prima parte - capitolo iii

Fantastici per davvero

Non siamo più nel nonsenso, mi pare. Siamo, nel modo più evidente, all’uso della fantasia per stabilire un rapporto attivo con il reale. Il mondo si può guardare a altezza d’uomo, ma anche dall’alto di una nuvola […]. Nella realtà si può entrare dalla porta principale o infilarvisi – è più divertente – da un finestrino.1

Gianni Rodari

Mi sono sentita divertita e onorata a constatare che nell’anno in cui nascevo, il 1973, Gianni Rodari si esprimeva concentrando il suo lavoro dedicato all’infanzia su questi concetti: la lettura come strumento di libertà, il libro come intermediario affettuoso, l’insalata di parole come portata interessante da proporre sulla tavola dell’educazione. Grammatica della fantasia. Introduzione all’arte di inventare storie2 costituisce un lavoro di ricerca teorica e pratica che rimane a tutt’oggi uno degli strumenti di riferimento principale per noi “addetti ai lavori di fiaba”. Attualissime e fresche dopo tanti decenni dalla loro stesura anche le Favole al telefono3, indimenticabili nella prima edizione di Einaudi illustrata da Bruno Munari, dove Gianni raccontava, fra le altre cose, di una giostrina e di un grattacielo situati nella mia cittadina sul mare adriatico, Cesenatico, che lui aveva visitato spesso. Quelle favole erano doni d’amore fatti alla figlioletta che trepidava dietro la cornetta a chissàquantimila chilometri di distanza, nel periodo in cui il suo papà ricopriva l’incarico di giornalista corrispondente dall’Unione Sovietica.

Il pragmatico e il fantastico

Mi sono messo in tasca il mare. Sono forse impazzito? No, credo di no, però mi sono un po’ bagnato il vestito.4

Pietro Formentini

È giocoforza che per una mamma cresciuta a “pane e Rodari” e che ha scelto poi da adulta un mestiere fatto di invenzione, di redazione, di parole e fantasia, la Grammatica della Fantasia del maestro Gianni cambi iniziale e si tramuti in Prammatica, nel senso di regola pratica, consuetudinaria, che si segue per attitudine ma anche per abitudine acquisita.


I nostri bambini non sono “fantastici per davvero”? Meravigliosi ossimori. Ma a parte la considerazione sui “cori de mamma”, il pragmatico e il fantasioso possono funzionare insieme?


Sì, devono. Chi ha piena consapevolezza della propria fantasia ha anche un senso spiccato della realtà. Se so nuotare nella piscina della fantasia sono e devo essere consapevole di come utilizzare il trampolino, della profondità del fondo nei vari punti della piscina, di come devo muovermi lungo il bordo, come fare per risalire, e so anche che non sempre si può fare il bagno.


Quando poi arriva il momento mi tuffo insieme ai miei bambini, e chi ci guarda nuotare vede soltanto delle teste, senza distinguere bene chi sia l’adulto e chi invece sia il bambino.

Rimaniamo nelle rime (grazie Bruno Tognolini!5), a sguazzare intrepidi e sornioni, con la consapevolezza che gli sbagli in quel luogo e in quel tempo sospeso non fanno male, anzi fanno venire le idee.


Da un gruppo di bambini dell’ultimo anno della scuola d’infanzia, alla mia domanda sui vantaggi e sugli svantaggi di fare tanti bagni nella piscina della fantasia, si sono levate queste voci:


Vantaggio: “Se fai il bagno nelle storie la pelle d’oca non ti viene, e nemmeno le unghie viola!”


Svantaggio: “Nella piscina della fantasia non si può fare la pipì, nell’altra sì.”

L’errore creativo

Mia nonna Gina, che mentre scrivo ha quasi centouno anni, due anni fa ha festeggiato il “compleanno del secolo”.


Qualche tempo prima, ben conoscendo la mia propensione al racconto (che lei stessa ha contribuito a trasmettermi) mi ha detto: “Elisa, mi raccomando: al mio compleanno niente salmoni!”


“Non ti preoccupare nonna, solo cefali!” ho risposto io prontamente.


