seconda parte - fatica amica

capitolo iv

L’orologio delle storie

Ekironda kitaruma n’ekiromba ky’abaana
[Cicatrice che non duole è l’ombelico del figlio]

proverbio africano

Mamma, ti sei dimenticata che dopo il macellaio dobbiamo andare dal fruttaio e anche dal panaio!

Viola, 3 anni e mezzo

Matteo si alzava in piedi per la prima volta aggrappandosi all’oblò della lavatrice quando percepivo i primi movimenti di Viola nel mio ventre.


Il prodigio e la grazia erano doppi, così come il lavoro.


Poi è arrivato Andrea, a cui piaceva contemporaneamente saltare, cantare e raccontare, e ancora Simone, che si diverte a fare andare un trenino di legno sul binario che corre sotto il tavolo, ciuf ciuf, e gli basta una storia e una canzone, sempre la stessa, da portare in viaggio.


La fatica e la gratificazione del pensare e adoperarsi per tutti i figli sono andati di pari passo e tuttora ci accompagnano, talvolta scendendoci sulla testa come piogge pesanti ma purificatrici, talvolta facendosi cavalcare come puledri potenti ma mansueti.


Abbiamo ancora tanta strada da fare, ma abbiamo imparato a spostare la fatica, domarla, donarla. Non ci pesa più sullo stomaco e sul cuore: convivendoci, siamo diventati suoi amici e lei, da brava compagna di cammino, ci ricorda che maggiore è il sacrificio e maggiore sarà la gratificazione, e strizzandoci l’occhio ci suggerisce che quando l’olio di gomito si mescola con la fantasia, lei è disposta a farsi un attimo da parte.

Barca ferma non governa

“Barca ferma non governa!”, sospira il marinaio. Lui teme la bonaccia più della tempesta, perché l’assenza di vento è una situazione di impasse, e se le vele non si gonfiano non si approda da nessuna parte.

È un’immagine che mi rimanda alle giornate ordinarie, magari d’inverno, in cui non si sa cosa fare e si viene presi in un vortice di tensione e apatia. Si perde il controllo della situazione e ci si trascina a valanga, uno dietro l’altro, tutti in una melmosa pozzanghera di irrequietezza.


Cosa facciamo oggi?

Boh.


Possiamo guardare la tivù?

No, la tivù assolutamente no. Ne vedete troppa. Avete tanti giochi in camera, giocate, no?


Non ci va di giocare con quei giochi. Cosa c’è di merenda? Uffa, non c’è quasi niente!

Andate voi a fare la spesa se non vi va bene.


Possiamo? Davvero? Andiamo noi? Ci dài i soldi? Facciamo la lista?

No no, dicevo per dire.


Possiamo guardare la tivù?

Va bene.


B= bambino (22 mesi); M= mamma; P= papà.


B - Noooooo!

M - No cosa?

B - No Noooooo!

M - Perché frigni?

B - Noooooo!

P - Perché frigna?

M - Non lo so.

B - Mammaaaaaaa

M - Martino dimmi.

B - Mammaaaaaaa

M - Cosa vuoi Marti, dimmi cosa vuoi!

P - Marti, basta fare le frigne!

B - Noooooo

M - È stanco.

P - Leggiamo un libro?

B - Nooooo

M - Ti alzi tu o mi alzo io?

P - Perché ci dobbiamo alzare dal divano?

M - Per fargli fare qualcosa.

P - Martino vuoi fare qualcosa?

B - Noooooo

M - Non lo devi chiedere, lo devi proporre.

P - Marti, vieni qui che ti dico una cosa.

B - Noooooo

M - Vieni dalla mamma?

B - Noooooo

M - Che mal di testa…

P - Che strazio…

B - Noooooo


C’era una volta un contadino che invece di lavorare la terra si dava la zappa sui piedi.


Quel contadino sono io, sei tu, siamo noi, e se non curiamo il nostro campo in modo che la terra sia propizia per le piante da crescere, è inutile che ce la prendiamo con la pioggia che non bagna abbastanza.


Bisogna non solo saper dire “basta”, ma anche cercare di non arrivare a doverlo dire. Con un po’ di autodisciplina e di fiducia in se stessi e nei propri bambini, ce la si fa. La famiglia è una squadra: certo, è molto di più, ma intendersi come squadra è una narrazione ottimale che ci può portare via col vento, dopo la bonaccia, verso il nostro porto sicuro oppure verso nuovi scenari da scoprire; ma comunque nella direzione più giusta e proficua per tutti.

B - Noooooo!

P - Che succede al nostro cucciolo?

B - Noooooo!

M - Martino, ti sei fatto male?

B - Noooooo!

M - Vieni qui che ti faccio un abbraccione. Vuoi che giochiamo?

B - Noooooo!

P - Io ho una bella idea. Voi due, Martino e mami, fate tante coccole. Io mi metto qui per terra a preparare1 una fila con questi animaletti che devono andare dal dottore a fare la visita.

B - MMMMmmm.

M - Che bello, il dottore li cura, vero papà?

P - Sì sì, proprio così, ma devono stare in fila e aspettare. Bravi, ecco, così. No, anzi, forse è meglio così.

B - Leone!

P - Sì sì, fra poco sta al leone. Adesso però c’è la tartaruga. Dov’è la tartaruga? Non la vedo.

B - Lì! Guga!

P - La prendi tu? Grazie Marti! Il dottore le dà la medicina per l’occhio.

B - Occhio!

M - Bravo, sì, come Martino quando aveva male all’occhio… e poi sei guarito.

B - Io bua, bua c’è pù!

M - Sì, hai ragione, non c’è più la bua.

P - E adesso chi viene dal dottore?

B - Leone!

P - Va bene. E dove ha male il leone?

B - Bocca! Bua bocca. Ahhhhhh! E pancia bua. Qui.


Prendere la situazione in mano non significa organizzare e pianificare nei minimi dettagli e impartire ordini e istruzioni dall’alto al basso. Un buon capitano ha tutto sotto controllo, ed è un fatto di stato d’animo, di non abbattersi mai. Non pre-occuparsi, bensì occuparsi! Non di-sperare, ma sperare!


Bisogna, come ben sottolinea Alessandra Bortolotti nel suo E se poi prende il vizio?2 “essere disponibili a mettersi in gioco in prima persona, a calarsi nei panni dei bambini, rivivendo attraverso di loro la propria infanzia.”

Alle volte capita di fermarsi, smettere di volteggiare e fare capriole allegre con l’umore.


Con lo sguardo siamo da un’altra parte. Con il pensiero, ancora più lontano.


Le incombenze sono tante e tali da indurci a scappare, cercare anestesie. Il fantastico quotidiano sparisce, non c’è più.


Tutto ci sembra grigio.


Sarà bene allora mettere a disposizione dei nostri bimbi materiali e situazioni che favoriscano il gioco e la narrazione in autonomia, cosicché noi adulti possiamo prendere il respiro, un momento per noi, e la nostra presenza si faccia più silenziosa e defilata, ma comunque amorevole, sicura, incoraggiante.

Zio ozio e zia apatia

Il ragazzo e la ragazza se ne vanno per la via quando incontrano la zia che li manda via dalla via!

Babbo Gastone, anni Settanta

Alle volte bussano alla porta e ci fanno una visitina.

Li lasciamo entrare? Sono zio ozio e zia apatia.

Il silenzio è il loro elemento.

La lentezza la loro modalità.

Ma mentre lo zio è creativo, la zia non lo è affatto.


Lui si inventa cose interessanti perché è annoiato, a lei non interessa niente perché è noiosa.


A volte è proprio dalla noia che nasce la scintilla dell’iniziativa.

