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Storie di vita: la parola ai genitori
(e non solo)...

Dal primo momento che ti ho visto (sbucava la tua testolina da tua madre) ho avuto un fremito di gioia che mi ha accompagnato in ogni istante dalla tua nascita.


Quante emozioni, continue e ricorrenti, difficili da gestire e impossibili da dimenticare…


Quando il tuo respiro era affannato e singhiozzante, quando l’ostetrica ti pose avvolta in quella pezza bagnata sulla spalla di tua madre, quando, indaffarata a togliere la placenta, dava un occhio al tuo respiro ma non provvedeva a scaldarti o ad avvicinarti a tua madre affinché sentissi il suo calore, quando nella difficoltà del momento non espressi perplessità sul da farsi, sia per il turno da rispettare per essere lavati sia per l’attesa in una semplice pezza umida, sempre la stessa, sicuramente fredda.


Quando mi dissero di parlare con tua madre, di certo senza riuscire a rassicurarla, quando ti portarono in Terapia Intensiva per stimolare il moto respiratorio, immettendoti nel naso due cannule per l’ossigeno, quando mi invitarono a sottoscrivere liberatorie che svincolassero l’organico da possibili responsabilità.


Quando inserita nell’incubatrice mi dissero “può toccarla”, quando con il coraggio che li contraddistinse mi dissero di andare in reparto e di farti visita solo negli orari prestabiliti, quando la mattina dopo ti vidi là, con il tuo respiro normale, chiusa in quella scatola trasparente.


Quando, con un’ora di preavviso, mi dissero che ti avrebbero dimessa e trasferita nel reparto di Neonatologia, quando con tua madre ti venni a trovare e capimmo quanto eri meravigliosa, quando la mattina seguente alle 4 mi presentai in reparto per starti vicino, quando al pomeriggio dimisero tua madre e iniziammo a stare con te più tempo possibile.


Quando ci dicevano “tutto bene”, ma intanto continuavano a farti flebo e a prelevarti campioni di sangue, quando come se non bastasse iniziarono a rosolarti con la lampada agli UVA per abbassare la bilirubina ponendoti nuda in un lettino riscaldato con una maschera sugli occhi, consigliandoci di lasciarti più tempo possibile a subire quella tortura.


Quando la mattina ti fecero quell’ultimo prelievo e l’infermiera disse “quest’ago è troppo piccolo, me ne serve uno più grande”. Mi sentii morire.


Finalmente arrivarono le tue dimissioni e orgogliosi come non mai ti portammo a casa. Ogni tua espressione al tempo stesso ci rallegrava e ci allarmava, ogni situazione era un’allerta e ogni piccolo imprevisto sembrava un ostacolo insormontabile.


Non finì l’angoscia. Il lunedì sera ti dimisero e il mercoledì avevamo già una visita di controllo con ulteriore allarme: non eri cresciuta di peso, eri di 2,750 kg quando ti dimisero e non avevi preso neanche un grammo nel giorno e mezzo seguente. Tua madre andò in paranoia pensando che ti avrebbero ricoverata venerdì, alla tua prossima visita. Fu il tuo aumento di 155 grammi ad incoraggiare tutti e a liberarci dalla morsa ospedaliera. Su quella base cercammo di sconfiggere le nostre paure, ma queste ci erano piombate addosso come macigni, oltretutto gravate dalla più totale inesperienza genitoriale.


Quanto alla forza per superare gli ostacoli, in un modo o nell’altro la si trova sempre, non c’è situazione per cui non si trovi una soluzione e soprattutto dalla quale non si possa trarre esperienza. Ogni passaggio della vita, cruento o banale che sia, porta con sé un’energia spesso incontrollabile.


Buona vita,

papà.

Emanuele, Bologna



Quando è nata mia figlia, prematura di 7 mesi, abitavamo a Cagliari: allora – erano gli anni Sessanta – la Sardegna sembrava terra di frontiera e in ospedale non possedevano un’incubatrice. Mio padre ce ne spedì una da Roma e mio marito la montò leggendo il libretto delle istruzioni… Nel frattempo la bimba era stata messa in una scatola di cartone riempita di ovatta per essere tenuta al caldo; rimase poi nell’incubatrice per cinquanta giorni. Due volte rischiò di morire: la prima a causa della temperatura troppo elevata all’interno della termoculla (se ne accorse il papà, per fortuna, mentre le infermiere erano intente a leggere il giornale); la seconda per un dosaggio troppo alto di un farmaco che le procurò una forte pielonefrite che, a giudizio del pediatra, “avrebbe ucciso anche un cavallo”. Un’altra volta poi ci accorgemmo che le era stato dato del latte andato a male…


I medici mi avevano detto di controllarla sempre, senza peraltro spiegarmi il perché, e io la guardavo giorno e notte per paura che potesse morire. Avevo già perso un figlio prima di lei e non volevo che succedesse di nuovo.


Ma la mia bimba sopravvisse perché era forte e aveva deciso di vivere.