Questa cosa dei salmoni al posto dei sermoni è fra le più memorabili ma non è l’unica: la stessa nonna ha spesso fatto partire catene di ridarella con i suoi lapsus e le sue allitterazioni.


Incredibile poi, a proposito di storie, che abbia ancora impressa in maniera indelebile e particolareggiata la storia della sua infanzia, e quella pagina del libro di scuola (stiamo parlando del 1921, quando aveva sette anni) in cui si raccontava di una bambina che giocava al cerchio e al bastone, e la scritta riportava: “Gina, giochiamo ai cavalli?” Per quella omonimia la nonna veniva canzonata dai compagni, e si era come bloccata nelle competenze di letto-scrittura…


Ma, per tornare ai salmoni, l’errore si rivelò interessante: immaginammo insieme, in famiglia, un tripudio di pescioni che risalivano la corrente pur di essere presenti ad un festeggiamento così speciale.

“In ogni errore giace la possibilità di una storia”, diceva Gianni Rodari svelandoci, con questa e con altre riflessioni dalla portata oserei dire umanitaria, l’occasione irrinunciabile dell’“errore creativo6.

Poi da lì è cominciato un altro gioco, quello del “facciamo che eravamo”: ognuno di noi immaginava di essere un salmone e di partire verso una nuova destinazione.

Mappamondo alla mano, indicavamo i mari che avremmo voluto attraversare, e nessuno, per tutto il tempo del gioco fantastico, si è mai sognato di avanzare il dubbio che forse i salmoni non possono attraversare indistintamente qualsiasi tipo di mare. La sfida ormai era partita!


Il mappamondo, un piccolo globo molto aderente alla realtà (ci ricorda che forma ha il nostro pianeta ma soprattutto quanto è grande, e quanto infinitamente piccoli siamo tutti noi) ma che funge anche da navicella della fantasia (al primo giro che gli imprimiamo sul proprio asse già mettiamo il turbo ai sogni).


Si tratta di un oggetto molto utile nelle case abitate da bambini (a proposito della casa rimando al capitolo apposito), che a tutt’oggi non è sostituibile da succedanei tecnologici. Quante volte le tensioni si sono sedate e gli animi si sono placati, e la tivù era spenta, e abbiamo cominciato a raccontare insieme una storia nuova con gli occhi che indagavano e le dita puntate su punti sconosciuti del mappamondo…

Gli equivoci

Le giornate in famiglia sono piene di equivoci, così come le narrazioni: le comunicazioni andate a buon fine, talvolta, si contano sulle dita delle mani e si collocano negli intervalli fra un equivoco e l’altro.


Forse per questo i miei bambini hanno sempre gradito i racconti dei Bertoldi o dei Giufà7 di turno, sempliciotti in cui tutti ci identifichiamo immediatamente, che non capivano la richiesta del padrone ed eseguivano il contrario, oppure scambiavano l’ammonizione o l’ordine perché non stavano attenti, e questo inconsapevole storpiamento nel captare i messaggi dava vita a irresistibili situazioni di fraintendimento che a loro volta generavano cadute comiche e reazioni catastrofiche a catena.

“Facciamo che la mamma dice a Bertoldo di mettere a riposare la torta che è nel forno e lui la mette nel letto sul cuscino, con il lenzuolino?”


“Sì e poi arriva il papà e si butta nel letto e si sporca tutta la faccia di torta!”


A tutto questo narrare si aggiungeva il ricordo e conseguente racconto di scambi di persona, gaffe, equivoci vari avvenuti nelle proprie storie personali e, passo ulteriore, l’invenzione di figuracce immaginarie e scherzi possibili. E via giù con gli amici dell’equivoco: gli indovinelli e le barzellette, che richiedono ingegno e scaltrezza, concentrazione e immaginazione, disponibilità a mettersi in gioco e a giocare con le parole.


Una valanga di risate ci accompagnava alla buonanotte, e si sa che uno dei doni più belli per una mamma e un papà è poter stare a contemplare il sorriso sul viso dei loro bambini che sognano sereni.