Mentre mi annoiavo ho fatto scoperte e sogni ad occhi aperti.


Ho visto bambini crogiolarsi nella noia più noiosa senza lamentarsi mai e mantenendo una resistenza, un’autostima, un umorismo, una forza interiore difficili da riprodurre in momenti di iperattività.


Quindi benvenuto zio ozio, mentre tu, zia apatia, per cortesia, vattene via, con tutto il rispetto che ci sia.

Le routine

…le routine […] coinvolgono bambini e adulti in una realtà specifica e concreta che funge da contenitore significativo e da nicchia evolutiva. In questi contesti il comportamento dell’adulto diventa “strutturante” perché offre al bambino una risposta coerente ai suoi bisogni, fornisce informazioni e relazioni che gli permetteranno di sentirsi accolto, accudito e protetto, consente la conoscenza e la comprensione di ciò che sta vivendo e sperimentando, aiutandolo così a organizzare la sua realtà psichica e ad elaborare abilità e competenze. L’adulto “struttura” contesti ed azioni regolari e stabili che vengono pertanto memorizzate. Contesti ed attività collocate in spazi e tempi definiti e specifici per ogni tipo di routine, sequenze temporali in un fluire quotidiano con azioni che avvengono prima, durante e dopo e che diventano per tale regolarità riconoscibili e prevedibili.3

La ripetitività che caratterizza le routine è un buon viatico per le narrazioni: c’è tutta una tradizione orale di filastrocche, nenie, tiritere, ninne nanne atte ad aiutare la mamma a imboccare il suo bambino, a tranquillizzarlo, ad addormentarlo.


È un patrimonio che ci offre mille spunti alternativi ai rumori artificiali che talvolta andiamo a cercare per aver vita più facile, ottenendo l’effetto contrario.


La televisione rende più passivi e dunque meno consapevoli. Non spendo troppe parole sul cellulare, che ultimamente è diventato un’appendice umana irrinunciabile (o forse è il contrario? Forse sono le persone a fare da appendici ai telefoni?).


Si fa ricorso a effetti e suoni digitali, anziché a quelli che la mamma e il papà possono “produrre” molto meglio, ad un livello di genuina qualità e alta fedeltà, e con il valore aggiunto dell’amore e del calore della loro voce. E, per capovolgere ancora una volta il discorso, quanto sono significativi, formativi e rassicuranti per noi adulti i silenzi e gli sguardi, i suoni e i movimenti, i progressi e, perché no, le fatiche istante per istante dei momenti di routine?


C’è poi da dire che essi non diventano meno importanti con la crescita dei nostri bambini: rimangono, fra le altre, le funzioni di contenimento, relazione e rassicurazione. La loro imprescindibilità ci obbliga, come una madre amorevole e sicura, a fermare il tempo, calmare il cuore, prendere fiato.


Qualcuno potrà rimanere un po’ perplesso e obiettare “Ma se per me il momento del pranzo, del pisolino pomeridiano, del bagnetto è una prova faticosissima?”. Bisogna correggere il tiro, tentare strada dopo strada, provare a lavorare di fantasia e ingegno (anche qui sta il “fantastico”) fino a trovare la calma e la giusta misura. Le narrazioni ci sono molto di aiuto a questo proposito. Come inserire il gioco dell’invenzione giocosa di situazioni e storie all’interno delle routine quotidiane? Come provare a proporla? In maniera lieve ma regolare, come modalità espressiva ma anche come obiettivo: per il bambino le storie giocate e inventate sul fasciatoio, sul vasino, sul seggiolone, sul letto, in braccio, sono ganci, amiche, strumenti di ausilio per la codifica della realtà, e per lo sviluppo futuro, semi gettati ora che porteranno per sempre i frutti.

Il risveglio

Il risveglio si può addolcire, migliorare con le coccole, con i silenzi, e anche con le storie. Senza bombardare la mente dei bambini, che sta forse ancora assaporando gli ultimi sprazzi di sogno, oltre ai rituali che fanno parte del vissuto di ognuno (coccole, preghiere, lo sguardo ad una fotografia sul comodino, l’abbraccio al pupazzetto sistemato ai piedi del letto o la ricerca dello stesso sotto il cuscino…), già di per sé carichi di narratività, possiamo proporre piccole situazioni fantastiche e giocose sulla falsariga di quelle elencate qui di seguito:

1- Con i bambini dai due ai tre anni

Mamma o papà o fratelli grandi: “Guarda guarda, si è svegliato un animaletto! Che animaletto sei?”. Aspetta un segnale del piccolo, che se ha voglia di stare al gioco lo comunica, con i suoi tempi, emettendo un piccolo verso; supponiamo che sia un miagolio.


“Miaooooo!”


“Ah sì? Allora sei un gattino! Che bel gattino!” e ci avviciniamo ancora di più. “Fammi controllare: dove sono le orecchie? E la coda? E i baffi? E le zampette con dentro le unghiette?”


Se il piccolo dimostra di apprezzare il gioco e di starci dentro piacevolmente, proponiamogli qualche movimento lento che lo aiuti a svegliarsi meglio, come ad esempio:


“Vediamo se questo gattino si stiracchia quando si sveglia… sì, lo fa! Mammamia come è lungo!”


E allunghiamo la nostra narrazione allargando lo sguardo alla stanza e alla vita circostante:


“Senti che rumore, arrivano altri animaletti (fratellini e sorelline)!”


“Il gattino si nasconde sotto il lenzuolo e fa cucù-miaooo!!”


Arriva anche la mamma (mamma orsa pelosona che abbraccia) o il papà (un porcospino coccolone che punge con la barba);


“Gattino, vuoi vedere cosa c’è fuori dalla finestra?”


…e così via.

2 - Con i bambini dai tre ai cinque anni

Se non è il nostro bambino a cominciare con una raffica di stimoli e impulsi narrativi, si può proporre di raccontare il proprio sogno.


“Hai dormito bene? Hai fatto un bel sogno? Me lo racconti? Ti racconto il mio…”.


Un’altra idea può essere quella del mondo visto dalla finestra. Propongo un’ultima riflessione: ricordate che cosa avete fatto o proposto al risveglio dei vostri bambini, nel lasso di tempo fra l’apertura degli occhi e la colazione, oggi, ieri, l’altro ieri? Esercitare la memoria è un buon lavoro di consapevolezza e motivazione creativa.

La colazione

Figlia di quattro anni: “Dài, vieni mamma!”
Mamma: “Tesoro, aspetta, devo fare la mia colazione.”
Figlia: “E io devo fare la mia coc-colazione!”

Per i più piccini, l’allattamento e/o la somministrazione del biberon fanno tutt’uno con l’abbraccio di mamma. Il corpo è un fagotto d’amore al calduccio, protetto, che annusa latte e profumo di pelle provando gratificazione e piacere. I cuori battono all’unisono, gli occhi si guardano da molto vicino e si vedono dentro. In un momento come questo, anche il silenzio è una musica. A livello narrativo sono da prediligere lievi nenie e canzoncine ripetitive, con lallazioni e rime piacevoli e pacate.


Per i più grandicelli, con la colazione comincia la parata della giornata. Troppe volte mi sono detta che non ci metto abbastanza entusiasmo: devo cercare di predisporre, possibilmente coinvolgendoli (ma sono ancora fra le nuvole, nel mondo dei sogni!) una tavola accogliente, colorata, personalizzata. Varie fatiche a riguardo:

  1. La tavola è occupata da troppi oggetti dalla sera prima.
  2. Le tazze per il latte sono ancora da lavare.
  3. I nostri bambini si svegliano tutti insieme ed è difficile occuparsi del bebè e anche del più grande contemporaneamente.
  4. I bambini non hanno fame appena svegli.
  5. Se avete altre fatiche da raccontarvi o elaborare, questo è il momento!

