Prima Parte - Storia memoria

capitolo i

Che cosa sono queste storie?

Eki oyoroza omuto kimuhamaho n’omu bukuru bwe
[Il cibo dato al piccolo gli è dentro anche da grande]

proverbio africano

Vale la pena che un bambino impari piangendo quello che può imparare ridendo?1

Gianni Rodari

Nella lingua italiana il termine “storia” può assumere differenti significati: la storia come insieme di avvenimenti realmente accaduti, la storia come bugia, la storia come capriccio, la storia come racconto.


È mia intenzione con questo lavoro concentrarmi sull’ultima accezione, ma anche le altre possono spingerci a piccole riflessioni fantasiose e interessanti.


Le storie come successioni e racconti di avvenimenti esistono dalla notte dei tempi. Sono retaggi umani, scaturiti da un bisogno primordiale di spiegare e affrontare la realtà circostante.


C’è la macro-storia, detta anche la Storia con la esse maiuscola, nella quale si dipana l’evolversi dell’umanità. E intorno ad essa e dentro essa prendono vita, si intrecciano e si alternano, si affiancano e si sovrappongono incessantemente costellazioni di micro-storie.


Ogni cosa ha una o più storie.

Ogni persona ha una e tante storie.


Tutto e tutti hanno almeno una storia da raccontare! Le storie sono gratis e infinite, sono colorate ma non sporcano, sono profumate ma non procurano alcuna allergia. Occupano lo spazio generoso del cuore, il tempo dell’ascolto di un dono prezioso. Niente di più e niente di meno.


Ci sono sulla nostra strada pigne piene di semi di storie, incastonati e pronti: pinoli turgidi e freschi, carichi di potenza inventiva.


Eppure non ci fermiamo ad annusare e raccogliere, aprire, scoprire, mettere da parte. Non ne cogliamo abbastanza.


Abbiamo fretta? Abbiamo cose più importanti da fare? Abbiamo paura di appiccicarci le dita con una resina che quando ci tocca poi non riusciamo più a gestire?


E se non fosse una mela, ma un pinolo, cioè una storia al giorno, a levare il medico di torno? La stessa storia che si allunga sempre più, una storia che poi ne chiama un’altra, una piccola storia che arriva inaspettatamente da dietro le spalle o volando da lontano nello spazio, oppure una lunga e grande storia che si tramanda nel tempo?


La mamma e il papà, con i loro bambini, con i nonni, sono legati da una relazione d’amore, un filo d’oro che non si vede ma che c’è e fa vivere bene e realizzare cose semplici e strabilianti tutti i giorni. Che trasforma anche le micro-storie in Storie con la esse maiuscola.


Non lasciamocele sfuggire, costituiscono un materiale corposissimo da cui attingere!


Ecco il vento che fa muovere gli alberi, domani troveremo tante pigne odorose sul cammino, e avremo con noi una pietra per schiacciare, e un barattolo per conservare.

Le storie della mamma

Mia mamma fa la storiatrice.

Matteo, 5 anni

Una sera d’estate, nella piazza di un paese poco lontano da casa, narravo ai bambini del pubblico le vicende dei personaggi dei miei libri. Il mio primo figlio, che allora aveva quattro anni, corse da me, mi sfilò il microfono di mano e proclamò: “Non credeteci! Sono tutte storie!”


Che cosa gli era preso? Era un semplice capriccio il suo? Uno scherzo, un gioco? Solitamente molto timido, sensibile e pacato, mai desideroso di stare al centro dell’attenzione, richiedeva la mia di attenzione, non certo quella del pubblico. Reclamava la sua mamma e le sue storie, e la sua istanza era così forte che l’ha voluta (dovuta) buttar fuori con grande impeto.


Eppure ben sapeva e percepiva che si sarebbe trattato di un’oretta al massimo, e mi avrebbe avuta ad amorevole disposizione per le restanti ventitré della giornata. Eppure era nato e cresciuto con i libri e con le storie, gli erano familiari. “Familiari”, appunto. Il fatto è che il mio lavoro di scrittrice e di narratrice rientra nella sfera della cultura e della parola dedicata all’infanzia, che nel suo linguaggio piccolo ma potente e infinito significava far entrare i miei lettori e ascoltatori nel mio abbraccio, nella mia bolla della cura e della carezza. Voleva dire fermarsi tutti insieme ad ascoltare e trepidare, immaginare e fantasticare, fra un “oh” e una risata, mentre la cicala sull’unico albero lì vicino friniva a tratti, e la luna sorrideva nel cielo.