L’amico immaginario

Alcuni bambini attivano la risorsa del gioco e della narrazione con amici immaginari. Parlano ad alta voce con qualcuno che non c’è fisicamente ma che hanno ben delineato nella loro mente e che utilizzano a loro piacimento come interlocutore in un gioco simbolico-narrativo.


La cosa, come descritta, non è affatto patologica, ma preoccupa molti genitori che si fanno sopraffare dai dubbi e non riescono ad apprezzare la creatività, l’autonomia e l’energia vitale dei loro piccoli, spigliati, realizzati e gioiosi viaggiatori del mondo della fantasia.


A questi genitori mi sento di domandare:

  • Il vostro bambino parla a voce alta con l’amico immaginario anche sui banchi di scuola, o comunque quando sa di essere potenzialmente sotto il tiro dell’attenzione di un adulto che non siete né voi né i nonni (o comunque qualche altro adulto con cui abbia molta confidenza)?

  • Vi viene richiesto dal vostro bambino di stringere la mano, provvedere ai bisogni emotivi e stare a stretto contatto “fisico” con il loro amico o i loro amici immaginari?

  • Vostro figlio non ha mai cercato lo sguardo e la comunicazione con altri amici rispetto a quello immaginario dei suoi giochi, e rimane completamente isolato dal resto del mondo?

Se la risposte a queste domande è no, allora come mamma ho avuto la vostra stessa esperienza, e il consiglio che mi viene da darvi è: ascoltate e osservate i vostri bambini mentre giocano con i loro amici immaginari.


Fatelo “senza infrangere la bolla”, cioè cercando di non intervenire nel gioco e di non far capire che state osservando, e cercate di resistere alla tentazione di fotografare o filmare, magari per raccontare al/alla consorte che non era presente.


Non sarà per molto, perché crescendo, ognuno con i propri ritmi, i bambini tenderanno ad abbandonare l’amico o l’amica immaginari. Vi accorgerete che in occasione delle vostre osservazioni durante il gioco di vostro figlio con l’amico immaginario:


avrete sorriso;

avrete riflettuto;

avrete sussultato;

avrete imparato;

sarete cresciuti.

Insomma, ci sarà stato solo da guadagnarci!

Qual era la rima di prima?

Simone è piccolino e usa il pannolino. Quando sarà grande userà le mutande Quando sarà vecchio userà il secchio.

Andrea e il nonno

Giocare a parlarsi in rima e mettere nel proprio racconto prêt-à-inventer parole e/o nomi in lingue straniere, inventate da noi o sconosciute ai bimbi ma reali.


Memorizzare e richiamare alla memoria coinvolgendo i bambini. Chiedere alle persone che si incontrano nelle vicissitudini quotidiane i loro nomi e, a mano a mano che la confidenza aumenta, anche le loro storie.


Ad esempio: Sofia e la mamma, quando escono per andare a scuola il mattino, incontrano sempre la stessa signora e la salutano. La mamma sa che è la badante di una vicina di casa.


Dopo tanto tempo che questo avviene tutti i giorni, e dal momento che la signora Rita è disponibile, gentile e parla bene l’italiano, è auspicabile che la mamma e Sofia siano in grado di raccontare e raccontarsi che Rita è un’amica che:

  • aiuta la signora Serena che non riesce a fare tutto da sola perché è malata;

  • viene dalla Polonia (utilizzare anche il mappamondo per vedere dov’è);

  • a casa ha una figlia e due nipotini dell’età di Sofia, un maschio e una femmina, che si chiamano Eugenji e Paula;

  • adora gli alberi come i pini marittimi, che nel suo Paese non esistono.

Che soddisfazione quel giorno in cui dal terrazzo la mamma e Sofia hanno visto Rita portare a braccetto la signora Serena a fare due passi “per di là in cerca di felicità”, e tornare entrambe più sorridenti perché ce l’avevano fatta:


“L’avete trovata, vero?”

“Sì!!”


Una benedizione questo incontro di persone piccole e grandi, lingue diverse, lontananze, vicinanze, sofferenze e sorrisi tutti veri, tutti da immaginare, tutti da raccontare.