Qualche suggerimento per diminuire le fatiche elencate sopra:

  1. Abbiamo un tavolino in cucina? Un ripiano ad altezza di bambino che si possa utilizzare come base per la colazione, identificabile con il gioco ma anche con questo momento rituale? Proviamo ad apparecchiarlo e a lanciare il gioco narrativo della colazione da Tiffany.
  2. Ogni bambino che sa bere da solo dalla tazza la sa anche lavare. Sembra strano, ma è così. I primi movimenti che fanno le mani per afferrare la tazza e portarla alla bocca sono gli stessi che servono per lavarla con l’acqua, se messi nelle condizioni giuste: una piccola bacinella con l’acqua per terra cantando insieme (la bella lavanderina/ che lava la tazzina/ perché già grandina/ diventerà, oppure come sono bravo quando lavo/ faccio questa tazza luccicante/ stando attento perché è un po’ pesante/ poi la metto a testa in giù/ così non si sporca più!). Piccola postilla per chi offre il latte nel biberon ai bambini grandi: non è un dono d’amore. Si racconta così la storia di un bambino che non cresce, che non è autonomo, che senza ciucciare non ce la fa. Capovolgiamo fantasticamente la situazione, e poniamoci la domanda: davvero abbiamo così poca stima di noi stessi da pensare di non essere capaci di suscitare nei bambini lo slancio alla crescita, magari rimanendo un po’ di mattine senza latte (ma comunque mai senza amore), fino a sentire la necessità di abbeverarsi da una tazza? In tempi di guerra c’era chi è sopravvissuto mangiando le bucce di patate e di cipolle. Anche questa è una storia che possiamo raccontare, prima di tutto a noi stessi e alle nostre paturnie.
  3. Il mattino ha l’oro in bocca ed è bene che si sveglino tutti insieme: sono così belli da vedersi, fanno capolino uno dopo l’altro, con tutti gli sbadigli e la forza della loro vita che sboccia! Responsabilizziamoli: mentre noi ci occupiamo della creatura più piccola, loro si arrangiano cooperando, senza annichilirsi come tassi in letargo sul divano, in attesa che noi adulti ci adoperiamo per loro.
  4. Se poi non si propone loro un’accoglienza minima, la fame stenta ad arrivare. L’occhio vuole la sua parte. Lasciando spenta la televisione proviamo a coinvolgerli nella preparazione della colazione: “C’era una volta un bambino che prendeva un cucchiaino… poi un piatto, una tazza…” Ricordiamoci, per dirla ancora con Benati e colleghi, che è in questi frangenti che “competenze fisiche, motorie, cognitive ed affettive si nutrono a vicenda e alimentano la voglia di fare e stare con persone e cose”4.

Nel contesto della colazione ho trovato molto divertente e corroborante narrare la vecchia e saggia favola della gallinella rossa:


C’era una volta una gallinella rossa che abitava in una fattoria. La gallinella trovò dei chicchi di grano e chiese ai suoi amici: “Chi mi aiuta a seminare il grano?”


“Io no”, disse l’anatra.


“Neanche io”, disse il cane.


“Io nemmeno”, disse il gatto.


“Allora farò da sola”, disse la gallinella, scavò e seminò.


Alla fine dell’estate il grano era da raccogliere, bello, alto e dorato. La gallinella domandò: “Chi vuole aiutarmi a mietere il grano?”


“Io no”, disse l’anatra.


“Neanche io”, disse il cane.


“Io nemmeno”, disse il gatto.


“Allora farò da sola”, disse la gallinella, tagliò e trebbiò. Poi chiese: “Chi mi aiuta a portare il grano al mulino?”


“Io no”, disse l’anatra.


“Neanche io”, disse il cane.


“Io nemmeno”, disse il gatto.


“Allora farò da sola”, disse la gallinella, e portò il grano al mulino.


“Chi mi aiuta a prendere la farina?”


“Io no”, disse l’anatra.


“Neanche io”, disse il cane.


“Io nemmeno”, disse il gatto.


“Allora farò da sola”, disse la gallinella, e prese la farina al mulino.


“Chi mi aiuta a preparare il pane?”


“Io no”, disse l’anatra.


“Neanche io”, disse il cane.


“Io nemmeno”, disse il gatto.


“Allora farò da sola”, disse la gallinella, e preparò il pane.

Quando fu pronto, profumato e fragrante, togliendolo dal forno la gallinella chiese: “Chi mi vuole aiutare a mangiare il pane?”


“Io!”, disse l’anatra.


“Io!”, disse il cane.


“Io!”, disse il gatto.


“Mi dispiace, ma lo farò da sola”, disse la gallinella, e se lo mangiò.”5

A chi venga colto dal dubbio che raccontare questa storia sia come impartire insegnamenti pedanti, o a minacciare, rispondo che il contesto e il tono giocoso, la nostra presenza e la nostra voce, la consapevolezza della iperbole e del paradosso narrativo, di cui ho già trattato, mitigano tutto. Inoltre propongo di visualizzare l’immagine di un altro pennuto: mamma oca che, diversamente dall’anatra festaiola della favola, cova, coccola e nutre, ma non solo: talvolta starnazza e incoraggia, con piccole amorevoli spinte del becco, i suoi piccoli.


Dopo queste riflessioni, provate a trovare un’idea creativa e propositiva per rispondere con una storia fantastica alla fatica del punto 5) a pag. 72.


Infine un ultimo spunto: cerchiamo di riporre tazze e piatti, posate e prodotti ad altezza di bambino in modo che i piccoli possano prepararsi il preparabile da soli: in questo modo li raccontiamo come persone competenti, che ce la fanno, se la cavano, provvedono a se stesse.

I pasti

Il rito dei pasti principali è come una rete che pesca e fa emergere le fatiche e le stanchezze adulte elevandole all’ennesima potenza: un momento molto delicato e tanto strapazzato!


Le parole chiave “consapevolezza”, e “competenza” rimangono nascoste, dimenticate, lasciate da parte, e senza queste chiavi è difficile aprire, senza scassinarlo, il cassetto della crescita e dell’autonomia, della serenità e del buon rapporto con il cibo.


Da quando “si pappano di pappe” cambia tutto: il seggiolone, la distanza, l’appetito e l’insofferenza, l’attesa: fondamentali le parole della mamma, i suoi messaggi sonori, mentre prepara il pasto per poi avvicinarsi e imboccare il suo bimbo.


“Arrivo fra poco amore mio!”


“Adesso ti preparo una pappa buona e poi te la metto nel piatto! Senti che profumo!”


“Quanta pappa? Tanta pappa nel pancino arriverà, la prepara la tua mamma con l’aiuto di papà!”


“Arriva l’aeroplano di papà che ti porta i maccheroni! Ci mettiamo anche il parmigiano? Il pomodoro? Sì!!”


È questo promettere e tranquillizzare, confermare e confortare con un messaggio sincero e affettuoso che permette al piccolo di crescere e potenziare le risorse come la pazienza, l’ottimismo, la fiducia in sé e negli altri.

Per i bambini un po’ più grandi, a partire dai tre anni, si può proporre una narrazione dell’attesa e della costanza un poco più umoristica, raccontabile anche da parte loro, magari una cantilena come quella della tradizione spagnola:

Questa è la storia di re Tommaso
che aveva sempre la goccia al naso.
Sera e mattina, tutto solo,
girava la polenta nel paiolo…
Purtroppo la goccia tremò tremò
e nella polenta diritta cascò.