Anna, mamma di Elena, Bologna



Quando nacque mio fratello Daniele io avevo dieci anni. Successe all’improvviso, in seguito ad un’emorragia: mia mamma ebbe un distacco intempestivo di placenta. Era appena al sesto mese di gestazione e lui pesava solo 1,200 kg. Alla nascita i medici scrissero “aborto” sulla sua cartella clinica, ma lui invece strillò a pieni polmoni e mia mamma ne riconobbe il pianto e chiese spiegazioni…


Io ero molto preoccupata per lui, perché spesso ci chiamavano dall’ospedale per dirci che aveva avuto una crisi respiratoria; volevo a tutti i costi vederlo ma non mi era permesso entrare in Neonatologia, allora scrissi una lettera alle dottoresse che l’avevano in cura per chiedere loro se potevano fargli una foto e la mia richiesta fu accettata! Non solo, furono così gentili da rispondere anche alle mie molteplici domande, che avevo radunato in una specie di questionario: volevo sapere tutto di lui! Per quei tempi la sopravvivenza di mio fratello rappresentò un grande successo medico e il suo “caso clinico” venne discusso nelle aule dell’Università di Modena.


Io avevo chiesto a mia mamma di venirmi a prendere a scuola in anticipo il giorno in cui fosse tornato a casa e anche questa volta fui accontentata. Amavo prendermi cura del mio fratellino, tenerlo in braccio e cambiargli i pannolini, e non per nulla in famiglia mi chiamavano la “mamma piccola”.


Ho sempre fatto il tifo per lui e lo faccio ancora…


Elena, sorella di Daniele, Bologna



Sono Laura, la mamma di Alice, nata alla 36° settimana di gestazione, ma con problemi dovuti al basso peso, all’ipoglicemia e all’ipotermia. La gravidanza (la prima per me, fortemente desiderata) stava andando molto bene; qualche nausea all’inizio, ma per il resto tutto era perfetto. L’aumento di peso, a detta del ginecologo, era “da manuale”: 1 kg al mese. Ma poi, verso Natale, cominciarono i primi gonfiori e l’improvvisa crescita di peso, liquidati dal ginecologo con un semplice “mangi meno dolci”…


Infine scoprirono che avevo la gestosi, mi dissero che la bambina era ferma con la crescita già da un po’ e che dovevo partorire immediatamente. Per fortuna ero quasi nella 36° settimana, ma ci spaventammo tantissimo lo stesso. Il parto (al di là di tutte le paure per la bambina) fu un’esperienza molto bella e molto intensa, ma come dico sempre, il vero travaglio doveva ancora arrivare.


Alice mi è stata portata via subito, e non ho avuto modo di stringerla fra le mie braccia. L’ho vista solo il giorno dopo, quando mi hanno detto che avrebbe dovuto essere ricoverata in Patologia Neonatale. Lì, io e mio marito abbiamo scoperto un micromondo dell’ospedale, pieno di piccoli corpicini che lottano ogni giorno per la vita e di genitori forti, che ti accolgono con il sorriso e ti confortano, anche se sei tu che dovresti confortare loro, che sono lì da mesi, visto che per te, se tutto va bene, l’incubo dovrebbe finire in una settimana. Qui si conoscono storie, persone e famiglie, e c’è una fredda stanza di ospedale che ogni sera si trasforma in un luogo di scambio fra i genitori dei piccoli ospiti. Qui si gioisce quando un bimbo mangia 10 grammi di latte o si abbassa la termoculla di un grado… cose banali per un bimbo nato a termine, ma grandi soddisfazioni per i genitori di un bimbo prematuro. I medici dell’ospedale sono stati tutti molto comprensivi e professionali, mentre non posso dire la stessa cosa delle infermiere. Ognuna aveva la sua teoria: una mi diceva che non dovevo neppure provare ad attaccare la bimba al seno perché era troppo piccola, un’altra mi ha chiesto che cavolo doveva farci con il goccino di colostro che ero riuscita a tirare con il tiralatte… Ma abbiamo anche incontrato infermiere meravigliose, che con naturalezza mi hanno chiesto perché non provassi ad attaccarla al seno… ed è stato lì che è cominciata una meravigliosa storia di allattamento che dura da 17 mesi.


Oggi Alice è una bimba sana, anche se ancora piccolina, sveglia e intelligente. Ma la ferita è ancora aperta. I primi tempi eravamo troppo impegnati a farla crescere, misurare il peso, la temperatura, tener lontano i parenti… Oggi che la tensione è scesa, invece, emergono le emozioni, i dubbi e i sensi di colpa. Sensi di colpa per non aver lottato per stare più tempo con lei i primi giorni, per aver ubbidito diligentemente ai medici senza ascoltare quello che mi diceva il mio cuore… Avrei voluto stringerla al mio petto e scaldarla con il mio calore, invece di affidare queste cure materne a una macchina. Riemerge il ricordo di quel corpicino che avevo paura di tenere in braccio, talmente era fragile. E ora, un po’ alla volta, queste emozioni vengono fuori, e allora prendo in braccio la mia bambina e ci facciamo lunghi pianti insieme. Poi di solito Alice mi dà un bacio e si va avanti con la nostra vita, con il cuore un po’ meno ferito.


Laura, mamma di Alice



Premetto che mi ritengo fortunata perché ho potuto stare accanto a mio figlio per tutto il tempo della sua degenza e siamo potuti tornare a casa prima di quanto sperassi. Inoltre ci sono state molte persone che mi hanno aiutato ad avviare l’allattamento, nonostante in quel periodo mancasse la mia consulente di fiducia (l’ostetrica del corso preparto).