La storia personale

Il bambino si racconta, si conosce, si gestisce, si riconosce, si esprime, codifica il mondo accogliendo narrazioni e narrando.


Il racconto più familiare ai piccolissimi a partire da un anno di età, vale a dire dopo la scoperta del mondo e dei suoni piacevoli attraverso la dolce narrazione della vita e dei sensi cantata dalla mamma con cuore e voce, e anche dal papà e dai fratellini, veste i panni della storia personale8:

  • Nonna, sai che oggi Luca ha mangiato la pappa da solo con il cucchiaio?

  • Guarda, c’è un cagnolino, vieni a vedere dalla finestra, il cagnolino muove la coda e ti saluta, ciao Luca!

  • Fa tanto male questo taglietto sul ginocchio? Vuoi che mettiamo un cerotto? Sai che anche io quando ero piccolina mi sono fatta un taglietto sul ginocchio, proprio come te? Vedi? Adesso non c’è più, sono guarita!

  • Cos’ha fatto Luca? Luca non ha visto che c’era lo spigolo del tavolo e pum! Ha sbattuto. Ma adesso la mamma ti abbraccia e ti fa tante coccole. Va meglio?

Questi poveri spigoli del tavolo, tanto sporgenti quanto bistrattati da narrazioni fuori luogo:

  • Dài le botte al tavolo, che ti ha fatto male!

  • Brutto tavolo! È colpa sua!

Perché dare la colpa al povero ignaro spigolo? Perché invece non ci prendiamo la responsabilità di accogliere questo piccolo disagio come una occasione educativa, una “crisi” che farà crescere il piccolo e farà crescere noi di grado come figure amorevoli ed autorevoli, di cura e di affiancamento, di guida e accompagnamento alla vita e ai suoi spigoli?

Il racconto di sé e il gioco simbolico

Uno dei primi sentimenti di felicità autentica lo devo aver provato verso i tre anni quando con un cucchiaio disegnavo nella minestra.9

Gek Tessaro

I bambini come fruiscono dei racconti? In quale misura li usano e li padroneggiano? Posto che l’alleanza con le storie è una vela al vento spiegata al massimo sulla nave di chi della condivisione narrativa fa uno strumento quotidiano, e i bambini in quelle famiglie saranno mozzi capacissimi di manovrarla, l’esperire narrazioni si svolge nell’età evolutiva secondo passaggi graduali.


Da appena nati si ha “in memoria” una storia unica e totale, avviluppante, una storia-guscio fatta di voci, carezze e battiti del cuore. Ritmo e voce, coccole e abbracci sonori. È la canzone d’amore che accoglie chi viene alla vita e che coglie chi attendeva da tanto.


Poi comincia quella che si dice auto-narrazione o narrazione di sé e, a mano a mano che ci si riesce a percepire come esseri distinti dagli altri e si prende atto delle proprie caratteristiche ed emozioni, si è in grado di ricordare il proprio vissuto personale. È l’inizio della consapevolezza narrativa, della scelta e dell’utilizzo a proprio piacimento delle storie.

Il gioco simbolico è già di per sé un racconto con cui i bambini rappresentano e riproducono gesti, immaginando di fare e di essere qualcun altro, stabilendo relazioni, mettendo in successione avvenimenti, episodi, cause ed effetti. I libri-gioco e i libri tattili10 sono ausili portentosi in queste fasi di sviluppo: le figure e le fotografie favoriscono il collegamento fra immagine e cosa evocata, la conoscenza di sé e l’esplorazione del mondo e, per quanto riguarda alcuni libri, una prima percezione della sequenzialità degli avvenimenti.


Verso i tre anni, quando la sua capacità di rappresentazione simbolica e le sue esperienze sensoriali ed emotive si sono arricchite ulteriormente, il nostro bambino si racconta anche tramite altre attività espressive attinenti le storie, come la drammatizzazione e il disegno.


Se il nostro orecchio fosse disposto a tornare acerbo (definizione di Gianni Rodari), e si prestasse più diligentemente all’ascolto dei racconti del nostro bambino, potremmo ottenere risultati molto appaganti, fra i quali la condivisione di una visione del mondo dal basso, con tutto il carico di ottimismo, speranza e fiducia che ne consegue, e la rivelazione di segreti profondi e pulsioni inconsce che altrimenti non emergerebbero.

