Così ecco che si ritrovò all’improvviso immerso in acque di dolore e quelle acque si facevano sempre più scure e dense fino a diventare una palude: non era più trasparente acqua di vita quella che lo circondava ma scura acqua di morte. E lui era troppo piccolo per farvi fronte, troppo piccolo per cavalcare la tempesta. Non poteva farcela da solo. Insieme forse sì, in due tutto è possibile. si andava dicendo: “Mamma, aiutami!” gridava, ma sua madre era girata di spalle e guardava lontano, verso un fantasma che si perdeva nella notte. L’unica soluzione che gli rimaneva era la fuga. Il ventre era diventato una prigione: dentro stava male, soffocava, gli mancava l’ossigeno, così decise di andarsene. “Costi quel che costi” pensò e anche se era ancora troppo presto per nascere, cominciò ad agitarsi e a tirare pugni e calci fino a che qualcosa non si mosse e il nostro piccolo viaggiatore si trovò preso in un vortice inarrestabile che lo comprimeva e lo trascinava lontano. Fino a che, dopo aver sbattuto più volte la testa, proprio come un ariete, contro un muro di gomma, una finestrella finalmente si aprì e lui vide un raggio di luce farsi strada in quel tunnel buio: ce l’aveva fatta, era salvo! Allora chinò il capo e disse sì alla vita. La sua testa ancora umida sgusciò fuori passando sotto l’arco della sinfisi pubica e in un attimo fu abbagliato dalla luce. Subito due mani avvolte nella plastica lo afferrarono tirandolo con forza.


Be’, cari signori, quel bambino ero io.


Quando mi sono affacciato alla vita non ho trovato ad attendermi dolci seni colmi di latte. La mia bocca è rimasta affamata. Non ho potuto affondare il mio capo nel calore di un corpo di donna. Le mie piccole mani di bambino non hanno potuto scorrere tra pieghe flessuose di morbida carne. La mia pelle è rimasta arsa, assetata. Ho cercato il corpo negato di mia madre e non l’ho trovato. Mani frettolose e distratte, mani fredde e insensibili, avvolte nella plastica, mi hanno poggiato su un piano duro, mi hanno infilato dentro al naso un tubo di gomma, mi hanno punto il piede con un ago facendomi sanguinare, mi hanno versato negli occhi un liquido che li ha annebbiati, hanno strofinato il mio corpicino così tenero e delicato con un ruvido asciugamano, poi mi hanno infilato dentro a una scatola di vetro e metallo e mi hanno lasciato lì, completamente solo. Non una parola, non un gesto d’affetto. Allora in quella piccola prigione ho cominciato a tremare.


Sono sprofondato nel burrone della sofferenza: non c’era nessuno ad asciugare le mie lacrime; sono precipitato nel pozzo del dolore e non c’era nessuno a tirarmi su.


Troppo piccolo, troppo piccolo per fare tutto da solo. Mi sento perso, mi sento cadere… Mi raggomitolo ancora di più, come a scomparire. Nessuno mi vede, nessuno mi guarda. Troppo piccolo, troppo piccolo per destare compassione. Dove trovo la forza? Datemi un appiglio affinché mi possa aggrappare, anche uno solo per non affondare nell’oceano della paura. Mostratemi uno spiraglio di luce affinché possa ancora credere nella vita.


La terra trema e io con lei. Riuscirò a resistere alle sue scosse? Riuscirò a sopportare il peso del dolore? Troppo fragili le mie spalle, troppo tenera la mia pelle. Troppo vuoto intorno a me, non ho dove posare i piedi. Troppo rumore per le mie orecchie delicate, affamate di parole d’amore. Troppo dura questa culla per le mie deboli membra, abituate alla soffice coltre dell’utero. Troppo freddo intorno a me, troppi spigoli, troppo metallo: io sono nato da un cerchio e cerco linee morbide e tonde, che mi avviluppino come una coperta.


Troppo presto, troppo presto scaraventato nel mondo: come farò a reggerne il peso?