Fabio è nato all’Ospedale San Giuseppe di Milano l’8 agosto 2009, a 33 settimane di gestazione, peso 2 kg.


Sono stata ricoverata nella notte tra martedì e mercoledì per rottura delle acque. Mi hanno dato il “celestone” [betametasone] per aiutare Fabio a sviluppare i polmoni e contemporaneamente mi hanno fatto delle iniezioni per evitare le doglie. Una volta sospese le punture, sono iniziate le contrazioni: era la notte tra il venerdì e il sabato, e il sabato pomeriggio Fabio è nato.


Mi è stato dato subito in braccio, poi preso per il bagnetto e quindi messo nella termoculla. Ho avuto la fortuna che la pediatra di turno notasse che Fabio si portava i pugnetti alla bocca, perché grazie a questo piccolo dettaglio me lo hanno portato e l’ho attaccato al seno per la prima volta.


Sono tornata nella mia camera e ho pranzato. Lì la pediatra mi ha detto che si riteneva necessario dargli della soluzione glucosata; sapevo che per i nati a termine non era necessaria, ma lui era prematuro e non me la sono sentita di contestare.


Poi mi hanno chiamata per provare ad attaccarlo di nuovo al seno e per insegnarmi a usare il tiralatte. Ed ecco le prime aggiunte di latte artificiale, perché sembrava avere sempre fame e io non avevo ancora il latte. Quella notte ho faticato a dormire, il giorno dopo ogni 2 ore mi chiamavano per allattarlo. Anche la notte dopo non ho chiuso occhio: era una notte terribile di vento e pioggia e pensavo a lui da solo nella sua culletta… così ho deciso di farmi valere e di dire alle infermiere che volevo essere chiamata anche di notte quando si svegliava. Come mi aspettavo, hanno cercato di farmi desistere: “si deve riposare”, mi dicevano, ma io ho ribattuto: “se fossimo a casa dovrei comunque svegliarmi per allattarlo”. Questa risposta deve aver fatto loro capire la mia determinazione, perché finalmente si sono arrese alla mia richiesta.


Lui era sempre nella termoculla, ma come se non bastasse sotto la luce per l’ittero. Ha passato così tutti i 10 giorni in ospedale; io li ho passati tra ciucciate e tiralatte. Ogni ciucciata era densa di ansia, perché secondo loro il mio latte non bastava mai, e dopo aver fatto la doppia pesata aggiungevano sempre il latte artificiale.


Nel tempo passato insieme mi piaceva tenere Fabio nudo pelle a pelle sotto la camicia da notte, ma anche quello mi veniva contestato: “questo bambino è sempre nudo!”, ed ecco che lo dovevo fasciare nel lenzuolo.


Ho passato qualche momento di sconforto, lo ammetto, ero giù perché non riuscivo a nutrire il mio piccolo solo con il mio latte e un giorno alla frase “non vedo l’ora di poterlo portare a casa” una delle infermiere pediatriche mi ha fatto un discorso quasi terroristico sul fatto che una volta usciti da lì, visto che lui era prematuro, sarebbe stato più esposto a rischi e saremmo dovuti stare in casa e non ricevere visite da nessuno; ho ancora vivo il ricordo di come le sue parole mi abbiano fatto stare male.


Comunque dopo 10 giorni ci hanno mandato a casa, Fabio non aveva neppure raggiunto il peso alla nascita ma ci hanno dimesso lo stesso, perché, testuali parole, hanno visto che “ero una mamma molto attenta e premurosa”.



È la prima volta che mi capita di mettere nero su bianco la mia esperienza. Innanzitutto, grazie per questa opportunità.


Alla settimana 24+4 di una gravidanza splendida, senza nemmeno una nausea, all’improvviso un’emorragia: modesta a giudizio dei medici, infinita per noi. La diagnosi parla di distacco parziale della placenta e distacco quasi completo del sacco. Insomma, bloccata in un letto di ospedale, miolene in vena costantemente, dita incrociate e tanta paura, tante lacrime, tante preghiere a un dio a cui non si crede.


Sorvolando sul trattamento ricevuto in ospedale, troppo legato alle singole persone, alla settimana 31+4 la piccola Elena dice basta alle lacrime, all’immobilità, al passato di verdure e rompe il sacco. I medici cercano di fermare il travaglio, alle 10 mi danno un farmaco che, a detta loro, “non ha mai dato fregature, una vera bomba”. Alle 16, con buona pace dei medici, Elena testimonia, nascendo, che il farmaco bomba non aveva ancora conosciuto una come lei. È lunga 37 cm, pesa 1,290 kg. La placenta riporta “infarti evidenti”, ma le parole magiche sono “funicolo indenne”.


Dopo tanta paura, è pazzesco vederla. È piccolissima. Ed è anche bruttina. Prima del distacco sognavamo delle belle cosciotte morbide e grassocce. Ora ci troviamo delle gambette scheletriche e una bimba che sembra rompersi al solo guardarla.


A distanza di tre anni, e forte di un percorso che è andato sempre meglio, i ricordi si confondono e restano delle immagini, intense come buchi nel tempo, che non sbiadiscono.


La prima cosa detta dai medici, quando Elena non aveva ancora raggiunto le 24 ore di vita: “tutto bene, al momento non ci sono emorragie cerebrali”. Prego?