Ci fa notare Luisa Mattia nel suo manuale A scuola di narrazione11:

Il flusso narrativo infantile è caleidoscopico, vulcanico e tale viene mantenuto, almeno in una prima fase di verbalizzazione. L’attenzione di un adulto, abituato e consolidato nella sua ricerca di narrazione lineare e consequenziale, viene messa a dura prova. Eppure, in quel narrare apparentemente caotico, si rivela il nocciolo della vicenda, il punto di vista di chi racconta, le questioni risolte e quelle irrisolte.
La grande avventura della vita prosegue di pari passo con il fiorire delle piccole avventure giocate e inventate dal piccolo in crescita. Si innescano i meccanismi dell’identificazione, dell’empatia, i racconti si caricano di pathos, diventano urgenti, richiestissimi, tornano alla mente e vengono continuamente rievocati e rielaborati.

Siamo pronti, siamo capaci di andare incontro al suo desiderio di giocare alle storie insieme, al suo “Indovina chi c’era una volta?”
Matteo (3 anni) inventa una storia e la disegna. La mamma lo aiuta a confezionare un libro in cui conservarla.




Matteo (3 anni), sull’onda dell’entusiasmo della storia di ieri, vuole giocare a inventarne e disegnarne un’altra e trasformarla in libro insieme alla mamma. Ma il cartoncino per fare il libro è finito… così decidono insieme di utilizzare come supporto la carta di giornale.




Riflessione ulteriore: l’apporto dell’adulto nell’invenzione di una storia come quelle sopra descritte deve coincidere con una partecipazione incoraggiante ma piuttosto silenziosa, che non schiacci la spinta creativa del piccolo e non la prevarichi. L’esercizio è fondamentale. Rendere queste attività abituali, fare del momento della narrazione insieme una routine nella routine, è garanzia di una riuscita sempre migliore della stessa.


La coerenza delle storie

Tu piangere perché Tommy stare per essere divorato” argomentò Momo. “No” disse Pippi asciugandosi bruscamente gli occhi, “io piangere perché povero piccolo pescecane essere rimasto oggi senza pranzo.12

Io, adulta, nelle storie che invento e che propongo cerco prevalentemente la coerenza. Coerente è una storia che porta un messaggio che non esprime contraddizioni. Che promette quel che mantiene. Una storia “di parola” e anche, in senso più prettamente fisico, composta di parti ben unite tra loro.


Ma ci sono anche delle storie incoerenti degne di grande attenzione: le incoerenze che mi piacciono di più sono:

  • quelle di cui sono piene la narrazioni spontanee dei bambini e che mi colgono di sorpresa;

  • quelle delle storie volutamente e giocosamente paradossali, assurde per definizione.

Esempi:

Io da grande mi sposerò con Elena. Lo sai? Perché ci amiamo. Ci sposeremo in un castello con tutte le lucine intorno, e io sarò vestito elegante e lei sarà bellissima con il vestito con il velo lungo lungo e ci metteremo gli anelli e vivremo per sempre felici e contenti. Ma se quel giorno al matrimonio Elena non potrà venire, mi sposerò con Anna.


Massimo, 5 anni

Stesura originale della filastrocca popolare di Pimpirulin:

Pimpirulin piangeva
voleva mezza mela
la mamma non l’aveva
e Pimpirulin piangeva.
A mezzanotte in punto
passò un aeroplano
e sotto c’era scritto:
Pimpirulin, sta’ zitto!


Una delle possibili stesure assurde, a rovescio:

Pimpirulin rideva
voleva una pera
la mamma ce l’aveva
e Pimpirulin rideva.
A mezzogiorno e mezzo
passò un carretto
e sopra c’era scritto:
Pimpirulin, continua!


Dunque ben venga l’incoerenza stabilita come codice e iperbole narrativa, ma non come fattore preponderante da ricercare sempre e comunque nelle “relazioni narrative”. Quello dell’assurdo è un simpatico gioco che rimane bello finché è corto, e lascia spazio a narrazioni e letterature di diverso registro e tenore.