Il re andò a prendere dell’altra farina
e ricomincia la storiellina:

C’era una volta il re Tommaso
che aveva sempre la goccia al naso
Sera e mattina, tutto solo,
girava la polenta nel paiolo…
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I piccoli, dal momento in cui cominciano a cibarsi di cibi solidi, tenere in mano un cucchiaio e cercare di portarlo alla bocca, devono sempre essere messi in condizione di provare da soli, con il nostro appoggio e la nostra presenza incoraggiante e serena. Dal nostro sguardo e dalle nostre narrazioni devono capire: “Coraggio, ce la fai, non è niente se paciughi, prova, assaggia, scegli, riprova!”


Coma agganciare le storie a tutto questo? Le canzoni e le filastrocche del corpo e della pappa, delle cose da mangiare e dell’acqua da bere: proponiamole nella preparazione del pasto e anche durante il pasto, con il punto fermo che dobbiamo sempre misurarci e verificare che la nostra narrazione non finisca per intrattenere i bimbi distraendoli, ma per intrattenerli rendendoli più creativi e consapevoli. Troppi bocconi vengono infilati in bocca a tradimento, senza che i piccoli ne abbiano la percezione dovuta (momento necessario per uno sviluppo sano e l’acquisizione dell’autonomia).


Quando diventano più grandi dobbiamo stimolarli a condividere quel che c’è nel piatto, assaggiare tutto, non lanciare le cose, non ridere se un bimbo fa guai a tavola, coinvolgerlo nell’apparecchiare e anche, possibilmente, nel pulire e lavare.

C’è una disciplina olimpionica che si potrebbe definire “tiro al piattello di pasta”, nella quale si concorre a chi la spara più grossa per rovinare il proprio momento del pranzo e il pranzo dei propri bambini come occasione di crescita e consolidamento. Ecco i vincitori al podio dell’ultima competizione con le loro frasi. Medaglia di bronzo per:

- Ti faccio un regalo se finisci tutto il piatto!


Al secondo posto si guadagna l’argento:

- Mangia che così diventi più bello!


E la meritatissima vittoria va a:

- Guarda che se non lo mangi subito te lo porta via tuo fratello!


Eppure non vorremmo fare scivoloni, avremmo ragionevolmente tutti il proposito di stare seduti a tavola sereni e ottimisti. Ragionevolmente allora, cioè usando la ragione, possiamo cercare formule e proporre informazioni sotto forma di brevi racconti che stimolino la distensione e portino tutti, noi grandi per primi, ad alimentarsi coscientemente e nella maniera più rilassata possibile, mantenendo comunque il nostro ruolo di “coordinatori del pranzo”.

  • Chi vuole i pisellini verdi e piccolini?

  • Tu li metti sul cucchiaio? Io mangio un pisellino e poi dò un morso al grissino. Gnam Gnam.

  • Una volta da piccolo sono andato a raccogliere i piselli con lo zio Beppe. C’era tanto sole e si faceva fatica, però era bello perché noi bambini giocavamo a correre in mezzo alle piante.

  • Mamma, sai che Gaia è una topina che mangia un pisellino alla volta, piano piano? E nel piatto c’è la sua tana, vedi che ci sono i pezzetti di pane? Li ha portati lei, la topina, e poi li mangia.

  • Squit! Squit!

  • Vuoi sapere se ne voglio uno? Ma sì, certo, grazie topina!

Recuperiamo un po’ di serenità, convivialità, assaggiamo e facciamo assaggiare, rinunciamo, offriamo, rendiamo importante il banchetto, permettiamo ai più piccoli di manipolare, provare, toccare, sentire, giocare, parlare, imitare, servirsi e servire gli altri. Allunghiamo i tempi di seduta a tavola dialogando e interagendo narrativamente. Spieghiamo che il cibo non si tira, ma se il bimbo non è in grado di capirlo e rifà il gesto, invece di ridere di lui togliamogli il cibo di mano con dolcezza decisa e porgiamogli qualcos’altro con cui giocare.


Se ci sfida e ci mette alla prova rifiutandosi di mangiare, conserviamo il piatto per un momento successivo. La fame arriva prima o poi, e “si mangia gli spavaldi”. Non lasciamo spazio ai capricci, ma nemmeno alle gare.


Le olimpiadi non si fanno a pranzo. I racconti sì: aggiungi un posto a tavola che c’è un amico in più… si chiama Sereno di nome e Controllo di cognome.

Il cambio, il vasino

Una canzone, tante carezze.


Il momento del cambio è intimo e delicato. La vicinanza e il contatto fisico aumentano, dunque è bene che la voce cali. Benvenute le canzoncine che rendono più piacevole l’attesa della pulizia, con i suoi movimenti e spostamenti non spontanei, meno fastidiosa, e le cosiddette finger rhymes, che sono le rime dette, cantate e giocate con le mani, con le dita che si contano e si animano, che corrono sulla pelle provocando un piccolo solletico o si nascondono dietro un orecchio, o indicano il naso, l’ombelico, la bocca di un bimbo e poi della sua mamma.


Con le dita delle mani o dei piedi:

[Pollice/alluce]: “Questo dice: ho fame!
Questo dice: Non c’è pane!
Questo dice: Lo farem domani!
Questo dice: Ehi, ce n’è un po’ nel cassettino!
[Mignolo]:E questo dice: Dàllo a me che son piccino!”
[Filastrocca popolare]

Con le dita che indicano parti del viso:
“Questa è la mia faccia
speriamo che ti piaccia
la fronte è un grande viale
il naso un campanile
gli occhi son lampioni
le orecchie due portoni
[…]

la bocca è una gran grotta
la lingua è una marmotta
che un po’ sta sotto i fiori
ma poi ritorna fuori…
RLRLRLLLLL [fare la lingua]!
7

Con le dita che camminano sul corpo del bimbo, dalla testa all’ombelico:

Formichina Dueditina
che cammina sulla testa
vuole andare ad una festa.
Fa un saltino sulla spalla
vola come una farfalla
piove forte tira vento
si ripara sotto il mento
scappa forte la pipì
quasi quasi la fa lì
corre corre poi si lancia
dove c’è la piazza pancia
suona un campanello amico
le risponde l’ombelico:
Benvenuta formichina,
ma non far la birichina!
No no no
Sì sì sì
Ghirighirighirighì!
[fare il solletico]
8

Quando si passa al vasino e al water bisogna lasciare uno spazio maggiore al bimbo. Mi riferisco ad uno spazio fisico e temporale, ma anche narrativo.


Vediamo questi tre passaggi:

1 - Preparazione del terreno

Fino a quando non ci accorgiamo che “l’attimo è propizio” cioè che il bisognino è imminente, è preponderante la nostra proposta narrativa di incoraggiamento: da mesi raccontiamo di noi da piccoli, dei fratellini e sorelline più grandi, che una volta portavano il pannolino come lui ma poi sono passati al vasino, mostriamo libri illustrati e raccontiamo storie di piccoli eroi che hanno fatto la cacca nel vasino/water, e all’inizio non si sentivano a loro agio, ma poi sì… e così via. Prepariamo il terreno. Questi sono i giorni che ci sono parsi favorevoli per far entrare il vasino nello spazio di azione del nostro bimbo, non in bagno ma vicino al luogo dei suoi giochi. Gli permettiamo di giocarci e metterci dentro oggetti vari, ma ogni tanto gli ricordiamo a cosa serve quel contenitore, senza pretendere nulla di più. Ora vediamo che pesta i piedini e si tiene la pancia…


Se si siede sul vasino senza problemi e ci chiede di avvicinarci a lui, andiamo incontro alla sua richiesta.