Troppo a lungo, troppo a lungo in questa cella d’isolamento: cosa mai avrò fatto di male?


Niente contatto, niente contenimento, soprattutto niente comunicazione. Questo forse è in assoluto ciò che mi pesa di più. Uno sguardo, una parola: ecco ciò di cui sono affamato. “Guardami! Parlami!” vorrei gridare a quella sagoma bianca che vedo passare intorno a me ma dalla mia gola secca non esce suono alcuno. Ditemi qualcosa che mi rassicuri, che non mi faccia sentire così solo. Perché la parola è come un filo a cui ti puoi attaccare quando precipiti giù, dentro al burrone della tua solitudine, e come una corda ti può trarre in salvo, impedendoti di precipitare.


Nella mia piccola cella i giorni sono lunghi, il tempo sembra essere senza fine. Io pazientemente aspetto che qualcuno arrivi, che venga a salvarmi, che mi tiri fuori dalla mia prigione e mi riporti nel mondo. Ma non si vede nessuno.


Non ce la faccio, non ce la faccio. “Voglio tornare a casa!”, ho urlato a un certo punto con tutta la forza che avevo in corpo, ma nessuno ha sentito le mie grida, nessuno è accorso in mio aiuto e io ho pianto tutte le mie lacrime. Fino a quando, sfinito, mi sono ritirato in un angolino buio e, per non affogare nel mare della sofferenza, ho tagliato i ponti con il mondo esterno. Finanche le lacrime si sono asciugate, non piango più, ho smesso di lottare. Mi lascio andare e rinuncio alla vita.


Ma ecco che proprio in quel momento qualcuno è arrivato: era una donna dal viso buono, e l’espressione gentile. Mi ha guardato con grande tenerezza e ha iniziato a cantare per me una dolce melodia. Non capivo le sue parole ma so che mi hanno toccato il cuore. Poi ha infilato un dito dentro all’oblò che mi separava dal mondo e io l’ho afferrato, ho stretto con tutta la mia forza e non mi sono sentito più solo. È stato in quel momento che ho deciso di restare. Forse ne vale la pena, ho pensato, almeno ci posso provare. Ogni giorno aspettavo che lei arrivasse, con trepidazione attendevo che venisse da me e mi guardasse, che cantasse per me la sua canzone. E quando mi accarezzava con un tocco così leggero da sfiorarmi appena, io sentivo nuovamente la vita scorrermi dentro come linfa nel tronco di un albero. È così che ho passato i primi cinquanta giorni della mia vita: in una cella d’isolamento, nell’attesa. Lontano dalla terra, lontano dal corpo di mia madre. Con l’orribile sensazione che da un momento all’altro qualcosa di tremendo potesse di nuovo accadere e di nuovo tutto potesse precipitare, proprio come un vaso che cade dall’alto di un ripiano e si frantuma in mille pezzi.


È li che ho imparato a scrutarmi dentro, a osservarmi fin negli angoli più reconditi del mio essere, è lì che ho imparato ad ascoltare il suono misterioso del silenzio. C’era tanto tempo, un tempo senza fine.


È solo un misterioso filo d’oro proveniente dal cielo che mi ha permesso di sopravvivere.


Sì, ce l’ho fatta, sono sceso nella fossa dei leoni, sono passato attraverso il cerchio di fuoco, ho solcato le acque del Mar Rosso, ho resistito e ho vinto!


A volte mi viene da dire che sono sopravvissuto perché ho creduto alle stelle… Ma nel mio corpo sono rimasti buchi e cicatrici invisibili che un giorno si sarebbero riaperti e avrebbero ripreso all’improvviso a dolere e sanguinare perché io potessi una volta per tutte curare le mie ferite; e nel farlo imparare anche a comprendere e a prendermi cura di quelle altrui. Perché io, sapete, sono un bambino speciale, uno di quelli che avevano il difficile compito di restare. Di restare per raccontare. Per raccontare quello che non può essere detto perché un neonato è troppo piccolo per parlare e quasi nessuno lo sa ascoltare.