Così come aveva cominciato a fare quasi da subito, a diciotto mesi, con la nascita della sorellina, il mio primogenito si è trovato a condividere storie per voce di mamma.


Queste storie a cui mi dedicavo tanto per lavoro e questi libri presenti dappertutto con le loro pagine e parole, inchiostri e disegni, fustelle e frontespizi, hanno abitato con noi e dentro di noi, e ci hanno accompagnato fino a qui in maniera più o meno prepotente, più o meno lieve.


Il paradosso è che nelle famiglie in cui non si ha un genitore narratore di professione le storie entrano in maniera più silenziosa e intima, anche se sempre spontanea, senza il sottile rischio dell’episodio del microfono in piazza. Così come il calzolaio si trova talvolta ad avere le scarpe rotte, la “storiatrice” corre il rischio di avere le pagine rotte, perché non è detto che i suoi figli automaticamente amino le storie come le ama lei.


I rischi di una spettacolarizzazione che rovina e distorce, così come quelli della sovraesposizione e dell’attenzione che si sposta dal fascino della storia al fascino di chi la trasmette (se non si tratta di un proprio familiare), sono sempre dietro l’angolo.


Ma cosa sono poi queste storie?

Le storie non sono capricci

“Adesso non cominciare a fare storie!”. Frase super gettonata, mai passata di moda. Proposta: proviamo a rovesciare l’ordine delle parole e il tono della voce, sostituiamo il non con il vuoi, mettiamo un punto interrogativo al posto di quello esclamativo, sediamoci accanto ai nostri piccoli invece di sovrastarli con il dito puntato e gli occhi stravolti.


“Vuoi cominciare a fare storie adesso?”


Si potrà obiettare che il contesto non permette questo tipo di esperimento, e che se il bambino sta mettendo su un quarantotto di capricci, sbuffi e stantuffi, non è il caso di premiarlo proponendogli questo tipo di attività (per intenderci, la proposta di un racconto) che fra l’altro “ci fa perdere tempo” e che comunque non attecchisce su un terreno di tensione e protesta.


Ma non è il caso nemmeno di cadere nella pozzanghera melmosa dove si sta cominciando ad arrotolare il nostro bambino che forse è arrabbiato, forse è stanco, forse è annoiato.


Un’anziana zia, in un’occasione in cui per qualche ragione stavo piangendo, mi disse: “Bambina, adesso ti faccio vedere che so piangere anch’io!”, e si mise a mugolare e lacrimare scimmiottandomi.


Il mio capriccio (ammesso che si trattasse di un capriccio) è diventato il suo sberleffo. Cosa volesse comunicarmi, o insegnarmi, non l’ho mai capito. Mi è rimasto dentro un nodo, un minuscolo gorgo di umiliazione e confusione che talvolta riemerge ancora, come un bolo mai ingoiato.


L’idea della provocazione della domanda ribaltata nasce da un fatto constatato con l’esperienza: i bambini nutriti con ascolto, amore, ai quali si propone spesso la scintilla di una ispirazione sono più creativi e più resilienti, quindi più collaborativi e meno capricciosi.


La domanda va quindi non solo ribaltata, ma anche largamente anticipata, e la sfida è prima di tutto nostra, di noi adulti. Siamo noi che dobbiamo prendere l’iniziativa, reagire prima di tutto a noi stessi, prendere il comando dell’astronave. Prima di arrivare a stati di stanchezza e frustrazione estremi, sappiamo di avere dei jolly narrativi in saccoccia?


Abbiamo dalla nostra parte precedenti di gioco con la fantasia che ci hanno portato ad approdare ad una felice conclusione della nostra navigazione?


Se la risposta è sì, quando il capriccio arriverà, se arriverà, non avrà scampo: sarà il nostro bambino ad abbandonarlo quando percepirà e accoglierà un nostro cenno di alleanza, un nostro conto alla rovescia, una virata sicura, guizzando divertito all’inseguimento di una storia come fanno i gatti che balzano su un filo che sparisce dietro l’angolo, irresistibile promessa di avventura.