Sulle non-coerenze degli adulti, infine, non certo come proposte narrative ma come pratiche di comportamento subite dai bambini loro malgrado, Bianca Pitzorno ci ha regalato pagine autobiografiche da riso amaro che hanno ancora una urgente attualità:


“Perché?”

“Perché sì?!”

“Cosa credi? Qui comando io!”


Erano le frasi che governavano i nostri rapporti.


E poi, fossero stati almeno conseguenti! Invece tutti gli adulti che conoscevo, senza esclusione, affermavano a voce un sistema di norme e di valori dei quali esigevano da noi il rispetto, ma erano i primi a violarli, quando di nascosto e quando con allegra noncuranza.


Ricordo la mia indignazione di fronte alle promesse non mantenute, ai patti infranti con una risata.

Alla raccomandazione: «Non bisogna mai dire bugie», subito seguita, allo squillo fastidioso del telefono, dall’invito: «Rispondi tu e di’ che non ci sono».”13

Il discorso sulle coerenze educative, comunicative e narrative lo sento come forte priorità. Le storie sono un tappeto, un mantello, un’ala morbida, uno scialle. Ci avvolgono, intrattengono, ci proteggono, ci consolano dolcemente. Poi c’è la vita, con i suoi passaggi duri, con le sue botte da incassare; e nei momenti più devastanti, la morte di una persona cara o una malattia seria da affrontare, o sacrifici di altro tipo, rimane importante la relazione affettivo-narrativa, e la coerenza che abbiamo esercitato fino a quel punto si traduce tutta in fiducia in noi e in se stessi. I nostri bambini avranno più voglia di farcela a valicare i monti se noi le nostre promesse le abbiamo mantenute, e le nostre parole le abbiamo dette per davvero, anche prima, da subito, anche in tempi non sospetti.


Perciò basta con le storie-sotterfugi e con le storie delegate, con le storie-anatema tutto fumo e niente arrosto e le storie-minacce, le storie-ricatto, le storie-rimbalzi di colpe.


“Dopo quando torna papà ti sgrida.”

“Quando lo viene a sapere la mamma vedrai!”


Queste sono, mi si perdoni l’immagine ma non ne trovo altre, “scoregge narrative”. Trovate maleodoranti che lì per lì fanno sfogare l’adulto che le emana, ma non fanno altro che investire il bambino con una inutile, fastidiosa, rozza puzza. Cerchiamo di fare in modo, quando torna papà, o quando torna la mamma, di avere una bella cronaca (profumata di calore di biscotti o di fresca brezza marina) da donargli/le, il racconto di un pomeriggio magari faticoso e pieno di imprevisti, ma nel quale poi abbiamo fatto insieme un atto di coraggio, un cambiamento di rotta e ci siamo impegnati a divertirci andando d’accordo, dando ognuno il suo contributo, e abbiamo inventato qualcosa di bello.

Così, come ci ricorda Janna Carioli in Stasera lo dico a tuo padre14, il prezioso tempo per stare insieme diventerà un tempo magico di gioco e ascolto:

“Stasera lo dico a tuo padre”
mi dici con la faccia scura.
È vero che l’ho fatta grossa,
ma perché vuoi farmi paura?

“Stasera lo senti tuo padre!
Lui sì che ti punirà!”
…Ma forse si arrabbia un po’ meno
Se lo chiamiamo papà!

E sgridami tu adesso,
se proprio mi devi sgridare,
perché quando il babbo ritorna,
ci vorrei solo giocare!

Storie medicina

Dottore, sei davvero mio amico? Chinati un poco, che una cosa te la dico una cosa fra me e te, in confidenza Non ho paura, se tu hai pazienza.15

Janna Carioli

Non si può negare: molte storie curano.


Ma più di esse, e prima di esse, è l’atto del raccontare che rilassa e avvicina, contribuendo ad aprire il varco del possibile e della speranza.