2 - Presenza silenziosa

Chiediamogli se vuol leggere un libro insieme, oppure proponiamogli una piccola storiella. La pipì arriverà presto e tutto sarà filato liscio. Altrimenti… Ecco fatto, la pipì è scesa, tanta e scrosciante, e anche la cacca è uscita! Evviva! Bravo! Il fatto che nessuno dei due capolavori si trovi ora dentro il vasino non è da rilevare ad alta voce di fronte al bambino. Sarà lui, dopo qualche volta, a cercare di centrare il contenitore, perché si sarà rilassato sentendo da noi commenti positivi e storie che gli restituiscono autostima e serenità, e anche perché non avrà voglia di sporcarsi. Nell’intervallo fra il punto 1) e il punto 2) noi siamo talvolta intervenuti, in silenzio ma con velocità e serenità, a “parare” il bisognino con un piccolo contenitore di plastica “sostituto del vasino”, che compariva in quel momento, poi si andava a versare la pipì nel vasino. Del resto, da quando il bimbo ha scelto il vasino come alleato (e poi da quando sceglierà il water), e viene il momento in cui si concentra, si isola e si assenta dalle cose che stava facendo prima, per andare a espletare il suo bisogno, il nostro silenzio diventa d’oro.


Se, quando andiamo in bagno, proprio nel momento topico, i nostri familiari ci dicessero: “Cosa fai? Stai facendo la cacca? Quanta ne fai? Lo sai che l’ho fatta anch’io? Lo sai che la fanno anche il cane, il gatto, il topo e l’ippopotamo? Che puzza, che bravo, che bello!”. Ci piacerebbe?


Qui dev’essere nostro figlio, con un atto di profonda fiducia in ogni nostro movimento e sguardo (noi abbiamo la stessa fiducia in lui? gliela trasmettiamo?) e abbandono alle pulsioni del proprio corpo, a decidere che cosa fare e come farlo, che cosa dire, se dire, se chiedere aiuto. Al massimo succede a volte che il bimbo dica “mamma” o “papà” nel momento iniziale, di dolore e smarrimento. Basta un “Sì tesoro, sono qui”, e tutto passa.

3 - Ripresa del racconto

Benissimo. Il bisogno è fatto. Fine del silenzio stampa. Sarà il nostro bimbo a chiamarci, e faremo capolino curiosi e raggianti: bravo! L’applauso è un battimani ma può essere anche un breve complimento, un gioire insieme, il racconto al papà che stava nella stanza di là, il racconto alla nonna che arriva e non sapeva ancora che il piccolo è diventato un po’ più grande… Sempre misurandoci con la disponibilità dei nostri bambini, dunque, possiamo riprendere a commentare e a raccontare un piccolo pezzo di giornata in cui “tu ce l’hai fatta senza il mio aiuto.” In che modo?


Ci si può soffermare insieme sulla pipì: “Quanta ne hai fatta! Hai bevuto tanta acqua! Brava!” e anche sulla cacca: “Quante palline, sono piccole e poi ce n’è una più grande!”. E ancora: “Che odore! Le diciamo ciao? La buttiamo nel water? Plof plof! Tiri tu giù l’acqua? Buon viaggio cacca!”. Si può poi rimarcare il fatto che adesso senza la cacca o la pipì da fare possiamo giocare meglio.


Leggendo queste parole, come le ho presentate in tre punti, vi sembra che sia ciò che già stavate facendo, eppure le cose non filano ancora lisce? Sarà soltanto questione di giorni.


Se invece avete nuove idee, misuratevi con il vostro buonsenso e provate.


Anche per noi genitori l’abbandono del pannolino è un momento importante, ed è bene sdrammatizzare, mai spettacolarizzare.


Come il resto delle mille azioni d’amore che svolgiamo ogni giorno, anche questa richiede di muoverci con delicatezza e rispetto, meraviglia e fantasia.

Il pisolino pomeridiano

Quando il bimbo è figlio unico e si addormenta per il suo pisolino pomeridiano, gli adulti fanno un sospiro liberatorio e gongolano per l’oretta (minimo) di relax che li aspetta. Suonano le arpe, cinguettano gli uccellini, spunta in cielo l’arcobaleno, si rilassano nervi e tendini.


Meglio che non ci siano silenzio e buio totali, per non creare troppo stacco e affinché il piccino non sussulti a ogni sollecitazione sonora esterna e non rischi di svegliarsi per una porta che si apre e lascia entrare un taglio di luce. Il bimbo deve avere una certa consapevolezza dei ritmi circadiani, che è propizia per il suo sviluppo fisiologico.

Nel caso di più figli, nella maggior parte dei casi, succede invece che le mamme o i papà che si occupano dell’addormentamento pomeridiano vivano uno stato di allerta e di tensione crescente, che con l’abitudine tende a trasformarsi in sofferenza per tutti.


L’elasticità è uno dei requisiti fondamentali che bisogna esercitare, e più aumentano i figli e più sono necessarie grandi dosi di “Portapazienza”, “Ecchessarammài”, “Saràperunaltravolta”.


E se ci raccontassimo una storia diversa? Proviamo.


Mamma orsa si spostò nell’angolo della nanna con il suo piccolo in braccio. Mentre gli orsetti fratelli e le orsette sorelle giocavano con cose non troppo rumorose, come i fogli, i colori, i libri, le file di sassi e rametti, e la sabbia modellabile, la mamma cantava e raccontava storie per il piccolo ma anche per tutti gli altri.


Il piccolo si addormentò quando sentì nel naso un’aria tranquilla, di amore e attesa, e rimase immobile anche se nella tana c’erano luci, voci e piccoli rumori, fino all’ora di merenda.

– Piccolo orso, fra poco è l’ora del riposino –, gli ricordavano dolcemente ogni giorno la mamma e il papà, nel momento del dopo pranzo in cui la mente è più propensa a fantasticare, e il corpo a rallentare.


Questo piccolo preavviso lo faceva sentire lì per lì un po’ dispiaciuto, ma poi anche protetto, al sicuro, in un luogo dove sapeva che tutto avveniva per il suo bene.


I fratellini e le sorelline, affettuosi e ragionevoli, lo salutavano con la promessa di un gioco insieme dopo la merenda, e mantenevano il più possibile i passi leggeri, concedendosi ogni tanto qualche zuffa a bassa voce. Anche mamma e papà avevano bisogno di riposare, ma lo facevano per meno tempo rispetto all’orso bebè, scegliendo poi di condividere il tempo di veglia e di attesa del risveglio del loro figlio più piccolo insieme agli orsetti più grandi.


Non sempre i progetti andavano per il verso giusto: una bussata di troppo, uno starnuto, qualche linea di febbre o qualche altro motivo talvolta non permettevano un pisolino pomeridiano “liscio”.


Ma gli orsi avevano capito che l’umore è contagioso, e un loro sorriso, comunque fossero andate le cose, le avrebbe migliorate.

Il bagnetto

Non disponendo di vasca da bagno, le nostre esperienze di contatto purificante con l’acqua si svolgono “doccia dopo doccia”. Le immersioni vere e proprie, invece, con una durata e una portata tale da poter conferire loro il nome regolare di “bagno”, si sono svolte fino ad oggi o in scenari sconfinati verso l’infinito e oltre (per dirla con Buzz Lightyear9), cioè nel mare vicinissimo a casa, oppure, come direbbe il genio della lampada disneyano10, in un minuscolo spazio vitale: la bacinella bianca da bucato, duttilissimo parallelepipedo di plastica, che alla bisogna viene rimosso dall’hangar (la parte superiore dell’armadio in camera da letto), spolverato, riempito, vissuto, svuotato.


Si può evincere che non è nostra abitudine fare il bagno ogni sera, e poco male, non l’abbiamo mai vissuta come una tragedia (sarà l’effetto di due dei tre medicinali citati sopra?).