E se poi succede il contrario? Se le storie cominciano a piacergli così tanto che le pretende, le chiede quando “non ce ne sarebbe bisogno”?


Se i nostri figli cominciano a fare capricci se non raccontiamo loro una storia o non ci mettiamo a inventare insieme? Ecco l’effetto resina, lo spauracchio che si materializza.


Bisogna tener presente che la richiesta di un racconto non è mai di per sé un capriccio. Le storie non sono vezzi, non sono orpelli, né costruzioni superficiali; sono qualcosa di cui tutti abbiamo grande necessità. Promettiamole (e manteniamo le promesse!) magari per più tardi, in qualche speciale e rituale momento della giornata, ma non neghiamole: ci stanno chiedendo di nutrirsi bene, di crescere in maniera sana. Non è forse quello che vogliamo?

Si può stare senza storie?

La risposta è secca e inequivocabile: no.

Sin dagli albori dei tempi gli insegnamenti per la sopravvivenza e le memorabili gesta dei popoli, con i loro riti e le loro credenze, sono stati trasmessi tramite racconti che contenevano archetipi, simboli, schemi e sequenze. Da sempre le persone crescono socializzando, interagendo con gli altri e con il mondo, e narrare è uno dei modi principali in cui svolgono questo compito insito nel loro essere “umanità”.


La “storia” nella sua accezione di “racconto” è stata dunque la prima forma di ammaestramento e di intrattenimento. Quest’ultimo aspetto va incontro al bisogno proprio dell’uomo di sognare ad occhi aperti, desiderare, fantasticare, giocare con l’immaginazione, guardare lontano verso l’orizzonte delle possibilità conservando un sentimento di speranza e di fiducia.


Il racconto è un punto di partenza, un mezzo che contiene in sé codici e messaggi, dunque si pone come strumento ma anche come contenuto, come punto di partenza ma anche come obiettivo; insomma, una risorsa molto potente di cui, spesso inconsapevolmente (ma quando se ne acquista coscienza se ne percepisce davvero il valore), non possiamo fare a meno.


Utilizzando le narrazioni si favorisce e potenzia lo sviluppo cognitivo del bambino, vale a dire tutto ciò che concerne la memoria, il linguaggio, il ragionamento, in parallelo al suo sviluppo affettivo: lo si aiuta a dare un nome alle proprie emozioni, acquisire fiducia in sé e in noi, a “crescere nel cuore”, si potrebbe dire, oltre che nella mente.


A far da ponte fra questi due aspetti ce ne sono altri, fra i quali spicca a mio avviso la dilatazione dei tempi di attenzione, che trovo stia proprio al confine fra sfera cognitiva e affettiva: il bambino che riceve e respira narrazioni è notoriamente più allenato e capace nella concentrazione, ma anche nella partecipazione, cioè è più aperto e disponibile, umanamente parlando, a farsi carico delle storie altrui, a fare esperienze empatiche, di pazienza, ascolto, accoglienza, tolleranza.

Le storie sono un linguaggio

Il discorso narrativo è un discorso «per tutti», perché tutti devono impadronirsi del sistema di conoscenze che può dare senso all’esistenza umana. La narrazione realizza questo obiettivo in quanto è una forma di comunicazione facile, interessante, emotivamente carica.2


Maria Chiara Levorato

Non andiamo in affanno, in ansia da prestazione creativa o narrativa: noi già inventiamo e raccontiamo!


Lo facciamo in modo più o meno consapevole, ma succede praticamente di continuo: per affrontare i piccoli inghippi della giornata, per rispondere o formulare domande, per interagire a livello familiare o sociale utilizziamo un linguaggio narrativo. Descriviamo e ricordiamo situazioni vissute da noi in prima persona o raccontateci da qualcun altro, scioriniamo i proverbi dei nonni, padroneggiamo metafore, riportiamo accadimenti, e facciamo anche filastrocche con un sacco di rime.