La preparazione per entrare in Patologia: camice monouso, sovrascarpe, lavaggio mani. Gesti che all’inizio compivamo impacciati e poi sempre più sicuri. I parenti al di là del vetro. I monitor, maledetti, che suonavano e catalizzavano sempre la mia attenzione: respiri al minuto, battiti al minuto, tachicardia, brachicardia, cosa vuol dire, infermiera, mi spieghi. Infermiera, quanto pesa? Dottore, come va? Quando possiamo iniziare la terapia canguro? Quando il biberon? Quanto ha mangiato? Ci sono ristagni? Tutte domande che abbiamo fatto, ottenendo risposte a mezza bocca, sbrigative. Eravamo risentiti per il trattamento dei medici, stavo per esplodere facendo una piazzata, esigendo un trattamento più accorto e delicato, quando una mamma, anche lei con il suo piccolo, mi dice: “stai tranquilla, è un buon segno, vuol dire che sta bene. Devi preoccuparti quando sono loro (i dottori) che vengono a cercarti”.


Quando aveva il singhiozzo non riuscivo a guardarla, quel costato scheletrico che si contraeva mi faceva venire in mente i sopravvissuti di Auschwitz; anche quando le cambiavano il tubo dell’alimentazione (per fortuna dalla bocca e non dal naso) non riuscivo a guardarla. Passavamo il tempo ad accarezzarle le mani, a lasciare che ci afferrasse il dito, a darle il ciuccio perché imparasse a succhiare con forza, a chiamarla per nome. Elena? Elena? Perché si abituasse alla nostra voce.


Quando ha raggiunto il chilo e 4 etti abbiamo iniziato la terapia canguro. Averla su di me, sul cuore… Finalmente era al suo posto. E io al mio. E papà al suo, che le sistemava la copertina, le carezzava le manine, le faceva un sacco di foto. Quando ha raggiunto un chilo e 7 abbiamo iniziato a darle il biberon, con la sacrosanta paura che non sapesse gestirlo, che si ingozzasse. Spiavo il comportamento delle infermiere, per vedere cosa fare se si fosse ingozzata. Ansia e gioia mescolate. Quando ha raggiunto il chilo e 9 l’abbiamo vestita. Le infermiere, dietro un’apparente facciata cinica e con modi sempre sbrigativi, hanno aspettato noi per vestirla. Ci hanno dato degli abitini e ci hanno detto: “bisogna vestirla dentro l’incubatrice”. Io, sempre pronta a dar battaglia e con i nervi costantemente a fior di pelle, ho ribattuto: “ma non ha troppo caldo vestita dentro l’incubatrice?”. “Ma no, signora, ormai è grande, poi la mettiamo nel lettino”. È grande? Come è grande? Improvvisamente nostra figlia diventava grande per la Patologia Neonatale. La luce in fondo al tunnel! Dopo averla vestita, Elena ci fa fare la prima sincera risata: vestita di tutto punto, tira su le braccia e si guarda in giro con un espressione che dire perplessa è dire poco. L’infermiera le mette le braccia sotto la copertina e lei le tira su, schifata. Papà, da allora grande traduttore dei suoi stati d’animo, dice: “Ommioddio, che mi avete fatto?” e iniziamo a ridere, emozionati, di fronte alla nostra bimba vestita con abiti taglia zero che per lei sono enormi.


Pochi giorni dopo l’infermiera mi ferma nel corridoio: “Domani venga di mattina che le facciamo il bagno”. Wow. Il bagno. La mia fantasia parte verso acqua e schiuma, paperelle, tante coccole e tanto tempo. Il giorno dopo mi ritrovo a cacciare mia figlia, urlante, sotto l’acqua corrente di un lavandino. Bisogna fare in fretta se no la bimba prende freddo. Alla faccia. Dopo il bagnetto il peso è di 2,060 kg. Dopo il biberon. Tanta pappa buona. Poi saluto la mia cipollotta e, con il solito groppo in gola, me ne vado. Dopo tre ore la chiamata, sabato 5 luglio 2008, dopo 5 settimane di Patologia e tre settimane dalla data presunta del parto: “Signora? La bambina è dimessa, venga a prenderla”. Prego? L’incredulità e la gioia in breve tempo lasciano spazio alla paura. Ce la faremo? Senza la copertina di Linus delle infermiere, è difficile non mettere in dubbio la propria capacità di fare i genitori… Elena è la prima, e abbiamo iniziato la nostra carriera di genitori con uno stuolo di infermiere esperte che si occupavano di lei. Cosa mai avremmo potuto combinare noi?


La prima settimana a casa è stata costellata di “non sono capace, adesso la riporto”, poi, non so bene neanche io come, la svolta. Forse il primo sorriso, forse il carattere, forse la natura che fa il suo corso, forse gli ormoni che si sono chetati… “Adesso basta. Lei è figlia nostra. Decidiamo noi, facciamo noi, nessuno la ama come noi”.


Ora Elena ha 3 anni e un mese. La guardo dormire mentre scrivo. Ha quasi raggiunto il metro e la pediatra mi dice con orgoglio che supera il novantesimo percentile. Pesa 15 kg e mezzo. Supera il settantacinquesimo percentile. Sta rispettando tutte le fasi dello sviluppo. È volitiva, determinata, allegra, intelligente, chiacchierona, socievole e solare. Non le scappa nulla, ci fa sorridere, ridere e arrabbiare come nessun altro. E, soprattutto, ci ha fatto dimenticare la primissima parte della sua vita.