L’importante è raccontare l’urgenza dell’igiene e della cura personale (degni di nota il bicarbonato e l’amido di mais di cui approfondiamo nella parte dei materiali), soprattutto quella dei denti, che fa sorridere per forza, e quindi ci sta più simpatica.

Tu non sai cos’è l’igiene
sporco lupo troppo ghiotto:
è lavarsi bene bene
dentro, fuori, sopra e sotto!
11

Sono le parole che faccio dire dalla dentista nutria Nunzia al lupo pigrone e trascurato, protagonista del libro Lupo Luca aveva i denti che ho scritto memore del Pierino Porcospino dei miei tempi, il quale andava incontro a una brutta fine perché non si lavava.


Pierino Porcospino è stato uno degli spauracchi della mia infanzia. Continuavo a scrutarne i particolari selvatici nelle illustrazioni di un libro che raccoglieva tanti racconti. Sapevo a memoria quella pagina. Mi faceva venire un misto fra compassione e repulsione, un gran prurito in testa e una gran voglia di lavarmi e indugiare con la spugna nei punti della pelle più bisognosi di pulizia.


Ho trasmesso ai miei bambini le sue avventure e ho preso atto che loro le vivono con ilarità, pienamente consapevoli che si tratta di un’invenzione, di una storiella tragicomica, mentre io credo di aver pensato fino ai dieci anni di età che fosse veramente esistito un bambino così orribilmente zozzo e tonto, così sporco… e non per negligenza, ma per una scelta consapevole.

Oh che schifo quel bambino
è Pierino Porcospino
ha le unghie smisurate
che non furon mai tagliate
i capelli sulla testa
gli han formato una foresta
densa sporca e puzzolente
e di lui dice la gente:
oh che schifo quel bambino
è Pierino Porcospino…
12

Sarebbe un peccato però fermarsi soltanto alla storia del povero Pierino, dal momento che sia il folklore sapiente dei nonni sia la letteratura contemporanea ci offrono tanti spunti sotto forma di storie divertenti e giocose, tranquillizzanti e accattivanti, vere compagne che si fanno carico della fatica di intraprendere un lavoro che non ci andrebbe di fare ma che va fatto, e/o che ci fanno compagnia in un momento di rilassamento fatto di tepore e morbidezza.


Condizione, quest’ultima, favorevolissima alle fantasticherie.

La merenda

Un bosco di carote un mare di gelato che lei correndo troppo non aveva mai assaggiato…13

La merenda è avventurosa per definizione.

A merenda si gioca di più, si escogita qualcosa da fare insieme subito dopo, e anche dal punto di vista logistico è giusto inventarsi e concedere ai piccoli qualche libertà: la merenda pic-nic sul tappeto o sul prato, la merenda segreta nella capanna, e così via.


Pensiamo a qualche presentazione narrativamente originale:

  • La merenda della nonna di Cappuccetto Rosso è servita nel cestino.
  • La merenda dei dinosauri erbivori avrà un colore verde, mentre quella dei tirannosauri sarà marrone, o rossa…
  • Nella merenda dell’ape e dell’orso ci sono miele e marmellata.
  • Nella merenda del macaco scodelline di noccioline, uvette, arachidi e mandorle.
  • Nella merenda degli atleti c’è il pinzimonio di carotine, finocchi e cetrioli.
  • Nella merenda di zio Lupo biscottoni pesantoni.
  • Nella merenda dei porcellini budini di fango che fanno sguish.
  • Con la merenda di spianata a quadretto si fa una torre con rispetto.
  • Con la merenda di uva a chicchini facciamo insieme gli spiedini.

E con i piccolissimi, per farli attendere senza spazientirsi:

  • Cosa ha messo mamma gabbiana nel biberon del suo piccolino? [e contiamo i biscotti mentre li mettiamo nel biberon] Un, due, tre, quattro… pesci!
  • Senti come fa la macchinina del frullato? Un due tre, bruuuum! [E accendiamo il frullatore].
  • Arriva un trenino con un tovagliolino, ciuf ciuf ciuf! Arriva un trenino con un cucchiaino, ciuf ciuf ciuf! Arriva un trenino con lo yogurtino, ciuf ciuf ciuf! [Intanto si porta il piccolo sul seggiolone e si preparano le cose]
  • Il porcellino paciugone vuole fare la merenda: gnam gnam ecco, si mangia un piedino!

La nanna di notte

L’allegria di una risata che sembrava durare per sempre, la paura buia ma non minacciosa perché c’era sempre una mano stretta alla nostra, la commozione, il tripudio finale.14

Premetto che i nostri bambini hanno dormito con noi, nel lettone, fino ad almeno due anni e mezzo (specifico che, soprattutto alla nascita, ci devono essere le condizioni per farlo, legate alla corporeità del bimbo e dei genitori e alla serenità di questi ultimi)15.

Aggiungo che a fianco del letto matrimoniale, dal mio lato, c’è un letto a castello, ovviamente occupato.


Dichiaro che sul mio comodino, fra le altre cose, c’è sempre una lucina blanda e un taccuino per gli appunti. Quante domande filosofiche, quante battute brillanti, quante idee fantastiche mi hanno dato i bambini durante il nostro gioco delle storie! E che contorsioni per arrivare ad afferrare la penna e scrivere la traccia di una rima senza rompere il ritmo e senza distogliere l’attenzione dal momento!


Una mamma e un papà, qui più che mai, devono esserci non solo fisicamente. Si vive una buona notte se si è vissuto un buon giorno, ma anche se il saluto prima di entrare, in silenzio e a occhi chiusi, nel mondo dei sogni, è stato abbastanza valido e talmente dolce e rassicurante da ricordare tutto l’amore che abbiamo per loro.


Spunti:

  • Ognuno sceglie un libro da portare a letto. La mamma (o il papà) prende in carico i libri, e comincia a leggerli. Se i bambini conoscono già le storie e le hanno già elaborate dentro di loro non chiederanno continuamente di vederne le figure.
  • Ognuno pensa ad un pensiero felice, un’immagine che lo renda allegro e ottimista, e lo racconta agli altri. Può essere un desiderio (volare), una storia già sentita (Mignolina che cura la rondine), un ricordo piacevole (quando siamo andati a mangiare il gelato, o quando alla nonna è presa la ridarella, o quando Alessandro mi ha difeso a scuola…)
  • Gli audiolibri, ben scelti e dal tono adatto al pre-addormentamento, sono una scelta utile di tanto in tanto. Certo non sono sostitutivi della voce di mamma e papà, ma possono dare un loro contributo, per un gioioso addormentamento.
  • Il papà (o la mamma) racconta una storia classica, con tutte le formule di rito (C’era una volta/ cammina cammina/ ma all’improvviso/ e vissero felici e contenti), misurandosi con i desideri e le paure del più piccolino del gruppo. Nella mia esperienza devo un ringraziamento particolare a Riccioli d’Oro16, bambina abbastanza imbranata e curiosa che si è intrufolata centinaia di volte nella casa dei tre orsi più simpatici del bosco riuscendo sempre a farci divertire e intrattenere, e a volte anche addormentare. La storia di Riccioli d’Oro è stata poi più volte ripresa al risveglio dai bambini stessi: il suo effetto si è così protratto spontaneamente, creando attenzione, calma e un atteggiamento positivo nei confronti degli altri e del cibo.