Le rime sono come un dentifricio: fanno venire un bel sorriso e un po’ di fresco in bocca. Troppe le lamentele dei genitori sulle parolacce che dicono i loro bambini: quante lacrime di coccodrillo ci sono dentro questa presa di distanze? Quante parole brutte usano in casa i grandi? La noncuranza e l’ignoranza sono flagelli che dobbiamo avere il coraggio e la voglia di respingere.


Perciò via le parole brutte, un po’ più di rime-dentifricio nelle nostre giornate, un po’ di poesie-profumo di fiori! E ben vengano sempre le storie che si manifestano come modalità comunicative, ma cominciamo anche a coltivare il piacere e il dovere di dispensare e ricercare storie come abbracci consapevoli.

Abbracci consapevoli

Se parliamo della richiesta esplicita del bambino di qualsiasi età di avere un momento tutto speciale in cui mamma o papà o mamma e papà gli dedichino sguardo, contatto fisico, pensieri, voce e fantasia sotto forma di una storia letta, raccontata, inventata insieme, è necessario fare un’ulteriore riflessione.

Non tutti i bambini chiedono esplicitamente una storia.


Perché? I bambini fanno grandi sogni ma sanno anche essere realisti. Alcuni si giocano forse la carta del “più facile” e “di effetto immediato”: la Tv è più facile. Il videogioco non si stanca di intrattenerli. Ergo: Tv e videogiochi tutti i giorni, per troppo tempo. Le ragioni di questo fenomeno devono essere conosciute e scoperte scavando più in profondità, nel buco mal-ricoperto della responsabilità genitoriale.


“Perché io, bambino, devo domandare un racconto quando posso chiedere la tivù che mi anestetizza subito, mi consola immediatamente?”


Ancora una volta proviamo a fare il gioco di sostituire le parole e “cambiare scarpe”, come si dice nel mondo anglosassone. Forse il tutto parte dalla domanda: “Perché io, genitore, devo proporre un racconto quando posso accendere la tivù che lo tiene buono lì?”


Quante volte ci siamo seduti sul divano a fianco di un bimbo eccitato che ci invitava a stargli vicino alle note iniziali di una sigla di cartone animato, per poi fuggircene via ad occuparci di altre faccende più urgenti mentre il piccolo, già sotto l’effetto dell’ipnosi catodica, si rimbambiva?


Non è la stessa cosa. Diversa la semina, diversa la raccolta.


“Figlio, figlia, voglio stare in pace! Fammi staccare, adesso, subito!”


“D’accordo mamma, tranquilla: prendo il telecomando e tutto si sistema. Ma tu non sbuffare, e non ti lamentare più, che altrimenti anche questa volta penso che sia colpa mia.”


Facciamo un ulteriore passo, mettiamoci la fantasia, almeno ogni tanto, un pizzico più di prima, e troveremo nuove possibilità:


PRIMA:

La storia no,

perché ha l’effetto collaterale

di inchiodarci lì con loro.

Si perde il tempo

e dobbiamo fare solo quello.


DOPO:

La storia ,

perché ha il grande pregio

di farci stare insieme a loro.

Si ferma il tempo

e vogliamo fare solo quello.


Ancora una volta si tratta di fantasia e di volontà, ingredienti base per la preparazione della torta del cambiamento e dell’intrattenimento.

Le storie non sono bugie?

Abbiamo troppa fantasia e se diciamo una bugia è una mancata verità che prima o poi succederà3

Le storie, le modalità e il contesto in cui fioriscono sono dotati di un’aura di fascino, soprattutto quando il soggetto (inteso come avventura narrata) è esotico, fantastico, misterioso, e si svela a poco a poco alle orecchie dell’ascoltatore e, perché no, del narratore. Per rendere succulento il racconto lo si può allungare con dettagli appetitosi, parole e nomi sonanti, indovinelli, esagerazioni, capitomboli e rivelazioni.


Si entra in una dimensione stilisticamente e di proposito menzognera e dissimulatrice che mette in discussione, ribalta la realtà creando un certo “disordine da riordinare”, una o più sfide da affrontare.


È la potenza del “possibile che sopravanza il reale”, per dirla con Bellatalla e Marescotti4.


Pensiamo al successo di un romanzo come Le avventure del barone di Münchhausen5, in cui un incallito e sfrontato personaggio, consapevolmente e recidivamente, racconta i suoi viaggi improbabili per (e oltre) il mondo. Con leggerezza e sbruffonaggine, suscitando meraviglia per le trovate e sorrisi per l’assurdità di ciò che intende propinare al lettore come fatto realmente accaduto, talvolta riuscendoci.