Ecco perché oggi sono qui a raccontarvi questa storia: è la mia storia ma è anche la storia di tanti altri bambini come me che non hanno ricevuto durante il loro atterraggio su questa terra quanto spettava loro. Oggi i tempi sono cambiati e fortunatamente molti passi avanti sono stati compiuti ma c’è ancora molto lavoro da fare.


Noi siamo bambini del cielo ma dobbiamo diventare figli della terra. Tutti, indistintamente. Questo è il compito di ogni essere umano che viene al mondo. Voi dovete aiutarci a realizzarlo, dovete renderci più agevole il cammino. Ci basta così poco! Non occorre niente di sofisticato e di costoso: a noi serve solo un contatto, un contatto d’amore. Un contatto è una piccola cosa ma può fare miracoli. Voi questo però non lo avete ancora capito. Vi affannate intorno a gesti inutili, che servono solo a calmare la vostra ansia, e non guardate noi, non cogliete i nostri bisogni, le nostre necessità. Voi non sapete osservare, non sapete ascoltare i messaggi che vi mandiamo. Eppure noi parliamo, ma in una lingua che voi ancora non riuscite a comprendere. E così ci sentiamo stranieri, diversi, esiliati. Volete sapere che cosa vorremmo, che cosa ci aspetteremmo al nostro ingresso nel mondo?


Innanzitutto qualche parola di benvenuto, come si fa con un ospite che giunge da lontano, qualcosa come “Siamo felici che tu sia qui, questa è casa tua, è un bel posto dove stare, vedrai. Siamo qui con te per qualunque cosa tu abbia bisogno. Ti abbiamo desiderato e ti amiamo così come sei”.


E poi vorremmo riposare perché abbiamo fatto un lungo viaggio faticoso, e abbiamo bisogno di recuperare le forze. Il posto migliore dove adagiarci è sul corpo nudo della mamma che ci sostiene proprio come la terra fa con ogni sua creatura. Abbiamo bisogno di sentire il suo calore che ci avvolge, pelle contro pelle, carne contro carne, abbiamo fame del suo sguardo che ci nutre l’anima, del suo latte che ci dà forza e voglia di vivere. E se per qualche motivo inevitabile lei non dovesse esserci, allora che qualcun altro ci stia vicino, con amore. E ci dia la mano, ci tocchi con delicatezza per dirci “Sono qui con te e ti amo così come sei”. Perché è questo che ci serve sopra ogni altra cosa: una presenza d’amore. È questo che ci dà la forza di restare, non certo le vostre medicine. Non dico che voi non dobbiate fare ciò che è in vostro potere per aiutarci in caso di difficoltà, ma ci tengo che sappiate che molte volte le nostre difficoltà provengono proprio da voi, dalle vostre inutili interferenze, dal vostro modo di avvicinarvi a noi con aggressività, con frettolosità, con indifferenza. La mancanza di interesse fa male all’anima e il dolore dell’anima è uno dei più terribili da sopportare. Le ferite del corpo si rimarginano e cicatrizzano, quelle dell’anima bruciano per sempre. Solo chi di voi l’ha provato forse potrà capirmi.


A volte basta proprio poco: qualche accorgimento speciale, come gli oggetti magici delle favole che aiutano i bambini a procedere nel bosco quando sono soli. Per esempio, se la mamma non c’è, un soffice vello di agnello che ci ricordi la morbidezza e il calore della sua pelle, una culla avvolgente che ci faccia sentire protetti e contenuti entro confini ristretti (ecco perché ci spostiamo contro il vetro dell’incubatrice e da grandi dormiamo rannicchiati contro a un muro, sotto uno spesso strato di coperte…) e poi la musica… Oh sì, la musica è molto importante per noi perché ci ricorda da dove veniamo e ci fa sentire meno soli. Ho saputo che alcuni studiosi hanno scoperto che perfino le piante di zucchina crescono meglio, più forti e rigogliose e hanno addirittura meno bisogno di acqua, se vengono fatte ascoltare loro delle melodie su misura. A voi forse sembrerà strano ma per me non è certo una novità: la musica tocca come una carezza e contiene proprio come una coperta. Ma non una musica qualunque, perché c’è musica e musica… A me per esempio piace Mozart e anche l’Adeste fideles… ma soprattutto amo il canto della voce umana, un canto di donna che intona una dolce ninna-nanna…