Il filo da pesca

Sbattendo con la parte superiore dell’occhio in un tavolino in spiaggia, (avevo circa otto anni), mi sono procurata un taglio profondo. C’era bisogno dei punti di sutura.


Al pronto soccorso ho ricevuto due tipi di accoglienza. Il primo medico, freddo e scostante, annoiato e infastidito, sembrava un cactus con il camice. Mi srotolò sul viso lunghe garze che odoravano di paura. Suggerì all’infermiera di darmi uno schiaffo per farmi stare un po’ buona. Niente da fare, mia madre mi portò fuori prima dell’esecuzione per cercare di calmarmi.


Ricordo il mio stato di prostrazione quando cambiò il turno e al posto del primo dottore arrivò il secondo. Sorrideva con umanità, senza giudicare. Certo la mia minuscola disgrazia doveva sembrargli una pulce rispetto ai dinosauri che doveva affrontare ogni giorno. Ma riuscì a dedicarmi tutte le sue cure con grande dedizione e con una abilità e una grande dimestichezza, oltre che nelle suture, nelle narrazioni.


Il dottor Mauro cominciò a raccontarmi che era appena andato a pescare e che forse aveva ancora in saccoccia il suo filo da pesca molto resistente ma anche delicato. Lo avrebbe potuto utilizzare per me e ne sarei stata felice, perché sarei guarita e avrei potuto continuare a fare i giochi di prima soltanto con un po’ di pazienza. Mentre raccontava lo ascoltavo attenta, singhiozzavo per lo spavento di prima, ma ero serena. Tanto che quando pensavo che il dottore si apprestasse a cominciare il suo soccorso sul mio viso, lui già aveva terminato.


“Già fatto?”


La cosa singolare è che il dottor Mauro poi, dopo vent’anni, sia diventato un amico di famiglia, e che le mie produzioni letterarie io le rediga sulla scrivania che ha utilizzato lui quando dal pronto soccorso è passato a fare il medico condotto, perché me l’ha regalata. Sapeva bene, il caro Mauro, che le storie in qualche caso curano.

Un menù coi fiocchi in corsia

Tornai all’ospedale un anno e mezzo dopo, per un intervento di appendicectomia. Il digiuno prescritto dai medici era insostenibile, così, per compensare la fame e giocare al “facciamo finta che”, inventai, scrissi e disegnai un menù succulento: Tortelli pasticciati, pollo arrosto con patatine, torta alla panna e alla crema con ciliegie giganti. Fui sgridata dall’infermiera perché con il mio gioco facevo venire fame agli altri degenti a digiuno.


Da adulta mi sono ricordata di questo episodio quando ho letto che Tonino Guerra, durante la sua prigionia nel campo di concentramento, raccontava di piatti di tagliatelle romagnole al ragù e parmigiano così vividamente da riuscire quasi a gustarli, riempiendosi la mente e il cuore al posto della pancia. Le storie salvano.

Orme nel mare

Chicco, sei anni, non poteva lasciare impronte perché non camminava. In pediatria, nell’area dei giochi, gli è stata proposta la storia di un pesciolino che esplorava il mondo anche senza pinna. Chicco è riuscito a lasciare le impronte delle sue dita bagnate di colore su un grande cartellone insieme agli altri bambini. Lui sorrideva felice e la sua mamma piangeva di gioia.


Più volte Chicco ha chiesto che gli venisse raccontata di nuovo la storia del pesciolino. E anche lui l’ha voluta ri-raccontare con fogli e colori su cui stampa le sue dita in cammino. Le storie lasciano orme.

Nicole e Federica

Nicole, nove anni, ha avuto un incidente. È ferma immobile nel suo letto di ospedale, la tivù accesa su un programma piatto e sciatto. Federica, la sua insegnante, oggi ha portato dei libri illustrati. Prova a spegnere la tivù e li mostra lentamente, pagina dopo pagina, a Nicole. Fa così oggi, e domani, e il giorno dopo, nonostante la mancanza di reazioni apparenti da parte di Nicole. Ma il giorno dopo ancora a Federica cade un libro. Nel raccoglierlo sente un suono, una risata: Nicole si è divertita!