Chi non ha in famiglia un Barone di Münchhausen?

Si potrebbe allora definire “bugia” qualsiasi storia inventata.


Ma se cominciamo a entrare nei meccanismi delle storie moderne, a provare a utilizzarli in maniera elementare, sempre fantasiosa ma anche portatrice di speranza, allora possiamo sostenere che pure nelle storie inventate possano esserci delle verità.


Fra Le avventure del barone di Münchhausen e Il Piccolo Principe6 c’è un mare di materia inventiva e narrativa, e si può approdare da una parte e dall’altra con gioia e diletto se si sanno manovrare bene le vele della propria nave. Cavalcare la fandonia, la frottola, la panzana, la bufala, un esercito di bugie equine che galoppano selvaggiamente, riuscire a domarle a proprio piacimento, è un bell’esercizio.

Nel racconto di Gianni Rodari Gelsomino nel paese dei bugiardi7 il pirata Giacomone, giunto a un’età in cui non sarebbe più il caso di fare arrembaggi, prende possesso di un’intera nazione e ordina di cambiare tutte le parole:

– Allora avanti: cambiate tutti i nomi delle cose, degli animali e delle persone. Per cominciare, alla mattina invece che «buongiorno» bisognerà dire «buonanotte»: così i miei fedeli sudditi cominceranno la giornata con una bugia. Naturalmente al momento di andare a letto bisognerà dire «buongiorno».
– Magnifico! – gridò uno dei ministri. – E per dire a uno «che bella cera, avete», si dovrà dire «guarda che bella faccia da schiaffi!».
Fatta la riforma del vocabolario, promulgata la legge che rendeva obbligatoria la bugia, ne venne fuori una confusione incredibile.8

Un’ulteriore e a mio avviso auspicabile “raffinazione” della materia, quando si parla di giocare alle storie con bambini di tenerissima età, potrebbe essere ottenuta eliminando dalla bugia narrativa le ombre dell’inganno e lasciandole i connotati di iperbole, esagerazione, paradosso che il piccolo possa riconoscere e padroneggiare, senza disorientarsi eccessivamente, senza cadere in una trappola. La pedagogia narrativa ci offre molti spunti a riguardo, come vedremo più avanti.


Sento la necessità di soffermarmi su un particolare tipo di racconto-bugia: quello che definisco il racconto-sgambetto. A volte c’è chi porta alta, come baluardo della propria superiorità in simpatia e genialità, la bandiera della balla cosmica in cui i figli cascano a piè pari. Si tratta di comportamenti abbastanza meschini da meritarsi l’etichetta: “atteggiamenti di cui si dovrebbe fare a meno”, oppure di tentativi di contenimento che utilizzano codici culturali appresi dalle famiglie di provenienza, frasi e trovate rozze e/o controproducenti.


Ad esempio:

  • Lo scivolo che “chiude” fra poco, e allora dobbiamo andare via.
  • Il signore” o “il poliziotto” che “ti sgrida” se fai così.
  • La televisione che non si accende perché “si è rotta”.
  • E non piangere che “diventi brutto”.
  • E non toccare che “è tutta cacca”.
  • La mamma che quando esce per andare a lavorare non saluta il suo piccino per paura di farlo piangere, di modo che il bebè vive in uno stato di frustrazione e ansia perenne l’assenza della madre e anche la sua presenza, dal momento che gli potrebbe sparire da sotto al naso in qualsiasi momento, senza preavviso.

Siamo sicuri che le storie che raccontiamo a noi stessi e ai nostri bambini siano quelle giuste? Siamo certi che siano bugie bianche, dette a fin di bene, e non invece grigi autogol?

Ci sono poi storie e oggetti utilizzati come specchietti per le allodole, quando i bambini più piccoli non ne vogliono sapere di andar via da un luogo o desistere da un’attività, lasciar perdere un gioco, cedere un posto oppure un giocattolo.