Tanto che è passata la paura e magari arriverà il secondo…


Francesca, mamma di Elena



Non ho partorito mio figlio, me lo hanno “tirato fuori” d’urgenza, alla ventottesima settimana, con anestesia totale, cui seguì il ricovero in Rianimazione. Attesi due giorni per poterlo vedere in incubatrice.


Mi ero ammalata di una gravissima preeclampsia alla ventiseiesima settimana, quando ancora lavoravo e sentivo il mio bimbo muoversi e nuotare felice nell’utero. Dopo sedici giorni di ricovero tra due ospedali della regione, fummo separati dal buio fisico ed emotivo, in sala di Rianimazione per me e in Terapia Intensiva Neonatale per lui, in incubatrice.


In Rianimazione era vietato l’ingresso ai familiari, solo dopo l’intervento era stata fatta un’eccezione per il mio compagno, per poter almeno dirmi che il bimbo era vivo. In seguito nessuno poté più dirmi nulla di mio figlio. Ero sola, monitorata dai macchinari, malata, ma avevo appena “partorito” e avrei voluto non dico abbracciare il mio bimbo, ma almeno vederlo, sapere come fosse, avere una sua foto, una descrizione. E invece nessuno sapeva dirmi nulla.


Vidi Daniele dopo due giorni. Era minuscolo, pesava 800 grammi, era giallo per l’ittero, oppresso dai dispositivi e dagli allarmi, immobile… proprio lui che si muoveva sempre! E io lo chiamavo: “Daniele! Daniele!” come se potesse riconoscermi, tra tutte le infermiere e le dottoresse e capire che ero io la sua mamma, anche se non potevo nemmeno muovermi. Ero in sedia a rotelle e malandata, non potevo allattarlo, non direttamente perché aveva il sondino, oltre a mille aghi, macchinari per respirare e la lampada. Ero io la sua mamma, volevo comunicarglielo in qualche modo! “Daniele! Daniele! Sono qua! Daniele!” Ma mi riconoscerà? mi chiedevo con angoscia, come se mio figlio, quello che nuotava felice dentro di me, fosse diventato improvvisamente irraggiungibile. E mi logorava anche la sua improvvisa immobilità, in incubatrice, con tutti i fastidi che doveva sopportare.


Quando me lo appoggiarono sulla pancia non ne percepii il peso: era leggerissimo, fragile, e io mi sentivo profondamente inadeguata. In seguito fui assistita da una psicologa del reparto che mi sostenne e mi aiutò a prendere consapevolezza di quell’inspiegabile senso di colpa.


Quando ero ricoverata, dopo il secondo intervento per emorragia e un nuovo distacco dal bimbo, ero così provata che non riuscivo a stare in TIN per più di mezz’ora al giorno. Dalla mia stanza, di notte, nel reparto di Ginecologia, sentivo le voci dei bimbi che piangevano e mi chiedevo se potesse essere Daniele. Poi scoprii che il pianto dei prematuri in incubatrice è tanto flebile da non poter quasi essere udito, la loro voce è bassissima.


Cominciammo ad andare ogni giorno a trovare il bimbo e il mio compagno condivise con me le regole a lui già familiari della sala filtro, con i camici verdi, i disinfettanti, i depositi degli effetti personali. Sentivo disagio per tanti aspetti, tra cui la mancanza di bagni per le mamme che sostavano a lungo, per cui bisognava uscire dal reparto; poi la mancanza di posti per tirarsi il latte, le regole poco chiare, gli infermieri che ruotavano di continuo ed eseguivano con freddezza i compiti di routine; quindi i bisogni insoddisfatti del bambino, i cambi dei pannolini minuscoli in incubatrice, gli allarmi stordenti anche per noi adulti, figuriamoci per i bimbi prematuri!


Appena entrati osservavamo e chiedevamo le indicazioni sul peso, il saturimetro, l’ossigeno, le iniezioni, le trasfusioni. Intanto mi tiravo il latte e durante il ricovero mi trascinavo per i corridoi per portarglielo di persona, al mattino presto. Daniele cercava di togliersi a tutti i costi il sondino gastrico che gli infermieri gli lasciavano inserito. Mi faceva una pena enorme.


Durante la marsupio-terapia il bimbo si spingeva spesso verso il seno, avrei tanto voluto attaccarlo, ma non potevo. Ero inibita dalle infermiere che controllavano ogni mio movimento, loro erano il tramite fisso tra me e il bambino, erano loro a prenderlo e a rimetterlo in incubatrice e a tutelare la sua incolumità. Io mi sentivo spesso di troppo. Io, la mamma, mi sentivo di troppo! Volevo che si appoggiasse sul seno anche se non aveva la forza di ciucciare, solo per tenerlo più vicino, ma non avevo il coraggio di dirlo alle infermiere, così impegnate nei loro compiti di assistenza medica.


Al momento delle dimissioni, avvenute dopo due mesi, la fisioterapista mi trattenne a lungo per spiegarmi le modalità di accudimento del bambino e mi insegnò il wrapping, una tecnica che consiste nell’avvolgere il corpo del neonato in un lenzuolino. Non mi disse nulla della fascia, che mi è mancata tantissimo. Solo molto tempo dopo sono riuscita a comprare un marsupio ergonomico tipo Mei Tai e ho sperimentato la bellezza riparatrice, per mamma e bambino, del portare!