  • Ci sono serate emotivamente difficili per ogni bambino. Allora si può scegliere, pensandola un po’ prima, di donare una piccola narrazione e proporre il gioco di costruirla insieme: c’era una volta un leoncino arrabbiato perché il suo amico lo… / C’era una volta un leoncino che piangeva e non si fermava mai e allora il suo amico elefante gli disse… (i felini, o i dinosauri, o i gorilla, sono animali che, narrativamente parlando, “raccolgono bene” i nodi di rabbia dei bimbi, i quali si proiettano meglio nelle storie e le sciolgono da soli, con la fantasia e con il cuore, se li mettiamo nelle condizioni di farlo).
  • Il papà si trova lontano, in Africa, e ci manca tanto. Non possiamo sentirlo al telefono, ma non vogliamo rinunciare a dargli la buonanotte. Leoneeeee! Signor Leoneeeee! Ci senti? Siamo noi! Aaaaargh! Cosa volete? Vogliamo salutare il babbo e dargli la buona notte! Va bene. Ci penso io. Lo dico alla zebra. Zebraaaaa! Cosa c’è? Cloppete cloppete. Per ora non ti mangio perché devi andare a dare la buonanotte al babbo di questi bambini. Vai, corri, per di là. Va bene… La zebra è stanca, incontra l’elefante e dice a lui di dire buonanotte al babbo… eccetera eccetera. Il saluto si può anche affidare a un gabbiano, a un moscerino, a un aeroplano, a un angelo… Non ci sono limiti all’amore e nemmeno alla fantasia.
  • Il racconta-cuccioli: ho inventato questo gioco per sdrammatizzare la paura delle forme e delle ombre in camera. Ho invitato i miei bambini a trovare un animaletto qualsiasi e a inventare e raccontare la sua storia. Io scelgo… il coniglietto-pomello del cassetto! Lui si chiama Pommy. Oggi è andato a casa della sua amichetta e poi sono usciti a cercare i ravanelli…/ Io scelgo il panda delle ciabatte. Lui è molto tenero e ha paura di stare per terra. Ma papà panda gli dice di non preoccuparsi, perché di mostri sotto al letto non ce ne sono, e comunque gli promette che se arrivano lui li stende con una mossa di kung-fu./ Io scelgo… il ragnetto. Quello lì nell’angolo, quello vero. Ha paura di noi, e trema come una foglia. Non avere paura ragnetto, ti cantiamo una ninnananna. Fate la nanna coscine di ragno
  • A proposito dei mostri, ognuno ha forse il mostro che si merita, nel senso che si inventa la paura che gli serve per crescere, per affrontare e gestire le ombre che ha dentro? Oppure una riflessione come questa lascia il tempo che trova, dal momento che i bambini di oggi sono esposti a raffiche di immagini di orrore, scene di violenza, messaggi che disturbano e violano i loro diritti e i loro naturali processi di sviluppo?

Io credo che, accolto il bisogno profondo dei bimbi di narrare e ascoltare di mostri, mostriciattoli e schifezze varie, l’“orrorifico” a tutti i costi non fortifichi. So bene che se voglio fare elaborare al mio bambino la sua piccola paura e sollecitare in lui un piccolo salto, un passo avanti verso l’autonomia, una evoluzione di coraggio e di crescita, ci sono già nel mio “blando” repertorio streghe, mostri, furfanti e briganti a volontà. Il sangue che cola, gli occhi che rotolano, i coltelli che volano e gli scheletri che ballano non fanno per me17.


Poi succede che negli anni di convivenza con il mostro tanto temuto, da entrambe le parti si prenda confidenza e si finisca per diventare un po’ amici. Per questo ormai ci siamo convinti che Dabudé, il mostro del bidè, non abbia intenzione di traslocare, anche se il suo ruolo di spaventa-infanti è venuto a cadere. Gli mancheremmo troppo, noi e le nostre storie.

Le grandi tappe

Facciamo storie anche sulle grandi tappe della vita, giochiamo a ricordarle e a inventarne di ipotetiche e fantastiche, e se non ci viene l’ispirazione rivolgiamoci ai nonni o ai bibliotecari: sono depositari di uno stuolo di personaggi e di avventure! Fondamentale è cercare di vedere tutto con gli occhi dei bambini, lasciarsi condurre da loro nella interpretazione della realtà, aprire il cuore a tutto e a tutti come solo loro sanno fare.


La prima volta in bicicletta, il primo dentino caduto, la nascita di un fratellino, il ritrovamento di un piccolo animale ferito.


Quante avventure speciali regala l’infanzia! Citiamone alcune.

L’arrivo di un fratellino

Nel 2002 siamo stati in Africa, ospiti di una missione, per poco più di un mese. Fatuma, una mamma mia coetanea con cui lavavo i panni al mattino (eravamo in Tanzania, e avevamo entrambe ventinove anni), dai primi momenti della nostra conoscenza reciproca mi chiese, a gesti, dove avevo lasciato gli altri miei figli.


Ne avevo soltanto due all’epoca, ed erano tutti e due con me, a giocare a rincorrersi con i suoi. Forse avevo capito male, le facevo cenno di no con la testa. Per qualche giorno lei ha continuato a domandarmi questa cosa degli altri figli. Poi ho chiesto spiegazione e traduzione alla suora della missione che parlava sia swahili che italiano. Fatuma dava per scontato che una donna di ventinove anni avesse almeno sei figli, come lei. Era la prima volta che si confrontava con una sua coetanea europea, e quando ebbe la conferma che ero a quota due, sorrise incredula. Per un po’ scosse la testa, e fece un gesto con la mano che mi ricorderò sempre, un gesto che fa anche un simpatico signore del mio paese che ha ottant’anni e fa il marinaio, che vuol dire qualcosa tipo: “Dài, va là, lascia andare…”


E pensare che nella forma mentale dell’avanzato Occidente impera il pensiero che avere più di due figli sia un proposito illogico, da allontanare. Quella che io sento come apertura alla vita, come massima benedizione, è definita in vari modi, pressoché tutti con accezione negativa: avere tanti figli è essere egoisti, ricchi, folli o superficiali.


Noi non siamo niente di tutto questo, non è questa la storia che racconteremo ai nostri bambini, e qui mi fermo e prendo un’altra strada perché voglio arrivare a parlare dell’arrivo di un fratellino, momento carico di gioia ma anche di tensione, in cui si deve cercare di non incorrere in errori che destabilizzino i figli più grandi.


“Fare le storie” insieme ai nostri bimbi è un gioco bellissimo durante l’attesa del nascituro, un gioco che pone basi molto solide per la casa nuova che si va costruendo.

Diventiamo un po’ più concreti e immaginiamo la situazione.


Quando abbiamo inventato una storia, poi nostro figlio la vuole risentire raccontata da noi. Si tratta di una richiesta di coinvolgimento emotivo, per vivere un momento di libertà e dedizione nel gioco delle storie insieme. Non vuole solo sapere se ci ricordiamo e se abbiamo ancora voglia di stare con lui a inventare. Vuole anche crogiolarsi nel racconto, meravigliarsi e gioire del fatto che ha contribuito con le proprie idee e proposte a creare un prodotto che ha tutti i crismi di una storia come quelle che si trovano nei libri, qualcosa di potente, importante, risonante.


Proponiamogli, come passo successivo, di raccontare con la sua voce a un’altra persona, come una sorella, un fratello, o al papà se il gioco di inventare una storia era stato attivato con la mamma e viceversa, oppure ai nonni, e non da ultimo chiediamo di sentire noi dalla sua voce la storia, perché ci piace che sia il piccolo ad accarezzarci le orecchie e il cuore questa volta!

Qui entra in gioco la fiducia in se stesso, l’autonomia, il piacere di ascoltare e di narrare, di affrontare le situazioni con ottimismo, senza perdersi d’animo. Sono pietre miliari sulla strada dell’educazione! Dobbiamo accorgerci che ci sono, leggerle, utilizzarle, appoggiarci ad esse per prendere fiato ed energia e riprendere il nostro faticoso e splendido cammino.