Da allora passano i pomeriggi a guardare un po’ di tivù, ma poca e poi la spengono, l’insegnante legge a Nicole un albo illustrato dopo l’altro, la bambina dimostra di gradire, e Federica è così tonta che non c’è volta che non le caschi un libro dalle mani. Le storie sorprendono.

Pia e le immagini

All’età di quattro anni, sfuggita alla mano della mamma per raccogliere un gioco che le era caduto in mezzo alla strada, Pia è stata investita. Ora sarà certamente una donna che vive la sua vita piena di colore, ma in quel periodo difficilissimo per lei e per la sua famiglia è stata, per giorni che parevano interminabili, priva della vista.


Aveva un tesoro di immagini dentro, a cui dimostrava di fare ricorso, fra le altre volte, quando la andavo a trovare per leggerle storie. Portai anche materiali che volle toccare, libri tattili, oggetti familiari. I racconti furono da supporto e conforto per la piccola, per i suoi cari, per me, per la ragazza che l’aveva investita. Le storie accompagnano.

Vale e Gemma

Gemma ha lesioni cerebrali che non le permettono certo di saltare durante l’ora di riabilitazione motoria. Valentina, che ha molto più margine di libertà con i movimenti, gioca con lei facendo rimbalzare la palla e proponendole di indicare, puntando lo sguardo su una tabella di numeri, quanti rimbalzi ha fatto. Vale riesce con amore e fantasia a dilatare il gioco con storie e varianti. Ora tutte e due aspettano che arrivi l’appuntamento settimanale della ginnastica con trepidazione. Le storie muovono.

Storie scoperta

Babbo, è più bella la bambitù, la gioventù o la vecchitù

Viola, 5 anni

Per tutte le storie che aiutano a guarire, ce ne sono altrettante che permettono di spiegare, conoscere, esplorare il mondo. I bambini le ricevono in eredità e le hanno dentro al primo respiro. Non vogliono fare altro che viverle nell’abbraccio con mamma e papà.


Dentro ad esse si vedono riflessi, competenti, capaci, coraggiosi, grandi. Il loro cuore conserverà il ricordo del preciso momento in cui hanno avuto voglia di provare a volare e noi abbiamo fatto loro quel cenno d’amore che vuol dire: “Vai!”

“Ma perché”, chiedo a mio padre,
“l’elefante resta lì? Perché non scappa via?
Perché non prova a liberarsi?”

Lui mi guarda e risponde:

“L’elefante del circo non prova a liberarsi
perché è stato legato a un paletto
quando era molto, molto piccolo.”
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Mi fai una storia?
Mi fai una storia?
Elisa Mazzoli
Inventare, raccontare, vivere avventure fantastiche nel quotidiano con i nostri bambini.Un manuale per riscoprire l’importanza e il valore del racconto ad alta voce, con suggerimenti e consigli per imparare a raccontare storie ai più piccoli. Mi fai una storia? è un manuale ricco di spunti, aneddoti e rimandi per conoscere e applicare strategie narrative con i bambini piccoli.Come far diventare “amica” la fatica usando le storie?Come gestire in maniera fantastica i rituali della giornata?Elisa Mazzoli, formatrice Nati Per Leggere e autrice, invita mamme e papà a scoprire e a ricordare quanto possa essere utile condividere narrazioni con i propri figli, con esempi concreti e incoraggianti suggerimenti. Conosci l’autore Elisa Mazzoli vive da sempre a Cesenatico.È scrittrice, narratrice, consulente editoriale, formatrice nell’ambito della letteratura per l’infanzia.Laureata in Scienze Politiche, dal 1996 è autrice di libri per bambini e ragazzi.Premio nazionale Nati per Leggere 2018 con Il viaggio di Piedino (Bacchilega Junior), svolge incontri di narrazione per bambini e corsi in scuole, biblioteche, librerie, centri famiglie, per insegnanti, genitori e operatori del settore infanzia sulla letteratura per bambini e la mediazione narrativa sul territorio nazionale. Si occupa di formazione sulla letteratura per l’infanzia per insegnanti dai nidi d’infanzia alle scuole primarie.www.elisamazzoli.blogspot.com