A casa continuai a fare marsupio-terapia come in ospedale, stando ore ed ore seduta. Allattavo il bimbo al seno, aveva tanta voglia di mamma e di contatto e impiegava tempi lunghissimi a saziarsi. Poi si addormentava. Io ero sempre seduta in poltrona con il cuscino per l’allattamento, anche di notte, compiendo sacrifici di sonno e di riposo enormi. A volte mi chiedo come ho fatto, non mi coricavo mai. Mi svegliavo di continuo anche per aiutarlo a fare la cacca, sollevandogli le bambine, per non farlo sforzare troppo. Volevo che stesse bene, volevo alleviare le sue sofferenze soddisfacendo subito i suoi bisogni di bambino minuscolo.


La pediatra che avevamo non era molto sensibile e non mi diede consigli utili sull’accudimento; anzi, mi consigliò di togliergli il latte materno a soli diciotto mesi, per non farlo attaccare troppo a me! Io mi ribellai fortemente a questa intrusione, che purtroppo non fu l’unica. Sulle vaccinazioni eravamo sprovveduti e i medici di riferimento non ci furono d’aiuto per scegliere in consapevolezza. Vaccinammo Daniele molto presto e il bimbo ebbe problemi gravi di sonno, con circa venti risvegli a notte, per molti mesi. Anche per l’introduzione dei cibi solidi vivemmo dei momenti difficili, mi dicevano che dovevo insistere e non mi dissero che ci sono dei segnali per comprendere se il bimbo è pronto all’introduzione dell’alimentazione complementare. Poi, dopo qualche mese di orribili pappine, ho scoperto l’autosvezzamento.


L’approccio naturale di alcuni libri che ho letto mi ha aiutata molto nel recupero della serenità del rapporto con il bimbo e con tutta la famiglia.


Ultimamente abbiamo cambiato residenza e la nuova pediatra e il nuovo neuropsichiatra mi hanno incoraggiata a proseguire l’allattamento finché il bambino non sarà pronto a staccarsi. Ho maturato da tempo le mie convinzioni, rafforzando il mio istinto materno, ma relazionarmi con medici attenti e rispettosi, nonché, ultimamente, con splendide educatrici del nido, che rispettano l’allattamento e accolgono amorevolmente il bimbo, ha incrementato ulteriormente la serenità mia e di tutta la famiglia.


In questi giorni Daniele si sta inserendo al nido con serenità e mi piace pensare che ciò sia dovuto sia alla sensibilità delle maestre che a una fiducia di base che il bimbo ha potuto costruire dopo le dimissioni dall’ospedale, con il nostro amorevole accudimento.


Margherita, mamma di Daniele



La gioia passa ogni poro della pelle quando vedi nel test la parola “positivo” e ti senti toccata dal cielo per poter provare tanta emozione! Purtroppo nel mio caso la serenità dura poco perchè dopo poche settimane un’emorragia violenta mi fa correre all’ospedale con la speranza di sentire quel cuoricino battere ancora. L’attesa è lacerante e poi l’ecografia parla di miracolo perché quella cellula che batte è ancora attaccata lì per un filo sottile, la mia stellina ha fatto sentire che c’era, era ancora con me, non voleva mollare, voleva a tutti i costi venire a questo mondo. Per me ora riposo assoluto e sperare. Passo mesi con mille premure per quell’esserino che già si dimostrava speciale e tutto andava per il meglio, la morfologica annuncia che è una bimba e ne siamo tutti felici, la sento un poco muoversi e anche la pancia inizia a vedersi. Sono alla 23° settimana e arriva una mazzata tremenda. Dopo giorni in cui mi sentivo agitata e strana faccio alcuni controlli e purtroppo mi viene diagnosticata la gestosi e un probabile ricovero ospedaliero che non escludeva un parto prematuro. NOOOO!!! Alla 23° settimana è troppo presto! Mi metto sotto cura da un cardiologo e provo tutto il possibile per tre settimane ma quella benedetta pressione si alzava inesorabilmente e implacabilmente, fino a che la situazione mi porta al ricovero. Anche in ospedale si è tentato di tutto, ho cercato di rubare giorni preziosi per far crescere un pochino la mia bimba, tracciati continui, flebo incessanti… ma il mio corpo non ce la faceva più, ero deforme, gonfia e dolorante e così, in piena notte, dopo che il chirurgo ci aveva spiegato la pericolosità della situazione, entro in sala operatoria quasi incredula che tutto ciò stesse succedendo proprio a me.