Quanto più il cammino è impervio e, come si diceva, benedetto nel caso di più di un figlio, tanti più stimoli e idee narrative dobbiamo avere e trovare per gestire la nostra giornata. Ovviamente alla base c’è il sistema di codici e regole di amore buonsenso e disciplina che vigono in famiglia. Ma ci sono espedienti narrativi, spiegazioni fantasiose ma al contempo coerenti e sincere che si possono utilizzare per sciogliere nodi di tensione, dare risposte e proporre questioni, stimolare, organizzare, inventare insieme.

Facciamo qualche esempio:

  • Bambino/a: Perché lui può farlo e io no?

    Mamma/papà: Quando avevi la sua età anche tu potevi. Ora invece che sei più grande puoi fare cose che lui non può. Che ne dici di… (sempre proporre alternative!).
  • La mamma deve allattare la bimba neonata. Leo, il primogenito, di due anni, reclama le sue attenzioni.

    Leo, giochiamo a mamma scimmia e il suo scimmiotto, o a mamma koala e il suo koalino? Mettiti qui sul divano, dietro la mia schiena. Sei il mio cucciolo di scimpanzé che si aggrappa e si rilassa sulla schiena grande della mamma. Sarebbe bene cominciare questo gioco prima dell’arrivo di un fratellino, perché la situazione fantasiosa proposta venga accolta con maggior serenità, dal momento che riprodurre la situazione del koala sulla schiena della mamma sarà già diventata un’abitudine all’arrivo del nuovo nato.

    Pensiamoci: con l’arrivo di un fratello i primogeniti passano da una posizione di fronte, dal centro dell’abbraccio pancia-cuore-sguardo della mamma, a una da cui vedono la mamma di schiena, che sfugge, che si piega e si focalizza su un piccolo fagotto che non sono loro. Le strategie narrative possono concorrere ad alleviare le fatiche in questo senso.
  • In biblioteca c’è una miniera d’oro non solo di libri, ma anche di persone con le loro storie. Dedicando, durante l’attesa della sorellina, tanti pomeriggi alla primogenita Sara, la mamma si è resa conto che in quel luogo pieno di colore e fantasia c’erano altre mamme con il pancione accompagnate dai loro primi figli! Alcuni bebè sono nati prima della sua sorellina, e Sara li ha incontrati, osservati, visti e toccati nelle carrozzine e sul fasciatoio della biblioteca, fra un libro e l’altro, fra un gioco e una storia.

I pidocchi

“Ci siamo rimasti così male…”
“Un’esperienza agghiacciante!”
“Tu ci sei mai passato?”
“Ma come, non l’hai saputo?”
“Io non avrei mai pensato che…”
“Mi hanno detto di un prodotto…”
“Non voglio che si senta isolato…”
“Non lo dire in giro, per favore…”

Si rimane sul vago, non si finisce la frase, ci si guarda intorno furtivi, ci si arrabbia, ci si suggestiona, ci si spaventa, non li si chiama per nome: i pidocchi sono ancora un tabù.

Il loro ingresso nella vita non è certo trascurabile, perché davvero provocano sconquasso. Ma una volta che ci è stato spiegato che

Non c’entra la sporcizia
è un fatto di amicizia
e testa dopo testa
la scuola si è infestata
la festa dei pidocchi è cominciata
Oggi a scuola
gratta gratta
c’è la festa dei pidocchi
per favore non disturbare
anzi prego, partecipare!
Ci sarà un sacco di gente
puoi portare anche la lente
e farai conoscenza
col pidocchio e la sua discendenza
18

possiamo prendere provvedimenti: questa è un’altra di quelle occasioni educative in cui la narrazione assume un ruolo fondamentale. Come raccontare i pidocchi ai nostri figli?

  • Narrazione scientifica: raccontiamo ai nostri piccoli, magari mentre passiamo l’indispensabile pettinino a denti fitti, che tipo di animaletti sono i pidocchi, come nascono, come si alimentano, perché si trovano adesso sulla loro testa o sulla testa di un loro amico.
  • Narrazione inclusiva: raccontiamo ai bambini che, una volta tornati a scuola dopo il trattamento anti-pidocchi, si può continuare a giocare insieme agli amici senza problemi.
  • Narrazione storica: ai più grandicelli possiamo raccontare che tanto tempo fa, se arrivavano i pidocchi, le teste venivano sempre e comunque rasate. Gli adulti mettevano in testa l’aceto, che poi odorava spiacevolmente, e i bambini venivano additati. Come siamo fortunati oggi!

Inoltre, nello svolgimento della vita domestica, facciamo partecipare i piccoli al “trambusto” creato dall’arrivo dei pidocchi: cambiamo le federe, laviamo gli asciugamani, e facciamo il trattamento a tutte le “teste” della famiglia. Questo li aiuterà a capire e ad essere più disponibili, e sbufferanno di meno quando in futuro proporremo di aspettare un momento per controllare la testa e mettere due gocce di tea-tree dietro alle orecchie, che non si sa mai.

Il ciuccio

Tutti i miei bambini hanno utilizzato il ciuccio. Ne abbiamo fatto l’uso più limitato possibile, scegliendo i più adatti e anatomici, andando a sfumare dai due anni e mezzo in poi, con l’eccezione di Viola che quando aveva un anno e mezzo ha regalato due dei suoi tre ciucci ai suoi amici africani (li usavano per giocare), conservando il terzo come una reliquia senza quasi più ciucciarlo.


Questo oggetto laggiù era un gingillo che non si usava, difatti in giro non se ne vedevano. I piccoli ciucciavano straccetti, o il seno delle madri stando sempre infagottati! Il primo ciuccio Viola l’ha regalato a Janeti. Janeti era la settima bambina di mama Upendo. Nella loro casetta di fango, con le stuoie per letto, avevano qualche scodella di latta e una teiera bianca a righe verdi che sembrava uscita dal libro di Alice nel paese delle meraviglie. Scodelle e teiera erano fondamentali per alimentarsi e bere acqua sterilizzata, ma erano anche i giocattoli di Janeti. Poi arrivò anche il ciuccio, che Janeti e i suoi fratelli usavano come trottola.

Mi fai una storia?
Mi fai una storia?
Elisa Mazzoli
Inventare, raccontare, vivere avventure fantastiche nel quotidiano con i nostri bambini.Un manuale per riscoprire l’importanza e il valore del racconto ad alta voce, con suggerimenti e consigli per imparare a raccontare storie ai più piccoli. Mi fai una storia? è un manuale ricco di spunti, aneddoti e rimandi per conoscere e applicare strategie narrative con i bambini piccoli.Come far diventare “amica” la fatica usando le storie?Come gestire in maniera fantastica i rituali della giornata?Elisa Mazzoli, formatrice Nati Per Leggere e autrice, invita mamme e papà a scoprire e a ricordare quanto possa essere utile condividere narrazioni con i propri figli, con esempi concreti e incoraggianti suggerimenti. Conosci l’autore Elisa Mazzoli vive da sempre a Cesenatico.È scrittrice, narratrice, consulente editoriale, formatrice nell’ambito della letteratura per l’infanzia.Laureata in Scienze Politiche, dal 1996 è autrice di libri per bambini e ragazzi.Premio nazionale Nati per Leggere 2018 con Il viaggio di Piedino (Bacchilega Junior), svolge incontri di narrazione per bambini e corsi in scuole, biblioteche, librerie, centri famiglie, per insegnanti, genitori e operatori del settore infanzia sulla letteratura per bambini e la mediazione narrativa sul territorio nazionale. Si occupa di formazione sulla letteratura per l’infanzia per insegnanti dai nidi d’infanzia alle scuole primarie.www.elisamazzoli.blogspot.com