  • È più bello il tuo Winnie Pooh9 di questo gioco qui, vieni che lo andiamo a prendere!
  • Se non andiamo subito a casa Winnie Pooh lo prende un altro bambino!
  • Tieni il cellulare, guarda che bel gioco c’è dentro!
  • Andiamo, vieni subito, che altrimenti ci sgridano!

Sappiamo fare decisamente di meglio, dobbiamo raccontar di meglio.


Propongo un’alternativa: provare a inventare e raccontare insieme ai nostri piccoli, da quando sulla soglia dei due anni sono in grado di comprendere e riprodurre le semplici sequenzialità e i minimi intrecci (e comunque prima dell’emergenza emotiva e comunicativa!), storie in cui un bambino, o magari un coniglietto o un cagnolino (con gli animali l’identificazione scatta fulminea e efficacissima), non vuole obbedire alla sua mamma che lo chiama sul sentiero verso casa perché preferisce continuare il gioco che sta facendo.


C’era una volta un piccolo coniglio che giocava negli scivoli nel bosco.


Arrivò la sera e la mamma lo andò a prendere e gli disse che doveva tornare nella tana: “Vieni Fefè?”

“No!”

“Perché?”


“Faccio ancora un po’ di questo, e ancora un po’, e un po’ di po’…”

Mamma coniglia avvisò il suo cucciolo Fefè:

“Ora conto e canto la filastrocca dell’un due tre!”


Contò e cantò: “uno come uno, due come due, tre come tre.

Ciao ciao, arrivederci gioco!


Ci vediamo un’altra volta se mi piaci ancora un poco!”

Poi la mamma si incamminò saltellando verso casa,


pian pianino ma senza tornare indietro [mimare la scena].


Il coniglietto Fefè all’inizio non era molto convinto, e disse per tre volte “Uffa però!” con il musetto arrabbiato.


Ma poi decise di seguire la mamma. Che bravo!


Fefè sapeva che la mamma manteneva sempre le promesse:

“Se ha detto che posso ritornare un’altra volta a far quel che mi piace, sarà sicuramente così!”


Il coniglietto tornò alla tana, mangiò una bella pappa e si addormentò

felice e contento.

L’annoso caso di Babbo Natale

Santa Claus rianimation
con la barba ventilation
sulla faccia schiaffeggiation
e il nasone stritolation…
Santa Claus rianimation
con la barba ventilation
sulla pancia rimbalsation
e il nasone stritolation…
10

Babbo Natale è un personaggio fantomatico. Dov’è il problema?

Facciamo molti passi indietro nel tempo e domandiamoci: quando ho scoperto questa deludente verità? Moltissime persone, me compresa, non ricordano un momento particolare. Sapevamo di sapere e continuavamo comunque a crederci. I nostri adulti di riferimento sapevano che noi sapevamo, e tutti facevamo comunque come se non sapessimo.


È il gioco della fantasia, è il voler tenere in piedi tutti quanti insieme, perché è bella, perché ci fa sognare, una magia.


Ci dev’essere una intesa di fondo, una voglia di giocare e rispondere creativamente alle sfide scansando la delusione ma anche l’inganno.


Sento spesso genitori preoccupati di trovare prove e indizi (fabbricandoli con lena e con maestria, come veri falsari), complice il web, dell’esistenza, giurin giurello, del Babbo internazionale.


Vada per i biscotti morsicati e le orme sulla neve in giardino.


Ma noi adulti, vulnerabili alle trappole della pubblicità, stanchi delle battaglie e fatiche quotidiane e anestetizzati dalle scorciatoie, siamo capaci di degenerare in maniera vertiginosa: nonni e zii travestiti di rosso che si arrampicano pericolosamente su per le finestre, babbi natali che a pagamento ti parlano su skype chiamandoti per nome, quelli del centro commerciale (difficile trovarne uno che non detesti i bambini il secondo giorno che li tiene in braccio, e viceversa), e poi il babbo natale della banca che viene a portare il regalino l’ultimo giorno di scuola prima delle vacanze, ma poi se sei bravo e stringi i denti per altri due giorni, viene a casa anche quello della pubblicità, o del Polo Nord, che dir si voglia.