Affronto la sala operatoria per il parto cesareo con pacatezza, mi sentivo strana perché, nonostante gli avvertimenti nefasti del chirurgo, non avevo paura. L’anestesia dura una mezz’oretta e poi si procede al parto. Sento finalmente il gemito, sottile, stupendo. La portano via subito e non la riesco a vedere. Inizio a tremare, chiedo perché c’è tanta confusione, poi le cose si complicano perché non riesco a respirare, ci provo ma proprio non ce la faccio. Ora ricordo le parole del chirurgo e ho la testa piena di pensieri, di quello che potevo fare , di quello che potevo dire, che forse la mia bimba non avrebbe avuto vicino la sua mamma e avevo paura per lei, per il suo futuro. I pensieri si intrecciano a migliaia e il respiro sempre meno fino a quando non riesco più a lottare, sempre troppo faticoso e poi più niente… Mi sveglio dopo cinque giorni in terapia intensiva e capisco, dopo i primi attimi di stordimento, che sono ancora viva. Che meraviglia! Chiedo subito della mia bimba e la primaria personalmente mi rassicura sul suo stato di salute. È nata di 850 grammi alla 26° settimana. È piccola, ma lotta come una leonessa! Fremevo dalla voglia di vedere il mio gioiello e finalmente dopo 8 giorni dalla sua nascita sono riuscita ad andare in terapia intensiva dove riposava nella sua culletta termica.


Non dimenticherò mai l’emozione, l’incredulità nel vedere tanta bellezza: una piccola bambola perfetta, dolce ma forte, aveva lottato duramente quei primi giorni e ancora lo stava facendo. Ora potevo viverla tutti i giorni, in TIN; al S. Orsola i genitori possono recarsi sempre, senza orario prestabilito e così potevo toccarla, guardarla, parlare con lei. Che emozione poterla tenere stretta al petto nella “marsupio terapia”! Momenti stupendi nei quali il calore dei nostri corpi si fondeva, come dentro la pancia e poi il profumo della sua pelle e il suo sguardo intenso che ho imparato a decifrare e che tanto mi trasmetteva delle sue emozioni; perché quello che è incredibile è che questi bimbi, che ancora dovrebbero essere dentro la nostra pancia, siano così sensibili e comprendano tutto quello succede vicino a loro. Per questo è importante l’atteggiamento positivo e gioioso dei genitori: loro hanno bisogno di sentire serenità e fiducia intorno a loro. Ricordo anche le mille paure.


Intubata per respirare alla nascita, poi la c-pap, la mascherina per l’ossigeno, poi gli occhialini… quanta fatica! Piccole crisi respiratorie, ogni volta la paura quando quel monitor suonava e la saturazione scendeva, una lotta ogni volta e ogni volta vinta. Piccole infezioni, valori non adeguati, ma la stellina voleva brillare e sempre ha lottato e vinto. Io devo a lei la forza che ogni giorno trovavo per alzarmi e dopo notti insonni, stanca, andare in ospedale tutto il giorno, lunghe attese nei corridoi, sedie scomode, stanchezze infinite. Lei mi dava il coraggio, mi dava l’esempio di come si deve reagire e lottare, di quanto importante sia la vita.


Tanto importante è stata la solidarietà tra noi mamme, tutte amiche, pronte a condividere pianti ma anche sorrisi. Una grande famiglia sia in TIN che in Neonatologia; medici stupendi, sempre disponibili a rispondere, a spiegare ogni cosa succedesse, a rassicurare; il personale infermieristico, bravissimo professionalmente ma veri angeli custodi dei nostri bambini. Ora ringrazio il cielo per aver potuto vivere questa esperienza, che dovrei descrivere in mille pagine per raccontare ogni momento, ogni emozione di tre mesi passati in quella che, in quel momento per me e la mia bambina, è stata la nostra casa. Mi è stato chiesto se mi sono pentita di questa gravidanza visto il pericolo di vita e i lunghi mesi d’ospedale per la piccola. Posso solo rispondere che diventare mamma di Maria Stella è stata l’esperienza più bella che potessi avere in questa vita. Lei mi ha regalato mille sensazioni, mille emozioni, lei, luce pura, forza e dolcezza. Ma anche l’opportunità di conoscere me stessa, quelle parti di me che ignoravo e che ora fanno di me una donna più completa.


Siamo a casa da mesi e ogni giorno il suo sorriso è un dono prezioso e mi fa capire quanto importante sia amare la vita.


Maria Stella ha amato la vita dal suo primo battito, ha rispettato il dono concesso, ha lottato fortemente per restare qui, per insegnare a noi adulti il valore della vita e che bisogna credere sempre nella positività delle cose senza inutili sensi di colpa perché spesso è il cielo che decide e noi dobbiamo affidarci. I nostri bimbi, nati un po’ prima del tempo stabilito, sono bimbi speciali, forti e sensibili e noi dobbiamo essere per loro genitori speciali.


Auguro a tutti i bimbi prematuri e alle loro famiglie una vita meravigliosa.


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Queste sono solo alcune testimonianze di mamme e papà (e altre figure significative) che si sono fatte voce del bambino che non ha voce, per raccontare la storia, la sofferenza ma anche il coraggio eroico di chi, pur così piccolo, ha rischiato di morire per non morire…


Attraverso le parole dei genitori, schierati in prima linea di fianco al loro bambino, emerge però anche il vissuto di chi ha il compito di prendersi cura e di fronte alle difficoltà e al dolore si sente solo, impotente e a volte addirittura colpevole.


Ho chiesto a Livia Natali, psicoterapeuta e amica carissima, con cui da vent’anni porto avanti la mia attività di formazione, di offrirci qualche spunto per elaborare i vissuti delle mamme e dei papà affinché si sentano sostenuti e accompagnati nella straordinaria avventura di una nascita prematura o comunque particolarmente traumatica.


E.Balsamo: Quali sono i punti salienti che sono emersi a tuo avviso dalle testimonianze dei genitori sopra riportate?