Perciò ecco ciò che io vi chiedo a nome di tutti i bambini come me: guardateci, osservateci con interesse e attenzione, in profondità, e rispettateci! Fin dall’inizio, fin da quando siamo così piccoli da non avere voce, quando siamo non un ammasso di cellule – come direste voi – ma un grumo di vita che palpita nell’attesa di diventare germoglio. Non vi lamentate di come va il mondo se poi non fate nulla per cambiarlo. O meglio per cambiare voi stessi: perché è da lì che bisogna cominciare. Non occorrono grandi rivoluzioni ma piccoli gesti di consapevolezza e ribellione. Tante gocce unite insieme formano un oceano. Non ne sentite la potenza?


Io sì, perché è da lì che vengo e so che è lì che ritornerò un giorno, come tutti noi.


Cari Signori, non siamo altro che onde che vanno e vengono nel respiro del grande mare. Forse voi avete dimenticato ma noi bambini possiamo ricordarvelo. Che ne direste, per una volta, di ascoltare la nostra voce? Dovete tendere l’orecchio però perché è una voce che non fa rumore, che sussurra piano, come un fremito di vento, come una brezza di primavera, dolce e delicata come la voce dell’anima che da tempo bussa alla vostra porta e poi se ne va perché non trova nessuno… Perché chi c’è dietro a quei camici e a quelle etichette, cari medici, pediatri, ostetriche, infermiere, ve lo siete mai chiesti: chi c’è? Cosa c’è dietro a quelle maschere che voi amate chiamare “sintomi” e che ricoprite subito con altre a cui date il nome di “diagnosi” e “terapie” e dietro alle quali vi trincerate per camuffare la vostra insicurezza: cosa c’è, ve lo siete mai chiesti?


Provate a cercare il bambino, a osservarlo, ad ascoltarlo e forse lo scoprirete.


Forse…


E allora potremo assistere insieme al sorgere di cieli nuovi e terre nuove.


Coraggio, non perdetevi d’animo: io lo sento, l’alba ormai non è lontana…


Iniziato a Natale 2011 e finito di scrivere per Pasqua,
il giorno di Venerdì santo

Nato prima del tempo
Nato prima del tempo
Elena Balsamo
Sacralità della nascita e accoglienza amorevole al neonato prematuro.Gravidanza, parto e accoglienza del neonato in una prospettiva emozionale e spirituale, con un’attenzione particolare ai bimbi prematuri. Nato prima del tempo è l’opera di Elena Balsamo dedicata alla perinatologia.La gravidanza, il parto e l’accoglienza del neonato sono qui visti in una prospettiva emozionale e spirituale, visione poco comune tra gli operatori sanitari.L’autrice esplora la dimensione della sacralità neonatale suddividendo il testo in due parti.La prima tratta il tema dell’accoglienza del neonato in condizioni di assoluta normalità, quando tutto procede senza intoppi, aiutando a comprendere appieno l’esperienza della maternità e proponendo vari spunti di riflessione per accogliere il neonato nel miglior modo possibile.La seconda invece è rivolta ai casi più difficili e problematici, quando le cose non vanno per il verso giusto, come i parti prematuri o traumatici, offrendo una nuova visione che apra le porte alla speranza e alla fiducia nel cambiamento. Conosci l’autore Elena Balsamo, specialista in puericultura, si occupa di pratiche di maternage e lavora a sostegno della coppia madre-bambino nei periodi della gravidanza, del parto e dell'allattamento.Esperta di pedagogia Montessori, svolge attività di formazione per genitori e operatori in ambito educativo e sanitario.