È proprio così che la magia si spegne, e il capriccio si accende, e la fatica aumenta, e il ricatto prende piede. E pensare che, utilizzando la spontaneità e l’amore, abbiamo la capacità di fare esistere Babbo Natale nelle storie, nelle nostre giornate di attesa e di emozione per una festa lieta (la Festa delle Feste per chi è credente), come personaggio fantastico e misterioso, di cui non chieder troppo perché poi sennò la magia non avviene…


Per qualcuno arriva a un certo punto la domanda fatidica: “Papà, mamma, ma Babbo Natale esiste per davvero?”


Quando giunge questo dubbio vuol dire che dentro il cuore si è già fatta largo, e ha preso un posto razionale ed accettabile, la verità.


“Babbo Natale è un personaggio fantastico, nessuno lo ha mai visto ma ci piace pensare che esista. Io ci voglio credere a questo gioco, a questa magia della lettera, delle renne e dei regali di Babbo Natale. E tu?”


Trovatemi un bambino che non risponderà: “Anch’io”.

Il c’era una volta

C’era una volta…” Una formula magica, che suscita una dolce sorpresa, un rilassamento, un abbandono, uno stupore sereno, come se ci si trovasse in mano un regalo da scartare, che sarà certamente fantastico perché ci è stato donato da qualcuno di cui ci fidiamo. Gli esperti11 ci spiegano perché questo incipit fiabesco è così bello ma anche efficace, è un’espressione dolce ma forte allo stesso momento.


“C’era una volta, in un regno incantato, oppure: “C’era una volta, in un bosco lontano, vuol dire lontano nel tempo e nello spazio, non adesso, non qui, non io, non tu, non noi ma loro.


Si tratta in sostanza di un rituale ma anche di una messa in sicurezza, una presa di distanze preventiva che servirà per tuffarsi dentro il racconto che si va elaborando, proiettarci dentro le nostre personalissime e inconsce istanze, e poi venirne fuori vivendolo con la giusta emotività, le giuste tempeste interiori, i giusti premi finali: “…e vissero tutti felici e contenti.”

La meraviglia

Per non lasciarsi trascinare dalla corrente e non farsi risucchiare dalla banalità del male, bisogna controllare i pensieri e i sentimenti come un pastore che, la sera, fa rientrare il gregge nella stalla. Per evitare le paralisi della noia, del cinismo e le inevitabili depressioni che ne conseguono, è necessario vivere secondo il principio della curiosità e della meraviglia. Curiosità per ciò che accade e che non è mai ovvio, meraviglia per la creatività di tutto quello che ci circonda.12

Susanna Tamaro

“Perché leggere? Per la meraviglia.”, ha dichiarato Daniel Pennac, maestro e autore di grande personalità e originalità che ha riflettuto e scritto tanto su quello che è il “piacere”, contrapposto al “dovere”, di leggere13.

Noi, qui e ora, ci chiediamo: perché inventare e raccontare? Perché farlo insieme? Per lo stesso imprescindibile motivo.


Negli occhi dell’immaginifico, oltre l’orizzonte, verso un’altra dimensione della realtà, si possono trovare, fra l’altro:

  • curiosità;
  • stupore;
  • inquietudine;
  • dubbio;
  • intelligenza;
  • fantasia;
  • desiderio;
  • coraggio.

Il bambino che non riesce ad attivare questo tipo di risorse non è in grado di meravigliarsi, stupirsi o di produrre invenzioni fantastiche, cioè cariche di ingegno e creatività, e non potrà fare altro che riprodurre semplicemente modelli già visti ed assorbiti in casa, molto probabilmente dalla televisione.


Mi succede spesso di prendere amaramente atto, nel mio lavoro a contatto con i bambini piccoli e quelli più cresciuti, che alcuni di loro, nel momento in cui vengono invitati a proporre qualcosa di originale, un’idea, un’invenzione, riproducono le stesse frasi o lo stesso gioco incamerato molto passivamente dai videogiochi o dalla televisione.


Ciò che li ha evidentemente divertiti e rassicurati, lo ripresentano secondo lo schema conosciuto, ma non sono poi in grado di elaborarlo sperimentando strade nuove, non hanno slanci creativi.


Possibile che le loro competenze si fermino lì? I videogiochi non solo creano dipendenza, limitano i movimenti del corpo, isolano, assopiscono, ingannano, fanno dormire male. Mettono anche le manette alla fantasia, la arrestano!