L.Natali: Innanzitutto l’importanza della figura paterna: la presenza del papà nei casi in cui la mamma non può esserci (per esempio per problemi di salute o ricoveri) per il bambino è fondamentale. Il padre ha un ruolo essenziale nel riconoscere il bambino e spesso è proprio lui che lo fa per primo e aiuta la mamma a farlo a sua volta al momento del ritorno a casa dall’ospedale. Se il padre è sufficientemente forte può sostenere la compagna e farsi carico del bambino fino a quando la mamma non è pronta anche lei ad assumersi tale compito.


Poi, per quanto riguarda le mamme, trovo molto bello e importante ciò che è emerso da una testimonianza in particolare, relativa alla marsupioterapia: dovrebbe farsi spazio sempre di più il concetto che l’esogestazione è della coppia mamma-bambino, non solo di quest’ultimo. Il tempo perduto infatti lo devono recuperare tutti e due, il neonato e la madre. Pensare in un’ottica di diade, anziché di individui singoli, aiuterebbe quindi, là dove è possibile, a cambiare le modalità di sostegno e di accudimento al prematuro.


Un terzo punto riguarda invece il vissuto di entrambi i genitori, da cui appare chiaramente l’aspetto traumatico. La mamma e il papà di un bambino prematuro si trovano a vivere situazioni estreme che evocano più la morte che la vita e temono ogni giorno per la sopravvivenza del loro bambino. Non è un carico facile da portare. I genitori dovrebbero essere aiutati ad elaborare il trauma in modo tale che non rimanga fissato in una scena che continua a ripetersi all’infinito.


E.B.: Puoi dirci qualcosa riguardo al senso di colpa che molte mamme sentono in caso di una nascita prematura o problematica?


L.N.: Quello del senso di colpa è un discorso complesso che non può essere generalizzato, ma ciò che posso dire è che, analogamente a quanto succede per la depressione post-partum, si tratta di una problematica che non sempre riguarda la situazione in atto in quel preciso momento ma spesso qualcosa che va più indietro nel tempo. Si tratta cioè di una tematica che riaffiora ma che esisteva, seppur non riconosciuta, anche prima dell’evento nascita prematura e le cui radici vanno cercate, a tempo debito, nella storia della coppia o anche della famiglia attraverso le generazioni.


E.B.: Trovo che un tema fondamentale, mai sufficientemente affrontato, riguardi l’ambiente in cui si trova a vivere il neonato prematuro. Per concludere, puoi dirci qualcosa a questo riguardo?


L.N.: Il neonato prematuro o con problemi che sta per periodi a volte molto lunghi (e che a lui sembrano infiniti) dentro a una incubatrice vive in una condizione di totale isolamento sensoriale. La sua vita è affidata a una macchina, cioè un oggetto inanimato che si sostituisce a una relazione umana tra persone. Questo disorienta sia il bambino sia il genitore, che spesso se ne sta immobile davanti alla termoculla senza sapere cosa fare o non potendo a volte fare nulla. Il neonato viene dalla morbidezza dell’utero, dove è immerso in un bagno sonoro, che per lui è come una prima pelle, e si ritrova a vivere in una scatola di metallo e vetro, asettica, dura e fredda, senza suoni che non siano i bip bip dei monitor. Molto si potrebbe fare ancora per umanizzare questa macchina e renderla più simile all’ambiente intrauterino, cosicché il piccolo prematuro possa sperimentare al suo interno non solo situazioni di dolore ma anche di piacere.


E.B.: È esattamente quello che ho sempre pensato: la termoculla dovrebbe assomigliare a una navicella spaziale, dalle forme arrotondate e i confini ristretti che danno contenimento, morbida e insonorizzata, in cui il neonato può sentire la voce della mamma e del papà che lo culla…


Mi auguro che anche questo sogno diventi prima o poi una realtà…

Nato prima del tempo
Nato prima del tempo
Elena Balsamo
Sacralità della nascita e accoglienza amorevole al neonato prematuro.Gravidanza, parto e accoglienza del neonato in una prospettiva emozionale e spirituale, con un’attenzione particolare ai bimbi prematuri. Nato prima del tempo è l’opera di Elena Balsamo dedicata alla perinatologia.La gravidanza, il parto e l’accoglienza del neonato sono qui visti in una prospettiva emozionale e spirituale, visione poco comune tra gli operatori sanitari.L’autrice esplora la dimensione della sacralità neonatale suddividendo il testo in due parti.La prima tratta il tema dell’accoglienza del neonato in condizioni di assoluta normalità, quando tutto procede senza intoppi, aiutando a comprendere appieno l’esperienza della maternità e proponendo vari spunti di riflessione per accogliere il neonato nel miglior modo possibile.La seconda invece è rivolta ai casi più difficili e problematici, quando le cose non vanno per il verso giusto, come i parti prematuri o traumatici, offrendo una nuova visione che apra le porte alla speranza e alla fiducia nel cambiamento. Conosci l’autore Elena Balsamo, specialista in puericultura, si occupa di pratiche di maternage e lavora a sostegno della coppia madre-bambino nei periodi della gravidanza, del parto e dell'allattamento.Esperta di pedagogia Montessori, svolge attività di formazione per genitori e operatori in ambito educativo e sanitario.