Bisogna trovare le giuste vie di mezzo, non affidarsi esclusivamente a questo tipo di intrattenimenti. Fra i compiti urgenti di una madre, di un padre (basti pensare a Guido, lo straordinario Roberto Benigni nel suo La vita è bella14) c’è quello di “mirar le mirabilia del Creato” insieme ai propri figli, cioè guardare con meraviglia le cose ammirevoli del mondo: le azioni straordinarie pur nella loro semplicità, i talenti e le arti degli uomini e delle donne, gli spettacoli naturali. Accorgersi di queste cose e delle loro storie, osservarle con meraviglia. Talvolta sono proprio loro, i bambini, a richiamare la nostra attenzione afferrandoci la mano e trascinandoci fino al punto in cui ci vogliono indicare qualcosa di meraviglioso.

Colti di sorpresa, ci commuoviamo per la gioia.

Non sarebbe bello moltiplicare questi frangenti, nutrirsi più copiosamente di queste emozioni?

“Guarda che faccia che fa!” si sente dire da qualcuno che ammira il proprio infante di fronte al touch screen che gli ha messo davanti al naso.


“E come muove abilmente il pollicino…”

Quella creatura non si sta meravigliando, si sta ipnotizzando. Il suo pollice forse si sta evolvendo, ma la sua mano no.


Provocazione: quanti bambini di otto anni possiedono un cellulare? E quanti, fra loro, sanno allacciarsi le scarpe?


Cosa ce ne facciamo di un pollicino scorrevole? Fosse ancora tra noi Pollicino, quello vero, cioè quello della fiaba, metterebbe tutti i cellulari dei bambini negli stivali dalle sette leghe e li farebbe correr via, per sostituirli di nuovo con sassi e briciole.


Fra i molti rischi che facciamo correre ai nostri figli, se li sottoponiamo a una dose eccessiva di questi pseudogiochi, c’è anche quello di avere molte marce in meno rispetto alle proprie effettive potenzialità, e di non saper poi trovare soluzioni molteplici ed efficaci ai nodi e agli ostacoli che la vita quotidiana presenta nel gioco vero (che è una prova di vita), nelle emozioni, nelle esperienze e nelle relazioni autentiche, che sono quelle che ci fanno esistere.

Io gioco con giocattoli
Belli, preziosi e strani
Se non ci sono quelli
Gioco con le mie mani
Gioco con legno e sassi
Gioco con ombra e sole
Se non ci sono quelli
Gioco con le parole
Gioco con i miei passi
Gioco con ciò che c’è
Nessuno ha più giocattoli di me.

Bruno Tognolini, Filastrocca di liberi giochi15

Mi fai una storia?
Mi fai una storia?
Elisa Mazzoli
Inventare, raccontare, vivere avventure fantastiche nel quotidiano con i nostri bambini.Un manuale per riscoprire l’importanza e il valore del racconto ad alta voce, con suggerimenti e consigli per imparare a raccontare storie ai più piccoli. Mi fai una storia? è un manuale ricco di spunti, aneddoti e rimandi per conoscere e applicare strategie narrative con i bambini piccoli.Come far diventare “amica” la fatica usando le storie?Come gestire in maniera fantastica i rituali della giornata?Elisa Mazzoli, formatrice Nati Per Leggere e autrice, invita mamme e papà a scoprire e a ricordare quanto possa essere utile condividere narrazioni con i propri figli, con esempi concreti e incoraggianti suggerimenti. Conosci l’autore Elisa Mazzoli vive da sempre a Cesenatico.È scrittrice, narratrice, consulente editoriale, formatrice nell’ambito della letteratura per l’infanzia.Laureata in Scienze Politiche, dal 1996 è autrice di libri per bambini e ragazzi.Premio nazionale Nati per Leggere 2018 con Il viaggio di Piedino (Bacchilega Junior), svolge incontri di narrazione per bambini e corsi in scuole, biblioteche, librerie, centri famiglie, per insegnanti, genitori e operatori del settore infanzia sulla letteratura per bambini e la mediazione narrativa sul territorio nazionale. Si occupa di formazione sulla letteratura per l’infanzia per insegnanti dai nidi d’infanzia alle scuole primarie.www.elisamazzoli.blogspot.com